anno vi | 12 | maggio 2011 - Istituto di Istruzione Superiore

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Istituto di Istruzione Superiore
“P armenide ”
Vallo della Lucania
Quaderni
Parmenide
Rivista di cultura e didattica
Anno VI Numero 12 – Maggio - 2011
QUADERNI PARMENIDE
Rivista semestrale
dell’Istituto di Istruzione Superiore “Parmenide”
Vallo della Lucania
Anno VI – n° 12 – Maggio 2011
Direttore
Carlo Di Legge
Redazione
Carmen Desiderio
Copyright
Istituto di Istruzione Superiore “Parmenide”
Via G. Rinaldi, 1
84078 Vallo della Lucania
Tel /fax 0974/4147
www.lcparmenide.it
[email protected]
Stampa Editrice Gaia Srl - www.editricegaia.it
In copertina: Francesco Hayez, Il bacio, 1859, Pinacoteca di Brera, Milano.
Indice
Editoriale. Nel centocinquantesimo dell’Unità
Carlo Di Legge
p. 7
A 150 anni dall’Unità una doverosa riflessione sui motivi
della sconfitta borbonica, Luigi Rossi13
Scrittori ed artisti rispetto al tema
dell’Unità d’Italia, Vincenzo Guarracino39
Didattica e laboratori
La rivolta del Cilento, a cura di Annamaria Galiero53
Ricordando l’Unità d’Italia…
150 anni di Poesia, a cura di Rosetta Nicoliello59
Il Risorgimento in poco più di mille parole
a cura di Fiorella Cennamo69
Il ruolo della Chiesa e dei cattolici negli ultimi
150 anni di storia unitaria, a cura di Antonietta Iacovazzo
95
Il cammino dell’identità nazionale italiana
nel pensiero di Benedetto XVI, a cura di Antonietta Iacovazzo101
Unità d’Italia ed Italia unita, a cura di Carmela Desiderio105
Hanno collaborato a questo numero:
Carlo Di Legge
Luigi Rossi
Vincenzo Guarracino
Annamaria Galiero
Fiorella Cennamo
Rosetta Nicoliello
Antonia Iacovazzo
Carmela Desiderio
Dirigente Istituto
Storico e Docente universitario
Scrittore e critico letterario
Docente italiano e latino
Docente italiano e latino
Docente italiano e storia
Docente religione
Docente filosofia e storia
Studenti
Ester Oricchio (IIID Ling.), Francesca Torrusio (IIID Ling.), Ilaria Di Vita (IIID Ling.),
Angela Villano (VB S.P.P.), Fabiana Manente (VB S.P.P.), Bencivenga Elvira (IVE Ling.),
Cavaliere Nadia(IVE Ling.), D’Alessio Nunzia(IVE Ling.), D’Arienzo Giuseppina(IVE
Ling.), De Feo Andrea(IVE Ling.), Detta Carmela(IVE Ling.), Di Domenico Alessandra(IVE
Ling.), Di Gregorio Ilaria(IVE Ling.), Di Rienzo Caterina(IVE Ling.), Dib Michaela(IVE
Ling.), Greco Rosa(IVE Ling.), Grompone Ilaria(IVE Ling.), Grompone Regina(IVE Ling.),
La Greca Martina(IVE Ling.), Laabis Islam(IVE Ling.), Lamanna Sara(IVE Ling.), Leone
Francesca(IVE Ling.), Niglio Samantha(IVE Ling.), Oricchio Francesco(IVE Ling.), Parrillo
Gerardo(IVE Ling.). Adriana Battagliese(IVD Ling.), Chiara Cammardella(IVD Ling.),
Carmen Carrieri(IVD Ling.), Federica Caruccio(IVD Ling.), Anna Maria Cetrangolo(IVD
Ling.), Cristina Filpi(IVD Ling.), Giuseppina Garofalo(IVD Ling.), Anna Infante(IVD
Ling.), Michela Leo(IVD Ling.), Francesca Merola(IVD Ling.), Marilena Orrico(IVD
Ling.), Anna Pandolfi(IVD Ling.), Rosa Rizzo(IVD Ling.), Serena Santoro(IVD Ling.),
Veronica Silvestro(IVD Ling.). Battagliese Arianna Maria(VD Ling.), Boi Valentina(VD
Ling.), Cafaro Carmelina(VD Ling.), De Rosa Daisy(VD Ling.), Detta Federica(VD Ling.),
Di Fiore Giulio(VD Ling.), Esposito Rosy(VD Ling.), Lombardi Roberta(VD Ling.),
Lombardo Angelica(VD Ling.), Luongo Ilaria(VD Ling.), Palladino Marianna(VD Ling.),
Rizzo Mariagiovanna(VD Ling.), Saturno Samantha(VD Ling.), Sica Antonella(VD Ling.),
Teti Deborah(VD Ling.), Zambrano Dante(VD Ling.). Biondi Edoardo(IIB Clas.), Bortone
Giulio(IIB Clas.), Cammarota Matilde(IIB Clas.), D’Agosto Nello(IIB Clas.), D’Alessandro
Aniello(IIB Clas.), Di Sevo Elena(IIB Clas.), Fierro Gianfranco(IIB Clas.), Fiorillo Maria
Sofia(IIB Clas.), Guida Paolo(IIB Clas.), Guzzo Jessica(IIB Clas.), Iannuzzella Elvira(IIB
Clas.), Minardi Davide(IIB Clas.), Monzo Carolina(IIB Clas.), Orrico Clarissa(IIB
Clas.), Pacente Luciana(IIB Clas.), Palladino Fabiola(IIB Clas.), Perazzo Anna(IIB Clas.),
Pizzolante Maria(IIB Clas.), Polichetti Chiara(IIB Clas.), Puglia Maria Federica(IIB Clas.),
Stamatiou Lemonia(IIB Clas.).
Carlo Di Legge
editoriale
Nel centocinquantesimo dell’Unità
Alcuni spunti di riflessione nella ricorrenza del centocinquantesimo
dell’Unità italiana, che il nostro Istituto celebra in diverse fasi nel marzo
2011, anche con le esperienze che abbiamo avuto e avremo nel mese in cui
ricorre la data, e che si completano, oltre che con la lezione del prof. Rossi
su Unità italiana e concerto europeo, anche con quella del prof. Guarracino
su Scrittori ed artisti rispetto al tema dell’Unità d’Italia e con i contributi di
studenti e docenti. Spunti, appunti o poco più, per introdurre il tema della
giornata del 18, e il secondo numero 2011 della nostra Rivista.
Il film Noi credevamo che abbiamo visto mercoledì 10 Marzo, a detta degli storici attendibile nelle ricostruzioni, illustra molto bene, attraverso un
mezzo diverso, molto efficace e certo più immediato di un libro, l’argomento
del processo unitario: tra l’altro il film mette in evidenza che il Cilento non è
stato marginale in questa fase della vicenda italiana.
Ma vorrei mettere in evidenza che il titolo stesso invita a un taglio, una prospettiva che è quella delle umane emozioni e passioni. Le passioni inducono
gli uomini a credere e in questo caso la fede è quella politica. Salto molti
passaggi, ma si potrebbero dimostrare le analogie tra una fede politica e una
fede religiosa: in ogni caso è questo un motivo di riflessione. Lo possiamo
enunciare: la passione politica può portare a grandi effetti nella storia, alle
rivoluzioni come alla nascita degli stati nazionali, ed è una forma di passione,
direi di follia, di eros, molto nobile e antica.
Qualcuno ovviamente dirà che nella circostanza dell’Unità d’Italia, più che
le passioni di quegli sventurati eroi, come Felice Orsini, e dei tantissimi giovani che per tutto l’Ottocento hanno creduto, combattuto e perduto la vita,
ha influito l’ambizione dinastica del Regno di Savoia, che, sul modello delle
grandi monarchie europee, muovevano una grande intelligenza politica (Cavour), un esercito, molto denaro, e si combinavano con gli interessi di un ceto
editoriale. Nel centocinquantesimo dell’Unità
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borghese abbastanza ben individuato; e così pervenivano allo scopo. Sì, è così,
ma anche quella annessionistico-dinastica si può vedere come una forma della
passione politica, ancorchè non sia precisamente un popolo a portarla.
Il fatto è che il nome vero, a mio avviso, della questione dinastica, o della
questione politica, è un altro.
Per spiegarlo mi ricollego all’esperienza della prima sala del Rijksmuseum,
da noi visitata il 15 marzo scorso ad Amsterdam. Là si celebra la formazione
di una repubblica molto evoluta, diciamo, in anticipo sui tempi; cruciali i
dipinti sul trattato di Münster nel 1648, ovvero Westfalia, dove i moventi che
portano alla lotta feroce tra le Fiandre e poi le Provincie Unite e gli Spagnoli
e alleati assumono insieme un colore religioso ed economico insieme: calvinisti, ugonotti, ebrei delle Sette Provincie contro lo strapotere, costellato di
crudeltà religiosa e militare, della superpotenza dell’epoca, l’Impero della
Spagna.
Ciò che queste figure trasmettono è l’orgoglio di una nazione, nel senso
di: gente, piccola ma ricca di intraprendenza e potente nelle relazioni e nel
denaro, sulla terra e per mare, per un periodo, a livello planetario: una gente
che a rappresentarla chiama tra l’altro un nobile eminente come Guglielmo
d’Orange alla testa della riflessione e del nuovo Stato. Ma, fermo restando
che l’identità può essere data da una lingua, da una religione e anche da una
diversa economia, anche queste sono passioni o motivi di passione e di emozione, e quindi moventi politici, nel caso.
Sempre torna nel discorso politico la visita alla sede di Brussels del Parlamento Europeo, il 14 marzo. Anche rispetto al sorgere dell’Europa Unita
vediamo in atto, tra grandi difficoltà, e pur nella distanza da una conclusione
unitaria, almeno nel modo che vediamo in uno stato, s’individua una passione politica; e difatti, come vi sono stati apostoli dell’unità d’Italia e delle
Provincie Unite, così ve ne sono dell’unità europea.
Ma è molto più evidente qui come non il sangue degli eroi e le guerre, bensì
il movente di carattere economico e forse anche il buon senso e la stanchezza
delle stragi delle guerre abbiano potuto portare alla grande aggregazione attuale (27 stati ). Si vedano le forme di solidarietà previste tra stati in difficoltà,
attualmente anche poste in atto, e il bisogno di sicurezza; si veda anche il
tirarsi fuori della Svizzera, nel cuore economico e geografico dell’ Europa, e
quanto possa avervi contribuito il calcolo dei vantaggi e degli svantaggi.
A riprova del fatto che, in un processo politico, possa influire non tanto
un impulso a carattere civile delle menti, quanto uno economico. Se questo
possa o meno bastare, il tempo lo dirà.
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Carlo Di Legge
Ritorno con rispetto, come ogni volta mi avviene quando scorgo una passione autentica in cui ne va della vita degli uomini, al tema dell’unità italiana.
Si pensa che il proprio della storia sia il tempo. Cosa sia il tempo, la storia
non lo sa, e non ne sappiamo quasi nulla, ma abbiamo solo descrizioni: se
penso al tempo, mi pare di sapere; se debbo dire cosa sia, non lo so più, si
esprime così, pressappoco, Agostino. Noi non possiamo concludere per il
nulla, nel senso che, se l’istante continuamente trascorre, allora esso è niente,
e tutto il tempo allora sarebbe niente; e invece dobbiamo credere a nostra
volta, sebbene non abbiamo gli strumenti per spiegarlo, che tutto ciò che si
manifesti nello spazio e nel tempo sia, e che ciò che è stato una volta sia sempre, e che la storia dei grandi giovani che due secoli fa hanno creduto e sono
morti per le loro idee resti per noi, nel nostro presente, a titolo di esempio.
A me par di vedere oggi che le caotiche dinamiche, studiate dallo storico,
della formazione e della distruzione degli stati, abbiano un forte colore di
passione e di emozione, come ho detto; ma, se questo è il rapporto tra passioni umane e storia, e il proprio della storia è il tempo, allora la domanda,
lo spunto che vi indico per non concludere è: quale rapporto noi possiamo
immaginare tra passioni e tempo, essenza delle une ed essenza dell’altro, tra
passionalità e temporalità?
Questo numero dei Quaderni ha l’onore di ospitare, in apertura, due studi
eccellenti: il lavoro dello storico di professione, Prof. Luigi Rossi, sul tema
dei motivi della sconfitta borbonica; la relazione del Prof. Vincenzo Guarracino su Scrittori ed artisti rispetto al tema dell’Unità d’Italia.
Il saggio storico del Prof. Rossi prende specialmente in considerazione, a
partire dall’analisi dei caratteri della monarchia borbonica con Ferdinando
II, le cause della caduta di quel Regno, tra le quali spiccano l’isolamento
interno nel quadro reazionario (rispetto a intellettuali e borghesia) e l’isolamento internazionale a partire dal Congresso di Parigi.
L’intervento del Prof. Guarracino offre un quadro complessivo delle diverse voci e degli atteggiamenti degli artisti, degli scrittori e dei poeti del periodo
rispetto all’argomento unitario: dal Manzoni a Verga e Carducci, attraverso
Praga, Arrighi, Tarchetti e Pinchetti, a pittori come Hayez e Imbriani.
La sezione dei contributi degli studenti e dei docenti consiste nelle redazioni di sei laboratori su vari aspetti del tema unitario.
Apre la raccolta il laboratorio, a cura degli studenti di IV D linguistico
della Prof.ssa Annamaria Galiero, sul tema della rivolta del Cilento nel 1828.
Omaggio alla memoria delle vittime di quell’episodio, martiri della loro passione politica, e omaggio a questa terra, all’apparenza così isolata eppure così
editoriale. Nel centocinquantesimo dell’Unità
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ricca di passioni e di intelletti, e dunque così importante nel quadro delle
lotte unitarie.
Il secondo laboratorio, sulla poesia nei 150 anni, è degli studenti della V D
linguistico e coordinato dalla Prof.ssa Rosetta Nicoliello; presenta i materiali
poetici e quindi brani e versi relativi al processo dell’unità come viene declinato nei diversi autori.
Il terzo, lavoro di più ampio respiro, sul Risorgimento in generale, è curato
da studenti della IV E linguistico, coordinati dalla Prof.ssa Fiorella Cennamo. L’intento dichiarato del lavoro, che entra non solo nel merito della storia
politico-militare ma anche nella storia della cultura, con le menzioni di Nievo
e Mazzini, di Foscolo, Manzoni e Verdi, consiste nel contrastare la divisione
con il richiamo ai motivi di omogeneità e di unione degli italiano.
Seguono due laboratori di religione, da parte di studenti, rispettivamente,
di V B scienze umane e III D linguistico, coordinati entrambi dalla prof.
ssa Antonietta Iacovazzo. Il primo, sul ruolo della Chiesa e dei cattolici nei
150 anni di storia unitaria, evidenzia il ruolo della Chiesa e quindi di grandi
intellettuali cattolici, come Rosmini e Manzoni, ai fini dell’esito moderato, invece che radicale, come poteva essere, dell’unità italiana e della presenza del
pensiero moderato nella cultura politica risorgimentale. Un ruolo influente
ancora oggi nella composizione degli equilibri politici e sociali. Il secondo
considera invece il pensiero dell’attuale Pontefice come risulta dal suo messaggio al Presidente della Repubblica in occasione della ricorrenza del centocinquantesimo anniversario dell’Unità: si ricorda il particolare rapporto di
simbiosi tra Chiesa Cattolica e Stato Italiano e il ruolo della religione cattolica nella costituzione di una cultura italiana, a partire dal Trecento.
Il sesto ed ultimo laboratorio, ad opera degli studenti della II B classico,
coordinato dalla Prof.ssa Carmela Desiderio, studia la genesi dell’Italia a partire dal 1948, primavera dei popoli. La tensione del titolo indica come non era
sufficiente l’unità d’Italia, ma necessitava pervenire anche all’Italia in effetti
unita. Questo risultato si doveva ottenere attraverso un ulteriore cammino,
esaminato con uno sguardo alle vicende storico-culturali dell’Italia unita, anche nel Novecento.
Si ringraziano studenti e docenti coordinatori, che hanno voluto interessarsi in modo molto concreto al tema, a cui peraltro il nostro Istituto ha dedicato più d’una giornata, come risulta sopra, in apertura.
Agli studenti del Parmenide, il 18 marzo 2011
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Carlo Di Legge
Luigi Rossi
A 150 anni dall’Unità una doverosa riflessione
sui motivi della sconfitta borbonica
In occasione delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unita, molta pubblicistica è passata dalla esaltazione agiografica delle ricorrenze precedenti
ad inutili e pretestuose recriminazioni. Così il Risorgimento, per molti rivoluzione mancata, oggi è presentato come lo strumento di un mero accentramento, soffocatore, tra l’altro, di ogni autonomia locale, garantita dalla
liberatrice devolution. Nessuno o pochi riflettono sul fondamento ideale del
nostro movimento unitario e sulla situazione politico-sociale della penisola,
prodotto di un lungo processo per realizzare lo Stato indipendente, unitario
e costituzionale, alla fine, risvolto italiano di un grande fenomeno europeo,
anzi mondiale, noto come risultato rilevante dell’azione della borghesia manifestatasi come rivoluzione nazionale. Per comprendere il nesso che unisce
la storia italiana a quella del continente occorre ripercorrere le complesse
tappe politico-diplomatiche, analizzare le dinamiche ideologico-culturali, ricostruire il substrato economico-sociale della penisola in relazione ai vari
progetti di ordinamento politico ipotizzati e all’influsso di una gloriosa tradizione culturale in costante relazione con la vita europea.
Tre forze, intrinsecamente legate a gruppi sociali evocatori di identità di ceto
e di specifici interessi, entrano in contatto per collaborare e, sovente, anche
per confrontarsi: il gruppo borghese-aristocratico, che sollecita rappresentanza politica e possibilità di organizzare un proprio progetto socio-economico
capace di garantire la improrogabile modernizzazione; il coacervo di borghesi
e popolani prevalentemente cittadino, meno omogeneo perché costituito da
mercanti, artigiani, militari, professionisti, impiegati, studenti, basso clero, il
nucleo avanzato di operai. Il raggruppamento è prevalente nelle società segrete e si segnala per la partecipazione alle cospirazioni, fornisce, inoltre, gli
effettivi più numerosi alle varie correnti democratiche. Terza forza, le masse
contadine e popolari che hanno un rapporto ondivago con le due precedenti,
luigi rossi
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le quali rivendicano la gestione del progetto risorgimentale, facendo del rapporto tra queste tre forze e lo sviluppo del movimento nazionale l’elemento
più significativo per poterne comprendere dinamiche e sviluppi.
Le finalità che si propongono nel perseguire le riforme sono molteplici e
rimandano ad aspirazioni antifeudali e antiecclesiastiche, al raggiungimento
della libertà politica, all’auspicio di indipendenza in una prospettiva unitaria.
L’interdipendenza tra questi elementi appare evidente e chiara ai patrioti solo
lentamente, in genere dopo cocenti sconfitte. Agli inizi, le riforme si legano
all’azione della monarchia assoluta amministrativa illuministico-napoleonica,
che vive il suo stadio intermedio tra assolutismo e monarchia costituzionale.
Gli effetti in Italia sono più circoscritti per la debolezza degli stati regionali
e lo scarso prestigio dei governi. Tuttavia nulla riesce a fermare il naturale
svolgimento dell’impulso progressivo nella società verso l’indipendenza, che
infonde vigore al sentimento patriottico nazionale. Si tratta di rivendicazioni
per nulla premature, se si tiene conto del facile successo iniziale registratosi
nel 1820-21 e nel 1831 e del fatto che per schiacciare questi moti occorre
attendere l’intervento austriaco. In questi anni appare ancora complessa la rivendicazione dell’unità, da molti concepita come una unione federale, anche
se l’esempio francese e la lotta contro l’Austria impongono progressivamente
il modello unitario, propagandato da Mazzini nella inscindibile interdipendenza tra libertà, indipendenza ed unità.
I primi a porsi il problema e a cercare di trovare una soluzione sono stati
i moderati. Negli anni Quaranta costoro hanno cercato di realizzare il mercato nazionale proponendo la Lega doganale, rivendicazione che entra in
crisi nel 1848-49, quando il progetto nazionale autenticamente indipendente
investe gli stati italiani e tutti gli strati sociali, determinando, dopo le prime
esperienze, la crisi della direzione moderata e del programma neoguelfo e
federalista. Ad emergere, pur nella sconfitta, con i liberal-moderati sono i
gruppi democratici mazziniani e garibaldini grazie anche alla incapacità dei
principi di collaborare con la borghesia liberale per superare il riformismo
amministrativo ed approdare ad un autentico costituzionalismo.
L’analisi delle vicende relative al 1848 risulta complessa in quanto occorre
saper scindere i fatti dai miti per individuare con precisione chi veramente
tra i protagonisti dell’anno fatale appartenga agli sconfitti e chi abbia veramente vinto. Giovani e patrioti, da anni impegnati nella cospirazione, furono
i protagonisti tragicamente eroici di queste vicende; nel loro imprudente ottimismo rappresentavano il frutto più maturo del romanticismo, pur suscitando qualche punta di ironia nel realista Cavour, convinto che non si poteva
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A 150 anni dall’Unità una doverosa riflessione sui motivi della sconfitta borbonica
liberare il paese con le tante canzoni intonate in quei mesi, ma privilegiando
la prosaica virtù della diplomazia. In una prospettiva risorgimentale, il biennio 1848-49 è chiaramente legato al 1859-1861, quando, grazie all’abilità di
mediazione di Cavour, l’iniziativa passa decisamente in mano dei Savoia, avvantaggiati dal prevalere delle tesi annessionistiche, prospettiva che ridimensiona la velleità separatista delle pretese regionalistiche, come quella siciliana,
mentre il crollo del castello neoguelfo ripropone in termini più drammatici il
problema del papa-re e di Roma capitale.
Pur conclusosi con la sconfitta delle istanze rivoluzionarie, il 1848 fece sedimentare nei singoli contesti nazionali una strascico che portò alla formalizzazione di Stati costituzionali, limitando i tradizionali poteri monarchici. Il
dato nuovo dello Statuto concesso modificò il quadro istituzionale europeo
all’indomani della rivoluzione, anche se risultò difficile conciliare posizioni
distanti per molteplicità di idee e programmi e per scarsa organicità nel ceto
medio, “tanto è vero che notevole parte della borghesia liberale, moderati o
democratici che fossero, spaventati dal disordine popolaresco, non videro
male la restaurazione e abbandonarono a sé stesse le plebi in rivolta. Ma alcune semplici idee emersero sopra tanto naufragio: che il nemico era veramente
uno solo, l’Austria, da affrontare non su le piazze e le strade, non a Napoli o
a Milano o a Firenze, ma sopra un più vasto campo europeo”1.
Nel Mezzogiorno l’ala moderata, formata dal ceto dirigente del decennio
francese e dei primi anni della restaurazione, allontanata dal potere nel 1821
e ritornata con Ferdinando II, fu protagonista anche degli avvenimenti del
1848. Ma la sua articolazione apparve molto complessa. Infatti, accanto ai
moderati alla Blanc, operarono anche democratici, con radicalismi illuministici ed idee mazziniane mediate dalla carboneria2. Era il risultato della profonda evoluzione delle idee grazie al contributo di hegeliani e neoguelfi, che
avevano rotto con la cultura tradizionale, indebolendo il fronte conservatore
mentre si diffondevano gli entusiasmi che avrebbero portato al 1848 riallacciando i ponti con la cultura europea3.
G. VOLPE, Italia moderna, 1815/1898, Firenze 1973, p. 14.
G. BERTI, I democratici e l’iniziativa meridionale nel Risorgimento, Milano 1962, pp. 141 e ss.
3
R. ROMEO, Il giudizio storico sul risorgimento, Catania 1967, p. 114; R. MOSCATI, La storiografia italiana del dopoguerra sul periodo 1815-1870, in AA. VV., La storiografia italiana negli ultimi
vent’anni, Milano 1970, vol. 2, p. 674.
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2
luigi rossi
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I problemi di Ferdinando II: i Borbone e la leggenda nera
Tra i tanti spettri che nel 1848 s’aggirarono per l’Europa, vi fu anche quello
di Ferdinando II o, meglio, l’immagine che di lui venne accreditata presso
l’opinione pubblica mondiale: re bomba, repressore sanguinario della rivoluzione nei suoi domini, attributo affibbiato ad un sovrano convinto di aver
fatto tutto il possibile per migliorare la condizione dei sudditi. Nel difendersi
da queste accuse egli rivendicava la piena appartenenza del Regno di Napoli
al concerto europeo. Ma ambasciatori stranieri, la protesta di Settembrini, le
lettere di Gladstone, l’opuscolo di Scialoia4 accreditarono il convincimento
che il Borbone fosse incompatibile col quadro politico e civile del continente.
Non si poteva tollerare una dinastia spergiura e tirannica, che aveva perso la
fiducia dei ceti intellettuali del paese e fondava il consenso delle masse sul
fanatismo e sull’intolleranza. Come una spada di Damocle, pendevano sul
sovrano il 1799 ed il tradimento del 1821 perpetrato dal nonno. Per motivi
diversi e, sovente, contrastanti, si ritenne la dinastia regnante a Napoli un cadavere in disfacimento rispetto alla primavera dei popoli sbocciata nel 1848.
In una situazione complessa ed in profonda evoluzione, la figura di Ferdinando II appare superata, quasi un re che ha sbagliato secolo ritenendosi
più emulo del pro-zio, l’imperatore illuminista di Vienna, o del bisnonno,
fondatore della dinastia a Napoli e celebrato riformatore grazie alla collaborazione dei numerosi intellettuali ai quali aveva dato credito. Il modello
e l’ideale di Ferdinando II non trovava riferimenti nel contesto politico e
culturale di metà Ottocento. Infatti, egli non teneva conto né dei risvolti della
rivoluzione francese, né degli impulsi socio-politici del periodo napoleonico,
né degli aneliti alla rappresentanza, confusi ma sinceri, per cui più volte si
era invocata la costituzione. Contrario “ad ogni ordinamento politico, ambiva una monarchia che avesse sembianza di famiglia, col re fonte di giustizia
e benefizi”; egli voleva imprimere “all’autorità reale forza e vigore che non
avea mai avuto”5. Da qui le aporie di un regno, iniziato con grande speranze
e celebrato da tutti, ma terminato nel disprezzo generale.
Un ruolo particolare in questa parabola di giudizi va assegnato alla forza
della propaganda6, resa più efficace dal fatto che il Borbone di Napoli, impa
6
A. SCIALOIA, Il Bilancio del regno di Napoli e degli Stati sardi, Torino 1857.
P. CALà-ULLOA, Il Regno di Ferdinando II, a cura di G. F. De Tiberis, Napoli 1967, pp. 315-6.
Un esempio in N. NISCO, Storia del Reame di Napoli dal 1824 al 1860, Napoli 1908, libro II,
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A 150 anni dall’Unità una doverosa riflessione sui motivi della sconfitta borbonica
4
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rentato con la dinastia spagnola, cattolico e meridionale, fosse un personaggio al quale si potevano attribuire tutti i vizi che la leggenda nera da decenni
andava evocando contro la conquista iberica del Nuovo Mondo, al punto
che perfino negli Stati Uniti l’attributo di re bomba trovò facile divulgazione7.
Ne deriva la difficoltà di procedere ad analisi critiche che, senza rivalutare il
sovrano napoletano, facciano almeno giustizia di stereotipi e falsificazioni8.
Se si vuole veramente fare storia del regno di Napoli e capire il perché della
sua fine, occorre evitare ogni manipolazione, anche per rispondere alle sollecitazioni un po’ partigiane di un noto storico estero di cose italiane9, procedendo alla disanima dei fatti, dei personaggi, dei loro programmi e delle loro
azioni senza privilegiare fonti di parte. Infatti, se il 1848 determinò la fine
dell’ idea del vecchio regno di Napoli, non si possono trascurare le forze di
resistenza ancorate al secolare stato napoletano, né rinunziare a comprendere le ragioni dei Borbone10.
Ferdinando II, istruito prevalentemente in studi economici e conoscitore
delle istituzioni giuridiche del regno, amava esercizi fisici, parate, cavalli, manovre, tattica e vita militare, convinto ben presto che l’esercito fosse il vero
instrumentum regni. Consapevole che lo spirito carbonaro tra gli ufficiali aveva portato alla rivoluzione del ‘20, egli s’impegnò a recuperarne la funzione,
assicurandosi la fedeltà secondo un ideale riformistico che si proponeva un
regno tranquillo, economicamente fiorente, indipendente dall’estero, con
un’aristocrazia senza potere e addomesticata nelle cariche a corte, una borghesia agraria lieta d’esser la meno tassata d’Europa, un ceto medio pago delle carriere amministrative per i figli, la plebe rurale e cittadina felice perché
garantita nell’esistenza materiale11. Ferdinando II non si poneva il problema
parte I, p. 236.
7
Ad esempio, i riferimenti a Ferdinando II in “New York Times” a partire dal 1848.
8
Come notava Ruggiero Moscati, dopo le opere di agiografia risorgimentale di Massari, Carrano, d’Ayala, Mazziotti, che hanno esaltato il martirologio meridionale, il compito potrebbe apparire
un delitto di leso patriottismo. Del resto, se occupandosi dei Borbone è necessario cercare di far luce
sulle ragioni dell’altera pars, il tentativo può risultare rischioso in anni di strumentalizzazioni neoborboniche.
9
D. MACH SMITH, La storia manipolata, Bari 1998.
10
A. OMODEO, Figure e passioni del Risorgimento italiano, Roma 1945, p. 52. Fare giustizia
“non significa recriminazione o ripianto pel passato, che è morto, ma semplicemente intelligenza di
quel passato”. B. CROCE, Pagine Sparse, Bari 1960, vol. II., p. 152.
11
R. MOSCATI, Un duro antagonista della rivoluzione del ‘48: Ferdinando II, in “Archivio storico
per le province napoletane” (da ora ASPN), n. s. a. XXXI, LXX dell’intera collezione, 1947-1949, (pp.
1-27), p. 14.
luigi rossi
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italiano riconoscendosi esponente della sola nazione napoletana; fedele al
retaggio del fondatore della dinastia, non aveva mire territoriali, deciso soltanto d’impedire che Torino rompesse a proprio favore l’equilibrio raggiunto
nella penisola dopo il 1814. Consapevole che i suoi predecessori erano stati
alla mercé di ministri come Tanucci, Acton, Medici, ai quali attribuiva tutti
gli errori compiuti in passato, per prevenire il rischio del dispotismo ministeriale egli esercitò effettivamente e direttamente il potere. Inoltre, rispetto alle
esperienze di dipendenza straniera durante il regno del nonno e del padre,
per spiccato senso di napoletanità, manifestò una decisa insofferenza verso i
condizionamenti esteri12.
Consapevole delle proprie lacune culturali, ad eccezione di medici ed architetti, Ferdinando II nutriva un marcato fastidio per gli intellettuali, giudicati dei dottrinari non utili alla società. Egli diffidava anche della capacità
e dell’onestà dell’élite borghese, per cui preferiva circondarsi di esecutori,
ai quali impartiva direttive minuziose che lo oberavano di lavoro, ma non lo
aiutavano a formare una nuova classe dirigente borbonica da sostituire alla
ormai vecchia generazione del decennio. Tuttavia, dal 1830 al 1848 Napoli
sperimenta un periodo di grande fervore culturale, culminato nel VII congresso degli scienziati italiani. Esso potenzialmente assume i connotati d’inconsapevole opposizione alla dinastia. Lo storicismo di Carlo Troya, il purismo di Puoti come scuola d’italianità, l’hegelismo di Spaventa si collegavano
al neoguelfismo, mito e nerbo del partito moderato. Negli anni Quaranta la
modernizzazione di facciata acuì ulteriormente il distacco tra gruppi intellettuali, borghesia colta e ampi settori della possidenza agraria. Le misure
legislative sostenute dal sovrano intendevano garantire la normale amministrazione, per cui non risultavano adeguate in un regno che avrebbe dovuto recuperare la distanza dagli altri stati italiani. Intanto, peggioravano le
condizioni delle masse contadine e della plebe urbana, accrescendo rischi di
ribellismo. Le conseguenze involutive della sua logica di governo minarono
perfino i progressi socio-economici registratisi grazie al suo impegno, ponendo in crisi i rapporti con le élite che sollecitavano riforme. La stessa attenta,
a volte ossessiva, ricerca d’indipendenza dai condizionamenti provenienti da
potenze europee alla fine si trasformò in cieco isolamento.
Ferdinando II riteneva infondata l’opposizione liberale al metodo paternalistico di governo, per lui, invece, modello insuperato. Già nell’estate del 1847,
dopo moti di piazza, egli aveva decretato una diminuzione delle imposte e,
12
20
R. MOSCATI, I Borboni in Italia, Napoli 1970.
A 150 anni dall’Unità una doverosa riflessione sui motivi della sconfitta borbonica
successivamente, proceduto ad un rimpasto ministeriale con la costituzione
dei dicasteri dei Lavori Pubblici e dell’Agricoltura e Commercio, per meglio
intervenire in delicati settori che avrebbero potuto assicurare miglioramenti
e, quindi, una vita economica più prospera. Ma la Protesta del Popolo delle
Due Sicilie del Settembrini diede voce a chi sollecitava indilazionabili riforme
politico-istituzionali. Alla chiusura del sovrano corrispose una ripresa dell’attività cospirativa sfociata nei moti del 12 gennaio 1848 a Palermo. La rivoluzione
ebbe un immediato successo perché sostenuta da tutti i ceti, determinando
una diffusa attesa anche nelle province continentali, soprattutto dopo che nel
Cilento, e proprio a Vallo, si diede vita ad un’altro significativo moto rivoluzionario. Dopo il 15 maggio, in una situazione sempre più confusa, il sovrano
propose il ritorno all’ordine o assistere impotenti al precipitare nell’anarchia.
La graduale ripresa dell’assolutismo fu agevolata dall’irriducibile spirito legalitario dei liberali moderati, dalla scarsa combattività dei democratici, dal sostegno di chi rimaneva municipale ritenendo il trionfo della rivoluzione italiana la
fine del regno. Iniziava così la reazione, che aprì il solco definitivo tra il re ed
i patrioti 13. Tuttavia, l’evoluzione registratasi nella penisola sembrò agevolare
l’azione di Ferdinando II. Ma il quadro internazionale non era favorevole al
Borbone. Napoli risultava diplomaticamente isolata e, certamente, priva di un
deciso sostenitore. La soluzione dei problemi più impellenti risultava difficile14.
La svolta autoritaria fu imposta dal re e non da forze esterne; perciò, nel 1849
il regno appariva più legittimato degli altri stati italiani, i cui sovrani erano
ritornati grazie ai francesi ed agli austriaci. Ma questa situazione non salvò la
dinastia dalla condanna di chi non poteva accettare la repressione. Convinto
d’aver esorcizzato il ricordo del ‘48, Ferdinando II ritorna all’assolutismo, accentrando tutto il potere. Divenuto sempre più estraneo agli interessi ed alle
aspirazioni del ceto medio e colpito da quella che riteneva l’incomprensione
dei sudditi, egli si chiuse sempre più in se stesso non potendo contare sulla
vecchia generazione di ufficiali che, ancora nel 1848, aveva eseguito i suoi ordini. Rispetto al tecnicismo a volte brillante di costoro, si faceva strada la nuova
burocrazia abituata ad obbedire senza porsi domande o assumersi responsabilità pur di fare carriera come cortigiani.
R. MOSCATI, Un duro antagonista, cit., p. 26.
Ferdinando II doveva decidere dell’impiego dell’esercito in Alta Italia, opzione di ardua realizzazione non solo per motivi tecnici che consigliavano di adottare una diversa strategia, ma anche per motivi
politico-dinastici. Infatti, una nuova sistemazione dell’Italia dopo la guerra vittoriosa contro l’Austria
avrebbe determinato la revisione dei trattati del 1815, indebolendo la posizione dei Borbone nei confronti della Sicilia, che chiedeva con insistenza l’autonomia e, da più parti, persino l’indipendenza da Napoli.
13
14
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21
Il nodo della Sicilia nella Napoli costituzionale
Il re fu colto impreparato, sperimentando il pericoloso passaggio da una
grande fiducia in se stesso ad eccessivi scoraggiamenti. Egli rispose alle vicende accentuando i contatti con gli uomini nuovi a Palermo e a Napoli
allo scopo di conservare l’isola alla corona. Ma ministero costituzionale e
mediazione inglese non pacificarono la Sicilia. Il nuovo regime, del quale
aveva attestato la propria soddisfazione a Pio IX, non gli consentiva libertà di
azione. Ferdinando II considerava la Lega fra gli stati e la partecipazione alla
guerra, da cui ripugnava, il pedaggio per assicurarsi la garanzia ed il sostegno
morale nel duello con la Sicilia; ma dovette registrare gravi delusioni giacché
il Piemonte non volle trattare. Venuta meno ogni ipotesi di sostegno militare
austriaco, il 29 gennaio il re s’impegnò a pubblicare al più presto lo statuto,
mettendo in crisi la politica di concessioni riformistiche degli altri principi
italiani, costretti a imitarlo. Si passava da un programma di rinnovamento basato sulla monarchia consultiva ad un regime costituzionale rappresentativo,
situazione che per alcune settimane causò profondi attriti tra Carlo Alberto,
contrario, ed i suoi ministri. Le costituzioni avevano molti caratteri comuni,
non solo per la pressione della piazza, ma anche perché s’ispiravano al modello francese del 1830 e belga del 1831. Inoltre, pur forzando la mano di
sovrani profondamente restii, conservavano caratteristiche moderate, espressione dei programmi sociopolitici delle forze liberali che le sostenevano15.
Il re non rivelava chiaramente le proprie intenzioni, paventando che il rifiuto
di partecipare alla guerra in Lombardia potesse esasperare l’opinione pubblica, favorevole ad un’intesa anti-austriaca. Inoltre, egli temeva una rivoluzione
democratica e repubblicana nel Napoletano, dove la costituzione era oggetto
di accese critiche già prima che venisse attuata. Le incertezze venivano aggravate dalla vicenda politico-diplomatica siciliana. L’insuccesso delle trattative
aveva accentuato le tensioni tra re ed isolani, ponendo i moderati nella spia15
N. CORTESE, Costituzioni italiane del 1848-49, Napoli 1946, p. XXXII. Il sovrano contava sui moderati, sulla borghesia agraria minacciata dalle rivendicazioni contadine, mentre il popolo
partecipava soltanto alle parate esteriori. D. DEMARCO, Il crollo del Regno delle Due Sicilie. I: La
struttura sociale, Napoli 1960, p. 159. Il governo, privo di autorevolezza, tentava di seguire le direttive
del sovrano, una situazione che non agevolava la soluzione del problema siciliano, con gli isolani che,
in riferimento al loro diritto pubblico, potevano dimostrare che la rivolta aveva basi legali, risultando
nulle leggi non votate da un loro parlamento. R. ROMEO, I liberali napoletani e la rivoluzione siciliana
del 1848-49, in ASPN, 1947-1949, p. 129 e ss.
22
A 150 anni dall’Unità una doverosa riflessione sui motivi della sconfitta borbonica
cevole condizione di dover mediare tra il loro sentimento di napoletani e le
aspirazioni unitarie e costituzionali. Intanto, le vicende socio-economiche divennero esplosive a causa dell’annosa questione demaniale. Essa coinvolgeva
la quotidianità dei contadini, i quali ne pretendevano l’immediata soluzione.
Invece, incertezze, chiusure e paure accentuarono la tensione nelle campagne,
dove si registrarono ripetuti tumulti, con furti, sforestamenti ed uccisioni. Era
il clima alla vigilia dell’apertura della Camera, fissata per il 15 maggio 1848,
reso più accesso nella capitale dalle polemiche sulla formula del giuramento.
Dopo concitate ore di trattative, la piazza aprì il fuoco provocando la spietata
reazione dei soldati. Il sovrano comprese che era giunto il momento della prova di forza. L’azione indusse l’interessato parlamento piemontese a definire il
sovrano di Napoli “inimico pubblico e parricida”16.
L’assolutismo illuminato di Ferdinando II si scontra col sistema parlamentare modellato sul costituzionalismo britannico e sul dottrinarismo francese,
anche se la coscienza nazionale appariva ancora un aspetto in prevalenza
culturale con scarsi riscontri politici nei rapporti tra Napoli e Palermo. Erano
i risultati delle numerose posizioni ideali della Napoli romantica confluite nel
neoguelfismo, il quale più dell’antiborbonismo legava vecchi costituzionali
del ‘20 e giovani liberali intrisi di storicismo17.
Superate le differenze più marcate, liberali siciliani e napoletani realizzarono una rete molto attiva di contatti. Mentre la costituzione era applaudita
nella province continentali, in Sicilia continuava la protesta e la richiesta dello
statuto del 1812. Gli isolani contavano sulla mediazione di lord Minto, ma
anche sulla comprensione dei circoli liberali partenopei. La crisi di sfiducia
di Ferdinando II toccò l’apice quando seppe che la sollevazione palermitana
poteva risultare rischiosa per l’eventuale intervento inglese18. Crebbe il clima
R. COTUGNO, Tra reazioni e rivoluzioni. Contributo alla storia dei Borboni di Napoli dal 1849
al 1860, Lucera s. d., p.9.
17
N. CORTESE, Luigi Blach ed il partito liberale moderato napoletano, in ASPN, n.s. VIII
(1923), pp. 255 e ss.
18
R. MOSCATI, Ferdinando II di Borbone nei documenti diplomatici austriaci, Napoli 1947, pp.
40, 87, 91, 94, 102. Né contribuì alla calma del re l’affanno dei suoi ministri; R. QUAZZA, Il Governo
napoletano nei primi due mesi del 1848, Roma 1942, p. 59. A Napoli i liberali più avanzati iniziarono un
acceso dibattito su periodici come “Costituzionale” e “Mondo vecchio e mondo nuovo”. A proposito
della questione siciliana, Mancini s’era dichiarato contrario ad una soluzione di forza, mentre propendeva per la libertà di scelta fra il parlamento unico o separato. Molti democratici - tra i quali quelli
chi si riconoscevano nel “Costituzionale” e ne “la Rigenerazione” sostenevano le posizioni siciliane
ritenendo che indipendenza e libertà dell’isola avessero potuto meglio favorire la federazione italiana.
Si segnalò il “Nazionale” di Silvio Spaventa, che della questione italiana e della guerra d’indipendenza
fece il fulcro della sua battaglia politica, consapevole della loro importanza soprattutto dopo che ave16
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di sospetto tra sovrano e liberali, sfociato nello scontro del 15 maggio, una
rottura che annoverò subito Ferdinando II tra gli antitaliani e gli anti-risorgimentali, segnando la fine politica e morale della dinastia agevolando la ricostituzione del fronte unico siculo-napoletano attivo prima del 29 gennaio. Pur se
repressa, l’esperienza risultò utile “per un verso, nella definitiva sconfitta della
politica unitaria della monarchia meridionale, e per l’altro, nel superamento
dei contrasti regionalistici da parte delle forze liberali dei due paesi”19.
Palmerston, convinto monarchico ma anche deciso antiborbonico, criticò
Ferdinando II per trattare da una posizione di forza gli interessi britannici
nell’isola. Le mire inglesi non sono più sostenibili dopo gli studi che hanno
dimostrato come la diplomazia di Londra, essendo riuscita a mantenere la
Russia fuori dal Mediterraneo e a strappare alla Francia la carta egiziana, non
aveva interesse a creare instabilità nell’area della quale avrebbero potuto approfittare altre potenze20. Londra cercò di comporre il dissidio incoraggiando le richieste siciliane di riforme nel quadro dell’unità delle Due Sicilie21. Si
temeva che le rivalità anglo-francesi o anglo-francesi-russe potessero trovare
ulteriore motivo di contrasto, per cui alla fine si sacrificò la Sicilia alla pace
europea. Questo era anche il calcolo di Ferdinando II, indotto dai diplomatici austriaco, russo e prussiano accreditati a Napoli a non cedere ai ribelli e
a rifiutare la mediazione inglese. Ma per innata diffidenza, fedele alle linee
politico-diplomatiche di sostanziale disimpegno a livello europeo, il re non
seguì con intransigenza questa linea.
In realtà, alla fine egli accondiscese alle maggiori richieste, rifiutando soltanto la costituzione di un esercito siciliano. Ma la rivoluzione in Europa e
i fatti di Lombardia e di Venezia indussero gli isolani all’intransigenza, lanciando una sorta di ultimatum, giudicato inaccettabile perfino da Nisco. La
diplomazia propendeva ormai per lo status quo, anche se i più lungimiranti
la ritenevano una soluzione provvisoria. Del resto, l’incapacità del governo
di normalizzare la situazione, i danni causati alla borghesia dai disordini, il
senso d’instabilità sociale, aggravato dal diffondersi dei principi repubblicani, contribuirono a staccare una buona fetta dei ceti superiori dalla rivoluziova frequentato Firenze l’anno precedente. S. SPAVENTA, Dal 1848 al 1861. Lettere scritti documenti,
a cura di B. Croce, Bari 1923.
19
R. ROMEO, I liberali napoletani e la rivoluzione siciliana del 1848-49, in ASPN, XXXI (1947-49),
p. 145.
20
R. MOSCATI, La diplomazia europea e il problema italiano nel 1848, Firenze 19, pp. 21 e ss. per
la questione.
21
R. MOSCATI, Austria, Napoli e gli Stati conservatori italiani (1848-1852), Napoli 1942, pp. 67 e ss.
24
A 150 anni dall’Unità una doverosa riflessione sui motivi della sconfitta borbonica
ne22. Fin dall’inizio i Siciliani manifestarono la volontà di aderire come Stato
autonomo alla Lega italiana, proposito tenacemente perseguito dalla diplomazia isolana. Di fronte ai moderati liberali napoletani, al governo dopo il 29
gennaio, favorevoli all’unità della monarchia meridionale, nell’isola si ebbe
la recrudescenza dell’antinapolenatismo, che coinvolse anche i neoguelfi in
precedenza impegnati a trovare l’intesa nelle due regioni. Il radicato municipalismo evidenziò comunque i limiti dei moti del ‘48.
I rapporti tra Napoli e Torino
In Italia, l’ipotesi di aggregazione nazionale e d’indipendenza aveva trovato concretezza nel programma di Gioberti, Balbo, D’Azeglio. Ma la carta vincente del riformismo paternalistico nei singoli stati e l’allontanamento
dell’Austria grazie all’impegno diplomatico delle grandi potenze dovettero
confrontarsi con le preoccupazioni delle cancellerie impegnate a sedare i tumulti in una Europa in fiamme23. I problemi vennero aggravati dalla mai
sopita diffidenza verso il vecchio Piemonte, recatosi in Lombardia con “il
guardinfante dell’etichetta, del gesuitismo, della polizia, della diplomazia”24,
esplosa per la questione delle annessioni, che si mescolavano a risentimenti
ed antipatie regionali. Monarchia piemontese e governo provvisorio lombardo concordavano sulla necessità di affrettarla per prevenire tendenze repubblicane, più estese di quanto si sospettasse e sulle quali potevano innestarsi
i mai repressi risentimenti di Genova contro Torino per la sopraffazione del
1814. La vittoria militare avrebbe consentito a Carlo Alberto d’imporre la
soluzione moderata al problema nazionale, ma l’allocuzione papale del 29
aprile, i contrasti con gli altri stati, in particolare con Napoli, i mille municipalismi tolsero risolutezza alla sua azione portando alle sconfitte tra luglio ed
agosto e, quindi, al crollo del progetto neoguelfo.
La lega politico-militare, opzione necessaria per essere credibile a livello internazionale e sperare di concludere vittoriosamente il conflitto con l’Austria,
non decollò per la preminenza degli interessi particolari. Napoli, lontana dalla
Lombardia e impegnata a recuperare la Sicilia, non sperava molto da una Alta
F. CURATO, La Rivoluzione siciliana del 1848-49, Milano 1940, pp. 69-70, 136.
A. SCIROCCO, In difesa del Risorgimento, Bologna 1988.
24
C. CATTANEO, Considerazioni sulle cose d’Italia nel 1848, a cura di C. Spellanzon, Torino
1942, p. 38; R. ROMEO, Dal Piemonte sabaudo all’Italia liberale, Bari 1974, p. 129.
22
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25
Italia sotto egemonia sabauda, mentre il papa non poteva prendere posizione
contro i cattolici austriaci. Del resto, nel 1848 il re del Piemonte sabotò le
proposte federali per mantenere libertà di azione. Mentre la rivoluzione siciliana scavava un solco incolmabile tra Napoli, favorevole all’accentramento, e
Palermo, autonomista ed indipendentista, negli altri stati regionali i moderati
risultarono incapaci di sconfiggere l’Austria. Tuttavia, come Custoza segnò la
fine del loro esperimento di governo, Novara risultò fatale ai democratici25.
Tuttavia, mentre Ferdinando II celebrava i successi della repressione, Vittorio
Emanuele II non tornò all’antico regime, sostenuto dai moderati, riabilitati dal
fiasco dell’anno precedente dopo il fallimento di Gioberti e dallo sdegno per
l’insurrezione di Genova, vero tentativo separatista contrastato con durezza e
senza esitazione26. Malgrado alcuni momenti difficili, durante i quali esercito e
governo non esitarono a far ricorso alla repressione con intensità e stile borbonici, il re e, soprattutto, D’Azeglio non esitarono a considerare lo Statuto il pilastro della causa liberale in tutta Italia, impedendo al Piemonte di sperimentare
l’alternativa adottata da Ferdinando II27. Torino, conservando la costituzione,
andò preparando la soluzione della questione italiana affidandosi alla diplomazia, all’esercito, ai ceti liberali conservatori, mentre a Napoli si tendeva a ritenere lo statuto causa di tutti i mali. Borbone e Savoia avevano interessi dinastici
contrastanti. L’intervento militare per Ferdinando II è un fatto nuovissimo ed
incidentale rispetto alla politica borbonica; invece, per Carlo Alberto il 1848
è la continuazione di una strategia. Questi ripassò il Ticino da soldato, invece,
Ferdinando II si riscoprì repressore, incoraggiato dal sostegno dell’esercito28.
F. CURATO, Il 1848 italiano ed europeo, in AA. VV., Nuove Questioni di Storia del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, Milano 1969, p. 688.
26
E. GUGLIEMINO, Genova dal 1814 al 1849, Genova 1940, p. 210. Nel Piemonte la contestazione alla politica del re assunse manifestazioni di carattere sociale tra i ceti più umili che a volte
gridarono “viva il comunismo”. Ma non vi operarono mai convinti e consapevoli ideologi se a Torino i
sarti volevano proclamare la repubblica con alla testa lo stesso Carlo Alberto. N. RODOLICO, Carlo
Alberto, Firenze 1943, vol. 3, pp. 530-1. Nel complesso queste manifestazioni erano legate all’avversione alla guerra. La democrazia non fu un partito a base sociale. I moderati per governare dovettero
far riferimento alla destra, quasi confondersi con la politica della vecchia classe dirigente sabauda.
Tuttavia, nonostante limiti e condizionamenti, “quei liberali seppero evitare, nell’atto stesso in cui a
Napoli Francesco Paolo Bozzelli cooperava alla reazione di un Ferdinando II e a Firenze i moderati
si piegavano a richiamare il granduca, di farsi strumento di assolutismo, e riuscirono a imporre una
linea di difesa dello Stato monarchico che rimase, nonostante tutto, entro i confini dello Statuto, salvaguardando in tal modo, e consapevolmente, i destini della causa nazionale e del Piemonte in tutta la
penisola”. R. ROMEO, Dal Piemonte sabaudo, cit., p. 139.
27
R. ROMEO, Due Dinastie al paragone, in ID., Scritti storici 1951-1987, Milano 1990, p. 9.
28
E. ROTA, L’antagonismo politico tra Torino e Napoli durante la guerra del 1848, in AA. VV., Il
25
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A 150 anni dall’Unità una doverosa riflessione sui motivi della sconfitta borbonica
Ferdinando II considerava la libertà statutaria all’interno e la guerra contro
l’Austria correlate nel salvare la corona per cui, svanito il pericolo liberale,
accertata la devozione delle truppe, risorto il partito conservatore fece cessare
le ostilità con Vienna. Per Napoli la Lega dei principi italiani costituiva un utile
compromesso fra la rivoluzione radicale degli ordinamenti politici e la soluzione unitaria nazionale, progetto arenatosi per l’opposizione di Torino, che non
voleva pregiudicare i sogni di grandezza dei quali era consapevole Ferdinando
II. La tragedia dei Borbone si consumò per l’incapacità di trovare un ruolo nella nuova Italia di fronte ai Savoia che, scegliendo di far da sé, monopolizzarono
il sentimento nazionale a profitto del casato. Le conquiste territoriali piemontesi avevano sempre preoccupato gli altri principi italiani, meno le potenze
europee che se ne servivano per rafforzare la politica di equilibrio nella penisola. Il Piemonte aveva risposto con ardimento all’immobilismo geloso delle
dinastie rivali. Conquistata una propria posizione, non voleva comprometterla
con leghe che avrebbero frenato col bilancino della diplomazia gli sforzi condotti sui campi di battaglia. Ferdinando II era fuori da questa orbita, convinto
che l’istinto di conservazione gli garantisse un futuro più che la prospettiva
dell’ingrandimento perseguita con determinazione dai Savoia29.
Voler valutare con criteri meramente moralistici la politica piemontese e napoletana non aiuta ad intendere le vere ragioni del contrasto nel ‘48 e negli
anni successivi. La rivalità tra Savoia e Borbone si collegava alla trasformazione
socio-economica in corso, ma anche alla vicenda diplomatico-militare animata
dalla dissoluzione definitiva di situazioni da ancien regime verso la nuova società ed lo stato nazionale. Ambiente geografico, economico e sociale determinavano ritmi diversi. Nei piemontesi ansia e ardore per le tradizioni dinastiche si
riscontravano anche nella borghesia economicamente salda, spiritualmente
preparata, materialmente legata ai gruppi lombardi30. Nei napoletani incertezza economica, isolamento e paura d’esser sopraffatti per la grave ipoteca di
una dinastia fatalisticamente conscia di dover subire il gioco del rivale a Nord
accentuarono le conseguenze degli errori e le responsabilità degli uomini31.
1848 nella storia italiana ed europea, a cura di E. Rota, Milano 1949, vol. I, pp. 128-167; G. QUAZZA,
Napoli e Torino tra rivoluzione e reazione, in “Rassegna Storica del Risorgimento”, XXXIV, fasc. I-II,
(1947) pp. 18-9.
29
E. ROTA, cit., pp. 148-9 e pp. 164-7.
30
R. ROMEO, Cavour e il suo tempo (1810-1842), Bari 1971.
31
G. QUAZZA, Il contrasto fra Torino e Napoli durante la guerra del ‘48 (Contributo di fonti
inedite), in ASPN, 1947-1949, 146-195.
luigi rossi
27
La repressione di Ferdinando: intellettuali e patrioti
L’accusa che la reazione al regime fosse un grido dell’umanità contro l’ottusa crudeltà della tirannide trovò conferma dalle testimonianze dei molti prigionieri politici esiliati. La loro esperienza personale diede fiato alla Legenda
nera soprattutto in ambienti anticattolici come quello inglese, consentendo al
governo di Londra di consolidare la propria opzione anti-borbonica32. Il diffondersi nel continente di tali giudizi e le crescenti reazioni contro Ferdinando
consentirono al governo piemontese di disporre di un prezioso strumento di
pressione politica presso le cancellerie europee per cercare di rendere credibile
la conversione del re di Sardegna in difensore degli interessi italiani contro
chi rimaneva insensibile all’anelito nazionale, in particolare il re di Napoli, il
più deciso avversario dei Savoia33. Molti aspetti della reazione borbonica ebbero riflessi nelle relazioni col governo sardo, soprattutto per il movimento
dei fuorusciti napoletani verso gli Stati sabaudi34. L’antagonismo tra Napoli
e Torino andò accentuandosi, mentre dopo Novara s’ipotizzava un radicale
capovolgimento della politica piemontese, attese deluse dal nuovo re35. L’afflusso di esuli meridionali verso gli stati sardi aumentò con l’inizio dei processi
per i disordini del 15 maggio e contro la setta Unità d’Italia36. Napoli protestò
per l’eccessiva tolleranza piemontese, ma la pubblica opinione, compiaciuta
dell’antiborbonismo, sosteneva i comitati di assistenza degli emigrati, i quali
trovavano conforto nelle parole di chi era rimasto nel Mezzogiorno e li invitava
a continuare il progetto politico. Esiliati e prigionieri napoletani cominciano a
vedere in Vittorio Emanuale l’antitesi di Ferdinando II37.
32
Ad. esempio, “Illustred London Mews” per l’arrivo dei deportati napoletani liberali il 2 aprile
1859; O. BARIÈ, L’Inghilterra e il problema italiano nel 1846-1848. Dalle riforme alle Costituzioni,
Napoli 1960.
33
G. QUAZZA, Napoli e Torino tra rivoluzione e reazione (settembre 1848-dicembre 1849), da relazioni diplomatiche inedite, in “Rassegna storica del Risorgimento”, a. XXXIV, 1947, fasc. I-II, pp. 15-40.
34
B. C. DE FREDE, La reazione borbonica e il governo Sardo dopo il 1848. La questione degli
esuli, in ASPN, 1947-1949, pp. 312-340.
35
A. COLOMBO, Gli albori del regno di Vittorio Emanuele II, Roma 1937, p. 20; R. MOSCATI,
Nuove ricerche sulla pace di Milano, in “Rivista Storica italiana”, LX, fasc. III, (1948), pp. 378-402.
36
Molti partirono nella primavera del 1849; negli stati sardi erano circa 850; M. D’AYALA, Memorie, cit., p. 230. Sulle difficoltà quotidiane A. COLOMBO, Emigrati meridionali a Torino, in “Rassegna Storia del Risorgimento”, 1930, fasc. IV p. 257; E. CABALLO - R. ROSSINI, Gli esuli meridionali
a Torino, Torino 1961.
37
L. SETTEMBRINI, Lettera di Re Carlo III di Borbone a Ferdinando II, in ID., Scritti inediti, a
cura di F. Torraca, Napoli 1909, pp. 240-1.
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A 150 anni dall’Unità una doverosa riflessione sui motivi della sconfitta borbonica
Francia, Gran Bretagna e Austria guardavano con preoccupazione alla
situazione nelle regioni meridionali della penisola, dove non si tentavano
riforme, in quanto borbonici ed una parte dell’opinione pubblica contrapponevano alle critiche il modello legislativo delle Due Sicilie, la cui organicità e semplicità si ritenevano adatte al Regno38. I convincimenti politici
di Ferdinando II rispetto agli altri sovrani della penisola si radicavano nella
concezione basilare di sentirsi napoletano e non italiano, perciò egli riteneva
Carlo Alberto, il sovrano dell’altro Stato forte in Italia, suo rivale. Da qui la
decisa presa di posizione contro ogni ipotesi di unità, anche solo economica.
Ma nel 1848 il motivo di maggiore attrito fu la progettata guerra contro l’Austria39. Ferdinando II non intravedeva vantaggi per Napoli, confortato dal
parere dei suoi ufficiali, formatisi alla scuola napoleonica. Inoltre, egli non
giustificava le pretese dei patrioti d’inviare sul Mincio l’esercito e nell’Adriatico la flotta, l’apparato militare più forte tra gli stati regionali italiani; infatti,
per Napoli il problema prioritario rimaneva la Sicilia.
Si riteneva l’esercito l’unico vero puntello del trono. Esso si segnalava per
la cultura tecnica dei suoi ufficiali, ma anche per i condizionamenti dell’assolutismo poliziesco e paternalistico del re il quale, dopo l’attentato di Agesilao Milano, divenne sospettoso dell’ufficialità, scissa tra filo-liberali ed
ultra-conservatori; quest’ultimi, nei ranghi medio-alti, operavano come veri
cortigiani. La pretesa di efficienza nulla poteva contro il bubbone della burocrazia, causa dell’immobilismo che boicottava le riforme. L’incapacità della
dinastia a rappresentare l’esigenza di queste allargò lo iato tra ceto borghese
e re. Intanto, liberali, democratici, cavouriani, garibaldini, monarchici, repubblicani, esuli e no, tutti i patrioti erano favorevoli alla soluzione unitaria
ed espressione delle forze politicamente e socialmente determinanti per il
destino del paese. Il grave disagio verso i Borbone, sperimentato fra il 1794
e il 1799 ed aggravatosi nel 1820-21, divenne rottura definitiva nel 1848 per
l’incapacità di Ferdinando II a superare il paternalismo di sapore illuministico, convincendosi finalmente che sviluppo economico ed evoluzione eticopolitica dovessero progredire in modo parallelo40.
Il re, personificazione del paese per il suo fare scettico e burlone, “doveva
necessariamente esser guardato come potenza ostile dalla nuova generazione
A. SALADINO, La crisi della pubblica amministrazione alla vigilia del crollo del regno delle due
Sicilie, in ASPN, LXXVII, 1958, pp. 303-323.
39
L. MARINI, Il Mezzogiorno d’Italia di fronte a Vienna e Roma e altri saggi di storia meridionale,
Bologna 1970.
40
G. GALASSO, Il Mezzogiorno nella storia d’Italia, Firenze 1984, pp. 310-1.
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tutta filosofia, letteratura, poesia romantica”41. Egli represse il moto liberale,
dimostrando quanto fosse illusoria la tesi di chi ne voleva fare il liberatore ed
unificatore d’Italia. La momentanea vittoria della reazione ferì mortalmente la monarchia perché sottolineò il carattere decisamente antitaliano. I ceti
culturalmente più avanzati ed economicamente aperti alla modernizzazione
dovettero guardare altrove per riferimenti, concentrando sul Piemonte i loro
propositi ormai d’italiani e non più di napoletani. Cessava così, con la ragione
storica di un regno dei Borbone nel Meridione, anche la nazione napoletana.
Le sue caratteristiche non trovavano riscontro nell’Italia unita che il ceto dirigente voleva realizzare. La monarchia come fattore unificante del territorio,
con Carlo III, aveva ricevuto un ulteriore rafforzamento per l’integrazione
della dinastia col paese. Ma questo motivo d’identità era entrato in crisi nel
momento in cui una minoranza radicale, aperta al nuovo e all’Europa, tentò
di mutare i riferimenti sociopolitici della maggioranza favorevole ai Borbone,
che andava sempre più circoscrivendosi alle plebi ed ai contadini. L’inconciliabile contrasto di questi due mondi mise in crisi anche la napoletanità come
nazione, nella quale s’era identificato Ferdinando II. Il primato fondato sulla
provincializzazione del territorio del Regno fu insidiato dall’impossibilità di
esercitare la funzione di capitale. Infatti, questo ruolo presupponeva una ragione di scambio tra monarchia, città, ceti civili, oltre alla funzione di stimolo
alla modernizzazione per una società aperta ai nuovi modelli economici e,
quindi, impegnata a vedersi riconoscere i correlati compiti politici42.
I riferimenti alle tesi di Croce sulle ragioni ideali per comprendere a fondo questo periodo concitato della storia del Mezzogiorno rimangono ancora
valide. Del resto, perfino alcuni contemporanei definirono gli ultimi anni di
Ferdinando II agonici, una conseguenza del 1848 che aveva dimostrato l’impossibilità di una effettiva conciliazione tra monarchia e progresso. La repressione accentuò gli elementi che avrebbero abbreviato la vita già segnata del
regno meridionale. L’ideale della monarchia amministrativa aveva trovato dei
sostenitori tra i moderati ex-murattiani; ma, quando apparve chiaro che Ferdinando II non avrebbe riconosciuto le esigenze etico-politiche del ceto medio,
ogni tentativo ulteriore d’intesa risultò vano. Dalle galere borboniche con le
B. CROCE, Storia del Regno di Napoli, Bari 1967, 228.
A. MUSI, Il Sud nello Stato Unitario, in AA. VV., La Chioma della Vittoria. Scritti sull’identità degli italiani dall’Unità alla Seconda repubblica, a cura di S. Bertelli, Ponte delle Grazie, Firenze,
1997, pp. 85-99; sulla questione nazionale nel Napoletano E. DI CIOMMO, La nazione possibile.
Mezzogiorno e questione nazionale nel 1848, Milano 1993.
41
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A 150 anni dall’Unità una doverosa riflessione sui motivi della sconfitta borbonica
loro proteste-denunce, raccolte e diffuse dagli esuli, Poerio, Spaventa, Settembrini condannavano non solo la dinastia, ma l’autonomia del regno. Del resto,
la crisi appariva evidente nell’esercito, orgoglio del sovrano, e in tutti i rami
della burocrazia per il patologico centralismo in atto dopo il 1849. Lo stesso
distacco tra Napoli e le province, attenuatosi a partire dal periodo francese,
dopo il ‘48 aumentò sensibilmente. I moderati, disperando della possibilità di
liberazione dall’interno, fidavano nell’Europa e nel Piemonte, facendo poco o
nulla per organizzare la rivoluzione. Gli esuli, dopo i mesi di sconforto susseguenti i sacrifici per adattarsi al paese che li ospitava e per risolvere i problemi
della quotidianità, resisi conto del significato della rottura austro-russa per il
fronte conservatore, ripresero a sperare e, soprattutto, a operare facendo precipitare la dinastia nel totale isolamento. Finché visse Ferdinando II, malgrado
le crepe, il regno conservò nella penisola tutte le apparenze di potente stato
regionale; ma con la sua morte crollò di fronte all’iniziativa nazionale condotta
dai piemontesi, questa volta decisamente più italiani43.
L’isolamento internazionale
Per meglio comprendere la situazione internazionale del Regno e, quindi, le opzioni diplomatiche di Ferdinando II, occorre riassumere brevemente i suoi rapporti con le singole potenze europee. Quando in Italia,
come in Europa, nel 1848 entrarono in conflitto universalismo democratico e
particolarismo nazionale, la politica venne gestita dagli stati maggiori e dalle
cancellerie, per cui prevalsero considerazioni militari e diplomatiche su quelle ideologiche. La stessa Francia repubblicana di Cavaignac s’impegnò a tutelare più gli interessi nazionali che la causa italiana, intenzionata a consolidare
il prestigio nella penisola di fronte alla ripresa austriaca e alla concorrenza
inglese. Parigi rinunciò alla missione di guida della rivoluzione per svolgere
il ruolo di grande nazione, arbitra della politica europea.
A Vienna le tradizioni rivoluzionarie non avevano mai avuto seguito, anzi
l’impero asburgico fondava la sua esistenza sulla subordinazione delle nazionalità all’unità della dinastia. Tale realtà condizionava anche le correnti
repubblicane in Germania. Le dinastie erano il baluardo dei valori tradizionali, specie il principio di autorità e di conservazione. Rispetto alle critiche
vicende che si sperimentarono nel centro del continente, la Russia zarista
43
R. MOSCATI, La Fine del Regno di Napoli Documenti borbonici del 1859-60, Firenze 1960.
luigi rossi
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rimase fedele alla tradizionale idea di autorità, allo stato assoluto di diritto
divino che non concedeva spazio alle aspirazioni di libertà degli individui. A
Mosca era ancora in vigore la politica della Santa Alleanza, pur nella versione
concreta e non fumosa di Nicola I; perciò, le dinastie minacciate potevano
riporre fiducia nella zar. Ma il crollo di Vienna e di Berlino nel 1848 non consentì a Nicola d’intervenire; egli dovette attendere che la situazione nell’Europa centrale si stabilizzasse.
L’opinione pubblica inglese era favorevole alla diplomazia di Palmerston,
abile nell’utilizzare il liberalismo come strumento ideologico per sostenere gli
interessi britannici. Nel 1848 egli divenne l’antitesi di Nicola I; in Austria egli
sostenne le nazionalità, osteggiate dallo zar, pur se attento a ridimensionare i
progetti democratici che non si riconoscevano nel liberalismo, sostenendo
i partiti legati all’aristocrazia illuminata ed alla borghesia di censo e di toga
avversari del paternalismo assolutistico.
Le prospettive generali della politica europea di Palmerston aiutano a comprendere il suo atteggiamento verso l’Italia, dove il prevalere della reazione
avrebbe consolidato l’influenza austriaca; mentre la rivoluzione avrebbe favorito interessi francesi. Perciò, Londra cercò un’alternativa favorevole al
liberalismo inglese. Contro i tentativi di rafforzamento dell’egemonia austriaca e contro le correnti democratiche che guardavano a Parigi, l’Inghilterra
sostenne le monarchie che paventavano la repubblica, ma non osteggiavano
la carta costituzionale. Inoltre, nel 1848, il consenso verso i progetti di nazionalità convinsero Palmerston che il problema dell’indipendenza italiana
potesse divenire funzionale al nuovo equilibrio continentale.
Queste erano le premesse nelle quali inserire la vicenda siciliana del 1848 e
la missione di Lord Minto nella penisola. L’isola era divenuta strategicamente
importante per gli interessi inglesi nel Mediterraneo. Del resto, dai tempi di
Napoleone Londra aveva cercato di controllarla. Ferdinando II ne era consapevole, ritenendo che Londra volesse trasformare la Sicilia nella sua Algeria.
In realtà, Palmerston puntava al compromesso tra isolani e re per non rompere
l’unità del regno. Napoli cercò di sfruttare la paura inglese di una repubblica
e dell’ingerenza di Parigi per indurre Londra ad accettare la restaurazione. Ma
l’Inghilterra non accettò la soluzione di forza che l’avrebbe legata alla reazione,
per cui cominciò a sostenere le rivendicazioni siciliane. Le complicazioni internazionali indussero l’Inghilterra a scaricare i Borbone, strumentalizzando la
tesi dell’indipendenza siciliana per mantenere la propria influenza nell’area44.
F. VALSECCHI, L’Esperimento rivoluzionario, in ID., L’Italia del Risorgimento e l’Europa delle
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A 150 anni dall’Unità una doverosa riflessione sui motivi della sconfitta borbonica
44
In questa prospettiva generale occorre inserire i rapporti di Ferdinando II
con le potenze europee, ad iniziare dall’Austria45. Dopo il breve regno di Francesco I, a tutti apparso come un momento di assestamento, Ferdinando II impresse nuova dinamica alla politica di Napoli, cercando di mantenere buoni
rapporti con Londra e Vienna, ma senza farsi strumentalizzare, memore dei
due esili ai quali fu costretta la dinastia. Egli riteneva di preservarsi dai pericoli
evitando di partecipare attivamente alla politica europea. Rispetto al padre ed
al nonno, attenti alla politica di famiglia, Ferdinando II si sentì soprattutto
napoletano impegnato ad assicurare il progresso economico ai suoi sudditi,
uno sforzo antistorico per rompere i rapporti del Mezzogiorno con l’Europa.
A metà degli anni Quaranta Ferdinando II era freddo con Parigi, convinto
che Luigi Filippo non sostenesse il suo progetto per i matrimoni spagnoli.
Ma dovette subire le conseguenze del contrasto di interessi tra Francia e
Inghilterra. Da qui il miglioramento dei rapporti austro-napoletani, favorito
dal raffreddamento di Carlo Alberto verso Vienna nella primavera del ‘46:
l’equilibrio nella penisola richiedeva l’avvicinamento di Napoli. Gli eventuali pericoli provenienti da Torino obbligavano Metternich a garantirsi sulle intenzioni conservatrici di Napoli46. I contrasti con l’Inghilterra s’erano aggravati per la questione degli zolfi e la penosa vicenda personale del matrimonio
del fratello di Ferdinando II47. Il re, che intendeva operare da sovrano indiNazionalità, Milano 1978, pp. 95-153.
45
R. MOSCATI, I rapporti austro-napoletani nel 1849-50 e la missione a Vienna del cav. De Marsilio, in Rivista Storica Napoletana”, n. s., II, 1941, n. 2, pp. 101-116; L. SIMEONI, L’Austria e la
caduta della monarchia borbonica napoletana, in AA. VV., Atti del XXIII Congresso di Storia del Risorgimento italiano, Roma 1940, pp. 369-402.
46
R. MOSCATI, Ferdinando II di Borbone nei documenti diplomatici austriaci, Napoli 1947, p. 71.
47
F. CURATO, Lord Palmerston e il principe di Capua, in “Clio”, 1982/1,pp. 78-107. Il conflitto,
se lasciato ai due protagonisti si sarebbe risolto, ma fu tenuto in vita “da chi aveva interesse a tener viva
una favilla in casa Borbone pei futuri casi” G. DE SIVO, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Trieste
1868, vol. I, p. 108. La strumentalizzazione venne sia da parte di Parlmerston per cercare d’indebolire la
posizione del re nelle trattative, sia da parte di chi cercava di strumentalizzare Carlo ponendolo contro il
sovrano durante la vertenza siciliana; I. ARCUNO, Vita d’esilio di Carlo di Borbone principe di Capua, in
“Samnium”, a. V, 1932, fasc. III, p. 194. Secondo il Curato - p. 94- furono probabili contatti di Carlo con
gli esuli napoletani, i quali sfruttarono le misere condizioni del principe presentandolo come simbolo del
dispotismo di Ferdinando II. Carlo lasciò che qualcuno facesse il suo nome per la corona siciliana a metà
maggio 1848; G. FALZONE, Il problema della Sicilia nel 1848 attraverso nuove fonti inedite, Palermo
1951, p. 80, un’ingenuità perché il parlamento siciliano del 13 aprile aveva dichiarato decaduta l’intera
dinastia. Il principe di Capua non comprese che, trasportando la contesa dal piano dinastico a quello
politico finiva con l’essere strumentalizzato dalle forze ostili alla dinastia. Si trattava dell’impuntatura
del principe per testardaggine pari a quella del fratello re, ma anche perché totalmente succubo della
moglie; P. CALA’-ULLOA, Ferdinando II di Borbone, a cura di G. F. De Tiberiis, Napoli 1967 p. 82.
luigi rossi
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pendente, non accettava gli arroganti condizionamenti inglesi; sicuro del suo
diritto e offeso dalle note di Londra, decise di resistere ad oltranza, cedendo
soltanto quando apparve evidente a tutti che egli subiva una prepotenza.
Alla vigilia del 1848, Metternich raccomandò all’inviato a Napoli di adoperarsi perché il re mantenesse la fiducia verso l’Austria, sostenendolo
nell’intransigenza contro i liberali. Ma il diplomatico viennese ritenne che,
malgrado la sicurezza dichiarata, la situazione risultasse grave, non essendo
sufficiente la buona volontà di un sovrano sempre più isolato. Quando scoppiarono i tumulti a Messina e la protesta del popolo delle Due Sicilie segnò
una grave sconfitta diplomatica per Ferdinando II48, secondo Schwarzenberg
il re non avrebbe retto per le irriducibili rivalità tra Napoli e Palermo; infatti,
se nel continente si voleva lo statuto, nell’isola si pretendeva l’indipendenza. A livello internazionale Napoli appariva sempre più filo-francese, mentre
Palermo risultava filo-inglese, ma Ferdinando II nutriva piena fiducia nell’inviato di Vienna, al quale sollecitava pareri. Convinto che l’Austria avrebbe
difeso il principio dell’ordine ed i trattati contro la rivoluzione nella penisola,
il re richiamava le clausole segrete del trattato del 1815. L’ambasciatore, al
primo cenno di sommossa nel Regno, consigliava di mandare un contingente
di 8/10 mila uomini nell’Adriatico, altrimenti il re avrebbe sollecitato il sostegno della Francia o dell’Inghilterra. Ma Vienna abbandonò Ferdinando
II, malgrado le richieste di aiuto. L’Austria considerava Napoli soltanto un
alleato ausiliario che poco poteva aggiungere al proprio apparato militare,
mentre l’avrebbe obbligata ad estendere il raggio delle sue operazioni nel
Mezzogiorno, lasciando pericolosamente aperto il fianco all’azione del nemico. Invece, Ferdinando II, neutrale ed impegnato a mantenere la tranquillità
interna, avrebbe contribuito a limitare il campo d’azione, garantendo Vienna
alle spalle. Questa opzione strategica fece diminuire l’influenza austriaca a
Napoli, offrendo nuove possibilità a Parigi. Ma Ferdinando II optò per una
netta neutralità, ritenendo l’isolamento unica espressione di dignità e d’indipendenza per il suo Regno.
Le condizioni interne e la situazione internazionale indussero Ferdinando II a far affidamento sul sostegno morale di Russia, Francia e Austria;
mentre Spagna e Prussia risultavano o prevenute o indifferenti. In realtà, il
re non poteva contare su aiuti concreti. La stessa Russia era troppo distante,
A. ZAZO, La protesta del popolo delle Due Sicilie in un inedito carteggio diplomatico, in “Ricerche e studi storici”, II, 1939 sui rapporti del nunzio mons. Garibaldi in proposito.
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A 150 anni dall’Unità una doverosa riflessione sui motivi della sconfitta borbonica
mentre il sostegno francese poteva determinare una situazione simile a quella
verificatasi dopo il 1821 con l’Austria. Il re cercò di utilizzare la concessione
della costituzione per salvare l’unità dello stato e conservare la Sicilia49. Perciò, accettò l’idea della Lega per partecipare alla guerra in cambio di garanzie
e del sostegno almeno morale nella repressione in Sicilia.
I dubbi di Ferdinando II cessarono quando i fatti del 15 maggio gli confermarono la sostanziale fedeltà dell’esercito; mentre i successi della restaurazione asburgica per opera dell’amico principe di Schwarzenberg gli
infusero nuovo vigore. La reazione trionfò anche nel Napoletano; anzi il re
era orgoglioso di essere stato il primo in Europa a dare il segnale contro i
radicali che avevano costretto all’asilo Pio IX e Leopoldo. Tuttavia, rispetto ai suggerimenti di Vienna di stringere i rapporti di alleanza in funzione
repressiva ed antibritannica in una nuova proposta di lega italiana dei paesi
conservatori, Ferdinando II cercò di separare il regno dalla politica italiana ed europea per non impegnare il suo esercito al di là dei confini. La politica rinunciataria lo costringeva ad accettare tutte le conseguenze negative dell’evoluzione europea senza poter avere un ruolo diretto, anche se
secondario, come dimostrò la crisi d’Oriente e la rottura dei rapporti tra
Napoli e le potenze occidentali50. Ferdinando II ritenne di aver trovato un
insperato alleato nell’Impero francese proprio mentre cadeva Palmerston;
ma non si staccò dalla politica d’isolamento per cui poteva contare solo
sul sostegno morale della Russia. Egli condivideva la posizione di Vienna,
ritenendo che la tacita intesa tra Francia ed Austria dovesse durate senza
minacciare l’equilibrio nella penisola. Ma il Congresso di Parigi ed il progressivo raffreddamento del sostegno russo dimostreranno il livello d’isolamento nel quale erano precipitati i Borbone di Napoli durante la crisi
del 1859-6051.
R. MOSCATI, La diplomazia europea e il problema italiano nel 1848, Firenze 1946, p. 67 e ss.
Politica di isolamento che, concepita in un modo così rigido, costituiva un assurdo storico e
diplomatico e che sarebbe stata, come del resto ogni politica meramente negativa, gravida di pericoli
e di incognite per il regno delle due Sicilie.” Ivi, p. 130.
51
F. CATALUCCIO, La crisi diplomatica del Regno delle Due Sicilie 1854-1859, Milano 1941;
ID., La crisi diplomatica del Regno delle Due Sicilie dopo la guerra in Crimea, in “Archivio Storico
Italiano”, a. CIX (1951), pp. 162-193; A. ZAZO, La politica estera del Regno delle Due Sicilie nel
1859-60, Napoli 1940; C. VIDAL, Le second Empire et Ferdinand II de Naples (1852-1859), in “Rassegna storica del Risorgimento”, a. XXXIX (1952), fasc. IV, pp. 835-844; A. SALADINO, Aspetti
della crisi della diplomazia napoletana (1855-1858), in “Atti dell’Accademia Pontaniana”, n. s., vol.
VII (1957-58), pp. 67-78; R. MOSCATI, La crisi finale del Regno delle Due Sicilie, Salerno 1957.
49
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Conclusioni
La repressione, efficace solo apparentemente, determinò il definitivo distacco delle elite emergenti. Ma Ferdinando II non percepì tale situazione
come una minaccia, rassicurato dai successi della restaurazione in Europa.
Egli, ritenendo di aver consolidato lo status quo ante perché nel continente
i potenziali alleati erano al potere, ritenne possibile fare a meno della borghesia nel gestire il potere, commettendo un gravissimo errore di calcolo in
politica interna. Egli scelse di ridimensionare proprio quei ceti che avevano
maggiormente beneficiato del buon governo da lui perseguito con tenacia.
Imprenditori, possidenti, commercianti non trovarono motivi per sostenere
il suo regime; mentre l’intellighenzia, definitivamente convinta della sua inaffidabilità, ingaggiò una lotta senza quartiere contro il sovrano.
Ferdinando II commise fatali errori di calcolo anche in politica estera. Egli
riconfermò in modo intransigente la direttiva dell’isolamento nella neutralità, in
ultima analisi la scelta di privarsi di qualsiasi ciambella di salvataggio in caso
di necessità. Egli poteva contare sul sostegno morale della Russia, potenza
lontana, imbattibile qualora la quantità fosse stata ancora vincente sulla qualità
come ai tempi di Napoleone, ma ormai ridimensionata quando a Parigi si tentava
di restaurare i fasti dell’impero. La Prussia, impegnata a trovare soluzioni per
l’unità germanica, certamente non aveva motivo di compromettersi in un’area
lontana dai suoi vitali interessi52. L’Austria, che dopo il 1848 ritornò ad essere
la vera assicurazione per la tranquillità di Ferdinando II, era pericolosamente
isolata, vittima dell’evoluzione geopolitica collegata alla guerra di Crimea. Poco
di buono, se non per motivi strumentali, Ferdinando II si poteva attendere da
Parigi, dove Napoleone III era impegnato a realizzare le idee del grande zio. Né
Londra poteva costituire un riferimento per i Borbone, dopo i fatti siciliani. Del
resto, l’Inghilterra aveva sempre più bisogno di amici fidati nel Mediterraneo,
dove era in atto una decisa corsa all’egemonia, per poter scommettere su un regime così diverso dal proprio e su un re gelosissimo delle prerogative della corona.
La repressione non fece che accelerare l’isolamento diplomatico e morale.
La “vertigine del suo cupio dissolvi”53 investì i municipalisti, che non pote G. CONIGLIO, a cura di, Le relazioni diplomatiche tra il Regno delle Due Sicilie e il Regno di
Prussia, s. III, 1848-1860, Volume unico (22 gennaio 1848- 7 agosto 1860), Roma 1964.
53
B. CROCE,, cit., p. 231.
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A 150 anni dall’Unità una doverosa riflessione sui motivi della sconfitta borbonica
vano continuare ad identificare la nazionalità meridionale con i Borbone
privati della loro funzione unificatrice. Il Regno, con i figli migliori incarcerati o esiliati, perde definitivamente la capacità riformatrice, per la quale si
era segnalato nella stagione illuministica ed in quella successiva. La fine della
nazione napoletana ridimensionò il municipalismo liberal-moderato e neoguelfo, i soli ad aspirare ancora all’indipendenza ed all’autonomia, avviando
un denso dibattito tra la democrazia ancora di matrice carbonara e quella
mazziniana e pisacaniana, sostenitrici di un maggiore attivismo rivoluzionario. Ma a trarne maggiore profitto fu il mondo culturale e politico del liberismo moderato grazie alla originale rielaborazione operata dagli esiliati e degli
esuli. Infatti, pur partendo da esperienze diverse, alla fine tutti condivisero
la prospettiva cavouriana, diventando un partito nazional-unitario e ceto dirigente del Mezzogiorno nel nuovo ciclo dell’Unità.
La repressione trionfante di Ferdinando II costituisce un altro esempio
della fine ironia presente nelle vicende umane. Infatti, mentre spinge le elite
a guardare altrove per fondare le ragioni del loro sviluppo sociopolitico di
stampo europeo, essa rivela la sostanziale involuzione preagonica del Regno:
acqua salata e acqua santa, vale a dire isolamento diplomatico e valori tradizionali, da cordone sanitario s’erano trasformate nella pozione mortale che
lord Camillo al momento opportuno serve al Borbone.
In Europa l’affermarsi di Napoleone III e la rottura dell’alleanza reazionaria delle potenze medio-orientali aprono, dopo la guerra di Crimea, i giochi
al governo di Torino e, soprattutto, a Cavour, che fa della soluzione moderata, liberista e liberale, la carta vincente per imporsi all’attenzione di Parigi e
di Londra. È il contesto nel quale si colloca la II guerra di indipendenza nel
1859, proprio mentre Inghilterra e Russia sono alla ricerca di un nuovo equilibrio continentale. In tal modo la situazione internazionale, ancora ingessata
al 1815, si smuove mettendo in discussione il caposaldo del predominio austriaco. Vienna, isolata dal punto di vista politico e diplomatico ed in serie
difficoltà finanziarie, alla fine deve accettare gli eventi a lei sfavorevoli. Sono
gli anni decisivi 1859-61, nei quali per la nostra penisola è possibile rinvenire
tre fasi. La prima, dal 1859 all’aprile ’60, vede il prevalere della direzione
moderata controllata da Cavour fino a Villafranca e, dopo la parentesi incerta ed ondeggiante del governo Lamarmora-Rattazzi, la ripresa dell’iniziativa
politico-diplomatica del conte, il quale si distingue per decisione ed energia,
sostenuto dalla Società Nazionale, che consente di sventare i piani bonapartisti relativi all’ipotetico regno dell’Italia centrale con le annessioni decise con i
plebisciti, azione osteggiata dalla diplomazia europea e da Napoleone III, ma
luigi rossi
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che vede una positiva conclusione grazie al genio diplomatico di Cavour. Egli
riesce ad inserire la rivoluzione italiana negli schemi conservatori della diplomazia europea proprio mentre Garibaldi inizia la sua avventura con i Mille.
La seconda fase, fino al settembre 1860, è contraddistinta dalla ripresa
dell’iniziativa democratica con l’avanzata dei garibaldini fino a Napoli. La
terza, fino al marzo 1861, è segnata dalla febbrile opera di Cavour, il quale
riesce a giustificare presso le cancellerie la spedizione di Vittorio Emanuele
nelle Marche ed in Umbria, il superamento dei confini meridionali del esercito piemontese, la sconfitta politica di Garibaldi, la celebrazione del plebiscito, le elezioni nel gennaio e, finalmente, a marzo la proclamazione del Regno
d’Italia col suo diritto di rivendicare Roma come capitale.
Il nuovo Stato unitario è stato realizzato grazie all’operato dal partito moderato della Destra storica dal quale riceve l’impronta. Emergono differenze
e contrasti tra Nord e Sud, presupposto della questione meridionale, la cui
soluzione costituisce la prosecuzione del problema generale dell’unità nazionale. Intanto, lentamente si supera il ristretto costituzionalismo proprio dello statuto albertino; il suo evidente carattere autoritario si evolve molto più
in fretta del modello bonapartista o bismarckiano grazie al contributo delle
forze democratiche ed allo spirito liberale dei moderati. Tra i problemi più
difficili da risolvere persiste l’impronta bonapartista circa l’accentramento
amministrativo e la ristrettezza delle basi sociali forieri di profondi squilibri regionali. Tuttavia, il processo risorgimentale ha realizzato gli aspetti più
significativi del suo programma conservando la sua attualità. Perciò oggi lo
sentiamo una esperienza comune, che ci affratella inducendoci ad esaltare,
riconoscenti, chi in questi 150 anni ha combattuto ed è morto per la libertà,
il progresso, l’unità e l’indipendenza di tutti noi.
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A 150 anni dall’Unità una doverosa riflessione sui motivi della sconfitta borbonica
Vincenzo Guarracino
Scrittori e artisti
rispetto al tema dell’Unità d’Italia
Da ex professore ho voluto dare un tema più generale rispetto a quello relativo al Verga. Certo la visione di Verga rappresenta un aspetto molto importante del modo in cui si pongono gli intellettuali di fronte al tema dell’Unità
d’Italia. La novella Libertà, che appartiene alla raccolta Novelle Rusticane, si
colloca alla fine degli anni settanta e all’inizio degli anni ottanta. La novella
si riferisce ad un evento drammatico, tragico addirittura, della spedizione
di Garibaldi per la liberazione (o occupazione) della Sicilia, in particolare si
riferisce ad un episodio avvenuto in un paesino sulle pendici dell’Etna: Bronte. Qui la gente si solleva e questa rivolta popolare viene repressa nel sangue
con inaudita crudeltà dal luogotenente di Garibaldi, Nino Bixio. Su questo
episodio il Verga fa una riflessione “quasi dal vivo” perché nel 1870 il giovane
scrittore, ardentissimo e pieno di idealità patriottiche, si arruola da volontario nella guardia nazionale proprio dopo gli eventi che stanno sconvolgendo
la Sicilia e stanno portando a quella che sarà l’Unità d’Italia. Si arruola in
questo corpo di volontari che fiancheggiano la spedizione dei mille, ma quando si rende conto delle atrocità che vengono compiute dai garibaldini e da
Nino Bixio chiede di essere congedato dal servizio volontario e per ottenere
ciò, il padre pagherà un’ingente somma di denaro. Il Verga registrava in tempo reale lo stato d’animo dei giovani e degli scrittori dell’epoca di fronte ad
un evento che si diceva stesse cambiando l’Italia. In realtà la stava cambiando
o no? Questo è il grande problema.
Partiamo da qualche decennio prima per arrivare alla fatidica data del 1861
quando gli intellettuali prendono coscienza di ciò che sta accadendo, di ciò
che sta cambiando; non tutti gli uomini di cultura dell’epoca si schierano dalla parte dei fautori dell’unificazione, esempio ne è un napoletano di grande
spessore che risponde al nome di Antonio Ranieri, amico del poeta Giacomo
Leopardi. Eletto deputato al Parlamento italiano, subito si rende conto che
vincenzo guarracino
41
l’Unità politica del Paese non sarà pienamente favorevole al Sud e di ciò
prende coscienza quando si rende conto che le decisioni e le norme varate
dal Parlamento di Torino non sono a favore del meridione d’Italia. Emerge a
chiare lettere il problema della questione meridionale che, insieme alla questione sociale, è uno dei grandi temi che occupano il dibattito politico di quei
primi decenni unitari. Ranieri si rende conto, ad esempio, che Napoli, che
era stata una grande capitale al tempo dei Borbone (che non erano poi così
male come molti storici li hanno descritti), non rivestiva un ruolo di primo
piano nel nuovo regno. Antonio Ranieri, nonostante fosse stato un oppositore dei Borbone (più volte perseguitato dalla polizia borbonica per la pubblicazione del suo romanzo–denuncia Ginevra o l’orfana dell’Annunziata), si
rende conto che non era giusto demonizzare il loro passato e che penalizzare
Napoli non era andare nella direzione giusta. I suoi interventi in Parlamento,
negli anni che vanno dal 1861 al 1864 sono molti interessanti perché fanno
emergere i temi che sono alla base della questione meridionale. Egli contesta
in maniera vibrante la linea politica dei nuovi sovrani e di Cavour nei confronti del Sud, come ad esempio, la decisione di porre a capo della città un
generale piemontese che, comportandosi come una specie di viceré, non fa
altro che reprimere tutte le manifestazioni di insofferenza che il popolo partenopeo dimostra nei confronti del nuovo governo.
In questo contesto emerge anche il fenomeno del Brigantaggio. Lo hanno
chiamato brigantaggio, ma i breanti ( briganti) non erano dei personaggi loschi, bensì povera gente, erano dei “resistenti” perché quella era una forma
di resistenza nei confronti di un’occupazione militare. I documenti attestano
che il governo piemontese utilizzò centoventimila uomini per reprimere movimenti popolari di protesta spontanea che sorgevano dappertutto. Nel Cilento
tra Sacco e Montano, tra le montagne di Santa Barbara, San Biase e Novi Velia
si trovavano i covi di questi disperati che combattevano con i pochi mezzi a
diposizione ma resistevano. I piemontesi li falciavano con una violenza incredibile, li impiccavano, tagliavano loro le teste che esponevano nelle piazze dei
loro paesi. Erano poi davvero necessarie tutte queste atrocità?
Ranieri non parla del brigantaggio, non può, in quanto i briganti erano comunque dei fuorilegge ed lui era un esponente del Parlamento.
Se tutto ciò avveniva al Sud, al Nord la situazione non era tanto diversa: nelle grandi città come Torino, ma soprattutto Milano, gli intellettuali
promuovono la nascita di movimenti di opposizione all’Unità d’Italia. Tali
gruppi di intellettuali daranno il via alla nascita della scapigliatura. Il termine
comunica già, in maniera chiara, qual era l’atteggiamento umano, morale, di
42
Scrittori e artisti rispetto al tema dell’Unità d’Italia
queste persone: il disordine. Scapigliato era sinonimo di disordinato, era una
traduzione abbastanza impropria della parola francese bohemien, indicante
uno stile di vita irregolare, nomade, senza centro né punti di riferimento
morali e civili. Così città come Milano, Torino, e la maggior parte dei grandi
centri industriali e progrediti del Nord esprimono il loro dissenso, attraverso
questi movimenti culturali.
Il Verga dirà, dopo qualche anno vissuto da scapigliato, che in questa società non si adora più il Dio trino ma il Dio quattrino, mentre lui si batte per
i sacri valori dell’arte, calpestati dalla società dei banchieri, come scrive nella
premessa ad un romanzo del 1872 intitolato Eva. Il 1872 è l’anno in cui si
suicidano i poeti Egidio Ugo Tarchetti e Giulio Pinchetti. Quest’ultimo è un
giovanissimo poeta comasco che muore poco più che ventenne e che scrive:
« Il bello sta nell’orrido, nella beltà l’orror», versi rivolti contro una società
che voleva apparire pulita, ordinata, ma non si trattava che “dell’ordine delle
baionette” che avevano sparato contro i briganti o contro gli insorti in Valtellina, dove erano state represse alcune sommosse popolari. Tutte le situazioni
di marginalità civile, geografica, politica, venivano represse e dunque si viveva una situazione di grande insofferenza e di grande instabilità.
In questo contesto si inserisce la poetica degli scapigliati che esaltano tutto quello che è reale, ripugnante, repellente. Questi poeti si fanno paladini,
descrittori, rappresentatori di ciò che avveniva nei margini, nei bassifondi, di
tutto quello che era, appunto, scapigliato. La scapigliatura esprime proprio
questo grande disagio, attraverso la poesia o la letteratura, ma anche attraverso la pittura e l’arte in generale.
Quale può essere il manifesto della scapigliatura, al di là del romanzo di
Cletto Arrighi che dà il nome al fenomeno? L’autore più importante di questo movimento è sicuramente Emilio Praga perché non era solo un poeta ma
anche un pittore, un critico d’arte e un critico musicale. Ciò ci fa capire che
gli scapigliati non erano immobilizzati in una forma, in un cliché, non scrivevano sul biglietto da visita: poeta, ma erano tutto, erano personalità complesse. Diceva Emilio Praga nella prima quartina di una celeberrima poesia,
intitolata Preludio tratta dalla raccolta Penombre: «Noi siamo i figli dei padri
ammalati / aquile al tempo di mutar le piume / svolazziamo muti, attoniti,
affamati / sull’agonia di un nume».
Figli di padri ammalati si riferisce ai “genitori” che avevano fatto l’unità
d’Italia e che pensavano di essere i protagonisti della storia. Sull’agonia di un
nume: il nume non è un Dio trascendente ma il Dio immanente della cultura
dell’epoca, il padre nobile, spirituale, dell’unità d’Italia: Alessandro Manzo
vincenzo guarracino
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ni. Il vecchio Manzoni pur essendo cattolico e credente, aveva aderito, contro tutti gli anatemi dell’epoca, al Regno d’Italia. Nel 1861 viene nominato
senatore nonostante che Pio IX avesse tuonato contro i cattolici che osavano
insidiare la supremazia dello Stato Pontificio, perchè i progetti di casa Savoia
erano quelli di occupare Roma (cosa che si concretizzerà dieci anni dopo nel
1870). Con la famosa enciclica di Pio IX, il non expedit del 1874 i cattolici
sono esortati a non essere né eletti né elettori, mentre il cattolico Manzoni,
invece, aveva osato aderire.
Questi giovani milanesi, pur da sponde diverse (gli scapigliati non erano
credenti), non accettavano l’autorità del Manzoni e parlavano, riferendosi a
lui, dell’ agonia di un nume. Nelle ultime due quartine Emilio Praga ci dice
qual è il programma poetico e civile degli scapigliati, cosa vogliono fare, perché combattono contro questi equilibri: «Ricercando le ebbrezze dei bagni
d’azzurro/ è l’ideale che annega nel fango / non irrider fratello al mio sussurro
/ se qualche volta piango / giacché più del mio pallido demone / odio il minio e
la maschera al pensiero /giacché canto una misera canzone / ma canto il vero».
Contro la maschera al pensiero canto il vero: gli scapigliati non vogliono fare
una letteratura che mascheri le cose, che sia solo un momento di evasione.
Si, certo, il poeta dice: qualche volta piango, questo indica che qualche volta
il poeta mette in evidenza anche l’io, ma essenzialmente canta il vero. Questo
termine avrà molta fortuna dieci anni dopo, non tanto nel campo della poesia
– anche se ci sarà pure per la poesia una stagione verista – ma soprattutto nella prosa. De Sanctis del resto, diceva: « non si possono più cantare le lacrime,
ma le lacrime delle cose» e ancora, in un famoso discorso: « è la stagione in cui
bisogna rappresentare la realtà».
Nel 1874 nasce il movimento verista con il famoso bozzetto Nedda di Giovanni Verga. Si inaugura una stagione di rappresentazione della realtà, di
rappresentazione oggettiva, dirà il Verga, rappresentazione senza passione,
crudele, fatta di gente onesta. Verga non aveva niente da difendere, e pur
appartenendo ad una classe, quella dei galantuomini, elevata socialmente,
preferiva rappresentare la povera gente. Nel 1876 sale al governo la Sinistra
storica che, con Depretis, avvia una stagione di inchieste sociali per conoscere le condizioni di vita nel Sud. Attraverso le inchieste di Sonnino, Franchetti
e Villari, si prende coscienza di ciò che avviene in Italia. È proprio prendendo spunto da una inchiesta sul lavoro minorile in Sicilia, che Verga scrive la
celeberrima novella Rosso Malpelo che tratta, appunto, dello sfruttamento
minorile nelle cave di zolfo. Tale scoperta è stata determinata dall’osservare
che le prime righe della novella sono state scritte sul retro del foglio dell’in44
Scrittori e artisti rispetto al tema dell’Unità d’Italia
chiesta parlamentare. È chiaro l’irrefrenabile impulso di Verga di trasferire in
letteratura fatti da lui conosciuti, ciò ci fa capire come questi scrittori, dagli
scapigliati a Verga, fossero vicini alla realtà. Anche Giosuè Carducci subisce
un cambiamento: se nella sua prima giovinezza è un fervente mazziniano,
schierato contro i Savoia, contro la monarchia, contro una maniera di intendere la società e nel famoso Inno a Satana esalta il Positivismo incipiente
e i nuovi equilibri culturali che risultano in opposizione con lo status quo
dell’Italia del tempo, nel 1879 cambia totalmente. Diventa il cantore della
monarchia di casa Savoia, fa il baciamano alla regina Margherita e viene fuori
un poeta che esalterà il Medio Evo. La stagione della poesia anti- savoia e
anti- destra storica del Carducci è quella di Rime e ritmi mentre, in seguito,
canterà il Piemonte, il comune rustico e canterà molto anche l’io, cosa che
agli scapigliati interessava davvero poco.
Ma ritornando ai versi precedenti, perché gli scapigliati ce l’hanno con il
“nume in agonia”, ossia con il Manzoni, vecchio cattolico liberale? Manzoni
che relazione aveva col processo risorgimentale? Se prendiamo l’ode dal titolo Il proclama di Rimini leggiamo le seguenti parole:« Liberi non sarem se non
siam uni», brutti versi, ma che esprimono il senso comune. Anche nell’ode
Marzo 1821 Manzoni dice, quando definisce l’Italia: «una d’arme, di lingua,
d’altare, di memoria, di sangue, di cor». Questo è il progetto di quella Italia,
e questa era la bandiera in cui si riconoscevano tanti intellettuali, anche Goffredo Mameli che però, purtroppo, era morto giovanissimo. L’unità d’Italia
si costruisce su queste convinzioni, ma non tutti gli intellettuali sono dello
stesso parere, anche perché Manzoni stesso invitava alla rassegnazione. Con i
Promessi sposi, Manzoni non incitava ad essere dialetticamente presenti nelle
situazioni, ma semplicemente ad accettarle, anche se il giovane Renzo, in
molte situazioni, rappresentava lo spirito del ribelle, come ribelle era Alessandro, perché Manzoni non si riconosceva, come sostiene qualche critico, in
Don Abbondio bensì nell’Innominato e del giovane Renzo.
Gli scapigliati si posero, invece, contro questo modo di vedere la rassegnazione nella storia e anche contro il modo di intendere la letteratura del Manzoni. Il poeta scapigliato Giulio Pinchetti, uno dei poeti suicidi di questa generazione di poeti suicidi, scrive: «Spossato sui magnanimi/ calvari della mente/ volto lo sguardo ai roridi/ prismi del sol nascente/ benedicendo al secolo/
che non lo intenderà/ giace il poeta». In questi versi ci sono due citazioni del
Manzoni addirittura clamorose al di là della struttura, che lascia trasparire lo
stesso ritmo delle Odi e specialmente del Cinque Maggio. Infatti il verso «I roridi prismi del sol nascente» rimanda al coro per la morte di Ermengarda, c’è
vincenzo guarracino
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lo stesso aggettivo, posto nella stessa posizione del verso. Ciò è sintomatico,
gli scapigliati contestavano, ma non sapevano fare cose diverse e forse questo
senso di limite, porta il giovane Giulio Pinchetti a togliersi la vita. Quello che
è stato rimproverato alla scapigliatura è dunque il fatto che, pur volendosi
ispirare ad una letteratura d’oltralpe – in quegli anni, siamo alle soglie degli
anni sessanta, in Francia impera la musa di Baudelaire, c’è Flaubert con la
sua scandalosa Madame Bovary, comincia a sorgere all’orizzonte Rimbaud
e poi, soprattutto, Edgar Allan Poe che stava diventando autore di culto in
tutta quanta l’Europa – scrivono nella maniera più tradizionale. Non sanno
neppure distruggere la metrica, questa pastoia del verso nonostante che, Leopardi, avesse già apportato una rivoluzione sia dal punto di vista concettuale
che formale. Gli scapigliati risultano formalmente “devoti”, legati al passato,
devono crescere, stanno crescendo però è un sintomo importante. Nel 1861
questi intellettuali si pongono contro gli equilibri della cultura che vede nel
Manzoni il suo fulcro, il centro di tutta quanta una stagione culturale, prima
ancora che letteraria.
Che c’entra il Verga? Il Verga negli anni sessanta comincia a scrivere, sente
urgente questa necessità e comincia ad avvicinarsi, lentamente, ad una rappresentazione molto realistica. Aveva incominciato nel 1857 con un romanzo
intitolato Amore e Patria mai pubblicato in vita, ma già interessante che parlava della rivoluzione americana. Il Verga, in questo periodo, scriveva realmente male, non conosceva la grammatica, non conosceva bene la struttura
del periodo, ma questo suo scrivere, si trasforma presto, in una sua sigla stilistica. Se leggete I malavoglia trovate un italiano corrente; il secondo capitolo
di questo romanzo comincia parlando della notte in cui è avvenuta la morte
di Bastianazzo in mare, tutto il capitolo si srotola poi con le parole degli abitanti del paese che commentano quello che sta avvenendo, quello che sta per
avvenire o quello che è avvenuto, in una maniera disarticolata. È un supremo
esempio stilistico che sarà analizzato da grandi studiosi come Leo Spitzer
che, da grande esperto, afferma che questo capitolo è un esempio mirabile di
stile che nessuno in Italia era in grado di fare e che in Europa si manifesterà
cinquant’anni dopo con James Joyce che riprenderà tale stile utilizzando il
discorso continuo chiamato “flusso di coscienza” (stream of consciousness).
Dopo Verga bisognerà aspettare la fine del secolo per trovare in Italia uno
scrittore che utilizzi uno stile simile come Giampiero Lucini che è considerato un fuoriclasse, cioè uno che non si può inserire in nessuna categoria ben
precisa. Verga scriveva male e i critici dell’epoca lo sottolineavano, I Malavoglia saranno un “fiasco totale”, lo scrive lo stesso Manzoni; i letterati e i critici
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Scrittori e artisti rispetto al tema dell’Unità d’Italia
lo stroncano mentre recensiscono positivamente Storia di una capinera che
è la storia di una monacazione forzata, di una fanciulla che, costretta a farsi
monaca, si strugge e muore perché non riesce ad accettare quella situazione.
Tale romanzo fu pubblicato a puntate, su una rivista femminile di ricamo e
cucito con grandissimo successo nel 1869, ma quando Verga lo pubblica in
volume e lo manda a Manzoni, il vecchio cattolico Manzoni, non solo non lo
ringrazia, ma nemmeno gli risponde. Questo per dire che Verga non era stato
gratificato dalla critica.
Lo scrittore progressivamente si va convertendo e non poteva essere diversamente. Quando nel 1894 gli chiederanno come si schierava politicamente,
Verga risponderà testualmente: «Io che sono tenuto per rivoluzionario in arte,
sono codino in politica», perché data la sua estrazione sociale non può che essere un conservatore. Usa l’espressione codino che si usava per definire non
tanto i conservatori, ma quelli più retrivi. Data la sua estrazione sociale, non
poteva essere a favore della distribuzione delle terre, non poteva essere socialista anche perché i socialisti, allora, avevano avuto un’evoluzione negativa.
Pensiamo a Francesco Crispi che da giovane è l’organizzatore della spedizione dei mille però, col tempo, compie una parabola politica inquietante in
quanto arriva, negli anni novanta, ad essere un affarista e un approfittatore.
Naufraga politicamente, sommerso dagli scandali, reprime i fasci siciliani, lui
che aveva promosso la liberazione della Sicilia.
Un altro fervente scapigliato Carlo Pisani Dossi, di cui si ricorda il centenario della morte, era diventato ricchissimo ed aveva fatto carriera politica,
lui che era nato come contestatore della politica diventerà prima segretario
di Depretis, poi sarà molto vicino a Crispi infine farà il diplomatico in varie
parti del mondo. Dossi è uno scrittore interessante da capire, da leggere, anche se molto poco coerente; si può parlare, a tal riguardo, di coerenza dell’incoerenza. Mentre per Verga l’onestà intellettuale è rappresentare la realtà
così com’è, anche se, la storia insegna, che i vinti di oggi saranno i vincitori
di domani. Nella premessa ai Malavoglia, Verga espone il progetto del “ciclo
dei vinti”: la storia è come un grande fiume che tutto travolge e l’onestà dello
scrittore consiste nel mettersi sulla riva del fiume non con i vincitori, rappresentare obiettivamente quel segmento di realtà, quel momento, quel quadro
storico di cui poi gli altri prenderanno atto e si regoleranno di conseguenza.
La novella Libertà richiama dunque un episodio storico. Nella raccolta Novelle Rusticane è presente la novella intitolata La Roba che contesta tutto
quello che era appena avvenuto in Italia nel 1860. Verga conosceva e condannava gli orrori che erano stati praticati dalla repressione guidata da Nino
vincenzo guarracino
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Bixio. Ma ci sono ragioni politiche e diplomatiche che guidano la decisione
di Garibaldi di reprimere le insurrezioni: Bronte era un feudo inglese. Nella
Sicilia del tempo vi erano dei territori inglesi, come la stessa Marsala, di cui
gli inglesi avevano favorito lo sviluppo perché da lì esportavano il vino, in
quanto lì possedevano i vigneti. Bronte, dall’inizio dell’ottocento, apparteneva agli inglesi. Si è detto, parlando della spedizione dei mille, che Garibaldi
non avrebbe mai avuto successo se non ci fosse stata dietro la massoneria e
l’Inghilterra. Erano stati gli inglesi che avevano sostenuto l’impresa di Garibaldi che era un semplice ”avventuriero” in America, infatti, aveva combattuto a favore dei latifondisti, poi, in Italia, si era trasformato – ciò non emerge
dai libri di storia, ma gli storici lo hanno evidenziato. La realtà vera è questa:
i garibaldini vanno a reprimere le insurrezioni di Bronte perché non volevano inimicarsi gli inglesi. Se avesse avuto successo la ribellione di Bronte, gli
inglesi avrebbero tolto il loro appoggio e, con esso, bloccato i rifornimenti.
Tante cose non sono chiare nella vicenda di Garibaldi.
Da citare un altro eroe garibaldino, generoso, impulsivo: lo scrittore Ippolito Nievo. In questi anni accade un fatto strano, che è stato considerato il
primo mistero dell’Italia unita: cola a picco la nave con cui Nievo trasportava
il tesoro dei Borbone da Palermo a Napoli.
A Bronte si verifica, dunque, questa sollevazione popolare che Nino Bixio
reprime con inaudita crudeltà. Il popolo si ribella al grido di: «viva le coppole
e abbasso i cappelli» cioè viva la gente umile, il sottoproletariato e abbasso i
nobili, i benestanti. Coppola e cappello erano due simboli che rappresentavano la stratificazione sociale dell’epoca.
È straziante la conclusione della novella Libertà, perché colui che viene
portato nella gabbia, dinanzi al tribunale, chiede: «ma non ci avevano detto
che ci davano la libertà»? Purtroppo questa era la libertà. Era costellata di
misteri, la libertà.
Un altro grande mistero di cui troviamo poi eco in una lettera di Antonio
Ranieri è la morte improvvisa ed inaspettata di Cavour, nel giugno del 1861
appena conclusi i festeggiamenti per l’unificazione. Come è morto, perché è
morto, chi lo ha ucciso? È un grande mistero. Saranno stati i cattolici o gli
austriaci? Cavour pensava che l’Unità d’Italia dovesse proseguire, mancavano
ancora Roma e il Veneto. Bisognava aggredire ancora l’Austria e quindi già si
pensava alla terza guerra di indipendenza e Verga, nel sesto capitolo dei Malavoglia, ricorda cosa era stata questa guerra. L’Italia aveva la grande abilità di
perdere le guerre, ma di vincere poi le paci ed anche in questo caso, nei trattati
che seguirono, gli italiani riuscirono ad ottenere delle condizioni favorevoli.
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Scrittori e artisti rispetto al tema dell’Unità d’Italia
Gli artisti e i pittori di fronte alla società che cambia
Tra gli scapigliati c’erano molti pittori. Hayez, non è propriamente uno
scapigliato ma interpreta ed esalta, tra il celebrativo e il romantico, nel suo
celeberrimo quadro Il bacio, i valori dell’italianità, della virilità, della forza e
al tempo stesso il valore del sentimento. Fra gli scapigliati ci sono pittore di
grande pregio come il Cremona e lo stesso Emilio Praga. Poi c’è una stagione
molto interessante perché tenuta a battesimo da un campano, un napoletano, Vittorio Imbriani, considerato un scrittore maledetto che muore molto
giovane e che attacca ferocemente tutti, anche Carducci e che per questo
non farà carriera universitaria. Carducci invece si era prostrato davanti alla
monarchia - lui che era stato un contestatore - per avere un potere quasi illimitato nella scuola italiana. Quindi la coerenza gli mancava.
Imbriani aveva tenuto a battesimo un movimento che sarà molto importante nella storia dell’arte italiana: quello dei Macchiaioli che, a detta dei maggiori critici, rappresenta un antecedente rispetto al Divisionismo o al Puntinismo. Nel 1869 Vittorio Imbriani, in una sua rassegna d’arte tenuta a Napoli,
usa per la prima volta il termine “macchia”.
La pittura dei macchiaioli rientra nel gran fenomeno del realismo pittorico
europeo che corrisponde perfettamente al bisogno di riscoperta della realtà;
questo concetto è insieme “ fedeltà a quello che si vede” ma anche attenzione
“al modo in cui si vede”. I macchiaioli sostenevano infatti che, quando vediamo
un colore, non vediamo delle masse uniformi, ma un insieme di punti colorati.
Il realismo europeo partorisce, nella letteratura, il realismo francese, il verismo italiano e tutto ciò che di analogo si svilupperà in Europa. I macchiaioli
italiani hanno avuto il merito di portare all’attenzione non la celebrazione della
società altolocata, ma il popolo, la povera gente. C’era anche qualche pittore,
come il Bondini, che rappresentava il bel mondo, la nobiltà e dipingeva ritratti,
ma la maggior parte dei macchiaioli rappresentavano i campi, gli umili. Viene
in mente un quadro di Courbet, Lo spaccapietre del 1856, che è considerato
un quadro rivoluzionario perché, diversamente dall’arte celebrativa, esso rappresenta la durezza del lavoro. I macchiaioli faranno più o meno la stessa cosa,
rappresenteranno la vita nei campi, la realtà della gente umile. Questo era il
tema del realismo, il verismo lo recepisce sia con Verga sia con altri scrittori
come il toscano Renato Fucini. Essi rappresentano la quotidianità.
vincenzo guarracino
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didattica e laboratori
A cura di Annamaria Galiero
la rivolta del cilento
Interventi di
Adriana Battagliese (IVD Ling.)
Chiara Cammardella (IVD Ling.)
Maria Francesca Carbone (IVD Ling.)
Carmen Carrieri (IVD Ling.)
Federica Caruccio (IVD Ling.)
Anna Maria Cetrangolo (IVD Ling.)
Cristina Filpi (IVD Ling.)
Giuseppina Garofalo (IVD Ling.)
Virginia Grafito (IVD Ling.)
Anna Infante (IVD Ling.)
Michela Leo (IVD Ling.)
Francesca Merola (IVD Ling.)
Marilena Orrico (IVD Ling.)
Anna Pandolfi (IVD Ling.)
Rosa Rizzo (IVD Ling.)
Serena Santoro (IVD Ling.)
Veronica Silvestro (IVD Ling.)
17 MARZO 2011: in una ricorrenza così importante per la patria non possiamo non soffermarci su quella che è stata la nostra storia, la storia del Cilento. Luoghi, vicende, nomi incisi sul monumento di una piazza che ogni
giorno percorriamo distrattamente: strade segnate dalla memoria e dal sangue dei nostri eroi. Se oggi l’Italia gode di quell’unità tanto desiderata lo si
deve anche a loro.
Noi alunne della IV D studiamo quest’anno il Risorgimento attraverso il
programma di storia e abbiamo deciso di soffermarci sugli avvenimenti del
Cilento perché la nostra Terra é stata teatro di lotte, vittorie e sconfitte.
Dal mare alle montagne, dai fiumi alle colline una voce si è estesa e ha gridato con forza: Rivoluzione.
Per iniziare ad esaminare i moti insurrezionali ci è parso opportuno soffermarci brevemente sulla Restaurazione. Essa, sul piano storico-politico, fu
il processo di ristabilimento del potere dei sovrani assoluti in Europa, ossia
dell’Ancien-règime, in seguito alla sconfitta di Napoleone. In senso più ampio, per Restaurazione, si intende il movimento reazionario teso a contrastare
le idee della rivoluzione francese, diffuse in tutta Europa dagli eserciti napoleonici. Il periodo di appartenenza si fa coincidere in letteratura con il Romanticismo e in filosofia con l’idealismo. Ebbe inizio nel 1814 con il Congresso di
Vienna, dominato dalle potenze che hanno più attivamente contribuito alla
sconfitta della Francia: Austria, Prussia, Russia e Inghilterra. Si concluse con
i moti del 1830-31. Le classi dirigenti, memori della Rivoluzione francese,
temevano che nuovi sconvolgimenti venissero a turbare l’ordine che si voleva
ristabilire. Il Congresso, perciò, si ispirò innanzi tutto al principio di legittimità, e mirò a restaurare in ogni paese le autorità legittime, ossia quelle che,
avendo esercitato il potere prima del 1789, erano consacrate dalla tradizione.
Fra i popoli che soffrirono di più della sistemazione diplomatica decisa
a cura di annamaria galiero
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dal Congresso vi fu quello italiano. Nell’Italia del 1815 il Regno Lombardo
-Veneto univa sotto il dominio asburgico il Ducato di Milano e la Repubblica
di Venezia. Il Granducato di Toscana era tornato invece a Ferdinando III di
Lorena. A Maria Luisa era stato assegnato il Ducato di Parma e Piacenza,
mentre il Ducato di Modena e Reggio era andato a Francesco IV d’AsburgoEste, con l’annessione del Ducato di Lucca e del Ducato di Massa. Lo Stato
Pontificio venne reintegrato nei suoi vecchi confini. L’unico tra gli Stati italiani a mantenere un’economia costante era il Regno di Sardegna. Napoli e
Sicilia, ormai unificati nel Regno delle due Sicilie, furono restituiti al vecchio
Ferdinando IV, creando grandi frustrazioni tra gli intellettuali napoletani,
che videro chiudersi una stagione di fecondi rapporti fra cultura e potere.
A farsi interprete di questa frustrazione fu Gioacchino Murat, che tentò la
riconquista del Regno, ma fu catturato e fucilato a Pizzo Calabro nel 1815.
La Restaurazione, il Congresso di Vienna privarono gli intellettuali della
libertà di parola e azione, e ciò provocò la costituzione di numerose strutture
rivoluzionarie in tutta Europa, ovvero le società segrete. Tra esse, di particolare rilevanza per le vicende cilentane fu quella dei Filadelfi.
Nell’anno 1820, tutti gli appartenenti alla Carboneria si svelarono in occasione della marcia su Napoli del 9 luglio. La polizia borbonica li schedò
uno per uno; gli appartenenti alla setta vennero riconosciuti e l’associazione
si smembrò. In seguito ci furono dei tentativi di costituzioni di altre sette segrete. Tutte furono scoperte e represse, mentre ebbe più vita proprio quella
dei “Filadelfi”.
Non si trattava di una nuova setta, ma della ripresa di un antico sodalizio,
di iniziale ispirazione religiosa, nato in Inghilterra. Tale setta fece proseliti anche in Francia, specie in ambienti militari, e di qui si estese, agli inizi dell’Ottocento, nell’Italia Meridionale, soprattutto nel leccese. Ci volle poco perché
dalla Puglia la setta attecchisse anche in Campania, dove il primo adepto fu
Antonio Migliorati, un giovane industriale napoletano che accarezzava idee
costituzionali. In poco tempo crebbe nella città borbonica: questa aspirava
all’approvazione della repubblica o di un governo costituzionale, all’abolizione dei tiranni per difendere il nuovo regime. Gli adepti combatterono
per il diritto civile e la giustizia, ed erano guidati da uno spirito di vendetta,
gloria e coraggio. Come tutte le sette, anche quella dei Filadelfi aveva un
suo cerimoniale: la parola d’ordine era “Eleusin” ed esistevano dei segnali
segreti con i quali gli adepti comunicavano. Uno dei covi più importanti per
i Filadelfi cilentani era la casa del canonico De Luca, dove egli viveva con la
figlia e l’amante. Il canonico era esiliato a Napoli e veniva tenuto sotto sorve56
la rivolta del cilento
glianza dalla polizia. L’abitazione napoletana, però, nonostante le difficoltà,
divenne covo per tutti i membri cilentani. Per non destare sospetti, a volte gli
incontri avvenivano in altri luoghi come il “Caffè del Greco”. Faceva parte
della compagnia anche Antonio Galotti, persona non colta ma di notevole
intelligenza, che manteneva viva la setta di Salerno, dove tenevano nascoste
le armi, riferiva sotto falso nome al canonico ciò che accadeva a Salerno e ne
riceveva ordini e istruzioni.
Tra i Filadelfi cilentani che seguivano De Luca vi erano: Diego, Donato e
Emilio de Mattia (Vallo della Lucania); Giovanni Garzo (Laurito); Giustino
de Caro (Rocca Gloriosa); Gennaro Greco e Felice de Martino (Camerota);
Angelo Lerro (Licusati); Teodosio de Dominicis (Pisciotta); Domenico Pavone (Torchiara); Luigi Magnoni, Francesco e Vincenzo Verdoliva (Rutino).
I preparativi per la rivolta fervevano in tutta la Campania: il canonico De
Luca e gli altri Filadelfi, appoggiati da potenze straniere, preparavano il progetto. La posizione geografica, unita al carattere riservato e scontroso degli
abitanti dovuto al senso di abbandono, che da secoli provavano un senso
di vendetta verso la monarchia assoluta, fecero del Cilento luogo ideale per
complotti e preparativi di rivolta.
I cilentani avevano osservato le vicende legate ai Borbone, coinvolgendo nel movimento insurrezionale anche parte del loro esercito. Le speranze dei patrioti facevano capo al Parlamento Nazionale e alla Costituzione,
che avrebbero dovuto garantire diritti alle classi meno abbienti. L’intento di
rivendicare le terre demaniali ingiustamente assegnate, concentrò la decisa
azione dei contadini nel distretto di Vallo: provenienti da Cannalonga, Novi,
Pellare, Massascusa, Ceraso, Massa, Moio, Acquavella, Salento e Rofrano,
con l’occupazione di Vallo richiamarono l’attenzione della autorità. L’insurrezione si estese nelle zone del salernitano e nella città stessa, non senza condanne e arresti. A seguito dei moti, il re concesse la Costituzione. Il governo
costituzionale non durò a lungo a causa dello spergiuro del re Ferdinando I
e della sua successiva sconfitta. Intanto la situazione nel Regno, specialmente
nel Cilento, non fece che peggiorare, sia dal punto di vista sociale che economico. Si imposero nuovi tributi, nuove tasse che aumentarono la miseria
della classi più povere, colpite ulteriormente dal divieto di estrarre il sale
dall’acqua di mare.
Alla difficile situazione economica, si unirono la prepotenza con la quale le
autorità amministravano i loro domini e lo sfruttamento esercitato sui braccianti e contadini.
I nuovi patti tra Inghilterra, Francia e Russia incoraggiarono i progetti rivo
a cura di annamaria galiero
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luzionari dei Filadelfi. Tra i ribelli si creò un’atmosfera quasi ottimistica, ma
questo ottimismo non aveva fatto i conti con l’efficienza della polizia borbonica. Infatti il Ministro borbonico Intonti, dichiarò di aver scoperto il progetto della rivolta verso la fine del 1827. Già nell’inverno del 1828 il Ministro
studiò un piano rivoluzionario per sbarazzarsi dei Filadelfi. I moti del ‘28
furono considerati un’operazione di polizia borbonica. Infatti il re diede il
permesso al canonico De Luca, esule a Napoli, di recarsi a Celle pur sapendo che avrebbe diretto la Rivolta, sostenuto da elementi della Carboneria e
bande di briganti.
A causa della confessione di un delatore, le autorità borboniche furono
informate, i congiurati arrestati e la rivolta sedata.
Nonostante il deludente inizio, i ribelli vennero accolti con entusiasmo nelle varie località del Cilento. Il 1° luglio gli insorti, informati che il maresciallo
Del Carretto marciava contro di loro a capo di 8000 soldati, battevano in
ritirata per l’impossibilità di organizzare una difesa. Nonostante la ritirata dei
rivoltosi, Del Carretto infierì aspramente attraverso la distruzione di alcune
zone (Bosco) e la condanna a morte di molti insorti. Lo stesso canonico De
Luca, pur essendosi costituito, fu scomunicato e poi fucilato.
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la rivolta del cilento
A cura di Rosetta Nicoliello
Ricordando l’Unità d’Italia…
150 anni di poesia
Interventi di
Battagliese Arianna Maria(VDLing.)
Boi Valentina(VD Ling.)
Cafaro Carmelina(VD Ling.)
De Rosa Daisy(VD Ling.)
Detta Federica(VD Ling.)
Di Fiore Giulio(VD Ling.)
Esposito Rosy(VD Ling.)
Lombardi Roberta(VD Ling.)
Lombardo Angelica(VD Ling.)
Luongo Ilaria(VD Ling.),
Palladino Marianna(VD Ling.)
Rizzo Mariagiovanna(VD Ling.)
Saturno Samantha(VD Ling.)
Sica Antonella(VD Ling.)
Teti Deborah(VD Ling.)
Zambrano Dante(VD Ling.)
17 Marzo 1861. L’Italia nasce come entità politica. È un’Italia giovane, nata
grazie a giovani come noi, illuminati da forti ideali e da sani principi, guidati
da un liberale, un eroe in camicia rossa e un fervente repubblicano. Da quel
giorno sono trascorsi 150 anni, si sono susseguite quattro generazioni, tutte
spettatrici di dolori, sconfitte, rabbia, dittatura, guerre ma anche, e soprattutto, di gioie, vittorie e felicità. La ricchezza di sentimenti, l’umanità, la generosità e la sensibilità sono impareggiabile patrimonio e così espressione delle
più significative figure letterarie italiane.
Vogliamo, quindi, presentare una breve rassegna di poeti che hanno contribuito ad unire l’Italia risvegliando la coscienza dell’Identità Nazionale.
Virgilio, Eneide
Già sotto i raggi il mare arrossava, e dall’alto del cielo
l’aurora nel roseo carro splendeva dorata,
quando i venti posarono, all’improvviso ogni alito
cadde: Nell’immobile piano si affaticano i remi.
E qui Enea grande, dal mare un bosco divino
avvista. Nel mezzo il Tevere con l’amena corrente,
a mulinelli rapidi, biondo di molta arena, prorompe
in mare. E sopra e all’intorno, variopinti gli uccelli
avvezzi alle rive e al greto dei fiumi col canto
accarezzavano l’aria e per il bosco volavano.
Piegare il cammino, avvolgere a terra le prore, questo comanda
ai compagni, e nell’ombroso fiume entra lieto.
(VII,25-36, trad. Calzecchi Onesti)
a cura di rosetta nicoliello
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Publio Virgilio Marone nel VII libro dell’Eneide celebra l’Italia, la bellezza
dei suoi paesaggi e i suoi uccelli variopinti.
La poesia vede protagonista Enea, eroe troiano sopravvissuto alla distruzione della sua città, il quale dopo infinite peripezie sbarca sulle coste del Lazio.
Rileggere oggi la descrizione dello sbarco di Enea, evocato dal grande poeta latino, fa pensare all’Art.9 della Costituzione: La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.
La poesia rappresenta, quindi, uno spunto di riflessione sull’importanza di
salvaguardare il nostro bagaglio culturale e paesaggistico.
Dante Alighieri, Divina Commedia, Purgatorio, VI, 76 ss.
[…] Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave senza nocchiero
in gran tempesta,
non donna di province
ma bordello!
[…] Cerca,misera,intorno dalle prode
le tue marine,
e poi ti guarda in seno,
s’alcuna parte in te di pace gode.
Dante, nel sesto canto del Purgatorio, scaglia una violenta invettiva contro
l’Italia diventata serva perché priva di una guida politica.
Dante paragona l’Italia ad una nave senza nocchiero in gran tempesta i cui
cittadini, dimentichi di ogni virtù e di ogni concordia, si combattono tra di
loro. Il sommo poeta auspica la pace e l’unione.
Francesco Petrarca, Ad Italiam
Salve, terra santissima a Dio cara,
porto sicuro per l ’oneste genti
terra tremenda contro la superbia
illustre molto più d’ogn’altro luogo
tra tutte fertilissima e più bella
avvolta da due mari e dal gran monte,
d’armi e di leggi sacra e veneranda
dorata terra di Muse e d’eroi
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Ricordando l’Unità d’Italia… 150 anni di poesia
a ognun maestra di natura e d’arti.
A te ritorno dopo lungo andare
desideroso di più mai lasciarti.
Tu sarai grato asilo alla stanchezza,
custode eterna alle mie fredde spoglie.
Lieto te, Italia, dal frondoso colle
Gebenne ammiro, spoglio d’ogni nube;
uno spirto soave mi ferisce
e un’aura sottilissima m’accoglie.
Ti riconosco o patria e ti saluto
felice: salve, terra mia gloriosa,
madre, di tutte la più bella, salve!
(Epistole metriche, III, 24, trad. G. Conti)
Francesco Petrarca, in questa canzone, esprime il suo amore verso l’Italia.
Egli intuì che l’Italia era una Nazione diversa e distinta dalle altre, perché diretta discendente di Roma, e ne auspicò l’autonomia e l’indipendenza. Il poeta, non essendo legato a nessuna particolare città italiana, per le vicende della
sua vita errabonda, in politica superò ogni idea municipalistica e riversò il suo
amore per tutta l’Italia, alimentando il pensiero degli uomini del Risorgimento.
Carlo Maria Maggi, Sonetto
Giace l’Italia addormentata in questa
sorda bonaccia: e intorno il Ciel s’oscura;
e pur ella si sta cheta e sicura,
e, per molto che tuoni, uom non si desta.
Se pur taluno il paliscalmo appresta,
pensa a se stesso, e del vicin non cura:
e tal sì lieto è dell’altrui sventura,
che non vede in altrui la sua tempesta.
Ma che? Quest’altre tavole minute,
rotta l’antenna, e poi smarrito il Polo,
vedrem tutte ad un tempo andar perdute.
Italia, Italia mia, quest’è il mio duolo:
allor siam giunti a disperar salute,
quando spera ciascun di campar solo.
a cura di rosetta nicoliello
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Carlo Maria Maggi, (Milano, 1630-1699) poeta milanese della seconda
metà del ‘600, incita in questo sonetto, l’Italia a risvegliarsi e combattere i
propri egoismi e campanilismi.
Vincenzo da Felicaia, Sonetto
Italia, Italia, o tu cui feo la sorte
Dono infelice di bellezza, ond’hai
Funesta dote d’infiniti guai
Che in fronte scritti per gran doglia porte;
Deh fossi tu men bella, o almen più forte,
Onde assai più ti paventasse, o assai
T’amasse men, chi del tuo bello ai rai
Par che ti strugga , e pur ti sfida a morte!
Ch’or giù dall’Alpi non vedrei torrenti
Scender d’armati, e del tuo sangue tinta
Bever l’onda del Pò gallici armenti;
Né te vedrei, del non tuo ferro cinta,
Pugnar col braccio di straniere genti,
Per servir sempre o vincitrice o vinta
Vincenzo da Felicaia, scrittore fiorentino del ’600, si rifiutò, a causa della
morte prematura della moglie, di occuparsi di poesie d’amore, prediligendo
così il tema Nazionale. La sua massima espressione di sentimento patriottico
è raggiunta dal poeta in questo sonetto inneggiante all’unità d’Italia.
Eustachio Manfredi, Sonetto per la nascita del principe di Piemonte
Vidi l’Italia col crin sparso, incolto,
Colà, dove la Dora un po’ declina,
Che sedea mesta, e avea ne gli occhi accolta
Quasi un’orror di servitù vicina.
Né l’altera piagnea; serbava un volto
Di dolente bensì, ma di reina;
Tal forse apparve allor, che il piè disciolto
Ai ceppi offrì la libertà latina.
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Ricordando l’Unità d’Italia… 150 anni di poesia
Eustachio Manfredi (Bologna, 20 settembre 1674 - 154 febbraio 1739) è
stato un matematico. astronomo e poeta italiano. Fu un poeta molto rinomato ai suoi tempi e fece parte dell’Accademia dell’Arcadia. Il sonetto è dedicato alla nascita (1699) del principe di Piemonte, Vittorio Amedeo Filippo,
figlio del duca Vittorio Amedeo II.
Giacomo Leopardi, All’Italia
O patria mia, vedo le mura e gli archi
E le colonne e i simulacri e l’erme
Torri degli avi nostri,
Ma la gloria non vedo,
Non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi
I nostri padri antichi. Or fatta inerme,
Nuda la fronte e nudo il petto mostri.
Oimè quante ferite,
Che lividor, che sangue! o qual ti veggio,
Formosissima donna! Io chiedo al cielo
E al mondo: dite dite;
Chi la ridusse a tale? E questo è peggio,
Che di catene ha carche ambe le braccia;
Sì che sparte le chiome e senza velo
Siede in terra negletta e sconsolata,
Nascondendo la faccia
Tra le ginocchia, e piange.
Piangi, che ben hai donde, Italia mia,
Le genti a vincer nata
E nella fausta sorte e nella ria.[…]
Giacomo Leopardi, una delle più grandi figure della letteratura mondiale,
in questa canzone si rivolge all’Italia, forse gloriosa al tempo degli avi ed oggi
schiava ed inerme (vv 1-20). È un violento richiamo ai valori della patria, della necessità di liberarsi dalla dominazione straniera e a fatti storici realmente
accaduti (in particolar modo alle guerre che hanno permesso ai popoli di
ottenere la loro libertà).
a cura di rosetta nicoliello
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Giuseppe Giusti, Lo stivale, da Scherzi e Satire.
Io non son della solita vacchetta,
né sono uno stival da contadino;
e se pajo tagliato coll’accetta,
chi lavorò non era un ciabattino:
mi fece a doppie suola e alla scudiera,
e per servir da bosco e da riviera.
Dalla coscia giù giù sino al tallone
sempre all’umido sto senza marcire;
son buono a caccia e per menar di sprone,
e molti ciuchi ve lo posson dire:
tacconato di solida impuntura,
ho l’orlo in cima, e in mezzo la costura.
Ma l’infilarmi poi non è sì facile,
né portar mi potrebbe ogni arfasatto;
anzi affatico e stroppio un piede gracile,
e alla gamba dei più son disadatto;
portarmi molto non potè nessuno,
m’hanno sempre portato a un po’ per uno.
In questa poesia, scritta da Giuseppe Giusti, poeta pistoiano del XIX secolo, la fuga da una realtà ostile si traduce in una ricerca delle antiche origini
perdute, culturali, storiche e territoriali. Come si evince dalla lettura della poesia di riferimento: la patria esisteva fin da quando si era formata la sua stessa
connotazione territoriale. Giusti sentiva il compito di mettersi alla ricerca
delle antiche radici della Nazione italiana, facendole rivivere nella mente e
nel cuore dei giovani patrioti, in attesa che un uomo purché sia riuscisse a
risollevare lo Stivale dal proprio ingrato destino.
Alessandro Manzoni, Il Conte di Carmagnola (atto II, scena VI, Coro)
S’ode a destra uno squillo di tromba;
a sinistra risponde uno squillo:
d’ambo i lati calpesto rimbomba
da cavalli e da fanti il terren.
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Ricordando l’Unità d’Italia… 150 anni di poesia
Quinci spunta per l’aria un vessillo;
quindi un altro s’avanza spiegato:
ecco appare un drappello schierato;
ecco un altro che incontro gli vien.
Già di mezzo sparito è il terreno;
già le spade rispingon le spade;
l’un dell’altro le immerge nel seno;
gronda il sangue; raddoppia il ferir.
- Chi son essi? Alle belle contrade
qual ne venne straniero a far guerra?
Qual è quei che ha giurato la terra
dove nacque far salva, o morir?
- D’una terra son tutti: un linguaggio
parlan tutti: fratelli li dice
lo straniero: il comune lignaggio
a ognun d’essi dal volto traspar.
Questa terra fu a tutti nudrice,
questa terra di sangue ora intrisa,
che natura dall’altre ha divisa,
e ricinta con l’alpe e col mar.
Alessandro Manzoni, nel Coro del Carmagnola, esprime la sua indignazione
per una delle tante guerre che sullo scorcio del Medioevo, gli italiani combattono tra loro: a Maclodio ( 1427) erano di fronte Milanesi e Veneziani.
Si trattava di guerre catastrofiche perché indebolivano l’Italia e l’aprivano
agli stranieri. L’ispirazione patriottica esprime la sua indignazione contro le
guerre, intendendo dare un severo avvertimento all’Italia del suo tempo ed
esortarla ad unirsi e a collaborare fraternamente per la rinascita della patria.
Giuseppe Ungaretti, Italia, da L’Allegria
Sono un poeta
un grido unanime
sono un grumo di sogni.
Sono un frutto
d’innumerevoli contrasti d’innesti
maturato in una serra.
Mai il tuo popolo è portato
a cura di rosetta nicoliello
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alla stessa terra
che mi porta
Italia
E in questa uniforme
di tuo soldato
mi riposo
come fosse la culla
di mio padre.
Giuseppe Ungaretti, poeta e soldato nel primo conflitto mondiale, che nutre sentimenti, gioie, dolori, momenti di tristezza, è anche lui interprete del
sentimento collettivo che dimostra la volontà di fare poesia incitando alla
riflessione. Si definisce, infatti, nei primi versi di questa lirica così: Sono un
poeta / un grido unanime / sono un grumo di sogni e riferendosi all’Italia conclude dicendo: E in questa uniforme / di tuo soldato / mi riposo / come fosse
la culla / di mio padre.
Di fronte a questo breve quadro poetico che abbiamo presentato, vogliamo
confidarvi che siamo orgogliosi di essere italiani e che non abbiamo mai sognato né un’altra terra, né un altro cielo, né un altro mare, ricordando a gran
voce le parole di De Gregori: VIVA L’ITALIA, L’ITALIA CHE RESISTE.
68
Ricordando l’Unità d’Italia… 150 anni di poesia
A cura di Fiorella Cennamo
Il Risorgimento in poco più di mille parole
Interventi di
Bencivenga Elvira (IVE Ling.)
Cavaliere Nadia(IVE Ling.)
D’Alessio Nunzia(IVE Ling.)
D’Arienzo Giuseppina(IVE Ling.)
De Feo Andrea(IVE Ling.)
Detta Carmela(IVE Ling.)
Di Domenico Alessandra(IVE Ling.)
Di Gregorio Ilaria(IVE Ling.)
Di Rienzo Caterina(IVE Ling.)
Dib Michaela(IVE Ling.)
Greco Rosa(IVE Ling.)
Grompone Ilaria(IVE Ling.)
Grompone Regina(IVE Ling.)
La Greca Martina(IVE Ling.)
Laabis Islam(IVE Ling.)
Lamanna Sara(IVE Ling.)
Leone Francesca(IVE Ling.)
Niglio Samantha(IVE Ling.)
Oricchio Francesco(IVE Ling.)
Parrillo Gerardo(IVE Ling.)
Libertà va cercando, ch’è sì cara,
come sa chi per lei vita rifiuta
Dante, Purgatorio, I,vv.70-72
Abbiamo deciso di realizzare un lavoro sull’ Unità d’Italia per riscoprire le
nostre origini, per comprendere qual è il sentimento che ci fa sentire e che ci
rende uniti, nonostante le nostre diversità. Sono passati 150 anni e oggi avvertiamo il bisogno di rivivere il passato, poiché è su di esso che si basa il nostro
presente. Solo con lo studio della storia, infatti, possiamo superare i pregiudizi
che offuscano la nostra mente e che ci rendono incapaci di essere solidali con il
nostro prossimo. La divisione non fa altro che provocare astio, odio che spesso
possono degenerare in violenza, perciò stiamo uniti, perché è solamente stando
uniti che siamo in grado di superare gli ostacoli, di contrastare le difficoltà che
ogni giorno si presentano nella nostra vita e nella nostra società.
Premessa
Bisogna risalire ai tempi dell’imperatore romano d’oriente Giustiniano per
trovare, in Italia, uno stato unitario; dopo l’invasione dei Longobardi del 568
si ruppe l’unità politica e ci furono 1300 anni di divisioni che generarono
nazioni diverse, ognuna delle quali ebbe storia, cultura, usi e costumi propri.
Per queste ragioni, a livello popolare, l’idea di uno Stato Italiano unitario
come Patria comune, era completamente assente, tanto che, per esempio,
la popolazione delle Due Sicilie chiamava forestieri gli altri abitanti d’Italia.
I piemontesi, invece, quando si spostavano dal loro stato, affermavano che
andavano in Italia; il popolo includeva nel suo concetto di patria lo stato italiano d’appartenenza e questo gli bastava. A metà 1800 ce ne erano ben sette
di cui solo tre erano pienamente indipendenti: Regno delle Due Sicilie, che
era il più esteso e il più ricco, il Regno di Sardegna e lo Stato della Chiesa;
gli altri quattro erano sotto il dominio dell’Austria: regno Lombardo Veneto;
a cura di fiorella cennamo
71
ducati di Parma e Modena; granducato di Toscana.
La lingua ufficiale di Stato era l’italiano in tutti i regni italiani, tranne che nel
Piemonte (dove era il francese), ma in realtà nella Penisola non esisteva una
lingua comune parlata; tutti si esprimevano nel proprio dialetto. In Piemonte
si parlava, si scriveva e si pensava in francese. I Savoia si erano italianizzati ma,
a corte, abbandonata ogni formalità, il re e i suoi ministri parlavano più volentieri il dialetto. Cavour e, dopo di lui la regina Margherita, moglie di Umberto
I, secondo re d’Italia, non si trovarono mai a completo agio con l’italiano.
Il 1800 fu il secolo in cui si sviluppò il principio di nazionalità che reclamava
l’autonomia amministrativa e culturale dei gruppi definiti come nazioni; nella
seconda parte del secolo, invece, qualsiasi gruppo che si autodefiniva nazione
si sentì giustificato a reclamare anche uno Stato indipendente politicamente. Questo principio di nazionalità era sentito, almeno nei primi due terzi
del secolo, solo dalle classi dominanti, culturali ed economiche, delle singole
nazioni nelle quali, al contrario, la maggioranza degli individui, da sempre,
si sentiva legata solo alla propria comunità di appartenenza dove era nata e
dove, nella massima parte dei casi, trascorreva quasi totalmente la propria
esistenza. Questi milioni di persone senza il senso di appartenenza a una nazionalità furono plasmate, dalle classi dominanti degli stati nazionali, a sentirsi parte degli stessi perché lo Stato, per mantenersi coeso, aveva bisogno
di creare un sentimento comune di nazione che diventò la nuova “religione
civica”: nacque, così, il patriottismo.
Sviluppo economico dell’Italia nella prima metà del 1800
Nella prima metà del 1800 l’Italia, dal punto di vista economico, presentava
situazioni non omogenee. La pianura padana era caratterizzata da un’economia in espansione: nel Lombardo-Veneto ed in Piemonte si assiste all’avvio
dell’industrializzazione cotoniera e serica nei domini asburgici e laniera nello
Stato Sabaudo. Per quanto riguarda l’agricoltura, in queste regioni si stava avviando una vera e propria rivoluzione agraria. Nell’Italia centro-meridionale
troviamo un’ampia gamma di gradi di sviluppo. In Toscana la diffusione dei
rapporti mezzadrili bloccava la possibilità di uno sviluppo dell’agricoltura in
senso capitalistico, mentre nel Lazio il latifondo cerealicolo, gestito in maniera
semifeudale, non era in grado di superare i limiti economici dell’agricoltura
estensiva. Gli stessi limiti gravavano su quasi tutta l’agricoltura del Meridione
che si presentava fortemente arretrato e sottosviluppato. Qui dominava una
72
Il Risorgimento in poco più di mille parole
proprietà assenteista e poco disposta ad impegnarsi per il suo sviluppo. Anche
i tentativi di industrializzazione furono assai modesti a causa della scarsità di
capitali disponibili e per l’assenza di una mentalità imprenditoriale nel ceto
medio. In Italia, la diffusione dell’industria tessile favoriva uno spostamento
di manodopera dal settore agricolo a quello industriale, manodopera soprattutto costituita da donne e fanciulli. Lavoravano dalle quindici alle sedici ore
d’estate e tredici ore d’inverno in locali spesso umidi e fatiscenti, perché assumere manodopera femminile e minorile significava pagare salari più bassi
rispetto alla manodopera maschile. Naturalmente è facile immaginare che lavoro minorile ed istruzione non procedessero di pari passo ed infatti i livelli di
analfabetismo toccarono punte tra il 50 ed il 90% della popolazione. Solo nel
Lombardo-Veneto austriaco vennero istituite scuole in ogni parrocchia, la cui
frequenza era gratuita ed obbligatoria per i fanciulli dai sei ai dodici anni. Nel
Mezzogiorno, invece, le famiglie, spinte dal bisogno, tendevano a sottovalutare
l’importanza dell’istruzione per i propri figli.
I moti degli anni venti
Durante la lotta politica della Restaurazione vi fu la contrapposizione dei
fautori dell’antico regime, i quali erano favorevoli ad un modello istituzionale simile a quello della Gran Bretagna, e i democratici, che, invece, erano
favorevoli alla Repubblica e ad un’assemblea eletta a suffragio universale.
Nonostante tutto, le due correnti si trovavano alleate nella comune lotta per
la Costituzione, per il parlamento elettivo e talvolta, per la rivendicazione
dell’indipendenza nazionale. Nella maggior parte dei paesi europei, questi
due partiti dovevano riunirsi in sette clandestine e cioè in società segrete. La
Carboneria era una di queste ed era ispirata al liberalismo moderato, mentre
altre società erano democratiche. Facevano parte di queste sette studenti,
intellettuali e militari. Come in ogni società segreta, chi si iscriveva alla carboneria non ne doveva conoscere tutte le finalità fin dal momento della sua
adesione. Gli adepti erano infatti inizialmente chiamati apprendisti e solo in
seguito diventavano maestri e dovevano impegnarsi a mantenere il più assoluto riserbo, pena la morte. Nel napoletano un’insurrezione costrinse il re a
concedere la Costituzione. I moti piemontesi, invece, furono bloccati dal re
Carlo Felice a causa del mancato appoggio del principe Carlo Alberto. Queste insurrezioni, comunque, non andarono a buon fine anche a causa delle
fratture interne e per il fatto che le masse non vi prendevano parte.
a cura di fiorella cennamo
73
I moti degli anni trenta
In Francia, Luigi XVIII aveva concesso una Carta Costituzionale. Alla sua
morte gli succedette il fratello Carlo X, il quale tentò subito di restaurare
l’assolutismo monarchico, restringendo le libertà costituzionali concesse
da Luigi XVIII e restituendo al clero i suoi privilegi. La borghesia liberale
mostrò il proprio dissenso alla politica di Carlo X attraverso le elezioni del
1827. Il sovrano sciolse l’assemblea parlamentare e la convocazione di nuove
elezioni, prima di tentare un vero e proprio colpo di Stato. La reazione del
popolo parigino fu immediata. La direzione dell’insurrezione passò presto
nelle mani dell’alta borghesia e dei liberali moderati che erano intimoriti dai
possibili sviluppi della rivolta. Per questa ragione offrirono la corona al cugino del re, Luigi Filippo D’Orleans. Il popolo, che chiedeva la cacciata dei
Borboni, doveva essere accontentato. La borghesia moderata aveva vinto. Il
Parlamento proclamò Luigi Filippo d’Orleans re dei Francesi secondo la volontà della nazione. Fu approvata una nuova costituzione, più liberale rispetto alla precedente, che assegnava al Parlamento maggiori poteri di controllo
sull’operato del governo.
Le rivoluzioni del 1848-49 in Europa e in Italia
Fra il 1845 e il 1848 l’Europa è travagliata da una gravissima crisi. In Francia la progressiva involuzione reazionaria del regime orleanista esasperava il
proletariato e la piccola e media borghesia, che da tempo chiedevano invano
provvedimenti sociali in favore dei certi meno abbienti. Pertanto, quando nel
febbraio del ’48 il governo vietò una manifestazione organizzata dagli oppositori, il popolo parigino insorse e costrinse il re ad abbandonare la Francia;
si formò quindi un governo provvisorio repubblicano. Nel marzo del 1848
il moto rivoluzionario si diffuse anche nel mondo germanico, nell’Impero
asburgico e in Italia, ma in questi paesi la rivoluzione non mirava, come in
Francia, a fondare un regime repubblicano democratico, ma semplicemente
ad ottenere libertà costituzionale, indipendenza e unità nazionale. In Italia, le
insurrezioni di Milano e di Venezia indussero Carlo Alberto e gli altri principi italiani a condurre contro l’Austria una guerra federale, che otterrà significativi successi; Pio IX si ritirò assai presto dalla guerra, seguito da Leopoldo
II di Toscana e di Ferdinando II di Napoli. Carlo Alberto, rimasto solo e pre74
Il Risorgimento in poco più di mille parole
occupato più di ampliare i propri domini che di battersi per l’indipendenza
degli italiani, condusse la guerra fiaccamente e, subita la dura sconfitta di Custoza, accettò un armistizio che lo impegnò a ritirarsi entro i confini del suo
regno. Riprese la guerra nel marzo 1849, ma venne immediatamente sconfitto
dagli austriaci a Novara e abdicò in favore del figlio Vittorio Emanuele II,
costretto a sottoscrivere l’armistizio di Vignale. L’iniziativa era intanto passata alle forze democratiche popolari, che si imposero a Firenze e a Roma
dopo che Leopoldo II e Pio IX si erano rifugiati entrambi a Gaeta, presso
Ferdinando II. Nel Lazio sorse così la Repubblica Romana che, guidata da
Mazzini e difesa dai volontari garibaldini, tentò di promuovere l’unificazione
repubblicana di tutta la penisola. Contro di essa intervennero però le truppe inviate da Luigi Napoleone, ansioso di accrescere il proprio prestigio in
Francia come restauratore del potere temporale del papa; pertanto, dopo
una lunga e valorosa resistenza, Roma fu costretta alla resa.
Giuseppe Mazzini, nato a Genova da una famiglia agiata, fin dalla giovinezza si avvicinò alle idee patriottiche e democratiche. Iscrittosi alla Carboneria, si impegnò da subito nell’attività clandestina di propaganda; le vicende
politiche lo portarono in Toscana e in altre regioni a cercare affiliati per il
movimento carbonaro. Fu arrestato, nel 1830, a Savona e, l’anno successivo,
condannato all’esilio. Fu l’inizio di un periodo difficile passato prevalentemente in Svizzera e in Francia sotto la continua minaccia delle polizie segrete
e dei decreti di espulsione dei governi locali. Ma questi ostacoli non gli impedirono di realizzare il suo progetto di costituzione di una organizzazione
rivoluzionaria repubblicana, tesa alla realizzazione dell’Unità d’Italia secondo gli schemi della concezione politica e storica mazziniana che nel fuoco di
quelle esperienze si era andata delineando. Nel 1831 fondò quindi la Giovine
Italia che presto agì in Liguria, in Campania e in Savoia preparando due insurrezioni, a Napoli e nella Savoia, che però fallirono portando all’arresto di
molti membri dell’organizzazione. A Londra fondò due giornali, creando in
seno alla comunità italiana un gruppo attivo della Giovine Italia, e durante il
soggiorno londinese Mazzini inviò in Italia alcuni documenti politici, sotto
forma di lettere che, per l’occasione e il contenuto, manifestarono appieno la
sua concezione politica e filosofica. Egli aveva saputo trovare delle indicazioni
di lotta per il popolo italiano che, sia pure con molti limiti tra cui il misticismo
e l’intellettualismo, convertirono numerosi giovani intellettuali alle sue idee.
Convinto repubblicano e acceso assertore della necessità di un’Italia unita e
indipendente, Mazzini indicava al popolo italiano gli antichi esempi dell’epoca dei liberi comuni e della Roma repubblicana come segni della missione che
a cura di fiorella cennamo
75
l’Italia, alla vigilia di quella che egli riteneva essere una nuova epoca per tutti i
Paesi, avrebbe dovuto svolgere nel realizzare una società dove l’uguaglianza e
la libertà sarebbero finalmente state realtà operanti. Per questo Mazzini scrisse a Pio IX e a re Carlo Alberto chiedendo, ingenuamente, il loro appoggio ai
moti popolari che, nel 1848, andavano sviluppandosi in tutta Italia. A queste
iniziative partecipò personalmente trovandosi a Milano poco dopo le cinque
giornate. Il suo ideale, però, non trovò una reazione soddisfacente né presso i
governanti piemontesi, né presso le larghe masse popolari cui i sogni intellettualistici e meramente filantropici del Mazzini risultavano fondamentalmente
estranei. L’ambiguità del suo pensiero sociale lo isolò sempre più e, sebbene
egli si impegnasse nei contatti con gli altri movimenti di liberazione nazionale
europei, si trovò costretto a passare da un paese all’altro, vivendo quasi in miseria. Dopo un ultimo fallito tentativo di sommossa in Sicilia venne arrestato e
condannato a molti anni di carcere da scontare a Gaeta. Fortunatamente una
amnistia lo liberò e poté riparare all’estero. Ritornò in Italia ormai stanco e
malato e morì nel 1872 mentre era ospite di una nobildonna, Giannetta Rosselli, che gli aveva offerto la sua protezione.
La seconda guerra d’indipendenza e la spedizione dei “mille”
In Italia il “dopo Quarantotto” causò l’inasprimento del dominio austriaco.
Il Lombardo-Veneto, sottoposto a occupazione militare e governato da Radetzky fino al 1857, fu punito con un tale aumento delle tasse che causò un arresto economico. Gli stati minori del Centro-Nord (Granducato di Toscana e
Ducati di Modena e Parma) tornarono all’assolutismo. Nello stato Pontificio
si ebbe una repressione durissima contro la popolazione e i cattolici liberali.
La repressione più feroce si ebbe però nel Regno delle Due Sicilie. Il regno di
Sardegna costituiva in quel periodo un’eccezione. Il re Vittorio Emanuele II
aveva mantenuto lo Statuto e questo permise una modesta politica riformista
che portò prosperità al Paese. Il merito della trasformazione va attribuito a
Cavour che, nel 1852, divenne presidente del Consiglio. Sostenitore della
guerra d’indipendenza e dell’Unità d’Italia, concluse un accordo parlamentare (noto come “connubio”) tra la corrente moderata e la sinistra democratica, dando vita ad un governo liberale che gli permise di appoggiare la causa
dell’indipendenza nazionale, di trasformare la monarchia sabauda in monarchia parlamentare e di aprire la strada allo sviluppo economico. Obiettivo
di Cavour era ottenere l’indipendenza e l’Unità d’Italia e per raggiungerlo
76
Il Risorgimento in poco più di mille parole
svolse una politica antiaustriaca e antisocialista. Cavour, per vincere l’Austria
decise di guadagnarsi l’alleanza di Luigi Napoleone Bonaparte, che nel 1852
si era autoproclamato imperatore dei francesi con il nome di Napoleone III.
Perciò si alleò con lui nel 1854, quando Napoleone decise di intervenire in
Crimea. Nel 1853 la Russia aveva dichiarato guerra alla Turchia. L’Inghilterra, temendo che la Russia potesse arrivare allo Stretto dei Dardanelli entrò in
guerra contro lo zar e a lei si associò la Francia. Nel 1854, quattrocentomila
soldati inglesi e francesi assediarono la base navale russa di Sebastopoli nella
penisola di Crimea sul Mar Nero. Sollecitando Francia e Inghilterra, Cavour
inviò di rinforzo un contingente di bersaglieri piemontesi. Sebastopoli cadde
nel 1855 e la guerra terminò. Il Trattato di Parigi del 1856 garantì l’integrità
dell’Impero Ottomano e vietò alle navi da guerra europee l’acceso al Mar
Nero. A Parigi, Cavour poté partecipare alle trattative ed esporre e difendere
la causa dell’Unità d’Italia. Mazzini, dopo il 1848, aveva ripreso a organizzare
insurrezioni che accrebbero l’impopolarità dei mazziniani; questa raggiunse
il suo apice nel 1857, quando un intimo collaboratore di Mazzini, Carlo Pisacane, volle sollevare i contadini del Regno di Napoli, ma l’esercito borbonico
massacrò gli insorti. Anche gli ultimi seguaci abbandonarono allora Mazzini
e tre di loro, Manin, Garibaldi e Montanelli, nel 1857 fondarono la Società
nazionale a Torino, per aiutare i Savoia a battere l’Austria. Nel 1858, Cavour
convinse l’imperatore a firmare gli accordi segreti di Plombières, che garantivano l’intervento francese a sostegno del re di Sardegna, ma solo se fosse
stata l’Austria ad aggredire per prima il Regno sabaudo. Vittorio Emanuele
II avrebbe acquisito il Lombardo-Veneto e, in cambio, avrebbe ceduto alla
Francia Nizza e Savoia. Nell’aprile 1859 il Piemonte riuscì a farsi aggredire
dall’Austria. La seconda guerra d’indipendenza era cominciata. Le operazioni militari furono sin dal primo momento favorevoli ai Franco-Piemontesi
che riportarono rilevanti vittorie a Montebello, Palestro e Magenta, mentre i
“cacciatori delle Alpi” - il corpo di volontari al comando di Garibaldi - liberavano Varese, Brescia, Como e Bergamo. Infine, l’esercito austriaco venne
nuovamente battuto a Solferino dai Francesi e a San Marino dai Piemontesi.
Sull’onda di questa importante vittoria si mosse l’Italia centro-settentrionale.
La Toscana, Modena e Parma cacciarono i granduchi, imparentati tutti con
gli Asburgo d’Austria, mentre Bologna e la Romagna, che facevano parte
dello Stato Pontificio, disarmarono le truppe del papa. Dopo aver creato una
serie di governi provvisori, questi territori chiesero l’annessione al Piemonte.
L’armistizio fu considerato un “tradimento” e Cavour si dimise; tornato poco
dopo al governo consegnò Nizza e la Savoia alla Francia in cambio del non
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intervento di Napoleone III nei casi italiani. Nel marzo 1860, le popolazioni
di Emilia Romagna, Toscana votarono con un plebiscito l’annessione al Regno di Sardegna. Intanto i democratici decisero di organizzare un’insurrezione in Sicilia, affidando a Garibaldi l’esecuzione del piano.
La figura di Giuseppe Garibaldi è quella più importante del Risorgimento
italiano. Molte delle sue azioni, specialmente le sue vittorie militari diedero
un contributo rilevante alla riunificazione dello Stato Italiano. L’evento stimolatore per eccellenza fu la spedizione dei Mille, progettata da Francesco
Crispi e Rosolino Pilo, due siciliani mazziniani che, guidarono Garibaldi nella spedizione. Colui il quale ritenne rischiosa l’operazione fu Cavour. Infatti,
egli la considerava dannosa per i rapporti con la Francia, poiché sospettò
che l’obiettivo di Garibaldi fosse Roma. Favorevole, invece, fu Vittorio Emanuele II, il quale poi ottenne da Garibaldi il regno meridionale. La notte tra
il cinque e il sei maggio del 1860, 1070 volontari, detti i Mille, guidati dallo
stesso Garibaldi, partirono da Quarto, presso Genova, su due navi a vapore. L’obiettivo era la conquista del Regno delle due Sicilie, patrimonio della
casa reale dei Borbone. Avendo pochi fucili e poche munizioni, raggiunsero
Talamone per il rifornimento, dopodiché, l’11 maggio del 1860 sbarcarono a
Marsala, in Sicilia. Qui sconfissero le truppe borboniche e man mano Garibaldi assunse il potere sulle terre conquistate in nome di Vittorio Emanuele
II. Garibaldi godeva dell’appoggio del popolo, che sperava di impossessarsi
delle terre promesse dello stesso. In realtà, in Garibaldi prevaleva l’interesse militare per il successo della spedizione. Allora, i contadini iniziarono a
guardare con diffidenza la politica di Garibaldi e sorse in loro l’intenzione
di sottrarre ai latifondisti le loro terre. Gli episodi più gravi si verificarono a
Bronte, in Sicilia, il 4 agosto 1860. La città fu teatro di uno scontro molto importante, noto come la Rivolta di Bronte. I contadini si ribellarono, occupando i terreni dei proprietari terrieri. La ribellione fu repressa però dalle truppe
garibaldine sotto il comando di Nino Bixio, le quali arrestarono e fucilarono
i rivoltosi. Il successo militare di Garibaldi fece mutare opinioni a Cavour, il
quale aveva ritenuto indispensabile l’intervento dell’esercito sabaudo. Con
l’assenso della Francia e dell’Inghilterra, che temevano il successo repubblicano, l’esercito piemontese si diresse a sud. Con la battaglia di Castelfidardo
del 18 settembre, vennero sottratte allo Stato Pontificio l’Umbria e le Marche. Il 17 marzo del 1861 a Torino si riunì il primo Parlamento nazionale;
Vittorio Emanuele II fu dichiarato re d’Italia.
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Il Risorgimento in poco più di mille parole
Il completamento dell’unità d’Italia
L’esigenza di completare l’unità nazionale era largamente sentita dall’intero
Paese. Il Veneto, il Trentino, il Friuli Venezia Giulia, il Lazio e soprattutto
Roma non facevano parte dell’Italia. Mazziniani e garibaldini erano favorevoli a
un’ azione armata. Urbano Rattazzi appoggiò una prima iniziativa di Garibaldi,
ma dopo essere partiti dalla Sicilia, giunti sulla penisola, i garibaldini vennero
bloccati dallo stesso esercito italiano inviato da Rattazzi. Napoleone III, infatti,
aveva minacciato l’intervento dell’esercito francese, nel caso in cui l’iniziativa
fosse proseguita. Sull’Aspromonte avvenne lo scontro tra l’esercito italiano e i
garibaldini; Garibaldi fu ferito e arrestato, i morti furono circa dodici. L’Italia,
con la Convenzione di Settembre, si impegnò a difendere i confini di Roma in
cambio del graduale abbandono delle truppe francesi dallo Stato Pontificio. La
capitale italiana fu trasferita da Torino a Firenze, ciò dimostrava che l’Italia aveva definitivamente rinunciato ad ogni interesse per Roma. Nel 1866, Bismarck,
cancelliere prussiano, propose all’Italia un’alleanza con lo scopo di sconfiggere
l’Austria. Ebbe dunque inizio la terza guerra d’indipendenza. Mentre i Prussiani vinsero gli Austriaci a Sadowa, l’Italia venne sconfitta dall’esercito austriaco
sia nella battaglia di Custoza, sia in quella di Lissa. Solo Garibaldi ottenne alcuni successi con i Cacciatori delle Alpi, aprendosi la strada verso Trento. Con
la pace di Vienna, lo Stato italiano ottenne il Veneto. Le speranze di chi aveva
creduto che con la terza guerra d’indipendenza potessero essere annessi anche
il Trentino e il Friuli Venezia Giulia, ancora sotto il dominio austriaco, erano
state infrante. Intanto, riprese l’iniziativa garibaldina e mazziniana volta a voler
liberare Roma. Garibaldi, a capo di 3000 volontari, penetrò nello Stato Pontificio, scontrandosi con le truppe francesi e, dopo un aspro combattimento,
venne sconfitto, arrestato e condotto nell’isola di Caprera.
Il 20 settembre del 1870 un corpo di bersaglieri, comandati dal generale
Cadorna, entrò a Roma attraverso la breccia di Porta Pia. Il Papa dichiaratosi
prigioniero dello Stato italiano, si disse disponibile a ogni trattativa. Nel 1871
avvenne il trasferimento della capitale da Firenze a Roma.
La questione meridionale e la nascita del brigantaggio
La questione meridionale nacque all’indomani dell’unità d’Italia, quando le
diverse realtà politiche ed economiche della penisola vennero annesse al Pie
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monte. Già a partire dal 1861, erano evidenti le profonde condizioni di arretratezza del Mezzogiorno e i grandi squilibri economici che dividevano in due
l’Italia. Al nord era presente un modello di sviluppo di tipo capitalistico, questo
modello che prevedeva l’investimento di cospicue quantità di denaro per il costante ammodernamento degli strumenti di produzione delle aziende agricole.
Tutto ciò contribuì a sviluppare una borghesia imprenditrice. Nel meridione
d’Italia si presentava, invece, una situazione opposta. Qui, infatti, l’abolizione
degli usi e delle terre comuni, le tasse gravanti sulla popolazione e il regime di
occupazione militare avevano creato un forte malcontento. Malcontento che
generò alcuni fenomeni, tra cui il brigantaggio, la mafia e l’emigrazione al nord
Italia o all’estero. Il rigetto nei confronti del governo da parte della misera gente
del meridione si manifestò, tra il 1861 e il 1865, attraverso il brigantaggio. Esso
era localizzato in Calabria, Puglia, Campania e Basilicata dove bande armate di
briganti attaccavano i paesi, saccheggiavano negozi e davano fuoco a gli edifici
comunali, per poi fuggire nelle campagne o sulle alture. Tra i briganti, oltre ai
braccianti estenuati dalla povertà, c’erano anche ex garibaldini sbandati ed ex
soldati borbonici. I briganti non furono criminali comuni, ma un esercito di
ribelli che non conoscevano altra forma di lotta se non quella violenta. I contadini meridionali, essendo fondamentalmente ignoranti, non avevano maturato
una coscienza politica dei loro diritti e quindi non avrebbero potuto mai agire
con mezzi legali. Le istituzioni italiane avevano reagito con grande durezza
per reprimere le azioni dei briganti, inviando più della metà dell’ esercito nelle
zone in cui operavano gli insorti, con l’autorizzazione di applicare severissime
norme di guerra che prevedevano ergastoli e fucilazioni per gli insorti stessi. Il
primo ad interrogarsi sulla questione meridionale fu Pasquale Villari che, nel
1875, pubblicò le Lettere Meridionali. Quest’ultimo denunciò lo stato di crisi
in cui versava il sud, indagando soprattutto sull’inefficienza e la debolezza delle
istituzioni politiche. I problemi del meridione potevano essere risolti, secondo
il politico, solo attraverso il riavvicinamento del governo ai contadini meridionali. Una volta debellato il brigantaggio, nel 1865, le condizioni economiche
e sociali del Mezzogiorno non migliorarono. Si sviluppò, infatti, il fenomeno
dell’emigrazione, dovuto alla difficoltà di trovare un lavoro e di raggiungere un
tenore di vita quantomeno accettabile, che portò ad un’ondata migratoria sia
verso il nord Italia sia all’estero. Gaetano Salvemini denunciò l’arretratezza del
sud in un periodo storico in cui si stava assistendo ad un decollo economico
da parte del settentrione, avviato in particolar modo da Giolitti. Questi venne
definito dallo storico il ministro della malavita, poiché grazie al sostegno della
mafia, approfittava dell’arretratezza e dell’ignoranza del sud per raccogliervi
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Il Risorgimento in poco più di mille parole
consensi. Inoltre, egli attaccò il Psi e la Cgil accusandoli di favorire la classe
operaia settentrionale a danno dei contadini meridionali. Tra gli intellettuali di
spicco di quegli anni abbiamo anche Antonio Gramsci che ideò una strategia
che puntava all’alleanza tra operai del nord e contadini del sud, con lo scopo di
realizzare una rivoluzione socialista italiana.
Nel primo decennio dell’Ottocento si afferma in Europa, ma soprattutto in
Italia, il Neoclassicismo, un movimento culturale che tende alla ricerca del bello assoluto e della perfezione. Oltre al culto del bello si avverte la necessità di
riflettere sulla realtà, sul pensiero e sulla vita dell’uomo, sulla libertà e l’amore
per la patria. Gli scrittori neoclassici possono definirsi gli anticipatori del Risorgimento. Tra questi, importante risulta il contributo dato da Ugo Foscolo.
Ugo Foscolo
Ugo Foscolo nacque nel 1778 a Zante, isola del mar Ionio allora governata
dalla Repubblica di Venezia. Morto il padre si stabilì con la famiglia a Venezia, che considerò sempre la sua seconda patria. Qui, il giovane Foscolo
divenne un acceso sostenitore della politica di Napoleone Bonaparte e degli
ideali di libertà e di uguaglianza promossi dalla Rivoluzione Francese. Allacciò proficui rapporti con l’ambiente intellettuale, frequentando fra l’altro il
salotto della dotta Isabella Teotochi, di cui si innamorò. Una volta instaurata
a Venezia la municipalità provvisoria, Foscolo fu tra i più accaniti difensori
dell’indipendenza della città. Egli si arruolò nella guardia nazionale di Bologna e combatté in Emilia Romagna e in Liguria, rimanendo due volte ferito.
Al termine della guerra, compì col grado di capitano aggiunto varie missioni
in Toscana. Tornato a Milano si dedicò alla vita mondana e allacciò una relazione con la contessa Antonietta Fagnani Arese. Nel 1808 Foscolo ottenne
la cattedra di eloquenza all’Università di Pavia. Quando però Napoleone nel
1797, con il trattato di Campoformio, cedette Venezia all’Austria, si sentì
tradito e partì, iniziando a peregrinare di città in città. Combatté nell’esercito
della Repubblica Cisalpina e poi in quello del Regno Italico; si recò anche in
Francia con le truppe napoleoniche. Stabilitosi a Milano nel 1814, dopo la
caduta del Regno d’Italia e il ritorno degli Austriaci, riprese la via dell’esilio.
Si rifugiò dapprima in Svizzera e poi in Inghilterra. A Londra venne accolto
dalla società intellettuale con calorosa considerazione. Dal 1822 visse con
la figlia Floriana, nata dalla relazione con l’inglese Fanny Enerytt. Trascorse
nell’indigenza gli ultimi anni (nel 1824 fu anche arrestato per debiti).
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Le idee e la poetica
In Foscolo coesistono elementi tipici del Neoclassicismo e del Romanticismo: infatti da un lato avverte un amore profondo per l’ideale di bellezza e
di armonia, dall’altro il suo animo è in continuo conflitto tra sentimento e ragione. Di qui lo stato di insoddisfazione e di ansia che caratterizza tutta la sua
vita. Per Foscolo i grandi ideali di bellezza, amore, libertà, eroismo, giustizia,
sono solo delle “illusioni”, ma indispensabili agli uomini se vogliono dare un
senso alla propria vita. Solo la poesia non è illusione, bensì il solo momento
in cui i nostri ideali si realizzano, seppur nella creazione fantastica, in cui la
nostra anima si libera dalle sue contraddizioni. La poesia quindi per Foscolo
assume una missione eroica, diventa liberazione e consolazione, messaggio e
illuminazione, sapienza e virtù. Per questa ragione è caratterizzata da un tono
solenne e religioso e da un linguaggio alto e ricercato.
Le opere: le “Ultime lettere di Jacopo Ortis”
Nel romanzo epistolare delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, Ugo Foscolo
rappresenta la sua insanabile, amorosa e politica irrequietezza, la delusione “storica” vissuta dalla società italiana tra 700 e 800 e il dramma eterno
dell’uomo, dominato dalla violenza e dalla paura. Dopo il trattato di Campoformio a nome di Bonaparte liberatore, consumatosi il sacrificio di Venezia ceduta all’Austria, Ugo Foscolo, disperato amante senza patria, inizia a
scrivere il diario delle proprie angosciose passioni: le Ultime lettere di Jacopo
Ortis. La contaminazione e la contiguità di vita e letteratura, fanno dell’Ortis un’opera nuova nella storia letteraria e soprattutto aperta, tanto quanto
aperta e provvisoria fu la vita del suo autore. Essa è simile alla storia scritta
da Goethe: I dolori del giovane Werter
Trama
Il racconto narra di un giovane ufficiale italiano dell’esercito napoleonico,
Jacopo Ortis, il quale assiste al tragico naufragio dei suoi ideali di patria, di
libertà, di giustizia, dei suoi sogni d’amore. Dopo che Venezia è stata ceduta
agli austriaci da Napoleone. Jacopo Ortis, costretto all’isolamento, dà sfogo,
nelle lettere all’amico Lorenzo, a tutto il suo dolore angoscioso e all’odio
nei confronti dello straniero. Si rifugia in un paesello sui colli Euganei dove
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Il Risorgimento in poco più di mille parole
conosce Teresa e se ne innamora, ma ella è già concessa in sposa. All’inizio
Jacopo e Teresa si frequentano lo stesso ma, successivamente, egli, non sopportando più una situazione del genere, girovaga per le varie città d’Italia. Si
trasferisce prima a Firenze dove visita i sepolcri di Santa Croce, poi incontra a Milano Parini, con il quale avrà diverse discussioni in ambito politico.
Dopo ciò si trasferisce per qualche tempo nella valle del Roja. Qui medita
molto e riflette sulla condizione politica della propria patria. Si rimette in
viaggio per fermarsi a Ravenna in cui visita la tomba di Dante. Esausto dei
lunghi viaggi, torna nel Veneto dove rivede Teresa, ormai sposata. É a questo
punto che scaturisce nel giovane Jacopo la decisione, già da tempo meditata,
del suicidio. Ritorna dunque l’ultima volta a Venezia per salutare la madre e
si suicida. La scena del suicidio è molto cruda poiché Jacopo, dopo essersi
trafitto con un pugnale il petto, si lascerà morire lentamente per tutta la notte.
Ippolito Nievo
Ippolito Nievo nacque a Padova nel 1831 da una famiglia borghese. Dopo
aver conseguito la laurea presso l’università di Padova preferì non esercitare la professione per non sottomettersi al governo austriaco. Aderì alle idee
mazziniane e partecipò alla Seconde guerra d’indipendenza. Nel 1860 partì
con la spedizione dei Mille. Tornato al nord tra il 1860 e il 1861, a febbraio
Ippolito ricevette l’ordine di tornare a Palermo per raccogliere la documentazione necessaria a smentire una campagna di dicerie calunniose montata
contro l’amministrazione garibaldina. Il 4 marzo si imbarcò sul piroscafo Ercole, di ritorno verso il continente: la nave si inabissò nel Tirreno, al largo di
Napoli. Il relitto non venne mai ritrovato.
Le opere: Le confessioni di un italiano
Romanzo sostanzialmente storico. Il protagonista, Carlo Altoviti, è un antieroe che vive le sue esperienze tra tentennamenti ed errori, attraverso una
lunga esistenza più spesso in balìa del caso che dominata da una ragione
solida e certa. L’amore precoce per la cuginetta Pisana è un sentimento complesso e contorto, carico di contraddizioni. Carlo non si limita a narrare in
prima persona gli avvenimenti della sua vita poiché ad essi si intrecciano tutti
gli eventi principali della storia italiana del primo ottocento. La prima parte
del racconto mette in scena il mondo patriarcale del Friuli; seguono poi l’irruzione delle armate napoleoniche in Italia, il tradimento di Campoformio, la
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tragedia della Repubblica partenopea, le Restaurazione e i moti del ’20 -’21.
Il protagonista, avendovi preso parte, è condannato a Napoli ai lavori forzati.
Perde la vista e la pena gli è commutata nell’esilio. Recatosi a Londra, cieco
e povero, sopravvive grazie alla Pisana. Successivamente, Carlo riacquista la
vista grazie ad un’operazione, ma l’amata muore a causa delle privazioni che
è stata costretta a subire per assisterlo. Egli, dunque, torna in Italia per trascorrere gli ultimi anni tra le memorie del passato e, contemporaneamente,
gli amici e i figli prendono parte alle lotte d’indipendenza.
Alessandro Manzoni
Alessandro Manzoni nacque a Milano nel 1785, dal conte Pietro e da Giulia Beccaria, figlia di Cesare Beccaria. Separatisi ben presto i genitori, trascorse la fanciullezza e la prima adolescenza presso alcuni collegi in cui ricevette
la tradizionale educazione classica. Uscito dal collegio a sedici anni si inserì
nell’ambiente culturale milanese del periodo napoleonico. Nel 1805 si recò
dalla madre a Parigi, qui entrò in contatto con gli ideologici, cioè gli eredi del
patriottismo illuministico. Le loro posizioni liberali ed il loro rigore morale
esercitarono un influsso determinante nella formazione delle idee filosofiche,
politiche, morali e letterarie di Manzoni. Per quanto concerne il ritorno alla
fede cattolica dello scrittore non sappiamo molto poiché egli mantenne sempre uno stretto riserbo a riguardo. Dovette comunque essere determinante l’influsso della giovane moglie Enrichetta Blondel. Quando Manzoni nel
1810 lasciò Parigi ritornando definitivamente a Milano, un profondo rinnovamento si era compiuto nella sua visione della realtà, che era ormai integralmente ispirata al cattolicesimo. In Italia si dedicò allo studio, alla scrittura,
alle pratiche religiose e alla famiglia. Fu vicino al movimento romantico milanese e ne seguì attentamente gli sviluppi. Con la pubblicazione dei Promessi
Sposi, la sua figura di intellettuale era sempre più circondata di ammirazione.
Manzoni era ormai una figura pubblica. Durante la Cinque giornate di Milano, nel 1848, si interessò agli eventi politici, pur senza parteciparvi direttamente, e diede alla stampe l’ode patriottica Marzo 1821, tenuta per anni
nascosta. Costituitosi il Regno d’Italia, venne nominato senatore. Nonostante
fosse profondamente cattolico, era contrario al potere temporale della Chiesa, e favorevole a Roma capitale: nel 1861 votò a favore del trasferimento
della capitale da Torino a Firenze, come tappa intermedia verso Roma. Negli
anni della sua lunga vecchiaia Manzoni fu circondato dalla venerazione della
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Il Risorgimento in poco più di mille parole
borghesia italiana, che vedeva in lui non solo il grande scrittore, ma anche un
maestro, una guida intellettuale, morale e politica.
Morì a Milano nel 1873 a 88 anni. Fu sepolto nel cimitero monumentale.
Il pensiero e la poetica
L’ambiente culturale milanese e quello parigino installarono nell’animo del
giovane Manzoni un insieme di ideali illuministici a cui sarebbe rimasto fedele sempre: libertà, fraternità e giustizia. Nutriva un profondo amore per la
storia ed era cosciente del fatto che essa fosse prodotta anche dalle masse.
Non a caso ne I Promessi sposi il popolo sarebbe stato il protagonista assoluto
di un’intera opera letteraria. La sua conversione al cattolicesimo non lo portò
a tradire i valori dell’Illuminismo, anzi riconobbe la loro presenza all’interno
del Vangelo. La fede consentì allo scrittore di superare il pessimismo dovuto
alla presenza del male e del dolore nella storia. Il Dio - Provvidenza garantiva infatti il trionfo del bene nella storia. Il male era solo frutto della libera
volontà dell’uomo. Manzoni espresse in maniera esemplare la sua poetica in
una concisa dichiarazione del 1823: la poetica doveva proporsi il vero per
oggetto, l’utile per iscopo e l’interessante per mezzo. Il punto focale della sua
riflessione è il vero, di cui l’utile e l’interessante sono solo dei momenti, delle
parziali manifestazioni. L’utile infatti coincide con la moralità cristiana, con
la capacità del poeta di far riflettere l’uomo sulla sua vicenda terrena di peccato e redenzione, quindi sulla verità della sua vita. Anche l’interessante è
riconducibile al vero, perché solo un argomento desunto dalla storia dell’uomo può realmente suscitare la sua curiosità e un piacere non effimero. Secondo Manzoni il poeta non deve offrirci una conoscenza esteriore dei fatti,
collegati da rapporti casuali e temporali: tale compito è assolto infatti dagli
storici. L’artista deve invece penetrare nel guazzabuglio del cuore umano,
afferrando il processo spirituale che ha generato gli eventi e dunque il loro
profondo significato. Manzoni tendeva ad una poesia che avesse per oggetto la
realtà umana, che aderisse alla vita per diventare a sua volta strumento di vita,
patrimonio di civiltà per tutti. Per questa ragione egli si rivela capostipite non
solo del Romanticismo, ma anche del nostro Risorgimento.
Le opere: Marzo 1821
L’ode fu scritta da Manzoni in occasione dei moti carbonari piemontesi
del 1821, quando l’atteggiamento riformistico e liberale del giovane Carlo
Alberto, erede al trono piemontese e reggente in attesa del re Carlo Felice
di Savoia, che sembrava stesse per varcare il Ticino ed entrare con le armi in
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Lombardia per aiutare i patrioti a liberare il Lombardo - Veneto dall’oppressivo dominio austriaco, aveva acceso le speranze dei liberali e di coloro i quali
aspiravano all’unificazione dei vari stati italiani sotto un’unica bandiera. Ma
le speranze vennero ben presto vanificate sia dall’intervento di Carlo Felice
sia dalla polizia austriaca, che procedette a una dura repressione nella quale
furono coinvolti anche Silvio Pellico e Federico Confalonieri. L’entusiasmo
di quei giorni venne quindi subito stroncato dagli eventi, ma l’ode rispecchiò
profondamente uno spirito che non verrà mai soffocato e che ha rappresentato uno degli elementi politici e culturali fondamentali dell’Ottocento,
elemento che, a partire dal 1848 in poi, comincerà a trovare una sua qualche
realizzazione. Nel timore di una perquisizione della polizia, Manzoni nascose
o addirittura distrusse il manoscritto dell’ode, ma qualche copia venne conservata da amici, e fu pubblicata solo nel 1848, a cura del Governo provvisorio di Milano, a seguito del successo delle Cinque Giornate che facevano ben
sperare in una felice conclusione della liberazione dallo straniero. Alla base
dell’ode si trovano quindi motivi storici, politici e di esaltazione della libertà
insieme a una presenza di Dio, viva e puntuale nelle vicende umane, una
vicenda che aiuta l’uomo a combattere non solo per il personale riscatto dal
peccato, ma anche in senso più universale a combattere per il riscatto della
patria dallo straniero, portando gli uomini verso la creazione di un mondo
in cui ci sia veramente un maggior rispetto dell’uomo per gli altri uomini,
superando la barriera dell’egoismo personale e dell’interesse politico di una
classe sociale che pensa solo e innanzitutto a mantenere il proprio potere.
L’ode è un appello alla libertà di tutti i popoli, un appello contro ogni forma
di violenza, che invita ad abbandonare la via del male per seguire quella del
diritto delle popolazioni. Dio protegge gli uomini oppressi e perciò, come
aveva già a suo tempo protetto i tedeschi, la stessa cosa avrebbe fatto con gli
italiani. Il poeta dedicò l’ode a Teodoro Koerner, patriota e poeta romantico
tedesco, autore di drammi e canti patriottici contro l’oppressione napoleonica. In questa poesia Manzoni esprime il proprio ideale nazionale unitario,
fondato sull’unità di lingua, di religione, di tradizioni, di stirpe e di aspirazioni. Altrettanto importante è l’ammonimento rivolto agli stranieri che si sono
serviti degli ideali nazionali per far ribellare i popoli a Napoleone, ma subito
dopo, hanno sostituito la loro oppressione a quella dell’imperatore francese.
Lo scrittore, in questo modo, mostra che il diritto alla libertà diviene un dovere, egli, infatti, non esita a invocare il Dio degli eserciti, a incitare gli italiani
a combattere in nome della giustizia.
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Il Risorgimento in poco più di mille parole
Approfondimenti
Giuseppe Verdi tra musica e patriottismo
Premessa
Verdi è stato il più grande compositore italiano di melodrammi dell’Ottocento ed eroe popolare di un periodo difficile in cui l’Italia risorgimentale
lottava per l’unità e per l’indipendenza. Durante la sua lunga vita, egli scrisse
alcune tra le opere e i melodrammi più grandi e amati della storia della musica lirica di ogni tempo.
La musica verdiana: vera fonte di ispirazione per un’Italia libera
Se la tradizione musicale fu perlopiù estranea alla proiezione di idee politiche, nel periodo in cui emersero le aspirazioni nazionali, in alcuni paesi, la
musica diventò espressione del sentimento patriottico. Verdi fu uno dei più
grandi esponenti di questo nuovo clima.
L’anno 1842 segnò per il melodramma e per il popolo italiano un mutamento storico. Verdi, distrutto e disperato dai lutti familiari, aveva ottenuto risultati alterni con le sue prime opere e, indeciso se continuare nella composizione, ebbe la felice ispirazione di scrivere il Nabucco, opera basata sulla storia
della prigionia degli ebrei a Babilonia. Quando il Nabucco debuttò alla Scala
di Milano nel marzo del 1842 ottenne un successo straordinario: al grande
valore musicale si aggiunse un’importante significato patriottico. Milano era
allora governata dagli austriaci e il pubblico, nella tragedia del popolo di
Israele, colse il riferimento alla propria prigionia. Il grande coro nel quale gli
schiavi ebrei cantano con nostalgia la patria lontana (… va pensiero sull’ali
dorate…) colpì profondamente gli ascoltatori e divenne l’inno della lotta del
popolo italiano per la libertà. Sull’onda del successo del Nabucco, Verdi
scrisse altre opere, alcune con importanti significati patriottici, che suscitarono sentimenti analoghi nel pubblico. I Lombardi alla prima crociata, Ernani, I
due Foscari e Giovanna d’Arco: in tutte queste opere sono presenti dei brani
intensi che incitarono la passione politica degli italiani. La censura austriaca
fu spiazzata dal fenomeno Verdi perché nei suoi “melodrammi” non vi era
nulla di apparentemente sconveniente. Si poteva forse definire sovversiva la
nobile fierezza con cui Giovanna d’Arco sfidò i suoi aguzzini? Nel 1848 però
un’ondata rivoluzionaria si manifestò in tutta Europa. Il movimento patriot
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tico, nonostante le differenze, si ritrovò unito attorno al futuro re Vittorio
Emanuele II e il nome di VERDI diventò acronimo di Vittorio Emanuele Re
D’Italia. Nelle strade e nelle scritte sui muri il motto Viva Verdi! si trasformò
così in un grido segreto di libertà. Alla conclusione della sua carriera, Verdi
ricevette grandissimi onori e quando morì nel 1901, oltre 200000 persone attesero nelle strade di Milano il passaggio del suo carro funebre, nonostante la
richiesta del musicista di essere seppellito all’alba, lontano da ogni clamore.
Il tricolore italiano
La bandiera nazionale nasce a Reggio Emilia il 7 gennaio 1797, quando
il Parlamento della Repubblica Cispadana, decreta che si renda universale
lo Stendardo o si usino anche nella Coccarda Cispadana. Ma perché proprio
questi tre colori? L’Italia del 1796, fu attraversata dalle vittoriose armate napoleoniche, le numerose repubbliche di ispirazione giacobina che avevano
soppiantato gli antichi stati assoluti adottarono quasi tutte, con varianti di
colore, bandiere caratterizzate da tre fasce di uguali dimensioni, chiaramente
ispirate al modello francese del 1790. Anche i reparti militari italiani, costituiti all’epoca per affiancare l’esercito di Bonaparte ebbero stendardi che
riproponevano la medesima foggia. In particolare, i vessilli reggimentali della Legione lombarda presentavano, appunto, i colori bianco, rosso e verde,
fortemente radicati nel patrimonio collettivo di quella regione: il bianco e il
rosso, infatti, comparivano nell’antichissimo stemma comunale di Milano,
mentre verdi erano fin dal 1782, le uniformi della guardia civica milanese. Gli
stessi colori, poi furono adottati anche negli stendardi della legione italiana,
che raccoglieva i soldati delle terre dell’Emilia e della Romagna. Al centro
della fascia bianca, lo stemma dall’alloro è ornato da un trofeo di armi.
La bandiera della Repubblica Italiana dall’Unità ai nostri giorni
Il 17 marzo 1861 venne proclamato il Regno d’Italia e la sua bandiera continuò ad essere, per consuetudine, quella della prima guerra d’indipendenza.
Ma la mancanza di un’apposita legge al riguardo, emanata soltanto per gli
stendardi militari, portò alla realizzazione di vessilli di foggia diversa dall’originaria, spesso addirittura arbitraria. Soltanto nel 1925 si definirono per legge, i modelli della bandiera nazionale e della bandiera di stato. Quest’ultima
avrebbe aggiunto allo stemma la corona reale. Dopo la nascita della Repubblica, un decreto legislativo presidenziale del 19 giugno 1946 stabilì la foggia
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Il Risorgimento in poco più di mille parole
provvisoria della nuova bandiera, confermata dall’Assemblea Costituente
nella seduta del 24 marzo 1947 e inserita all’articolo 12 della nostra Carta
Costituzionale. E perfino dall’arido linguaggio del verbale possiamo cogliere
tutta l’emozione di quel momento.
La spigolatrice di Sapri
La spigolatrice di Sapri è una poesia di Luigi Mercantini del 1857. Questa
narra le vicende di Carlo Pisacane e dei suoi 300 uomini sbarcati a Sapri nella
speranza di accendere i fuochi rivoluzionari nel sud Italia.
L’eroica impresa del patriota italiano nel Regno delle Due Sicilie viene rievocata dal poeta garibaldino con tono epico popolare.
Questo componimento, infatti, mette in luce uno degli episodi risorgimentali che maggiormente suggestionarono l’animo e la fantasia popolare. Qui è
raccontata la spedizione di Carlo Pisacane del 1857 a Sapri, il quale tentò di
sollevare la popolazione contro i Borbone. Purtroppo, l’impresa fallì nella
diffidenza, se non nell’ostilità e per la diffusa ignoranza della gente, ancora
alle prese con elementari problemi di sopravvivenza e, probabilmente, incapaci di cogliere i valori e gli alti ideali della spedizione di Carlo Pisacane.
La vicenda è “vista” da parte di una spigolatrice del luogo e quindi, anche il
linguaggio assume un’introduzione “popolaresca” ed enfatizza epicamente
tutto l’avvenimento.
Mercantini fu tra i poeti più significativi della lirica patriottica. Tuttavia,
l’insuccesso della missione contribuì ad unire le forze per rovesciare la situazione politica e preparare il popolo all’imminente Unità.
Rapporti tra stato e chiesa nel Risorgimento e dopo l’unità
Durante il periodo risorgimentale non era presente solo il problema relativo a come conciliare coscienza religiosa e coscienza civile, diritti della Chiesa
e laicità dello Stato ma anche quello di mettere in relazione due sovranità e di
convincere una delle due parti (in questo caso la Chiesa come struttura temporale) a rinunciare a questa stessa sovranità. Il principio accolto dall’art. 7
della Costituzione repubblicana del 1948 (Lo Stato e la Chiesa sono, ciascuno
nel proprio ordine, indipendenti e sovrani) si sarebbe alla fine affermato, ma a
prezzo di un duro e prolungato conflitto, che avrebbe rappresentato il dram
a cura di fiorella cennamo
89
ma del Risorgimento. Notevole rilievo assunse la politica anticlericale avviata
già nei primi decenni dell’800 dallo Stato Sabaudo. Si collocano immediatamente prima dell’impresa dei Mille gli interventi legislativi del Piemonte in
materia ecclesiastica ( le cosiddette Leggi Siccardi) che ordinavano la chiusura
dei monasteri di clausura e lo scioglimento di numerose congregazioni religiose, con la motivazione che esse fossero socialmente inutili. Tutto questo
era il sintomo inquietante di uno Stato che – favorendo la giovane congregazione salesiana poiché avviava i ragazzi delle poverissime periferie al lavoro e gettando sulla strada le monache che si dedicavano esclusivamente alla
contemplazione e alla preghiera – entrava direttamente nella sfera religiosa.
Si deve riconoscere che in quegli anni le proprietà fondiarie del clero e delle
istituzioni religiose erano molto estese e generalmente male amministrate.
L’apparato ecclesiastico, inoltre, non sempre era espressione di autentiche
vocazioni all’esercizio del ministero sacerdotale: attorno alla metà dell’800 vi
erano in Italia, con una popolazione di 25 milioni di abitanti, oltre 100000
preti, un numero, dunque, sovrabbondante rispetto alle reali esigenze pastorali; ma ciò non può giustificare la chiusura d’imperio di Seminari che lo
Stato, a suo insindacabile giudizio, considerava inutili e per la cui chiusura si
avvaleva spesso di risibili pretesti. Al fondamento di questo insieme di scelte
di politica ecclesiastica non stava il principio della distinzione fra piano giuridico e piano religioso, ma piuttosto la pretesa dello Stato laico di ricondurre
tutte le espressioni della socialità, e dunque anche quelle proprie della sfera
religiosa, all’unica figura dello Stato. Tipica espressione di questo sviamento
del pensiero liberale è la celebre formula cavouriana: Libera Chiesa in libero
Stato. L’ambiguità stava in quella semplice particella in: non Chiesa e Stato –
secondo la formula che i Costituenti avrebbero un secolo più tardi adottato –
ma una Chiesa posta all’interno di uno Stato che pretendeva di condizionare
la nomina dei Vescovi, si riserbava il diritto di autorizzare o meno le processioni, stabiliva a suo piacimento quali ordini religiosi potessero o no avere diritto di cittadinanza. La libertà religiosa veniva così segregata nel chiuso delle
coscienze. In questo contesto la Chiesa gerarchica ricorse alle scomuniche
e agli anatemi per tentare di fermare l’ondata laicizzante che, sulla base del
modello francese, si andava diffondendo anche in Italia. La politica anticlericale portata avanti dai giovani unitari dopo il 1860 finiva per spezzare quasi
del tutto il cattolicesimo liberale e la sua componente conciliatorista, che pur
poteva contare su nomi illustri come quello di Alessandro Manzoni, Antonio
Rosmini, Geremia Bonomelli. Il fallimento dei tentativi conciliatoristi appariva al Pontefice e al suo entourage del tutto evidente e dunque non restava
90
Il Risorgimento in poco più di mille parole
che lo spazio della presa di distanza. Pio IX colpì con un anatema tutti coloro
che sostenevano la tesi secondo la quale il Romano Pontefice poteva e doveva avere col progresso, col liberalismo e la moderna civiltà venire a patti e a
conciliazione. Con questa proposizione si tendeva ad identificare la possibile
“conciliazione” fra Stato e Chiesa con il cedimento, la resa, la rinuncia ad inderogabili diritti. Persistendo questo clima di contrapposizione frontale, era
evidente che i cattolici non potevano che essere cittadini di seconda categoria;
infidi per uno Stato negatore del principio delle due obbedienze, ma altrettanto infidi per una Chiesa incline a leggere come compromissione, se non
addirittura come tradimento, ogni concessione allo Stato laico, usurpatore e
persecutore. Se non mancano forme di un separatismo imperfetto che prendeva il posto di quello assai rigido realizzato all’indomani dell’Unità d’Italia,
si deve riconoscere che l’Ottocento fu nel suo insieme un secolo di aspre
conflittualità. Per una delle non rare ironie della storia, sarebbe stato un regime illiberale a sanzionare nel 1929 quella “conciliazione” che il liberalismo
italiano era stato incapace di realizzare.
L’aspirazione alla libertà
Che cosa è la storia del Risorgimento se non una storia costellata di episodi
di eroismo? Che cosa sono quei giovani che hanno sacrificato la loro vita per
la causa della libertà, dell’indipendenza e dell’Unità se non degli eroi? Sono
queste le parole del nostro capo dello Stato, Giorgio Napolitano, in occasione dell’inaugurazione della Mostra “Gioventù Ribelle. L’Italia del Risorgimento”. Gli eroi del risorgimento hanno lottato a tutti i costi per difendere i
propri ideali, in particolare per la libertà. Essi volevano essere liberi dall’oppressione straniera, creare un’unione tra cittadini appartenenti ad uno stesso
Stato. Perciò, se un Risorgimento è stato possibile e si è raggiunta un’unità lo
si deve prima di tutto alla libertà. Dalle pagine di storia scritte secolo dopo
secolo, partendo dagli assiri, passando per gli egizi e i romani, citando gli
ebrei e il medio oriente, fino a giungere ai paesi libici, il medesimo filo conduttore lega indissolubilmente le sorti di queste civiltà e di questi paesi: la
tutela della propria libertà. “E come potevamo noi cantare con il piede straniero sopra il cuore …” scrive Salvatore Quasimodo. Già, come si può essere
felici, “cantare”, se non si è detentori del diritto fondamentale di ogni uomo?
Il Risorgimento è il frutto di una grande e continua evoluzione, partita nel
1700 e culminata nel 1800. Gli intellettuali sono stati i reali “preparatori” di
a cura di fiorella cennamo
91
questo movimento storico, attraverso le loro opere e le idee e gli ideali in esse
presenti. Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto afferma
Ugo Foscolo dando inizio al celebre romanzo epistolare Ultime lettere di Jacopo Ortis ed è proprio in questa frase che riusciamo a cogliere quanto fosse
grande per lo scrittore l’amore per il proprio paese. Jacopo è deluso, frustrato, stanco poiché la sua città, la Repubblica di Venezia, è stata ceduta da Napoleone agli austriaci. Essendo il suo sogno politico infranto ed essendosi la
libertà sperata rivelata una lontana illusione, decide di suicidarsi. È dunque
la consapevolezza di non essere libero che spinge il giovane a darsi alla morte.
Giovanni Verga in una novella tratta da Novelle Rusticane nota con il titolo
Libertà mette in luce gli avvenimenti della rivolta di Bronte. I modesti abitanti di questo paese non ambiscono ad un’Italia unita sotto la stessa bandiera,
ma più semplicemente ad una libertà quotidiana, priva di padroni e delle loro
imposizioni, oltre che ad un appezzamento di terreno al fine di garantire la
sopravvivenza alle loro famiglie. Ciò che risulta sconvolgente è che questo bisogno di libertà spinge i suddetti uomini a commettere crimini di ogni genere
e con una grande efferatezza contro i cosiddetti “cappelli”. Questi uomini
volevano semplicemente essere liberi, ma non potevano puntare tanto in alto,
essendo ormai abituati ai soprusi e allo scarso interesse da parte dei padroni
borbonici i quali, al tempo stesso, garantivano loro il sostentamento. Nel Risorgimento abbiamo avuto dei giovani eroi che hanno persino rinunciato alla
propria vita per garantire a noi, loro posteri, un esistenza priva di ingiustizie
e soprusi, ma purtroppo, ancora oggi, in molte nazioni, il diritto inviolabile
e sacro di ogni uomo, la libertà, non è riconosciuto. È comunque necessario
non perdere mai la speranza e continuare a credere che la subordinazione
non durerà in eterno. Tutti i paesi che si dicono e sono liberi non possono
ignorare le richieste di aiuto di quanti chiedono che anche a loro venga riconosciuta la libertà. Non smettiamo di credere nel miglioramento e nelle grandi capacità dell’uomo per rispetto di chi ci ha reso liberi e per rispetto dei
principi inviolabili dell’umanità. Infatti che senso ha l’esistenza di un uomo
se non dispone della libertà?
Il canto degli italiani
Tutti gli uomini di una nazione sono chiamati, per la legge di Dio e dell’umanità, ad essere uguali e fratelli (Giuseppe Mazzini). Ed è proprio chiamandoli
fratelli che Mameli (convinto e coerente mazziniano) rivolge agli Italiani il
92
Il Risorgimento in poco più di mille parole
Canto a loro dedicato. Oggi l’Italia, lungi dall’essere “calpestata e derisa”, è
una realtà fuori discussione; come fuori discussione sono l’unità della Patria,
la sua indipendenza, la sua democrazia, la sua Costituzione repubblicana.
Per questo, oggi, può risultare difficile comprendere fino in fondo l’emozione e la speranza che quel “fratelli” era in grado di suscitare nei patrioti
risorgimentali. Ma nel 1847, quando il ventenne Goffredo Mameli scrisse
il Canto degli Italiani (è questo il titolo originale di Fratelli D’Italia), l’Italia
come la conosciamo noi era ancora un sogno, un’utopia. La penisola era politicamente frammentata in una congerie di stati e staterelli, soggetti ai governi
oscurantisti e illiberali nel 1815 dal Congresso di Vienna. L’Italia sosteneva
sprezzantemente Mettemich, era solo un’espressione geografica. Il Canto degli
Italiani, invece, già con quel “fratelli” iniziale, dichiarava che l’Italia aveva il
dovere morale di essere unita e che per i suoi figli era giunta l’ora di tornare
ad essere popolo. Tutto l’Inno è improntato al messaggio mazziniano. Innanzitutto, l’unità d’Italia, puntigliosamente illustrata rievocando significativi
momenti storici delle sue diverse aree dall’Alpi alla Sicilia. E la stessa ampiezza dello sguardo suggerisce che il “fondersi insieme” non deve tradursi
in un appiattimento che dimentichi o sopprima il grande patrimonio delle
diverse realtà regionali. Diceva Mazzini, l’istituzione repubblicana è la sola
che assicuri questo avvenire. E l’Inno è profondamente repubblicano: la Lega
Lombarda, Ferrucci, il Balilla, i modelli d’azione che Mameli elenca nella
quarta strofa, sono sì esempi di lotta contro lo straniero, ma sono anche l’istituzione repubblica che combatte il governo monarchico. Così come tra le
glorie di Roma viene esaltato “Scipio”, il condottiero repubblicano Scipione
l’Africano, e non Giulio Cesare o un imperatore. Sotto il profilo puramente
estetico è inevitabile rilevare delle pecche tanto nei versi che nella melodia
dell’Inno. Ma a dispetto delle sue lacune artistiche, Fratelli d’Italia riesce
inequivocabilmente a coinvolgere emotivamente gli ascoltatori, a far vibrare
quel sentimento di appartenenza a una nazione che nasce da una lunga storia
comune e che spinge a superare le diversità e le divisioni. Ne era ben cosciente Giuseppe Verdi, che nel 1864 lo inserì con la Marsigliese e il God save the
King nel suo Inno delle Nazioni. E ancora oggi, a più di centocinquant’anni
dalla sua nascita, con la sincerità dei suoi intenti, con il suo impeto giovanile,
con la sua manifesta commozione, l’Inno di Mameli continua a toccare quella
corda dentro di noi che ci fa sentire, ovunque siamo, fratelli d’Italia.
a cura di fiorella cennamo
93
A cura di Antonietta Iacovazzo
Il ruolo della Chiesa e dei cattolici
negli ultimi 150 anni di storia unitaria
Interventi di
Angela Villano (VB Socio-Psico-Pedagogico)
Fabiana Manente (VB Socio-Psico-Pedagogico)
Nel contesto di una riflessione proposta in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, è opportuno prendere in considerazione il ruolo della Chiesa e dei
cattolici nel corso della storia passata, dal tardo 1861 ai giorni nostri.
Nella struttura socio-politica ottocentesca il potere era spartito tra due
grandi istituzioni, lo Stato della Chiesa, con il potere temporale del papa e
quello imperiale, periodicamente conflittuali fra loro. Proprio nell’800, parte
dell’opinione pubblica europea pensava che si dovesse porre fine ad entrambi i poteri per poter così realizzare l’unificazione Italiana. Pio IX continuò
però sempre a protestare in difesa della Chiesa. La questione fu poi risolta
con il trattato Lateranense che realizzò la conciliazione tra la Chiesa e l’Italia,
portando così a pieno compimento il Risorgimento, secondo il giudizio di
Giovanni XXIII. Nel tardo 1848 Papa Pio IX rifiutò categoricamente di partecipare alla guerra contro l’Austria perché riteneva di non poter assumere la
causa di una parte dei suoi fedeli contro altri cattolici e fu proprio questo la
base e l’inizio di una vera e propria unificazione, il primo passo verso l’assunzione da parte del Papa, della figura di padre comune di tutte le genti e quindi
verso una riconciliazione del Papato col mondo contemporaneo.
L’orientamento profondo di Pio IX fu inizialmente avversato da un abile
politico quale Camillo Benso conte di Cavour il quale però, quando iniziò
a perseguire un più ampio disegno italiano, cominciò anche a prendere coscienza del valore universale di Roma e del Papato.
Nelle trattative con la Santa Sede nel 1860-61 egli cercò, tenacemente, di
ottenere il consenso del Papa all’acquisizione italiana di Roma. Ciò fa capire
come le future vicende italiane fossero fortemente influenzate dalla collocazione internazionale del Papato. Ancora oggi, la presenza del Papa a Roma è
una realtà che non può essere ignorata. Per quanto riguarda il contesto culturale e politico del Risorgimento, si può affermare che la nuova Costruzione
a cura di Antonietta Iacovazzo
97
italiana si inseriva in un quadro europeo densamente popolato di nazioni, già
formate o in via di formazione.
L’Italia non poteva contare su una solida costruzione istituzionale e amministrativa, come quella dei grandi Stati assoluti dell’Europa occidentale, né
poteva avvalersi di un’omogeneità etico - sociale. Proprio a tali problemi ha
cercato di rispondere il progetto risorgimentale a cui la Chiesa e i cattolici
hanno dato un contributo rilevante. La cosa più importante era ricorrere al
principale patrimonio culturale condiviso da tutta la popolazione italiana,
senza distinzione di aree geografiche e classi sociali. L’elemento unificatore
in questo caso era rappresentato dalla fede cristiano-cattolica. Non è casuale
che il movimento nazionale italiano abbia preso il nome di Risorgimento,
che significa letteralmente “risurrezione”, termine che allude, secondo la
narrazione cristiana, alla rinascita dopo la morte, rappresentata dalla frammentazione politica e dalle continue conflittualità dei secoli precedenti; Risorgimento che doveva riportare l’Italia e gli italiani alla vera vita. Elemento
base di questo progetto era finalmente l’idea di Nazione, prendendo come
riferimento il modello unitario dell’antico Israele, considerata da molti patrioti, come il Gioberti e tanti altri, una nazione universale: universale, intesa
non solo nel senso di abbracciare realtà, lontane nello spazio, ma anche di
raccogliere diversità profonde tra chi vive vicino.
I cattolici hanno contribuito in modo rilevante a fondare un nuovo senso di
convivenza civile, insistendo sulle leggi dell’accoglienza e del rispetto, base
della morale evangelica, come sosteneva anche il Manzoni. La tradi­zione cattolica ha influito anche sul modello politico-istituzionale italiano. Gran parte del pensiero politico del Risorgimento prese le distanze dalla rivoluzione
francese e proprio grazie a questo, l’unificazione italiana assunse, come si sa,
un carattere moderato, nonostante i tentativi in altra direzione di Mazzini
e Garibaldi. Tale presa di distanza dalla Rivoluzione francese non fu, dunque, opera dei liberali moderati ma di cattolici come Rosmini e Manzoni, i
quali affermarono che, solo rispettando fino in fondo la libertà della Chiesa
e dei credenti, il movimento rivoluzionario poteva liberarsi dalla violenza e
affermare in modo autentico il principio di libertà. Trasmettendo attraverso
i secoli l’insegnamento evangelico, infatti, la Chiesa opera da sempre per la
libertà dei popoli ed è, perciò, naturale alleata di questi, contro il dispotismo sia dei principi sia dei rivoluzionari. Questa convinzione di Rosmini e
Manzoni è all’origine di una peculiare tradizione politico-culturale italiana,
che ha poi avuto in Alcide De Gasperi il suo più noto sostenitore e che ha
largamente influenzato la storia politico-istituzionale italiana. Il contributo
98
Il ruolo della Chiesa e dei cattolici negli ultimi 150 anni di storia unitaria
della Chiesa e dei cattolici al Risorgimento è stato quindi tutt’altro che marginale nel corso dei 150 anni. É noto, ad esempio, quanto abbiano operato i
cattolici, a partire dalla prima guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra,
per avvicinare larghe masse, soprattutto contadini, allo Stato, che risentiva
ancora del carattere fortemente elitario degli inizi; non può inoltre essere
sottovalutata l’importanza della presenza della fitta rete di iniziative sociali e
politiche del cattolicesimo italiano, per affrontare squilibri economici e disuguaglianze sociali.
Il contributo dei cattolici è emerso in particolare nei momenti di difficoltà
o in situazioni di crisi. Tra questi momenti rientrano soprattutto le guerre.
Nel vuoto politico istituzionale emerso nel ‘43, la Chiesa è diventata un fondamentale punto di riferimento per tutti; grazie al suo appoggio, gli italiani
hanno cominciato a costruire la loro unità intorno all’istituzione ecclesiastica.
Si radica in questa importante premessa l’assunzione, da parte dei cattolici
della guida dello Stato e del paese, nel secondo dopoguerra.
Tra il 1945 al 1975, l’Italia è andata incontro ad un brusco cambiamento,
passando, da una società agricola ad una società industriale con vaste migrazioni dal Sud al Nord e da Est ad Ovest e ad un’intensa urbanizzazione, anche
se in questo trentennio, l’impegnativa presenza pubblica verso cui i cattolici
si sono proiettati, li ha distratti dall’elaborazione di un progetto culturale
adeguato alle trasformazioni in atto. Un elemento di costante problematicità è stato sempre rappresentato dalle profonde diversità storiche, sociali ed
economiche tra le diverse aree italiane. È cruciale in tal senso la questione del
Mezzogiorno tuttora aperta. Non si deve però dimenticare che molte cose
sono cambiate nel tempo e che ora la condizione del Mezzogiorno italiano
appare completamente mutata, grazie anche al contributo della Chiesa e dei
cattolici. Ciò è avvenuto ad esempio in seguito al profondo cambiamento
delle strutture ecclesiastiche che si è avuto nelle regioni meridionali, dopo
l’Unità. Ancora più evidente è stato il contributo dell’azione comune svolta
dall’episcopato, dall’associazionismo cattolico e dalla Dc negli anni ‘50 e ‘60
del Novecento. Lo stretto legame tra cattolici e Stato rappresenta dunque
un’eredità storica che interroga anche il presente nel mutuo impegno, pur
nelle diversità e nell’indipendenza dei ruoli a mantenere pace, unità, giustizia
e libertà faticosamente conquistati nel corso dei secoli.
a cura di Antonietta Iacovazzo
99
Fonti
A. Giardina, G. Sabbatucci, V. Vidotto, Il mosaico e gli specchi,
Laterza, Bari
M. Guasco, Storia del clero in Italia dall’800 ad oggi, Laterza, Bari 1997
A. Giovagnoli, Unità d’Italia. I nodi di 150 anni di storia (articolo a cura
del Centro culturale Gli scritti 4 dicembre 2010)
100
Il ruolo della Chiesa e dei cattolici negli ultimi 150 anni di storia unitaria
A cura di Antonietta Iacovazzo
Il cammino dell’identità nazionale italiana
nel pensiero di Benedetto XVI
Interventi di
Ester Oricchio (IIID Linguistico)
Francesca Torrusio (IIID Linguistico)
Ilaria Di Vita (IIID Linguistico)
Il Santo Padre Benedetto XVI, in occasione della festosa ricorrenza dei
150 anni dell’unità d’Italia, in un messaggio al Presidente della Repubblica
Giorgio Napolitano, ripercorre il lungo e, talvolta, tortuoso cammino verso
la preziosa unità raggiunta oggi.
«Il Cristianesimo ha contribuito in maniera fondamentale alla costruzione
dell’identità italiana attraverso l’opera della Chiesa, delle sue istituzioni educative ed assistenziali fissando modelli di comportamento, rapporti sociali; ma
anche mediante una ricchissima attività artistica: la letteratura, la pittura, la
scultura, l’architettura, la musica». Queste sono le prime parole del Pontefice
che ricorda nel suo messaggio grandi artisti (Petrarca, Michelangelo, Raffaello, Pierluigi da Palestrina, Caravaggio, Scarlatti, Bernini e Borromini), i quali
nel corso dei secoli, hanno dato un apporto fondamentale alla formazione
dell’identità italiana.
Il Pontefice ricorda anche «le esperienze di santità (in particolare quelle di
San Francesco D’Assisi e di Santa Caterina da Siena) che, numerose, hanno
costellato la storia dell’Italia, contribuendo non soltanto attraverso la realizzazione del messaggio evangelico, ma sotto il profilo culturale e persino politico».
«La costruzione politico-istituzionale dello Stato unitario coinvolse diverse
personalità del mondo politico, diplomatico e militare, tra cui esponenti del
mondo cattolico. Questo processo, in quanto dovette misurarsi col problema
della sovranità temporale dei Papi, ebbe effetti dilanianti nella coscienza dei
cattolici italiani, divisi tra gli opposti sentimenti di fedeltà nascenti dalla cittadinanza da un lato e dall’appartenenza ecclesiale dall’altro». Egli prosegue
nel dire che, «se fu il processo di unificazione politico-istituzionale a produrre
quel conflitto tra Stato e Chiesa che è passato alla storia col nome di Questione
Romana, nessun conflitto si verificò nel corpo sociale, segnato da una profonda
amicizia tra comunità civile e comunità ecclesiale».
a cura di Antonietta Iacovazzo
103
Il Papa ricorda anche il sacrificio di Aldo Moro e Vittorio Bachelet, i quali
«negli anni dolorosi e oscuri del terrorismo hanno dato la loro testimonianza di
sangue» e continua affermando che la Chiesa, grazie alla larga libertà assicuratele dal Concordato Lateranense, ha continuato con le proprie istituzioni
ed attività a fornire un fattivo contributo per il bene comune.
«La Chiesa è consapevole – spiega Ratzinger – non solo del contributo che
essa offre alla società civile per il bene comune, ma anche di ciò che riceve dalla
società civile».
Vi è infatti una bellissima espressione affermata dal Concilio Vaticano II
«chiunque promuove la comunità umana nel campo della famiglia, della cultura, della vita economica e sociale, come pure della politica, sia nazionale che
internazionale, porta anche un piccolo aiuto, secondo la volontà di Dio, alla
comunità ecclesiale, nelle cose in cui essa dipende da fattori esterni».
Il Papa prosegue dicendo che bisogna riconoscere l’onere e il singolare
privilegio avvertito dalla Nazione italiana in quanto sede del successore di
Pietro e quindi centro della cattolicità. «E la comunità nazionale – aggiunge
– ha sempre risposto a questa consapevolezza esprimendo vicinanza affettiva,
solidarietà, aiuto alla Sede Apostolica per la sua libertà e per assecondare la
realizzazione delle condizione favorevoli all’esercizio del ministero spirituale
nel mondo da parte del successore di Pietro, che è Vescovo di Roma e Primate
d’Italia».
Vorremmo concludere citando una tra le più belle frasi espresse in questo
messaggio, secondo cui «passate le turbolenze causate dalla “Questione Romana” giunti all’auspicata Conciliazione, anche lo Stato Italiano ha offerto e
continua ad offrire una collaborazione preziosa, di cui la Santa Sede fruisce e di
cui è consapevolmente grata».
Fonti
quotidiano.net, da: Il Quotidiano
104
Il cammino dell’identità nazionale italiana nel pensiero di Benedetto XVI
A cura di Carmela Desiderio
Unità d’Italia ed Italia unita
Interventi di
Bortone Giulio(IIB Clas.)
Cammarota Matilde(IIB Clas.)
D’Agosto Nello(IIB Clas.)
D’Alessandro Aniello(IIB Clas.)
Di Sevo Elena(IIB Clas.)
Fierro Gianfranco(IIB Clas.)
Fiorillo Maria Sofia(IIB Clas.)
Guida Paolo(IIB Clas.)
Guzzo Jessica(IIB Clas.)
Iannuzzella Elvira(IIB Clas.),
Minardi Davide(IIB Clas.)
Monzo Carolina(IIB Clas.)
Orrico Clarissa(IIB Clas.)
Pacente Luciana(IIB Clas.)
Palladino Fabiola(IIB Clas.)
Perazzo Anna(IIB Clas.)
Pizzolante Maria(IIB Clas.)
Polichetti Chiara(IIB Clas.)
Puglia Maria Federica(IIB Clas.)
Stamatiou Lemonia(IIB Clas.)
Introduzione
Troppo spesso diamo peso all’apparenza e poco all’essenza. Sappiamo tutti
che sono trascorsi 150 anni dall’unità d’Italia, ma ognuno di noi è davvero
a conoscenza degli eventi che hanno portato alla sua unificazione? È necessario che un italiano conosca la storia della sua Italia perché non può vivere
superficialmente, basandosi solo ed esclusivamente sulle circostanze attuali,
troppo poco, troppo futile. Si dice che l’unione fa la forza e proprio munendoci di questa forza, insieme, abbiamo deciso di raccontare il percorso che
l’Italia ha dovuto affrontare, prima di poter essere chiamata realmente unita;
un’Italia che è cresciuta sotto ogni aspetto, non solo in ambito storico ma
anche in ambito sociale con l’affermarsi della moda, della musica, del cinema
e dello sport.
Verso l’unità d’Italia
L’Italia vanta il merito di aver dato vita prima ad una cultura e poi ad una
nazione vera e propria. È la cultura che ci accomuna ma è stato il sangue che
ci ha uniti, il sangue di coloro per cui il nome di patria era sì dolce e caro.
Il grande motore della storia è la passione e questa età ne è gravida. Questa
passione, linfa vitale nelle vene dei poeti, dei musicisti, degli artisti, dei letterati fino ad arrivare agli strati più umili della popolazione vessati da secoli di
umiliazioni e di soprusi, finalmente pronti all’azione.
Correva l’anno 1848 e il giardino d’Europa si presentava agli occhi dei visitatori stranieri lacerato: Regno di Sardegna, Lombardo - Veneto, Granducato di Toscana, Ducato di Parma e Piacenza, Ducato di Modena e Reggio,
Stato Pontificio, Regno delle due Sicilie.
Un’eco di tale profonda lacerazione risuona nelle parole vibranti della se
a cura di carmela desiderio
107
conda strofa dell’inno di Mameli: noi fummo da secoli calpesti e derisi, perché
non siam popolo, perché siam divisi .
Quando, perché e cos’è stato che ha determinato il cambiamento affinché
si arrivasse all’unità d’Italia? È questo ciò che ci proponiamo di capire.
In quel fatidico anno 1848, si accese la fiamma della rivoluzione negli animi
in cui già ribolliva il desiderio di libertà e di rinnovamento … Era la primavera dei popoli.
Tra le vicissitudini europee anche lo stivale martoriato sollevò la punta fin
troppo recisa e calpestata: l’insurrezione a Palermo costrinse Ferdinando II a
concedere una Costituzione, imitato in seguito da Carlo Alberto, da Leopoldo II e Pio IX. I democratici italiani emuli delle vicende rivoluzionarie della
Francia, furono spinti a portare in primo
piano la questione nazionale. Anche Venezia e Milano si mostrarono sensibili a quel
vasto movimento insurrezionale. La prima
guerra d’Indipendenza si concluse con una
restaurazione dell’ordine precostituito.
Pertanto dopo questo primo fallimento dei
patrioti, non ci resta che immaginare quali
siano state le ripercussioni di tali sommosse
sulla popolazione. Cosa che risulterà davvero semplice se abbiamo davanti agli occhi
La Meditazione di Hayez, maggiore esponente del romanticismo pittorico italiano.
L’artista ha realizzato una prima versione
dell’opera nel 1850, una seconda nel 1851:
il fine era quello di immortalare, tramite la
personificazione dell’Italia nella figura femminile, le conseguenze delle cinque giornate di Milano, alle quali è evidente il riferimento nell’incisione a cifre rosse
sulla croce che la donna reca in mano. La donna appare malinconica, la sua
espressione mostra quel sentimento turbato, quella delusione che era propria
dei patrioti negli anni immediatamente successivi al 1848. Ma la sconfitta non
spense del tutto gli animi di coloro che tanto avevano desiderato la libertà:
una grande storia quale quella italiana, edificata sulle imprese di uomini grandi, non poteva non proseguire se non grazie ad altri grandi uomini, i quali
hanno imparato a morire per la patria affinché noi vivessimo per la patria.
A Roma si era costituita le Repubblica Romana, sotto la guida di una delle
108
Unità d’Italia ed Italia unita
figure più luminose della storia risorgimentale: Giuseppe Mazzini, nel quale
aveva preso corpo radicalmente una concezione politica democratica mescolatasi con una forte componente mistico-religiosa. Fervente sostenitore
del principio di associazione, profetava l’era di una terza Roma, dopo quella
dei cesari e dei papi, essa sarebbe stata il centro di una nuova e più alta unità
morale e sociale di tutti i popoli della terra. Il suo programma politico era di
un’estrema chiarezza: l’Italia doveva rendersi indipendente e darsi una forma
di governo unitario e repubblicano. Metternich stesso, l’uomo che ha deciso
le sorti d’Europa nel congresso di Vienna, ha lasciato scritto: «Ebbi a lottare
con il più grande dei soldati, Napoleone. Giunsi a mettere d’accordo tra loro
imperatori, re e papi. Nessuno mi dette maggiori fastidi di un brigante italiano:
magro, pallido, cencioso, ma eloquente come la tempesta, ardente come un apostolo, astuto come un ladro, disinvolto come un commediante, infaticabile come
un innamorato, il quale ha nome: Giuseppe Mazzini»1.
Ma, come si suol dire, è l’unione che fa la forza: Mazzini non era solo, accanto a lui vi erano altri uomini che condividevano la forza e la voglia di fare
le cose.
Già distintosi nelle vicende del’48 e destinato a svolgere nell’ambito della
Seconda Guerra d’Indipendenza un ruolo decisivo, dall’esperienza dei Cacciatori delle Alpi alla spedizione dei Mille con lo sbarco a Marsala, l’eroe dei
due mondi Giuseppe Garibaldi, portò a compimento in maniera quasi definitiva il cammino dell’unificazione nazionale, pur non realizzando in pieno le
speranze e le aspirazioni dei patrioti .
Addì 17 marzo 1861 Vittorio Emanuele II di Savoia fu proclamato, per
grazia di Dio e volontà della nazione, re del neonato Regno d’Italia, che tuttavia era mutilo ancora di alcune parti come il Veneto e Roma che acquisirà
successivamente.
Non possiamo non citare il più grande statista della prima fase del Regno
d’Italia, Camillo Benso conte di Cavour, che avviò un programma di riforme
statali di vasta mole, improntato a uno spirito lungimirante e liberale.
Questi sono solo alcuni tra i principali volti dell’Italia Risorgimentale e unitaria. Le difficoltà che dovrà affrontare questo Stato giovane, eppure così antico, si presenteranno già al suo nascere, eppure lo spirito indomito di uomini
il cui soffio della gioventù alita sui loro volti accesi di amor patrio, riuscirà tra
le vicissitudini a oltrepassare gli inverni della storia.
Se analizziamo la storia d’Italia è lì, nel Risorgimento che si concentra la
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grandezza, ma una grandezza senza pari, intrisa di gioventù e del ventunenne
Mameli che cantava: “Uniamoci, uniamoci, l’Unione e l’amore rivelano ai popoli le vie del Signore, giuriamo far libero il suol natio: uniti per Dio, chi vincer
ci può! Stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte, l’Italia chiamò”.
Ecco l’Italia, terra di contraddizioni in cui è sempre viva la passione degli
albori come l’amore che ne ha determinato la nascita.
Verso il ’900
Gli anni che seguono vedono il consolidamento del giovane Regno d’Italia che, attraverso momenti difficili, fatti di guerre ed altro sangue versato,
giunge all’unificazione dell’intera penisola, compreso il Veneto e Roma. Si
perviene al consolidamento di quella idea di Patria che porta l’Italia ad essere
oltre che una Nazione, anche uno Stato. Il secolo che ha visto l’Italia unirsi si
conclude con un evento che per molti può essere sorprendente ma per altri
rappresenta un ulteriore tassello verso la libertà: l’uccisione a Monza di Umberto I ad opera di Gaetano Bresci.
Il ’900 prende dunque avvio tra timori e speranze; si susseguono al governo
grandi statisti tra cui spicca il nome di Giovanni Giolitti che caratterizzerà
un’età. è un periodo che presenta aspetti contrastanti, da un lato l’euforia
per uno Stato che si consolida e mostra il suo volto liberale, dall’altro la questione sociale e i fermenti che agitano le masse contadine. È così che l’Italia
si ritrova a dover fronteggiare la prima grande catastrofe che si abbatterà
sull’Europa: la grande guerra. Il primo conflitto mondiale vede crollare tutte
le speranze ed i sogni di benessere fino ad allora nutriti dai popoli. Alla fine
del conflitto gli italiani si ritrovano vincitori ma delusi. “Abbiamo vinto la
guerra ma perduto la pace” questo è il sentimento che si agita negli uomini in
quegli anni. Sono proprio quelli gli anni in cui tale sentimento farà emergere,
a livello culturale, sociale e politico, un nuovo movimento che presto trasformerà in regime lo stato liberale che, pur tra tante difficoltà, si era consolidato.
Sono questi gli anni del ventennio fascista.
Gli anni successivi alla Prima Guerra Mondiale furono un periodo di profonda crisi economica e sociale da cui l’Europa usciva sconvolta e politicamente divisa. Contemporaneamente iniziavano a nascere i grandi partiti di
massa; tuttavia, la piccola borghesia e i reduci di guerra, delusi dai trattati di
pace, aderivano ai movimenti nazionalistici. In Italia, a questo, si aggiunse
la profonda crisi che colpì lo stato liberale. Di questa situazione, approfittò
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Unità d’Italia ed Italia unita
Benito Mussolini che nel 1921 aveva fondato il Partito Nazionale Fascista.
Il 28 ottobre 1922, Mussolini con colonne di squadristi provenienti da varie
parti d’Italia, diede luogo alla “Marcia su Roma”. Nei giorni successivi, il
re Vittorio Emanuele III incaricò Mussolini di formare il nuovo governo;
ebbe così iniziò la dittatura fascista e il 6 aprile 1924, attraverso brogli
elettorali i fascisti vinsero le elezioni. L’anno successivo entrarono in vigore le leggi “Fascistissime” che portarono alla graduale soppressione della
libertà di stampa e di pensiero. Nel 1927 con la nascita delle corporazioni
furono sciolti partiti e sindacati ed esautorato il Parlamento. Per ottenere
l’appoggio della Chiesa e dei cattolici, l’11 febbraio 1929 Mussolini firmò i
Patti Lateranensi con il Papa. Seguirono gli anni in cui Mussolini si dedicò
alla conquista coloniale dell’Etiopia (1936) e ai primi rapporti con Hitler,
che portarono nel 1938 all’approvazione delle leggi razziali in Italia. Il 10
giugno 1940, l’Italia entrò in guerra al fianco della Germania nazista, ma
nel 1943 la situazione per l’Italia si complicò portando, dopo la destituzione e l’arresto di Mussolini, il re Vittorio Emanuele ad incaricare Badoglio
di formare un nuovo governo e a firmare con gli Alleati l’armistizio dell’8
settembre.
Seguirono gli anni della resistenza partigiana e della guerra di Liberazione
Nazionale. Il 25 aprile 1945, l’Italia fu liberata e dopo tre giorni Mussolini
venne fucilato dai partigiani. Il 2 giugno 1946 si tenne il referendum a suffragio universale in seguito al quale nacque la Repubblica e fu eletta l’assemblea
costituente. Il 27 dicembre 1947 venne promulgata dal Presidente provvisorio, Enrico De Nicola, la Costituzione della Repubblica Italiana che entrerà
in vigore il primo gennaio 1948.
In un contesto in cui si susseguono eventi rilevanti che non possiamo trascurare data l’importanza storica, l’Italia a partire dal 1920 vede lo sviluppo
anche in altri ambiti sociali:
Cinema
Nel 1922 Mussolini chiamava il cinema “l’arma più forte dello Stato”2 perché il duce aveva capito che l’importanza dell’immagine poteva far presa
sul popolo. Il partito voleva esportare nel mondo un’immagine vincente
dell’Italia. Dal 1940 al 1943, tre furono gli scopi dei cinegiornali: mostrare
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la perfezione degli armamenti; lodare la vittoriosa esecuzione delle imprese
belliche; prevedere l’inevitabile sconfitta del nemico. Attraverso le immagini il duce poteva mostrarsi al popolo come l’artefice di ogni successo, l’incarnazione di tutti i valori dello Stato, sicuro di sé, forte, robusto, sempre
nella stessa posa, un’immagine questa che comincia ad affievolirsi dopo la
tragedia del 1943.
Musica
A partire dal 1924 sono sperimentate in Italia le prime trasmissioni radiofoniche, irradiate prima dall’ U.R.I. (Unione Radiofonica Italiana), e poi dal
1927 dall’ E.I.A.R. (Ente Italiano Audizioni Radiofoniche). Il mezzo radiofonico favorisce la diffusione e la notorietà delle canzoni e provoca un’evoluzione dei modelli musicali. La musica diventa in questo periodo il sottofondo sonoro delle attività casalinghe e del lavoro partigiano; sono canzoni
destinate esclusivamente ad un pubblico adulto e solo il fascismo orienterà la
musica al pubblico giovanile, con lo scopo di esaltare le virtù “maschili” della
società che si voleva costruire. Diversi compositori si propongono di sollevare o di distrarre la gente comune dalla mancanza di certezze di quegli anni; si
impongono i filoni malinconici interpretati da Beniamino Gigli, Rodolfo de
Angelis, e lo swing italiano grazie a nomi come Natalino Otto o il Trio Lescano. Infine un grande successo è garantito dal filone scherzoso, con canzoni
che spesso erano una satira del regime e di alcuni suoi esponenti.
Moda
1923-1930. La moda cessa di essere riservata ad una élite e si apre alle
masse. La donna si “spoglia” di quegli abiti troppo pesanti e che ostacolano
il movimento e lascia accarezzare le sue forme sottili da tessuti morbidi, semplici, che la fanno sentire libera. Per la prima volta la donna accorcia i suoi
capelli, utilizza cosmetici e le labbra si colorano di rosso. Cambia radicalmente l’ideale di bellezza: la donna deve apparire come un’eterna adolescente.
Da reclusa sotto pile di padellame e kit per il punto a croce, la donna è pronta ad occuparsi di lavori d’ufficio e mansioni tradizionalmente riservate ai
maschi. Cambia il suo abbigliamento: gonna corta per l’ufficio, più lunga per
la sera. L’acconciatura è molto più semplice: capelli corti o lunghi ma molto
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Unità d’Italia ed Italia unita
spesso rivolti all’insù o raccolti per motivi igienici.
Teatro
Durante il periodo fascista il regime assegnava a drammaturghi il compito
di creare un teatro esplicitamente fascista. Mussolini diceva: «Occorre che gli
autori italiani in qualsiasi forma d’arte o di pensiero si manifestino veramente
e profondamente interpreti del nostro tempo, che è quello della rivoluzione
fascista»3. Si assiste così alla diffusione di un alto numero di opere scritte da
militanti fascisti; in molti casi i testi erano dedicati a Mussolini “per gratitudine verso colui che l’Italia tutta guida e anima, ammaestra e comanda”4. Lo
stesso Mussolini scrisse tre canovacci teatrali che un noto drammaturgo mise
in scena con grande successo.
Sport
La valorizzazione dello sport nella nazione portò risultati sorprendenti
quali le vittorie ai campionati del mondo del 1934 e 1938, il secondo posto
quanto a numero di medaglie alle olimpiadi di Los Angeles, trionfi nel ciclismo di Binda e Guerra e i successi nel campo automobilistico. Utilizzato sia
come strumento di consenso, sia come strumento educativo per preparare la
nazione alle armi, lo sport conobbe una ascesa senza precedenti, gli atleti più
conosciuti e prestigiosi venivano trasformati in ambasciatori del regime nel
mondo. Nello stesso tempo fecero la loro comparsa negli stadi la grande industria e la pubblicità; l’immagine dei calciatori fu utilizzata per promuovere
sia prodotti di largo consumo sia generi di lusso come automobili.
“Libertà è partecipazione”
Il 25 luglio 1943 il primo proclama radio emanato da Badoglio annunciava:
la guerra continua. L’8 settembre venne reso noto l’armistizio firmato con
gli alleati a Cassibile: ormai la più autentica volontà del popolo italiano si
Discorso di Mussolini alla Scala di Milano
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esprimeva attraverso la voce dell’antifascismo e della resistenza. La libertà
in quegli anni era un sogno lontano, un desiderio agognato e fortemente
represso dalle bande di squadristi sempre pronti a sopprimere ogni minimo
dissenso. L’ex partigiano ed ex presidente della Repubblica Sandro Pertini,
diceva: «Quando la libertà è perduta, tutto è perduto»5. Già, ma quanto vale la
libertà? Cos’è l’uomo senza la libertà? Uno dei fondatori del partito d’azione,
Piero Calamandrei, per far comprendere il valore della libertà e la profonda
miseria in cui cade l’essere umano senza di essa affermò: «La libertà è come
l’aria, ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente
quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per
venti anni. E vi auguro che questo senso di angoscia non lo dobbiate provare
mai, ricordandovi ogni giorno che sulla libertà si deve vigilare, vigilare dando
il proprio contributo alla vita politica»6. Come quando un uomo, nell’atto di
respirare, sente che i suoi polmoni si riempiono d’aria e sente che quell’aria
è assolutamente necessaria per la sua vita, così è la libertà: assolutamente
necessaria, deve esserlo. E per non provare mai quel senso di angoscia di cui
parlava Calamandrei, l’unico espediente è vigilare, vigilare dando il proprio
contributo alla vita politica, come lo stesso asserisce. È proprio per questo
contributo alla vita politica, è proprio per vigilare sulla libertà di ognuno di
noi che quelle centinaia di migliaia di partigiani morirono, opponendosi ad
ogni tentativo di limitazione della stessa.
Leggendo l’ultima lettera di un partigiano, Paolo Braccini, docente universitario e membro del Partito d’Azione, alla figlia Gianna, si comprende
davvero cosa voleva dire la parola “libertà” per coloro che si sacrificarono
per riottenerla. Braccini dice di morire per un ideale, per una “fede”, ma è
speranzoso; non ha paura di morire, lui è un uomo che non piange, che alle
lacrime preferisce la lotta perché spera di seguitare a vivere nella memoria
della figlia. Paradossalmente, Braccini muore per non morire: muore fucilato
per difendere la sua libertà, la nostra libertà, sperando, altresì, di non morire
mai nella nostra memoria, nella memoria di chi oggi può dire, a volte con
troppa semplicità, “sono libero” grazie a lui e a quelli come lui.
Nella sua canzone La Libertà Giorgio Gaber sosteneva che la libertà non
può limitarsi ad avere un’opinione o uno spazio libero, la libertà deve essere
qualcosa in più, libertà è partecipazione. Limitarsi a considerare la libertà una
vaga, una semplice opinione o, ancor peggio, un semplice “spazio” destinato
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Antonio Ghirelli, Caro Presidente, Rizzoli, 1981
Piero Calamandrei, Discorso agli studenti milanesi, 1955
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al volere di ognuno sarebbe un grave gesto di ingratitudine verso chi ha dato
la propria vita per la libertà, verso chi ha “partecipato” con tutto se stesso alla
riconquista della libertà.
Bisogna, dunque, partecipare alla libertà, al mantenimento e al miglioramento di essa, rinnovando sempre il ricordo della Resistenza e della Guerra
di Liberazione, perché, come diceva Calamandrei: «dovunque è morto un
italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero,
perché lì è nata la nostra Costituzione»7.
Non restarsene sopra l’albero di Gaber, ma scendere, manifestare il proprio
pensiero, le proprie idee, sentire nel nostro sangue ribollire quel sangue versato, perché: libertà è partecipazione.
La libertà c’è, si vive in regime di libertà. Il 1 gennaio 1948 entra in vigore
la Costituzione, figlia delle coscienze stanche dell’oppressione e madre della democrazia. Un “pezzo di carta” dotato di un’anima da tenere viva con
l’impegno e la volontà. Impegno e volontà che devono partire da noi. La
Costituzione è il risultato dell’accordo raggiunto tra i vari schieramenti politici, divisi, ma uniti da uno stesso intento: il Compromesso Costituzionale è
rinnovare lo Stato in funzione di un interesse comune.
La libertà doveva diventare reale. Hannah Arendt, filosofa tedesca, riteneva che non potesse abitare soltanto nel cuore degli uomini sotto forma di
desiderio o speranza, ma era necessario che trovasse riscontro nella politica,
cosa che non era concepibile in un regime totalitario8.
I desideri e le necessità di ognuno acquistarono un suggello di conferma
nella Carta Costituzionale.
Questa però non è una carta morta, ma un testamento! Sebbene a noi alcuni articoli possano sembrare sterili o scontati, in realtà già Calamandrei
ricorda in un celebre discorso che quando diciamo la Repubblica è una e indivisibile non facciamo altro che citare le volontà di Cattaneo o magari l’Italia
ripudia la guerra a scopo offensivo ricordiamo le parole di Mazzini. È la voce
di autorevoli personaggi a parlarci attraverso le pagine di questo documento
di identità nazionale.
La Costituzione è stata la prima parentesi felice dopo il disastro mondiale
e dopo la dittatura, l’alba di una nuova fase della nostra storia. La libertà era
stata sì ritrovata, ma ancora la guerra faceva sentire la sua eco sulla situazione
Piero Calamandrei, Discorso agli studenti milanesi, 1955
H. Arendt, Tra passato e futuro, Garzanti, Milano 1991
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economica e ciò contribuì alla ripresa del fenomeno migratorio attenuatosi
durante il ventennio. Il popolo italiano desiderava riscatto, voleva godere del
proprio lavoro; abbandonò così i propri villaggi alla ricerca di un’identità
economica e di una dignità sociale, sogno realizzabile in America magari,
non certo in Italia. Sebbene l’emigrazione fosse già presente dai primi anni
dell’unità, in questo periodo l’Italia sembra “spopolarsi”, perché le sue genti
vanno verso terre di speranza, Argentina, Brasile, Stati Uniti o Uruguay. Molti italiani però, a partire dai primi anni della seconda metà del XX secolo,
scelsero come meta Stati europei in crescita, come Francia o Germania, considerando questa scelta solo momentanea: bisognava guadagnare all’estero
per costruire un futuro migliore nella propria patria. Le cifre degli emigranti
erano talmente elevate che si ebbe l’esigenza di tutelare questi spostamenti
con patti o trattati. Qualcosa però, tra gli anni ’50 e ’70, cambiò. I giovani
si spostavano dalle campagne alle città per motivi di studio e, talvolta, venendosi a disgregare il nucleo familiare, ci si spostava individualmente per
raggiungere non più paesi oltre confine, ma il Nord della penisola. Il perché?
L’Italia aveva dato avvio al proprio sviluppo industriale.
Se nel secolo precedente, l’Italia appena unita, non poteva nemmeno permettersi un eventuale paragone con gli altri Stati Europei, fatta eccezione per
alcuni luoghi come il triangolo industriale Milano - Torino - Genova, nel XX
secolo, per soddisfare le richieste di metallo e altre materie lavorate che provenivano per lo più dai fronti bellici; si ebbe un importante sviluppo dell’industria pesante: soltanto il primo passo di un percorso duraturo negli anni,
favorito notevolmente dai rapporti internazionali che l’Italia era stata in grado
di stipulare in seguito alla Guerra Mondiale. Da qui si innesta un meccanismo che non è possibile bloccare: il protezionismo era una politica economica
troppo antiquata per il nuovo Stato e venne abbattuto; la scoperta di nuove
fonti energetiche, come il metano, permise lo sviluppo dell’industria siderurgica; l’eccessiva domanda di lavoro superò l’offerta, compromettendo i salari
e sottolineando il basso costo del lavoro; l’interesse si spostò poi anche su altri
settori, come il terziario, facendo perdere il primato all’agricoltura, da sempre
il sostentamento dell’Italia. Lo Stato cambiò in pochi anni: un risultato possibile grazie all’apertura verso le nuove forme industriali a discapito però di
quelle già consolidate e che metteva inevitabilmente in evidenza le disparità
tra Nord e Sud. L’Italia divenne una nazione di impiegati e dirigenti d’azienda,
illuminata dalla televisione e rappresentata da simboli intramontabili, come la
Fiat 500 o la Vespa. Si gettavano le basi di uno sviluppo che nei decenni successivi le avrebbe permesso di entrare tra le grandi potenze economiche.
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Unità d’Italia ed Italia unita
Più l’economia si evolveva, più i disagi sociali diventavano evidenti, sfociando nella rivolta degli studenti e degli operai del ’68. I movimenti, caratterizzati da gruppi socialmente disomogenei e di formazione spontanea,
contestavano i governi, i sistemi politici e le discriminazioni in base al sesso
e alla razza. In Italia la contestazione degli studenti fu applicata con forme
fino ad allora sconosciute: vennero occupate scuole e università e spesso era
necessario l’intervento della polizia. Le prime protagoniste di tali manifestazioni furono città come Trento, Milano, Torino. Successivamente la rivolta si
allargò a macchia d’olio coinvolgendo, nel maggio del’68, tutte le università
esclusa la Bocconi. Per la prima volta il mondo dei lavoratori e quello degli
studenti furono d’accordo su molte questioni riguardanti il lavoro. Le tensioni, spesso sfociate in manifestazioni violente, raccontavano al grido di “potere
operaio” il bisogno dei lavoratori di maggiori garanzie, rivendicazioni di cui si
facevano interpreti gli operai della FIAT di Torino, i cui risultati getteranno
le basi dello Statuto dei lavoratori (1970). Inizialmente la rivolta generazionale riconosceva una classe giovanile in cui non vi era né credo di provenienza né appartenenza politica, soltanto in un secondo momento questa classe
giovanile si politicizzò dando il via ad una “furente battaglia ideologica” che,
purtroppo, sfocerà nei terribili “anni di piombo”.
Dopo anni di calma apparente, l’arresto di un socialista, Mario Chiesa, attirò l’interesse dell’opinione pubblica nel ’92. Si avviò un’inchiesta che svelò
una realtà di corruzione che vedeva implicate cariche politiche e finanziarie,
da deputati a ministri. L’inchiesta “mani pulite” mise in luce il finanziamento
illecito dei partiti e aprì il periodo della seconda Repubblica: il sistema dei
partiti fu sostituito dal sistema bipolare.
Ed ecco che arriviamo ad oggi, tra alti e bassi… 150 anni che restano svegli e
vivi nei libri di storia e nelle menti di noi studenti che ne stiamo assaporando
le pagine, scoprendone l’importanza.
150 anni non si possono spegnere in un solo giorno dedicato a ricordarli,
il nostro dono più bello resta comunque oggi. E oggi, il centocinquantesimo
compleanno dell’Italia, non va speso solo in speranze, ma riempito di sogni da
realizzare. Il futuro è un quadro ancora da colorare, un capitolo da scrivere, una
strada da percorrere con coraggio, audacia e inventiva…
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