Il giudice nazionale e il diritto europeo

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Il giudice nazionale e il diritto europeo - Corte di Appello di Roma 3 giugno
2013 – Il rapporto tra il giudice nazionale e la Corte dei diritti dell’uomo –
Giuseppe Tesauro
La materia dei diritti fondamentali è naturalmente, da sempre, tributaria di un
contributo rilevante del giudice, come ogni insieme di norme che attribuisce
immediatamente diritti e impone divieti che incidono non solo sulla posizione
giuridica soggettiva della
persona ma anche sull’evoluzione dei valori di
riferimento del corpo sociale. Non da oggi, peraltro, lo scenario nel quale il giudice
si muove e trova i parametri di legittimità sui quali verifica i comportamenti dei
soggetti o le norme che li disciplinano è significativamente mutato, almeno nel
senso che si è esteso al di là dei normali confini del suo campo di valutazione. Le
norme poste a tutela dei diritti fondamentali della persona e che assumono
rilevanza nella valutazione del giudice non sono più soltanto nazionali,
normalmente di rango costituzionale o comunque primario, ma appartengono
all’ordinamento internazionale e, per i Paesi dell’Unione europea, anche
all’ordinamento comunitario. Ciò vuol dire che la tutela dei diritti fondamentali può
fondarsi su più livelli di legalità, con la conseguenza che il tasso di tutela potrà
talvolta variare ed essere più o meno intenso a seconda della possibilità di
utilizzare uno o più dei parametri tra quelli suscettibili di applicazione da parte del
giudice di volta in volta investito di una concreta controversia. E la presenza di ben
due giudici oltre quelli nazionali, rispettivamente dell’Unione europea e della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU),
rafforzano l’efficacia dello spazio riservato all’interpretazione e all’applicazione
giurisprudenziale delle norme dell’una e dell’altra1. Ciò vuol dire, inoltre, che il
giudice nazionale deve definire il proprio ruolo e i confini della propria competenza
anche rispetto al ruolo e alle competenze dei giudici dell’Unione e della CEDU,
quando la questione sottoposta al suo scrutinio entri nella sfera di applicazione del
diritto dell’Unione e/o della Convenzione; nonché, per quanto di ragione, rispetto al
giudice costituzionale.
Villani U., La cooperazione tra i giudici nazionali, la Corte di giustizia dell’Unione europea e la
Corte europea dei diritti dell’uomo, in SIDI, La cooperazone tra Corti in Europa nella tutela dei
diritti dell’uomo, Atti del convegno dell’Università della Calabria, Napoli 2012, p. 1 ss.
1
1
Vero è che la scelta dell’ordinamento competente e dunque delle norme
applicabili non si pone, quanto alla tutela dei diritti fondamentali, negli stessi
termini della scelta richiesta rispetto a rapporti che presentano elementi di
estraneità e che per ciò stesso richiedono l’individuazione del diritto applicabile in
base ai criteri di collegamento indicati dalle norme di diritto internazionale privato.
Vi sono, tuttavia, dei punti di contatto ed una logica complessiva che presenta
alcune similitudini, in quanto il giudice è comunque chiamato a considerare ed
all’occorrenza ad applicare norme esterne rispetto all’ordinamento giuridico del
foro, nel senso che sono poste in essere, sono modificate e perdono vigenza al di
fuori dei processi normativi nazionali.
Ciò premesso, intendo fare una riflessione su alcuni aspetti del rapporto tra
norme CEDU e diritto italiano, in particolare sotto il profilo del ruolo del giudice
nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme esterne che rilevano per la
tutela dei diritti fondamentali2.
Andiamo, quindi, anzitutto a scrutare il rapporto tra Convenzione e diritto
interno. E’ noto che nella Costituzione italiana fu inserito dall’Assemblea
Costituente un segnale chiaro di apertura del nostro ordinamento giuridico alle
regole della vita di relazione internazionale, che si traduceva in un meccanismo di
adattamento automatico alle norme del diritto internazionale generalmente
riconosciute (art. 10, primo comma); e nella possibilità di limitazioni di sovranità in
ragione dell’appartenenza ad organismi internazionali che assicurassero la pace
e la giustizia fra le Nazioni (art. 11). Fin dai lavori preparatori della Costituzione, e
poi nell’interpretazione prevalente della giurisprudenza e della dottrina, si diffuse
l’idea che la copertura costituzionale non riguardasse le norme convenzionali; e
che l’appartenenza del principio pacta sunt servanda alla categoria dei principi del
diritto internazionale generalmente riconosciuti non riuscisse a smentire quell’idea.
L’ingresso nel nostro ordinamento di tali norme avveniva con una legge ordinaria
2
Vorrei preliminarmente fare una precisazione di tipo terminologico. Ritengo opportuno
utilizzare l’espressione diritti fondamentali come sinonimo di diritti dell’uomo o umani, senza
indulgere in distinzioni sofisticate e senza fine, ma anche dai fini incerti, che talvolta si trovano nella
dottrina. E ciò con riguardo sia ai diritti prefigurati nella nostra Carta costituzionale, sia a quelli
prefigurati e tutelati da norme esterne al nostro ordinamento. Entrando occasionalmente nel cono
di luce dell’Unione europea, poi, non cederò alla suggestione di usare neologismi del dopo Lisbona
e mi consentirò la libertà di usare ancora l’aggettivo comunitario per il diritto e gli atti dell’Unione,
oltre che per i cittadini, che proprio non mi riesce di definire altrimenti, ad esempio eurounitari o,
peggio ancora, extraeurounitari.
2
di adattamento, la legge che, oltre ad autorizzare la ratifica del trattato, ne ordina
contestualmente l’esecuzione nell’ordinamento interno.
Quella scelta interpretativa poneva un problema, in quanto la soluzione di
un’eventuale conflitto tra norma interna e norma esterna trovava soluzione nel
primato della seconda se norma del diritto internazionale generale, principalmente
consuetudinaria, mentre la soluzione del conflitto con la norma convenzionale, che
non fosse di un accordo sulla condizione dello straniero compresa nella previsione
dell’art. 10, comma 2, era affidata al criterio che regola la successione nel tempo
delle leggi di pari rango, con la conseguenza che almeno in principio prevaleva la
legge ordinaria successiva sulla legge di adattamento e dunque sulla norma
internazionale convenzionale. Questo quadro normativo riguardava tutti gli accordi
internazionali, dunque anche la CEDU e i trattati comunitari, che – talvolta si
dimentica – sono accordi internazionali a tutti gli effetti. La conseguenza era una
evidente criticità nella vita di relazione internazionale del nostro Paese, in quanto
un principio ben saldo, logico prima ancora che giuridico, non consente agli Stati,
se non per circostanze eccezionali,
di giustificare la violazione di una norma
internazionale, non importa se generale o pattizia, adducendone il contrasto con
una norma interna. La giurisprudenza interna, di merito e di legittimità, ha pertanto
dovuto e saputo trovare dei rimedi pratici.
Per il diritto comunitario, a seguito di un intenso dialogo a distanza tra Corte
costituzionale e Corte di giustizia, si è arrivati fin dagli anni settanta a trovare la
copertura costituzionale nell’art. 11 ed a costruire il conflitto con la norma
comunitaria come questione di legittimità costituzionale. Con la sentenza Granital
del 19843, poi, si è costruito il rapporto con le norme comunitarie complete e
dunque pronte per l’applicazione come problema di competenza dell’uno o
dell’altro ordinamento, tanto da attribuire - su questa premessa - al giudice
nazionale comune, senza la previa verifica di costituzionalità, la possibilità che la
norma interna cedesse il passo alla contrastante norma comunitaria, in breve
fosse disapplicata.
Per l’ipotesi di contrasto con le norme internazionali convenzionali, a seconda
dei casi, si è fatto talvolta ricorso principalmente all’ interpretazione conforme,
anche quando la conformità era di difficile sperimentazione, o al criterio della
3
Corte Cost., sent. n. 170 del 1984.
3
specialità (anche questa spesso dubbia) o, su un piano meramente dialettico, alla
semplice
peculiarità
o
particolare
rilevanza
della
norma
internazionale
convenzionale, magari ancorandola ad un insieme di fonti esterne multilaterali,
come precisamente nel caso delle norme a tutela dei diritti fondamentali. Ciò ha
consentito nella maggior parte dei casi di assicurare almeno in via pretoria la
prevalenza dei trattati, ed in particolare della CEDU, anche sulle leggi interne
successive
eventualmente
contrastanti4.
In
questo
modo,
le
ipotesi
di
annullamento di una legge di adattamento non hanno raggiunto le due cifre5.
Con la riforma del 2001, si è introdotto nella Costituzione il vincolo espresso
del legislatore di rispettare gli obblighi internazionali, vincolo che l’interpretazione
corrente ha riferito pacificamente agli obblighi derivanti da norme internazionali
convenzionali, le sole che non avevano ancora copertura. C’è stata un’iniziale
esitazione al riguardo da parte dei giudici comuni, con la conferma delle soluzioni
pratiche già ricordate, nonché in non pochi casi con la disapplicazione della norma
interna contrastante, alcuni applicando alla CEDU il modello delle norme
comunitarie provviste di effetto diretto. Vi sono state, poi, alcune significative
pronunce della Cassazione nel 2004, che hanno anticipato
quanto poi sarà
affermato dalla Corte costituzionale pochi anni dopo6.
L’orientamento della Corte costituzionale, infatti, con riguardo al rapporto con
la CEDU dopo la riforma del 2001, è maturato solo nel 2007, con le sentenze n.
348 e n. 349, quando le questioni sollevate – relative ad un sospettato conflitto
con la CEDU delle norme interne in tema rispettivamente di espropriazione e di
“occupazione acquisitiva” - imponevano preliminarmente una valutazione generale
del rapporto tra diritto interno e Convenzione alla luce della riformulazione dell’art.
117, primo comma, della Costituzione.
Le due pronunce, identiche per molti profili sostanziali, diverse per altri punti
pur rilevanti, hanno confermato l’apertura della nostra Costituzione verso l’insieme
4
Ad esempio, sentenze n. 310 del 1996, n. 26 del 2000, n. 29 del 2003, n. 342 del 1999. In
argomento, L. Salvato, La tutela dei diritti fondamentali nelle fonti interne ed esterne: poteri e
compiti del giudice comune, in Il dir. dell’UE, 2011, p. 259 ss., p. 266.
5 B. Conforti, Diritto internazionale, Napoli 2013, p. 350.
6 Sentenze delle Sezioni Unite civili nn. 1338, 1339, 1340 e 1341 del 2004; nonché le sentenze
della Cassazione penale n. 35616 del 2005, Cat Berro, n. 32678 del 2006, Somogyi, e n. 2800 del
2006, Dorigo. In proposito, E. Lupo, La vincolatività delle sentenza della Corte europea dei diritti
dell’’uomo per il giudice interno e la svolta recente della Cassazione civile e penale, in Cass. Pen.,
2007, p. 2247; L. Salvato, La tutela dei diritti fondamentali nelle fonti interne ed esterne, cit.
4
delle norme esterne, anche convenzionali; ed hanno altresì messo a fuoco i ruoli
diversi del giudice comune e del giudice costituzionale rispetto al confronto tra
norme interne e norme esterne relative alla tutela dei diritti fondamentali.
La Corte ha anzitutto respinto l’idea, di una certa diffusione nella dottrina non
specialista, soprattutto di diritto interno e comparato, e in giurisprudenza, già a
partire dal Trattato di Maastricht, della c.d. comunitarizzazione della CEDU. In
particolare,
l’art. 6 del Trattato sull’Unione europea avrebbe consentito di
attribuire alle norme CEDU l’effetto diretto tipico di molte norme comunitarie, per
giunta con l’ulteriore conseguenza della possibilità per il giudice comune di
disapplicare in questo caso la norma interna contrastante. L’idea, invero, meritava
e merita qualche riflessione ed una verifica rigorosa.
Anzitutto, l’art. 6 del TUE, nella versione originaria che richiama i diritti
fondamentali della CEDU e delle Costituzioni nazionali e li comprende tra i principi
generali garantiti dalla Corte di giustizia,
si limitò a ribadire una formula
consolidata della giurisprudenza della Corte di giustizia, inaugurata nel 1969 7. Il
vincolo al rispetto dei diritti fondamentali così come garantiti dalla CEDU e dalle
tradizioni costituzionali degli Stati membri non vale e trasformare le norme CEDU
in norme comunitarie, restando, quelle, norme convenzionali esterne rispetto
all’ordinamento comunitario così come agli ordinamenti degli Stati membri. E lo
stesso dicasi con riguardo alla nuova formulazione dell’art. 6 del TUE a seguito
della riforma di Lisbona (“I diritti fondamentali garantiti dalla CEDU...e risultanti
dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri fanno parte del diritto
dell’Unione in quanto principi generali”), che di sicuro non ha prodotto alcuna
trasformazione delle norme CEDU in norme UE, come qualche sentenza almeno
rapida è giunta ad affermare 8; tanto meno ha trasferito alle prime le caratteristiche
delle seconde relative al rapporto con gli ordinamenti interni degli Stati membri o
addirittura la copertura dell’art. 11 della Costituzione italiana9.
7
Stauder, causa 29/69, sentenza 12 novembre 1969, Raccolta p. 419; Internationale
Handellsgesellschaft, causa 11/70, sentenza 17 dicembre 1970, Raccolta p. 1115, punto 4: “La
tutela dei diritti fondamentali costituisce parte integrante dei principi giuridici generali di cui la Corte
di giustizia garantisce l’osservanza”; ERT, causa C-260/89, sentenza 18 giugno 1991, Raccolta p.
I- 2925, punto 41.
8 In particolare, TAR Lazio, n. 11984/2010, del 25 maggio 2010; Consiglio di Stato, IV sez., n.
01220/2010, del 2 marzo 2010.
9 Così, viceversa, Tar Lazio, sopra citata.
5
La Corte ha poi escluso per il giudice comune, indipendentemente dalla
pretesa comunitarizzazione, la possibilità di disapplicare la norma interna in
contrasto con le norme CEDU, non potendosi a queste ultime attribuire un effetto
“che arrivi al punto da attribuire un tale potere al giudice”, non consentendolo né il
loro carattere, né la struttura e gli obiettivi della CEDU complessivamente
considerata (così la sentenza 349/07). Il passaggio appare forse avaro di
particolari, come spesso appare il linguaggio delle sentenze, ispirato all’esigenza
di sintesi e costretto dai limiti di una reale collegialità del processo decisionale.
L’approccio del giudice costituzionale, lungi dal negare in via generale il carattere
self-executing di determinate norme convenzionali, riecheggia in parte quello della
Corte di giustizia nell’identificare le condizioni per attribuire l’effetto diretto alle
norme comunitarie e per escluderne la ricorrenza; ma soprattutto ha escluso che
alla diretta applicabilità si possa collegare anche il potere del giudice di
disapplicare la norma interna in contrasto con la norma CEDU, cioè il c.d. effetto
Granital. L’ipotesi di conflitto tra norma interna e norma CEDU non sanabile in via
interpretativa si traduce, pertanto, in una questione di legittimità costituzionale
rispetto al parametro dell’art. 117 Cost., primo comma, il quale rinvia alla norma
CEDU di volta in volta conferente, che dunque vale ad integrarne il contenuto: di
qui la definizione del meccanismo come di rinvio mobile, a somiglianza del rinvio
operato dalle norme di diritto internazionale privato all’ordinamento competente.
Questa giurisprudenza della Corte costituzionale, più volte ribadita negli ultimi
anni dopo le sentenze 348 e 349 del 2007, non può considerarsi, come invece è
stata considerata da una parte della dottrina,
in contraddizione con la sentenza
Granital del 1984, che affermò per la prima volta il potere del giudice di non
applicare la norma interna contrastante con un atto comunitario provvisto di effetto
diretto. In quella occasione, la Corte costituzionale, sulla premessa che l’art. 11
della Costituzione aveva delegato all’ordinamento comunitario la disciplina di
determinati settori, affermò che, se esercitata in pieno tale competenza, l’atto trova
applicazione immediata e diretta negli ordinamenti interni, che pertanto “si
ritraggono” e la norma contrastante non trova applicazione (“non viene in rilievo”).
In quel caso, pertanto, non si pone tanto una questione di gerarchia tra norme,
dunque di primazia della norma comunitaria, bensì una questione di competenza
dell’ordinamento comunitario piuttosto che di quello interno; ciò che trova puntuale
6
riscontro sul piano processuale, in quanto la questione di costituzionalità che il
giudice sollevasse sarebbe inammissibile. Nell’ipotesi di competenza non
esercitata appieno, dunque di norma comunitaria sprovvista di effetto diretto,
l’ordinamento interno è competente e non si ritrae, la norma interna è pienamente
valida, fatta salva la verifica di legittimità costituzionale affidata al giudice delle
leggi. E’ quest’ultimo che avrà da risolvere un problema di primazia della norma
comunitaria. In altri termini, l’effetto diretto della norma comunitaria, alla stregua
della giurisprudenza Granital, non attribuisce di per sé il potere di disapplicazione
della norma interna al giudice comune, ma tale potere consegue all’esercizio
pieno della competenza comunitaria stabilita dal Trattato; l’effetto diretto è solo la
condizione perché l’ordinamento interno si ritragga e il giudice applichi in suo
luogo la norma dell’ordinamento comunitario competente10.
Per la CEDU, il problema non si pone, in quanto non vi è stata nessuna
delega di competenze normative o limitazioni di sovranità nel senso dell’art. 11
Cost., sì che l’eventuale contrasto con una sua norma determina una semplice
questione di violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, che impone
al legislatore il rispetto delle norme internazionali convenzionali.
In tal modo la Corte costituzionale non poteva che attribuire al giudice
nazionale delle leggi, con la copertura in Costituzione delle norme internazionali
convenzionali introdotta dalla riforma del 2001, la competenza a valutare la
questione posta dal contrasto tra norma interna e norma CEDU, eventualmente
dichiarando la prima costituzionalmente illegittima, con la conseguenza che la
norma convenzionale sarà applicata in luogo della norma interna. E ciò – va
sottolineato al giusto - anche a garanzia della puntuale, certa e stabile osservanza
da parte italiana degli obblighi sanciti dal sistema di tutela dei diritti umani della
CEDU. E’ vero, d’altra parte, che una norma della CEDU e la sentenza della Corte
di Strasburgo che la interpreta e la applica impegnano alla loro osservanza lo
Stato in tutte le sue articolazioni, ivi compresi i giudici di ogni grado e non solo i
giudici costituzionali, ma è pur sempre lo Stato a disciplinare le diverse
competenze dei suoi organi quanto al rapporto con le norme esterne e che è libero
di trovare i rimedi che ritiene opportuni ad eventuali conflitti. Questo passaggio, in
10
Nel caso Granital, la norma comunitaria provvista di effetto diretto era un regolamento; ma la
situazione non cambia quando si tratti di una norma del Trattato provvista di effetto diretto.
7
particolare della sentenza 349/07, si ritroverà qualche anno dopo in termini
sostanzialmente analoghi nella sentenza Kamberaj della Corte di giustizia UE11.
Più in generale, la Corte costituzionale ha delineato con chiarezza i ruoli
rispettivi dei giudici di fronte all’applicazione delle norme della CEDU. Il giudice
comune ha il compito di interpretare la norma nazionale in ipotesi applicabile,
sperimentando una interpretazione che sia conforme alla disposizione conferente
della CEDU così come interpretata dalla Corte di Strasburgo, fino ai limiti - e non
sono
molti
-
di
quanto
ragionevolmente
consentito
dai
normali
criteri
d’interpretazione di un testo normativo. Si è fatta applicazione, pertanto, del
criterio di conformità, che vuole l’applicazione della norma internazionale – ma lo
stesso vale per la norma straniera – così come interpretata nel suo ordinamento e
dal suo giudice, per ciò stesso con le sue dinamiche e la sua effettività 12. In
sostanza, al giudice nazionale è imposto un vero e proprio obbligo di
interpretazione conforme delle norme CEDU. E va poi considerato che
l’interpretazione della Corte di Strasburgo riguarda sì un caso, ma investe una o
più norme. Ne consegue che, non in termini assoluti, ma almeno per quanto di
ragione, normalmente l’interpretazione della CEDU può andare anche al di là della
Causa C-571/10, sentenza del 24 aprile 2012, punti 61-63: “ Tale disposizione del Trattato UE
consacra la giurisprudenza costante della Corte secondo la quale i diritti fondamentali sono parte
integrante dei principi generali del diritto dei quali la Corte garantisce l’osservanza. Tuttavia,
l’articolo 6, paragrafo 3, TUE non disciplina il rapporto tra la CEDU e gli ordinamenti giuridici degli
Stati membri e nemmeno determina le conseguenze che un giudice nazionale deve trarre
nell’ipotesi di conflitto tra i diritti garantiti da tale convenzione ed una norma di diritto nazionale. Si
deve pertanto rispondere alla seconda questione dichiarando che il rinvio operato dall’articolo 6,
paragrafo 3, TUE alla CEDU non impone al giudice nazionale, in caso di conflitto tra una norma di
diritto nazionale e detta convenzione, di applicare direttamente le disposizioni di quest’ultima,
disapplicando la norma di diritto nazionale in contrasto con essa”. V. anche Fransonn, causa C617/10, sent. 26 febbraio 2013, punto 44 (“Di conseguenza, il diritto dell’Unione non disciplina i
rapporti tra la CEDU e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri e nemmeno determina le
conseguenze che un giudice nazionale deve trarre nell’ipotesi di conflitto tra i diritti garantiti da tale
convenzione ed una norma di diritto nazionale”).
12 In materia penale, mi sembra significativa al riguardo la sentenza n.230 del 2012, con la quale la
Corte costituzionale ha rigettato la questione di legittimità dell’art. 673 c.p.p. nella parte in cui non
prevede la revoca della sentenza di condanna nel caso di mutamento di giurisprudenza, nella
specie della sezioni Unite della Cassazione, in base al quale il fatto giudicato non è più previsto
dalla legge penale come reato, in breve sul presupposto di una equivalenza tra legge penale e
giurisprudenza più favorevole. La Corte ha correttamente colto nella giurisprudenza della Corte
della Corte europea, da una parte, un orientamento consolidato sulla nozione di “diritto” come
comprensiva tanto del diritto di produzione legislativa che del diritto di formazione
giurisprudenziale; dall’altra, tuttavia, la preclusione a far valere la prevalenza del “diritto più mite”
oltre il limite del giudicato, limite che non potrebbe non valere anche per un sopravvenuto
mutamento di giurisprudenza. Così la Corte costituzionale, non ha riscontrato nella giurisprudenza
della Corte europea l’interpretazione della norma CEDU (art. 7) sulla quale era fondata la
questione di legittimità costituzionale della norma italiana.
11
8
definizione della fattispecie riguardata. La Corte costituzionale ha anche precisato
che l’interpretazione della Corte europea consolidatasi sulla norma conferente
richiede di rispettarne la sostanza13.
Il ruolo del giudice comune – sia chiaro - resta pertanto molto ampio e
l’intervento del giudice costituzionale del tutto eccezionale. Quando il contrasto
della norma nazionale con la CEDU fosse insanabile in via interpretativa, il giudice
comune non potrà risolvere il caso autonomamente. Non potrà applicare la norma
nazionale, poiché la premessa è un contrasto insanabile con la norma CEDU; né
potrà disapplicare la norma nazionale, poiché il contrasto implica una questione di
legittimità costituzionale che solo la Corte costituzionale può risolvere,
eventualmente
con
l’annullamento
della
legge
nazionale14.
Al
giudice
costituzionale resta anche da verificare se l’applicazione della norma esterna
convenzionale integrata nel parametro dell’art. 117, primo comma, della
Costituzione non trovi un ostacolo in un altro principio di rango costituzionale in
concreto rilevante. A tal fine, gli è richiesto con ogni evidenza un bilanciamento tra
valori costituzionali ed una valutazione sul tasso di tutela garantito dalla norma
interna rispetto a quello garantito dalla norma CEDU. La tutela di un diritto
fondamentale offerto dalla norma CEDU, infatti, prevale su quella offerta dalla
norma interna esclusivamente quando essa estenda la tutela, di sicuro non
quando la limiti. D’altra parte ciò è sancito, a fugare ogni dubbio, dalla stessa
CEDU, all’art. 53, alla stregua del quale nessuna norma della Convenzione può
essere interpretata in modo da limitare o pregiudicare i diritti dell’uomo e le libertà
fondamentali riconosciuti a livello interno. In definitiva, la Corte si è riservata di
verificare se la norma CEDU, nell’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo
non contrasti in modo insanabile in via interpretativa con una norma costituzionale
conferente. La riserva riecheggia un po’ la categoria dei controlimiti rispetto
all’applicazione del diritto comunitario, anche se rispetto alle norme CEDU
Sent. 311 del 2009. Il passaggio non è casuale, ma riferito nell’occasione alla giurisprudenza
della Cassazione relativa alla quantificazione del danno da irragionevole durata del processo, in
particolare sent. n. 10415 del 2009, secondo la quale non importa tanto il criterio di calcolo, quanto
il risultato di un serio ristoro così come voluto dalla giurisprudenza europea. V. anche sul punto
l’ordinanza n. 150 del 2012.
14 Ciò che è avvenuto nel caso risolto con le sentenze 348 e 349 del 2007; v. anche la sentenza n.
78 del 2012.
13
9
coinvolge non solo i principi fondamentali dell’assetto costituzionale, ma più
semplicemente le norme conferenti della Costituzione.
Altro punto sul quale vorrei riflettere riguarda lo spazio che la norma
internazionale convenzionale va ad occupare nell’ordinamento interno. Talvolta si
legge di nazionalizzazione della norma internazionale o di trasformazione in
norma interna o di integrazione
dottrina
o di altre formule equivalenti. Lasciamo alla
di meditare su simili formule. La sostanza reale è che la norma
internazionale convenzionale rimane soggetta, quanto a modificazione ed
eventuale estinzione, alle regole del diritto internazionale, con la conseguenza che
su questo non può avere alcuna possibilità di incidere il diritto interno. Pertanto, la
norma internazionale convenzionale, che nasce esterna all’ordinamento giuridico
italiano, tale rimane anche quando è chiamata da quell’ordinamento, a mezzo del
rinvio operato dalla norma costituzionale e/o dalla legge di adattamento, a
regolare certi rapporti e dunque ad incidere in concreto su determinate posizioni
giuridiche soggettive. L’ordinamento interno garantisce con le sue norme
l’applicazione e con essa l’osservanza della norma esterna, secondo modalità e
portata diverse, anche in funzione di eventuali modificazioni o anche
dell’estinzione della norma stessa, regolate del diritto internazionale. In breve,
all’adattamento speciale non consegue, se non in senso improprio, la
“nazionalizzazione” della norma esterna, che si produce, viceversa, solo con
l’adattamento ordinario, cioè con una normale legge interna che ne riproduca o ne
riformuli il contenuto, che pertanto continuerà a vivere indipendentemente dalle
modificazioni o dall’estinzione della norma internazionale.
Nella giurisprudenza costituzionale questo punto è stato chiarito in particolare
con riguardo alle norne comunitarie, quando si è ad esempio insistito sul carattere
distinto ed autonomo dell’ordinamento comunitario rispetto a quello nazionale,
seppure coordinati. Ed anche l’uso dell’attributo “integrato” che talvolta si ritrova
(ad esempio nell’ordinanza 103 del 2008) è trasparentemente casuale e
comunque improprio (v. la successiva sentenza 125 del 2009).
Resta da valutare quali implicazioni siano da collegare alla circostanza che la
norma internazionale, che non sia stata oggetto di un adattamento ordinario,
rimane una norma esterna al nostro ordinamento. Spesso si pone il problema del
10
loro rango all’interno dell’ordinamento nazionale. Anche a questo proposito, a
stretto rigore sembra improprio porsi il problema del rango, nel nostro sistema
delle fonti, di una norma esterna. In ogni caso, la soluzione che comunemente si
da al problema, che cioè la norma esterna si pone ad un livello corrispondente a
quello della norma che ad esso ha fatto rinvio, di norma costituzionale o di legge
ordinaria, appare ragionevole. Con la riformulazione dell’art. 117, primo comma, è
ormai diffusamente riconosciuto, ed è stato specificamente affermato dalla Corte
costituzionale, che la norma convenzionale, in particolare della CEDU, va ad
integrare il contenuto dell’art. 117, primo comma, della Costituzione; ma la Corte
ha anche
affermato talvolta il rango subcostituzionale della norma CEDU
richiamata15, altre volte lo stesso rango della norma costituzionale16. A me
sembra, lasciando da parte anche il rigore sistematico,
che la seconda
costruzione renda anzitutto più chiara all’interprete, in particolare al giudice, la
portata della norma esterna così posizionata;
che inoltre tale costruzione sia
coerente con l’idea incontestata che la norma esterna integra il contenuto del
parametro costituzionale; e che, infine, sia almeno dubbio che la formula della
norma interposta riferita alla norma esterna rispetto all’art. 117, primo comma, sia
più di un luogo comune terminologico e che possa essere correttamente
assimilato al meccanismo della delega legislativa, per il quale la formula stessa
dell’interposizione fu coniata. D’altra parte, se la preoccupazione è quella di
lasciare la possibilità di un bilanciamento tra norma esterna e altre norme
costituzionali, è sicuro che tale bilanciamento resta comunque possibile tra norme
di livello corrispondente, il bilanciamento rientrando, a dirla con la Corte
costituzionale, tra “le ordinarie operazioni cui questa Corte è chiamata in tutti i
giudizi di sua competenza”17.
Questo margine di valutazione che la Corte costituzionale si è riservata di
utilizzare prima di annullare una legge interna in contrasto con la CEDU somiglia
certo ai controlimiti posti all’ingresso di norme comunitarie, riserva, in quest’ultimo
caso, mai
fatta valere. Esso si collega, d’altra parte, anche al margine di
apprezzamento lasciato agli Stati contraenti. Su questo tema, che la Corte
europea ha elaborato e che è da sempre oggetto di una ampia riflessione della
15
Sent. 348 del 2007.
Sent. n. 236 del 2011.
17 Sent. n. 236 del 2011.
16
11
dottrina, c’è stata una presa di posizione della Corte costituzionale italiana nel
caso Agrati, in particolare con la sentenza n. 311 del 2009. In questa complessa
vicenda, la Corte Costituzionale aveva in un primo momento respinto la questione
di legittimità costituzionale rispetto a parametri di merito di una legge interpretativa
intervenuta nel corso di una controversia nella quale era convenuta una parte
pubblica, in quanto a suo parere tesa a ripristinare una generale perequazione
retributiva a tutti i dipendenti del settore scuola, indipendentemente dalle rispettive
provenienze18 La Corte di Strasburgo, investita a sua volta della controversia, con
la decisione di una Sezione e rifiutando l’appello alla Grande Camera, respingeva
in modo rapido e senza una adeguata ricognizione dei fatti, le argomentazioni del
governo italiano, affermando la violazione della norme sull’equo processo (art. 6
CEDU)
e la norma che tutela la proprietà privata. Riportata la questione
all’attenzione della Corte costituzionale da parte della Cassazione con riferimento
all’’art. 117, primo comma, richiamando la giurisprudenza di Strasburgo sulla
deroga al divieto di incidere con legge sulle sorti di un processo in corso quando
ricorrano ragioni imperative di interesse generale del Paese, nonché le ragioni che
avevano determinato il legislatore nel caso di specie, la Corte ha rilevato, citando
la conferente giurisprudenza della stessa Corte EDU, che “fare salvi i motivi
imperativi d’interesse generali che suggeriscono al legislatore nazionale interventi
interpretativi nelle situazioni che qui rilevano non può non lasciare ai singoli Stati
contraenti quanto meno una parte del compito e dell’onere di identificarli, in quanto
nella posizione migliore per assolverlo, trattandosi, tra l’altro, degli interessi che
sono alla base dell’esercizio del potere legislativo. Le decisioni in questo campo
implicano, infatti, una valutazione sistematica di profili costituzionali, politici,
economici, amministrativi e sociali che la Convenzione europea lascia alla
competenza degli Stati contraenti, come è stato riconosciuto, ad esempio, con la
formula del margine di apprezzamento, nel caso di elaborazione di politiche in
materia fiscale, salva la ragionevolezza delle soluzioni normative adottate” 19.
Ancora in tema, nella sostanza, di margine di apprezzamento e insieme
di spazio riservatosi dalla Corte costituzionale per il bilanciamento tra la norma
CEDU e altri conferenti valori costituzionali, va ricordata la sentenza della Corte
18
19
Sent. n. 234 del 2007.
Sent. 311 del 2007.
12
costituzionale sulle c.d. pensioni svizzere, anche questa in tema di leggi
interpretative retroattive che incidono su un processo in corso20. In tale occasione,
la Corte di Strasburgo aveva censurato la legge interpretativa sotto il profilo
dell’equo processo, ma aveva escluso la violazione dell’art. 1 del Protocollo 1,
dunque sotto il profilo, pure denunciato dai ricorrenti, del pregiudizio economico 21.
La Corte costituzionale ha al riguardo rilevato che, così come interpretata dalla
Corte di Strasburgo, la norma CEDU integra pienamente il parametro dell’art. 117,
primo comma, della Costituzione; tuttavia, nel bilanciamento con altri interessi
costituzionalmente protetti prevale la tutela degli interessi “antagonisti” di pari
rango costituzionale, che fanno prevalere sulla norma CEDU quei “preminenti
interessi generali che giustificano il ricorso alla legge retroattiva”22. In particolare,
emergono “i principi di eguaglianza e di solidarietà, che, per il loro carattere
fondante, occupano una posizione privilegiata nel bilanciamento con altri valori
costituzionali”
23.
La Corte ha poi precisato uno dei motivi che hanno portato a
dare la prevalenza alla tutela di interessi diversi da quelli tutelati dalla norma
CEDU. In particolare, secondo la Corte costituzionale, mentre la Corte di
Strasburgo tutela in modo parcellizzato i diversi valori in giuoco, essa opera invece
“una valutazione sistemica dei valori coinvolti dalla norma scrutinata, ed è, quindi,
tenuta a quel bilanciamento, solo ad essa spettante”24.
Un caso peculiare – di rispetto per l’interpretazione della Corte europea ma
anche per il ruolo del giudice a quo nel giudizio incidentale di costituzionalità - è
quello di un rinvio alla Corte costituzionale da parte di alcuni giudici di merito della
questione della fecondazione eterologa. Il dubbio sulla legittimità costituzionale
della legge italiana che vieta questa pratica di procreazione medicalmente
assistita era sostanzialmente fondato su una pronuncia della Corte di Strasburgo
che aveva affermato l’irragionevolezza del divieto assoluto sancito da una
normativa austriaca e dunque la violazione degli articoli 8 e 14 della CEDU25.
20
Sent. 264 del 2012.
Corte EDU, sentenza del 31 maggio 2011, Maggio e altri c. Italia.
22 Sent. n. 264, punto 5.3 del considerato in diritto.
23 Ibidem.
24 Ibidem, punto 5.4.
25 Corte EDU, SH e altri c. Austria, Prima Sezione, sent. 1.4.2010. V. la nota di Campiglio C., in
Diritti umani e diritto internazionale, 2010, p. 624.
21
13
Peraltro, dopo l’ordinanza e nelle more della procedura dinanzi alla Corte
costituzionale, la Grande Camera della Corte europea aveva in sede di appello
reso una sentenza di segno opposto, nel senso che il legislatore austriaco non
aveva ecceduto il margine di apprezzamento consentito dalla Convenzione e
dunque non aveva violato le disposizioni invocate26.
La corte costituzionale, sulla premessa che nello schema del giudizio
incidentale di costituzionalità spetta al giudice rimettente valutare la non manifesta
infondatezza della questione e che, mentre le parti avevano avuto la possibilità di
esprimersi sulla sopravvenienza della sentenza della Grande Camera della Corte
di Strasburgo, i giudici rimettenti – pur essendo gli interlocutori principali in una
procedura che è da giudice a giudice – non avevano avuto questa possibilità, ha
restituito gli atti ai rimettenti perché si esprimessero sulla permanenza del
contrasto denunciato.
La questione da molti posta è se lo scenario risultante dall’attuale
giurisprudenza costituzionale sia in qualche modo mutato o sia destinato in futuro
a mutare in relazione alle novità introdotte dal Trattato di Lisbona nei trattati
comunitari. La vera novità è costituita anzitutto dall’attribuzione formale alla Carta
di Nizza (Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea) dello stesso rango dei
Trattati, anche se, in fatto, essa aveva comunque un valore sostanziale, alla luce
di una ricchissima giurisprudenza quarantennale del giudice comunitario in
materia di diritti fondamentali, giurisprudenza in grandissima parte tradotta in
disposizioni della Carta. Altra novità di Lisbona è stata
la possibilità, e
sostanzialmente l’impegno, formalizzato nell’art. 6 del Trattato, di realizzare
l’obiettivo antico dell’adesione dell’Unione alla CEDU.
Una parte minoritaria della giurisprudenza e soprattutto della dottrina, per un
eccesso di entusiasmo ed una lettura troppo rapida dei testi, ha creduto che
l’adesione fosse cosa fatta con l’entrata in vigore della riforma di Lisbona dei due
trattati, dell’Unione europea e sul funzionamento dell’Unione. All’evidenza non è
così ed il negoziato in corso per arrivare al necessario accordo non è certo facile
26
Corte EDU, Grande Camera, SH e altri c. Austria, ricorso n. 57813/00, sent. 3 novembre 2011.
V. la nota di Viviani A., Il diritto di fondare una famiglia, la fecondazione assistita e i…passi indietro
della Grande Camera della Corte europea dei diritti umani, in Dir. umani e dir. internazionale, 2012.
14
né rapido; e la stessa determinazione largamente maggioritaria degli Stati membri
deve oggi fare i conti con ben altri problemi e altrettante diffidenze.
Peraltro, neppure è sicuro che l’adesione dell’Unione alla CEDU possa di per
sé cambiare questa situazione. Al riguardo non può essere trascurata la
circostanza che, sul piano della teoria giuridica generale, l’adesione di uno Stato
ad un trattato ovvero ad un organismo internazionale non determina di per sé e
automaticamente l’integrazione delle norme del trattato nel sistema interno delle
fonti, restando inalterata la loro esternalità se non quando si procedesse con la
procedura di adattamento ordinario. Non si vede con chiarezza, dunque, come la
norme della Convenzione, alla quale l’Unione europea si è impegnata ad aderire,
diventino con l’adesione e solo per questo norme comunitarie e di queste
prendano tutte le caratteristiche nei rapporti con gli Stati membri dell’Unione (art. 6
TUE come art. 10, 1 Cost. italiana ?); in breve, come si possa superare, solo come
conseguenza dell’adesione, ciò che la Corte costituzionale italiana27 e la Corte di
giustizia UE28 hanno con chiarezza correttamente affermato.
27
Sentenza n. 349 del 2007.
Kamberaj, sopra citata. Nella sentenza Fransonn, sopra citata, tuttavia, si legge che “Per quanto
riguarda, anzitutto, le conseguenze che il giudice nazionale deve trarre da un conflitto tra il diritto
nazionale e la CEDU, occorre ricordare che, anche se, come conferma l’articolo 6, paragrafo 3,
TUE, i diritti fondamentali riconosciuti dalla CEDU fanno parte del diritto dell’Unione in quanto
principi generali e anche se l’articolo 52, paragrafo 3, della Carta impone di dare ai diritti in essa
contemplati corrispondenti a quelli garantiti dalla CEDU lo stesso significato e la stessa portata di
quelli loro conferiti dalla suddetta convenzione, quest’ultima non costituisce, fintantoché l’Unione
non vi abbia aderito, un atto giuridico formalmente integrato nell’ordinamento giuridico dell’Unione
(punto 44). V. anche la sentenza della Corte costituzionale n. 236 del 2012, sull’adesione dell’UE
alla Convenzione delle Nazioni Unite sui disabili, “cui ha aderito anche l’Unione europea…, e che
pertanto vincola l’ordinamento italiano con le caratteristiche proprie del diritto dell’Unione europea,
limitatamente agli ambiti di competenza dell’Unione medesima, mentre al di fuori di tali
competenze costituisce un obbligo internazionale, ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost.”. Sul
punto avrei qualche dubbio, come si deduce dalle osservazioni di cui nel testo.
28
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