Il giudice nazionale e il diritto europeo - Corte di Appello di Roma 3 giugno 2013 – Il rapporto tra il giudice nazionale e la Corte dei diritti dell’uomo – Giuseppe Tesauro La materia dei diritti fondamentali è naturalmente, da sempre, tributaria di un contributo rilevante del giudice, come ogni insieme di norme che attribuisce immediatamente diritti e impone divieti che incidono non solo sulla posizione giuridica soggettiva della persona ma anche sull’evoluzione dei valori di riferimento del corpo sociale. Non da oggi, peraltro, lo scenario nel quale il giudice si muove e trova i parametri di legittimità sui quali verifica i comportamenti dei soggetti o le norme che li disciplinano è significativamente mutato, almeno nel senso che si è esteso al di là dei normali confini del suo campo di valutazione. Le norme poste a tutela dei diritti fondamentali della persona e che assumono rilevanza nella valutazione del giudice non sono più soltanto nazionali, normalmente di rango costituzionale o comunque primario, ma appartengono all’ordinamento internazionale e, per i Paesi dell’Unione europea, anche all’ordinamento comunitario. Ciò vuol dire che la tutela dei diritti fondamentali può fondarsi su più livelli di legalità, con la conseguenza che il tasso di tutela potrà talvolta variare ed essere più o meno intenso a seconda della possibilità di utilizzare uno o più dei parametri tra quelli suscettibili di applicazione da parte del giudice di volta in volta investito di una concreta controversia. E la presenza di ben due giudici oltre quelli nazionali, rispettivamente dell’Unione europea e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), rafforzano l’efficacia dello spazio riservato all’interpretazione e all’applicazione giurisprudenziale delle norme dell’una e dell’altra1. Ciò vuol dire, inoltre, che il giudice nazionale deve definire il proprio ruolo e i confini della propria competenza anche rispetto al ruolo e alle competenze dei giudici dell’Unione e della CEDU, quando la questione sottoposta al suo scrutinio entri nella sfera di applicazione del diritto dell’Unione e/o della Convenzione; nonché, per quanto di ragione, rispetto al giudice costituzionale. Villani U., La cooperazione tra i giudici nazionali, la Corte di giustizia dell’Unione europea e la Corte europea dei diritti dell’uomo, in SIDI, La cooperazone tra Corti in Europa nella tutela dei diritti dell’uomo, Atti del convegno dell’Università della Calabria, Napoli 2012, p. 1 ss. 1 1 Vero è che la scelta dell’ordinamento competente e dunque delle norme applicabili non si pone, quanto alla tutela dei diritti fondamentali, negli stessi termini della scelta richiesta rispetto a rapporti che presentano elementi di estraneità e che per ciò stesso richiedono l’individuazione del diritto applicabile in base ai criteri di collegamento indicati dalle norme di diritto internazionale privato. Vi sono, tuttavia, dei punti di contatto ed una logica complessiva che presenta alcune similitudini, in quanto il giudice è comunque chiamato a considerare ed all’occorrenza ad applicare norme esterne rispetto all’ordinamento giuridico del foro, nel senso che sono poste in essere, sono modificate e perdono vigenza al di fuori dei processi normativi nazionali. Ciò premesso, intendo fare una riflessione su alcuni aspetti del rapporto tra norme CEDU e diritto italiano, in particolare sotto il profilo del ruolo del giudice nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme esterne che rilevano per la tutela dei diritti fondamentali2. Andiamo, quindi, anzitutto a scrutare il rapporto tra Convenzione e diritto interno. E’ noto che nella Costituzione italiana fu inserito dall’Assemblea Costituente un segnale chiaro di apertura del nostro ordinamento giuridico alle regole della vita di relazione internazionale, che si traduceva in un meccanismo di adattamento automatico alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute (art. 10, primo comma); e nella possibilità di limitazioni di sovranità in ragione dell’appartenenza ad organismi internazionali che assicurassero la pace e la giustizia fra le Nazioni (art. 11). Fin dai lavori preparatori della Costituzione, e poi nell’interpretazione prevalente della giurisprudenza e della dottrina, si diffuse l’idea che la copertura costituzionale non riguardasse le norme convenzionali; e che l’appartenenza del principio pacta sunt servanda alla categoria dei principi del diritto internazionale generalmente riconosciuti non riuscisse a smentire quell’idea. L’ingresso nel nostro ordinamento di tali norme avveniva con una legge ordinaria 2 Vorrei preliminarmente fare una precisazione di tipo terminologico. Ritengo opportuno utilizzare l’espressione diritti fondamentali come sinonimo di diritti dell’uomo o umani, senza indulgere in distinzioni sofisticate e senza fine, ma anche dai fini incerti, che talvolta si trovano nella dottrina. E ciò con riguardo sia ai diritti prefigurati nella nostra Carta costituzionale, sia a quelli prefigurati e tutelati da norme esterne al nostro ordinamento. Entrando occasionalmente nel cono di luce dell’Unione europea, poi, non cederò alla suggestione di usare neologismi del dopo Lisbona e mi consentirò la libertà di usare ancora l’aggettivo comunitario per il diritto e gli atti dell’Unione, oltre che per i cittadini, che proprio non mi riesce di definire altrimenti, ad esempio eurounitari o, peggio ancora, extraeurounitari. 2 di adattamento, la legge che, oltre ad autorizzare la ratifica del trattato, ne ordina contestualmente l’esecuzione nell’ordinamento interno. Quella scelta interpretativa poneva un problema, in quanto la soluzione di un’eventuale conflitto tra norma interna e norma esterna trovava soluzione nel primato della seconda se norma del diritto internazionale generale, principalmente consuetudinaria, mentre la soluzione del conflitto con la norma convenzionale, che non fosse di un accordo sulla condizione dello straniero compresa nella previsione dell’art. 10, comma 2, era affidata al criterio che regola la successione nel tempo delle leggi di pari rango, con la conseguenza che almeno in principio prevaleva la legge ordinaria successiva sulla legge di adattamento e dunque sulla norma internazionale convenzionale. Questo quadro normativo riguardava tutti gli accordi internazionali, dunque anche la CEDU e i trattati comunitari, che – talvolta si dimentica – sono accordi internazionali a tutti gli effetti. La conseguenza era una evidente criticità nella vita di relazione internazionale del nostro Paese, in quanto un principio ben saldo, logico prima ancora che giuridico, non consente agli Stati, se non per circostanze eccezionali, di giustificare la violazione di una norma internazionale, non importa se generale o pattizia, adducendone il contrasto con una norma interna. La giurisprudenza interna, di merito e di legittimità, ha pertanto dovuto e saputo trovare dei rimedi pratici. Per il diritto comunitario, a seguito di un intenso dialogo a distanza tra Corte costituzionale e Corte di giustizia, si è arrivati fin dagli anni settanta a trovare la copertura costituzionale nell’art. 11 ed a costruire il conflitto con la norma comunitaria come questione di legittimità costituzionale. Con la sentenza Granital del 19843, poi, si è costruito il rapporto con le norme comunitarie complete e dunque pronte per l’applicazione come problema di competenza dell’uno o dell’altro ordinamento, tanto da attribuire - su questa premessa - al giudice nazionale comune, senza la previa verifica di costituzionalità, la possibilità che la norma interna cedesse il passo alla contrastante norma comunitaria, in breve fosse disapplicata. Per l’ipotesi di contrasto con le norme internazionali convenzionali, a seconda dei casi, si è fatto talvolta ricorso principalmente all’ interpretazione conforme, anche quando la conformità era di difficile sperimentazione, o al criterio della 3 Corte Cost., sent. n. 170 del 1984. 3 specialità (anche questa spesso dubbia) o, su un piano meramente dialettico, alla semplice peculiarità o particolare rilevanza della norma internazionale convenzionale, magari ancorandola ad un insieme di fonti esterne multilaterali, come precisamente nel caso delle norme a tutela dei diritti fondamentali. Ciò ha consentito nella maggior parte dei casi di assicurare almeno in via pretoria la prevalenza dei trattati, ed in particolare della CEDU, anche sulle leggi interne successive eventualmente contrastanti4. In questo modo, le ipotesi di annullamento di una legge di adattamento non hanno raggiunto le due cifre5. Con la riforma del 2001, si è introdotto nella Costituzione il vincolo espresso del legislatore di rispettare gli obblighi internazionali, vincolo che l’interpretazione corrente ha riferito pacificamente agli obblighi derivanti da norme internazionali convenzionali, le sole che non avevano ancora copertura. C’è stata un’iniziale esitazione al riguardo da parte dei giudici comuni, con la conferma delle soluzioni pratiche già ricordate, nonché in non pochi casi con la disapplicazione della norma interna contrastante, alcuni applicando alla CEDU il modello delle norme comunitarie provviste di effetto diretto. Vi sono state, poi, alcune significative pronunce della Cassazione nel 2004, che hanno anticipato quanto poi sarà affermato dalla Corte costituzionale pochi anni dopo6. L’orientamento della Corte costituzionale, infatti, con riguardo al rapporto con la CEDU dopo la riforma del 2001, è maturato solo nel 2007, con le sentenze n. 348 e n. 349, quando le questioni sollevate – relative ad un sospettato conflitto con la CEDU delle norme interne in tema rispettivamente di espropriazione e di “occupazione acquisitiva” - imponevano preliminarmente una valutazione generale del rapporto tra diritto interno e Convenzione alla luce della riformulazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione. Le due pronunce, identiche per molti profili sostanziali, diverse per altri punti pur rilevanti, hanno confermato l’apertura della nostra Costituzione verso l’insieme 4 Ad esempio, sentenze n. 310 del 1996, n. 26 del 2000, n. 29 del 2003, n. 342 del 1999. In argomento, L. Salvato, La tutela dei diritti fondamentali nelle fonti interne ed esterne: poteri e compiti del giudice comune, in Il dir. dell’UE, 2011, p. 259 ss., p. 266. 5 B. Conforti, Diritto internazionale, Napoli 2013, p. 350. 6 Sentenze delle Sezioni Unite civili nn. 1338, 1339, 1340 e 1341 del 2004; nonché le sentenze della Cassazione penale n. 35616 del 2005, Cat Berro, n. 32678 del 2006, Somogyi, e n. 2800 del 2006, Dorigo. In proposito, E. Lupo, La vincolatività delle sentenza della Corte europea dei diritti dell’’uomo per il giudice interno e la svolta recente della Cassazione civile e penale, in Cass. Pen., 2007, p. 2247; L. Salvato, La tutela dei diritti fondamentali nelle fonti interne ed esterne, cit. 4 delle norme esterne, anche convenzionali; ed hanno altresì messo a fuoco i ruoli diversi del giudice comune e del giudice costituzionale rispetto al confronto tra norme interne e norme esterne relative alla tutela dei diritti fondamentali. La Corte ha anzitutto respinto l’idea, di una certa diffusione nella dottrina non specialista, soprattutto di diritto interno e comparato, e in giurisprudenza, già a partire dal Trattato di Maastricht, della c.d. comunitarizzazione della CEDU. In particolare, l’art. 6 del Trattato sull’Unione europea avrebbe consentito di attribuire alle norme CEDU l’effetto diretto tipico di molte norme comunitarie, per giunta con l’ulteriore conseguenza della possibilità per il giudice comune di disapplicare in questo caso la norma interna contrastante. L’idea, invero, meritava e merita qualche riflessione ed una verifica rigorosa. Anzitutto, l’art. 6 del TUE, nella versione originaria che richiama i diritti fondamentali della CEDU e delle Costituzioni nazionali e li comprende tra i principi generali garantiti dalla Corte di giustizia, si limitò a ribadire una formula consolidata della giurisprudenza della Corte di giustizia, inaugurata nel 1969 7. Il vincolo al rispetto dei diritti fondamentali così come garantiti dalla CEDU e dalle tradizioni costituzionali degli Stati membri non vale e trasformare le norme CEDU in norme comunitarie, restando, quelle, norme convenzionali esterne rispetto all’ordinamento comunitario così come agli ordinamenti degli Stati membri. E lo stesso dicasi con riguardo alla nuova formulazione dell’art. 6 del TUE a seguito della riforma di Lisbona (“I diritti fondamentali garantiti dalla CEDU...e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”), che di sicuro non ha prodotto alcuna trasformazione delle norme CEDU in norme UE, come qualche sentenza almeno rapida è giunta ad affermare 8; tanto meno ha trasferito alle prime le caratteristiche delle seconde relative al rapporto con gli ordinamenti interni degli Stati membri o addirittura la copertura dell’art. 11 della Costituzione italiana9. 7 Stauder, causa 29/69, sentenza 12 novembre 1969, Raccolta p. 419; Internationale Handellsgesellschaft, causa 11/70, sentenza 17 dicembre 1970, Raccolta p. 1115, punto 4: “La tutela dei diritti fondamentali costituisce parte integrante dei principi giuridici generali di cui la Corte di giustizia garantisce l’osservanza”; ERT, causa C-260/89, sentenza 18 giugno 1991, Raccolta p. I- 2925, punto 41. 8 In particolare, TAR Lazio, n. 11984/2010, del 25 maggio 2010; Consiglio di Stato, IV sez., n. 01220/2010, del 2 marzo 2010. 9 Così, viceversa, Tar Lazio, sopra citata. 5 La Corte ha poi escluso per il giudice comune, indipendentemente dalla pretesa comunitarizzazione, la possibilità di disapplicare la norma interna in contrasto con le norme CEDU, non potendosi a queste ultime attribuire un effetto “che arrivi al punto da attribuire un tale potere al giudice”, non consentendolo né il loro carattere, né la struttura e gli obiettivi della CEDU complessivamente considerata (così la sentenza 349/07). Il passaggio appare forse avaro di particolari, come spesso appare il linguaggio delle sentenze, ispirato all’esigenza di sintesi e costretto dai limiti di una reale collegialità del processo decisionale. L’approccio del giudice costituzionale, lungi dal negare in via generale il carattere self-executing di determinate norme convenzionali, riecheggia in parte quello della Corte di giustizia nell’identificare le condizioni per attribuire l’effetto diretto alle norme comunitarie e per escluderne la ricorrenza; ma soprattutto ha escluso che alla diretta applicabilità si possa collegare anche il potere del giudice di disapplicare la norma interna in contrasto con la norma CEDU, cioè il c.d. effetto Granital. L’ipotesi di conflitto tra norma interna e norma CEDU non sanabile in via interpretativa si traduce, pertanto, in una questione di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell’art. 117 Cost., primo comma, il quale rinvia alla norma CEDU di volta in volta conferente, che dunque vale ad integrarne il contenuto: di qui la definizione del meccanismo come di rinvio mobile, a somiglianza del rinvio operato dalle norme di diritto internazionale privato all’ordinamento competente. Questa giurisprudenza della Corte costituzionale, più volte ribadita negli ultimi anni dopo le sentenze 348 e 349 del 2007, non può considerarsi, come invece è stata considerata da una parte della dottrina, in contraddizione con la sentenza Granital del 1984, che affermò per la prima volta il potere del giudice di non applicare la norma interna contrastante con un atto comunitario provvisto di effetto diretto. In quella occasione, la Corte costituzionale, sulla premessa che l’art. 11 della Costituzione aveva delegato all’ordinamento comunitario la disciplina di determinati settori, affermò che, se esercitata in pieno tale competenza, l’atto trova applicazione immediata e diretta negli ordinamenti interni, che pertanto “si ritraggono” e la norma contrastante non trova applicazione (“non viene in rilievo”). In quel caso, pertanto, non si pone tanto una questione di gerarchia tra norme, dunque di primazia della norma comunitaria, bensì una questione di competenza dell’ordinamento comunitario piuttosto che di quello interno; ciò che trova puntuale 6 riscontro sul piano processuale, in quanto la questione di costituzionalità che il giudice sollevasse sarebbe inammissibile. Nell’ipotesi di competenza non esercitata appieno, dunque di norma comunitaria sprovvista di effetto diretto, l’ordinamento interno è competente e non si ritrae, la norma interna è pienamente valida, fatta salva la verifica di legittimità costituzionale affidata al giudice delle leggi. E’ quest’ultimo che avrà da risolvere un problema di primazia della norma comunitaria. In altri termini, l’effetto diretto della norma comunitaria, alla stregua della giurisprudenza Granital, non attribuisce di per sé il potere di disapplicazione della norma interna al giudice comune, ma tale potere consegue all’esercizio pieno della competenza comunitaria stabilita dal Trattato; l’effetto diretto è solo la condizione perché l’ordinamento interno si ritragga e il giudice applichi in suo luogo la norma dell’ordinamento comunitario competente10. Per la CEDU, il problema non si pone, in quanto non vi è stata nessuna delega di competenze normative o limitazioni di sovranità nel senso dell’art. 11 Cost., sì che l’eventuale contrasto con una sua norma determina una semplice questione di violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, che impone al legislatore il rispetto delle norme internazionali convenzionali. In tal modo la Corte costituzionale non poteva che attribuire al giudice nazionale delle leggi, con la copertura in Costituzione delle norme internazionali convenzionali introdotta dalla riforma del 2001, la competenza a valutare la questione posta dal contrasto tra norma interna e norma CEDU, eventualmente dichiarando la prima costituzionalmente illegittima, con la conseguenza che la norma convenzionale sarà applicata in luogo della norma interna. E ciò – va sottolineato al giusto - anche a garanzia della puntuale, certa e stabile osservanza da parte italiana degli obblighi sanciti dal sistema di tutela dei diritti umani della CEDU. E’ vero, d’altra parte, che una norma della CEDU e la sentenza della Corte di Strasburgo che la interpreta e la applica impegnano alla loro osservanza lo Stato in tutte le sue articolazioni, ivi compresi i giudici di ogni grado e non solo i giudici costituzionali, ma è pur sempre lo Stato a disciplinare le diverse competenze dei suoi organi quanto al rapporto con le norme esterne e che è libero di trovare i rimedi che ritiene opportuni ad eventuali conflitti. Questo passaggio, in 10 Nel caso Granital, la norma comunitaria provvista di effetto diretto era un regolamento; ma la situazione non cambia quando si tratti di una norma del Trattato provvista di effetto diretto. 7 particolare della sentenza 349/07, si ritroverà qualche anno dopo in termini sostanzialmente analoghi nella sentenza Kamberaj della Corte di giustizia UE11. Più in generale, la Corte costituzionale ha delineato con chiarezza i ruoli rispettivi dei giudici di fronte all’applicazione delle norme della CEDU. Il giudice comune ha il compito di interpretare la norma nazionale in ipotesi applicabile, sperimentando una interpretazione che sia conforme alla disposizione conferente della CEDU così come interpretata dalla Corte di Strasburgo, fino ai limiti - e non sono molti - di quanto ragionevolmente consentito dai normali criteri d’interpretazione di un testo normativo. Si è fatta applicazione, pertanto, del criterio di conformità, che vuole l’applicazione della norma internazionale – ma lo stesso vale per la norma straniera – così come interpretata nel suo ordinamento e dal suo giudice, per ciò stesso con le sue dinamiche e la sua effettività 12. In sostanza, al giudice nazionale è imposto un vero e proprio obbligo di interpretazione conforme delle norme CEDU. E va poi considerato che l’interpretazione della Corte di Strasburgo riguarda sì un caso, ma investe una o più norme. Ne consegue che, non in termini assoluti, ma almeno per quanto di ragione, normalmente l’interpretazione della CEDU può andare anche al di là della Causa C-571/10, sentenza del 24 aprile 2012, punti 61-63: “ Tale disposizione del Trattato UE consacra la giurisprudenza costante della Corte secondo la quale i diritti fondamentali sono parte integrante dei principi generali del diritto dei quali la Corte garantisce l’osservanza. Tuttavia, l’articolo 6, paragrafo 3, TUE non disciplina il rapporto tra la CEDU e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri e nemmeno determina le conseguenze che un giudice nazionale deve trarre nell’ipotesi di conflitto tra i diritti garantiti da tale convenzione ed una norma di diritto nazionale. Si deve pertanto rispondere alla seconda questione dichiarando che il rinvio operato dall’articolo 6, paragrafo 3, TUE alla CEDU non impone al giudice nazionale, in caso di conflitto tra una norma di diritto nazionale e detta convenzione, di applicare direttamente le disposizioni di quest’ultima, disapplicando la norma di diritto nazionale in contrasto con essa”. V. anche Fransonn, causa C617/10, sent. 26 febbraio 2013, punto 44 (“Di conseguenza, il diritto dell’Unione non disciplina i rapporti tra la CEDU e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri e nemmeno determina le conseguenze che un giudice nazionale deve trarre nell’ipotesi di conflitto tra i diritti garantiti da tale convenzione ed una norma di diritto nazionale”). 12 In materia penale, mi sembra significativa al riguardo la sentenza n.230 del 2012, con la quale la Corte costituzionale ha rigettato la questione di legittimità dell’art. 673 c.p.p. nella parte in cui non prevede la revoca della sentenza di condanna nel caso di mutamento di giurisprudenza, nella specie della sezioni Unite della Cassazione, in base al quale il fatto giudicato non è più previsto dalla legge penale come reato, in breve sul presupposto di una equivalenza tra legge penale e giurisprudenza più favorevole. La Corte ha correttamente colto nella giurisprudenza della Corte della Corte europea, da una parte, un orientamento consolidato sulla nozione di “diritto” come comprensiva tanto del diritto di produzione legislativa che del diritto di formazione giurisprudenziale; dall’altra, tuttavia, la preclusione a far valere la prevalenza del “diritto più mite” oltre il limite del giudicato, limite che non potrebbe non valere anche per un sopravvenuto mutamento di giurisprudenza. Così la Corte costituzionale, non ha riscontrato nella giurisprudenza della Corte europea l’interpretazione della norma CEDU (art. 7) sulla quale era fondata la questione di legittimità costituzionale della norma italiana. 11 8 definizione della fattispecie riguardata. La Corte costituzionale ha anche precisato che l’interpretazione della Corte europea consolidatasi sulla norma conferente richiede di rispettarne la sostanza13. Il ruolo del giudice comune – sia chiaro - resta pertanto molto ampio e l’intervento del giudice costituzionale del tutto eccezionale. Quando il contrasto della norma nazionale con la CEDU fosse insanabile in via interpretativa, il giudice comune non potrà risolvere il caso autonomamente. Non potrà applicare la norma nazionale, poiché la premessa è un contrasto insanabile con la norma CEDU; né potrà disapplicare la norma nazionale, poiché il contrasto implica una questione di legittimità costituzionale che solo la Corte costituzionale può risolvere, eventualmente con l’annullamento della legge nazionale14. Al giudice costituzionale resta anche da verificare se l’applicazione della norma esterna convenzionale integrata nel parametro dell’art. 117, primo comma, della Costituzione non trovi un ostacolo in un altro principio di rango costituzionale in concreto rilevante. A tal fine, gli è richiesto con ogni evidenza un bilanciamento tra valori costituzionali ed una valutazione sul tasso di tutela garantito dalla norma interna rispetto a quello garantito dalla norma CEDU. La tutela di un diritto fondamentale offerto dalla norma CEDU, infatti, prevale su quella offerta dalla norma interna esclusivamente quando essa estenda la tutela, di sicuro non quando la limiti. D’altra parte ciò è sancito, a fugare ogni dubbio, dalla stessa CEDU, all’art. 53, alla stregua del quale nessuna norma della Convenzione può essere interpretata in modo da limitare o pregiudicare i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali riconosciuti a livello interno. In definitiva, la Corte si è riservata di verificare se la norma CEDU, nell’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo non contrasti in modo insanabile in via interpretativa con una norma costituzionale conferente. La riserva riecheggia un po’ la categoria dei controlimiti rispetto all’applicazione del diritto comunitario, anche se rispetto alle norme CEDU Sent. 311 del 2009. Il passaggio non è casuale, ma riferito nell’occasione alla giurisprudenza della Cassazione relativa alla quantificazione del danno da irragionevole durata del processo, in particolare sent. n. 10415 del 2009, secondo la quale non importa tanto il criterio di calcolo, quanto il risultato di un serio ristoro così come voluto dalla giurisprudenza europea. V. anche sul punto l’ordinanza n. 150 del 2012. 14 Ciò che è avvenuto nel caso risolto con le sentenze 348 e 349 del 2007; v. anche la sentenza n. 78 del 2012. 13 9 coinvolge non solo i principi fondamentali dell’assetto costituzionale, ma più semplicemente le norme conferenti della Costituzione. Altro punto sul quale vorrei riflettere riguarda lo spazio che la norma internazionale convenzionale va ad occupare nell’ordinamento interno. Talvolta si legge di nazionalizzazione della norma internazionale o di trasformazione in norma interna o di integrazione dottrina o di altre formule equivalenti. Lasciamo alla di meditare su simili formule. La sostanza reale è che la norma internazionale convenzionale rimane soggetta, quanto a modificazione ed eventuale estinzione, alle regole del diritto internazionale, con la conseguenza che su questo non può avere alcuna possibilità di incidere il diritto interno. Pertanto, la norma internazionale convenzionale, che nasce esterna all’ordinamento giuridico italiano, tale rimane anche quando è chiamata da quell’ordinamento, a mezzo del rinvio operato dalla norma costituzionale e/o dalla legge di adattamento, a regolare certi rapporti e dunque ad incidere in concreto su determinate posizioni giuridiche soggettive. L’ordinamento interno garantisce con le sue norme l’applicazione e con essa l’osservanza della norma esterna, secondo modalità e portata diverse, anche in funzione di eventuali modificazioni o anche dell’estinzione della norma stessa, regolate del diritto internazionale. In breve, all’adattamento speciale non consegue, se non in senso improprio, la “nazionalizzazione” della norma esterna, che si produce, viceversa, solo con l’adattamento ordinario, cioè con una normale legge interna che ne riproduca o ne riformuli il contenuto, che pertanto continuerà a vivere indipendentemente dalle modificazioni o dall’estinzione della norma internazionale. Nella giurisprudenza costituzionale questo punto è stato chiarito in particolare con riguardo alle norne comunitarie, quando si è ad esempio insistito sul carattere distinto ed autonomo dell’ordinamento comunitario rispetto a quello nazionale, seppure coordinati. Ed anche l’uso dell’attributo “integrato” che talvolta si ritrova (ad esempio nell’ordinanza 103 del 2008) è trasparentemente casuale e comunque improprio (v. la successiva sentenza 125 del 2009). Resta da valutare quali implicazioni siano da collegare alla circostanza che la norma internazionale, che non sia stata oggetto di un adattamento ordinario, rimane una norma esterna al nostro ordinamento. Spesso si pone il problema del 10 loro rango all’interno dell’ordinamento nazionale. Anche a questo proposito, a stretto rigore sembra improprio porsi il problema del rango, nel nostro sistema delle fonti, di una norma esterna. In ogni caso, la soluzione che comunemente si da al problema, che cioè la norma esterna si pone ad un livello corrispondente a quello della norma che ad esso ha fatto rinvio, di norma costituzionale o di legge ordinaria, appare ragionevole. Con la riformulazione dell’art. 117, primo comma, è ormai diffusamente riconosciuto, ed è stato specificamente affermato dalla Corte costituzionale, che la norma convenzionale, in particolare della CEDU, va ad integrare il contenuto dell’art. 117, primo comma, della Costituzione; ma la Corte ha anche affermato talvolta il rango subcostituzionale della norma CEDU richiamata15, altre volte lo stesso rango della norma costituzionale16. A me sembra, lasciando da parte anche il rigore sistematico, che la seconda costruzione renda anzitutto più chiara all’interprete, in particolare al giudice, la portata della norma esterna così posizionata; che inoltre tale costruzione sia coerente con l’idea incontestata che la norma esterna integra il contenuto del parametro costituzionale; e che, infine, sia almeno dubbio che la formula della norma interposta riferita alla norma esterna rispetto all’art. 117, primo comma, sia più di un luogo comune terminologico e che possa essere correttamente assimilato al meccanismo della delega legislativa, per il quale la formula stessa dell’interposizione fu coniata. D’altra parte, se la preoccupazione è quella di lasciare la possibilità di un bilanciamento tra norma esterna e altre norme costituzionali, è sicuro che tale bilanciamento resta comunque possibile tra norme di livello corrispondente, il bilanciamento rientrando, a dirla con la Corte costituzionale, tra “le ordinarie operazioni cui questa Corte è chiamata in tutti i giudizi di sua competenza”17. Questo margine di valutazione che la Corte costituzionale si è riservata di utilizzare prima di annullare una legge interna in contrasto con la CEDU somiglia certo ai controlimiti posti all’ingresso di norme comunitarie, riserva, in quest’ultimo caso, mai fatta valere. Esso si collega, d’altra parte, anche al margine di apprezzamento lasciato agli Stati contraenti. Su questo tema, che la Corte europea ha elaborato e che è da sempre oggetto di una ampia riflessione della 15 Sent. 348 del 2007. Sent. n. 236 del 2011. 17 Sent. n. 236 del 2011. 16 11 dottrina, c’è stata una presa di posizione della Corte costituzionale italiana nel caso Agrati, in particolare con la sentenza n. 311 del 2009. In questa complessa vicenda, la Corte Costituzionale aveva in un primo momento respinto la questione di legittimità costituzionale rispetto a parametri di merito di una legge interpretativa intervenuta nel corso di una controversia nella quale era convenuta una parte pubblica, in quanto a suo parere tesa a ripristinare una generale perequazione retributiva a tutti i dipendenti del settore scuola, indipendentemente dalle rispettive provenienze18 La Corte di Strasburgo, investita a sua volta della controversia, con la decisione di una Sezione e rifiutando l’appello alla Grande Camera, respingeva in modo rapido e senza una adeguata ricognizione dei fatti, le argomentazioni del governo italiano, affermando la violazione della norme sull’equo processo (art. 6 CEDU) e la norma che tutela la proprietà privata. Riportata la questione all’attenzione della Corte costituzionale da parte della Cassazione con riferimento all’’art. 117, primo comma, richiamando la giurisprudenza di Strasburgo sulla deroga al divieto di incidere con legge sulle sorti di un processo in corso quando ricorrano ragioni imperative di interesse generale del Paese, nonché le ragioni che avevano determinato il legislatore nel caso di specie, la Corte ha rilevato, citando la conferente giurisprudenza della stessa Corte EDU, che “fare salvi i motivi imperativi d’interesse generali che suggeriscono al legislatore nazionale interventi interpretativi nelle situazioni che qui rilevano non può non lasciare ai singoli Stati contraenti quanto meno una parte del compito e dell’onere di identificarli, in quanto nella posizione migliore per assolverlo, trattandosi, tra l’altro, degli interessi che sono alla base dell’esercizio del potere legislativo. Le decisioni in questo campo implicano, infatti, una valutazione sistematica di profili costituzionali, politici, economici, amministrativi e sociali che la Convenzione europea lascia alla competenza degli Stati contraenti, come è stato riconosciuto, ad esempio, con la formula del margine di apprezzamento, nel caso di elaborazione di politiche in materia fiscale, salva la ragionevolezza delle soluzioni normative adottate” 19. Ancora in tema, nella sostanza, di margine di apprezzamento e insieme di spazio riservatosi dalla Corte costituzionale per il bilanciamento tra la norma CEDU e altri conferenti valori costituzionali, va ricordata la sentenza della Corte 18 19 Sent. n. 234 del 2007. Sent. 311 del 2007. 12 costituzionale sulle c.d. pensioni svizzere, anche questa in tema di leggi interpretative retroattive che incidono su un processo in corso20. In tale occasione, la Corte di Strasburgo aveva censurato la legge interpretativa sotto il profilo dell’equo processo, ma aveva escluso la violazione dell’art. 1 del Protocollo 1, dunque sotto il profilo, pure denunciato dai ricorrenti, del pregiudizio economico 21. La Corte costituzionale ha al riguardo rilevato che, così come interpretata dalla Corte di Strasburgo, la norma CEDU integra pienamente il parametro dell’art. 117, primo comma, della Costituzione; tuttavia, nel bilanciamento con altri interessi costituzionalmente protetti prevale la tutela degli interessi “antagonisti” di pari rango costituzionale, che fanno prevalere sulla norma CEDU quei “preminenti interessi generali che giustificano il ricorso alla legge retroattiva”22. In particolare, emergono “i principi di eguaglianza e di solidarietà, che, per il loro carattere fondante, occupano una posizione privilegiata nel bilanciamento con altri valori costituzionali” 23. La Corte ha poi precisato uno dei motivi che hanno portato a dare la prevalenza alla tutela di interessi diversi da quelli tutelati dalla norma CEDU. In particolare, secondo la Corte costituzionale, mentre la Corte di Strasburgo tutela in modo parcellizzato i diversi valori in giuoco, essa opera invece “una valutazione sistemica dei valori coinvolti dalla norma scrutinata, ed è, quindi, tenuta a quel bilanciamento, solo ad essa spettante”24. Un caso peculiare – di rispetto per l’interpretazione della Corte europea ma anche per il ruolo del giudice a quo nel giudizio incidentale di costituzionalità - è quello di un rinvio alla Corte costituzionale da parte di alcuni giudici di merito della questione della fecondazione eterologa. Il dubbio sulla legittimità costituzionale della legge italiana che vieta questa pratica di procreazione medicalmente assistita era sostanzialmente fondato su una pronuncia della Corte di Strasburgo che aveva affermato l’irragionevolezza del divieto assoluto sancito da una normativa austriaca e dunque la violazione degli articoli 8 e 14 della CEDU25. 20 Sent. 264 del 2012. Corte EDU, sentenza del 31 maggio 2011, Maggio e altri c. Italia. 22 Sent. n. 264, punto 5.3 del considerato in diritto. 23 Ibidem. 24 Ibidem, punto 5.4. 25 Corte EDU, SH e altri c. Austria, Prima Sezione, sent. 1.4.2010. V. la nota di Campiglio C., in Diritti umani e diritto internazionale, 2010, p. 624. 21 13 Peraltro, dopo l’ordinanza e nelle more della procedura dinanzi alla Corte costituzionale, la Grande Camera della Corte europea aveva in sede di appello reso una sentenza di segno opposto, nel senso che il legislatore austriaco non aveva ecceduto il margine di apprezzamento consentito dalla Convenzione e dunque non aveva violato le disposizioni invocate26. La corte costituzionale, sulla premessa che nello schema del giudizio incidentale di costituzionalità spetta al giudice rimettente valutare la non manifesta infondatezza della questione e che, mentre le parti avevano avuto la possibilità di esprimersi sulla sopravvenienza della sentenza della Grande Camera della Corte di Strasburgo, i giudici rimettenti – pur essendo gli interlocutori principali in una procedura che è da giudice a giudice – non avevano avuto questa possibilità, ha restituito gli atti ai rimettenti perché si esprimessero sulla permanenza del contrasto denunciato. La questione da molti posta è se lo scenario risultante dall’attuale giurisprudenza costituzionale sia in qualche modo mutato o sia destinato in futuro a mutare in relazione alle novità introdotte dal Trattato di Lisbona nei trattati comunitari. La vera novità è costituita anzitutto dall’attribuzione formale alla Carta di Nizza (Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea) dello stesso rango dei Trattati, anche se, in fatto, essa aveva comunque un valore sostanziale, alla luce di una ricchissima giurisprudenza quarantennale del giudice comunitario in materia di diritti fondamentali, giurisprudenza in grandissima parte tradotta in disposizioni della Carta. Altra novità di Lisbona è stata la possibilità, e sostanzialmente l’impegno, formalizzato nell’art. 6 del Trattato, di realizzare l’obiettivo antico dell’adesione dell’Unione alla CEDU. Una parte minoritaria della giurisprudenza e soprattutto della dottrina, per un eccesso di entusiasmo ed una lettura troppo rapida dei testi, ha creduto che l’adesione fosse cosa fatta con l’entrata in vigore della riforma di Lisbona dei due trattati, dell’Unione europea e sul funzionamento dell’Unione. All’evidenza non è così ed il negoziato in corso per arrivare al necessario accordo non è certo facile 26 Corte EDU, Grande Camera, SH e altri c. Austria, ricorso n. 57813/00, sent. 3 novembre 2011. V. la nota di Viviani A., Il diritto di fondare una famiglia, la fecondazione assistita e i…passi indietro della Grande Camera della Corte europea dei diritti umani, in Dir. umani e dir. internazionale, 2012. 14 né rapido; e la stessa determinazione largamente maggioritaria degli Stati membri deve oggi fare i conti con ben altri problemi e altrettante diffidenze. Peraltro, neppure è sicuro che l’adesione dell’Unione alla CEDU possa di per sé cambiare questa situazione. Al riguardo non può essere trascurata la circostanza che, sul piano della teoria giuridica generale, l’adesione di uno Stato ad un trattato ovvero ad un organismo internazionale non determina di per sé e automaticamente l’integrazione delle norme del trattato nel sistema interno delle fonti, restando inalterata la loro esternalità se non quando si procedesse con la procedura di adattamento ordinario. Non si vede con chiarezza, dunque, come la norme della Convenzione, alla quale l’Unione europea si è impegnata ad aderire, diventino con l’adesione e solo per questo norme comunitarie e di queste prendano tutte le caratteristiche nei rapporti con gli Stati membri dell’Unione (art. 6 TUE come art. 10, 1 Cost. italiana ?); in breve, come si possa superare, solo come conseguenza dell’adesione, ciò che la Corte costituzionale italiana27 e la Corte di giustizia UE28 hanno con chiarezza correttamente affermato. 27 Sentenza n. 349 del 2007. Kamberaj, sopra citata. Nella sentenza Fransonn, sopra citata, tuttavia, si legge che “Per quanto riguarda, anzitutto, le conseguenze che il giudice nazionale deve trarre da un conflitto tra il diritto nazionale e la CEDU, occorre ricordare che, anche se, come conferma l’articolo 6, paragrafo 3, TUE, i diritti fondamentali riconosciuti dalla CEDU fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali e anche se l’articolo 52, paragrafo 3, della Carta impone di dare ai diritti in essa contemplati corrispondenti a quelli garantiti dalla CEDU lo stesso significato e la stessa portata di quelli loro conferiti dalla suddetta convenzione, quest’ultima non costituisce, fintantoché l’Unione non vi abbia aderito, un atto giuridico formalmente integrato nell’ordinamento giuridico dell’Unione (punto 44). V. anche la sentenza della Corte costituzionale n. 236 del 2012, sull’adesione dell’UE alla Convenzione delle Nazioni Unite sui disabili, “cui ha aderito anche l’Unione europea…, e che pertanto vincola l’ordinamento italiano con le caratteristiche proprie del diritto dell’Unione europea, limitatamente agli ambiti di competenza dell’Unione medesima, mentre al di fuori di tali competenze costituisce un obbligo internazionale, ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost.”. Sul punto avrei qualche dubbio, come si deduce dalle osservazioni di cui nel testo. 28 15