27.6.2012 - La Voce del Popolo

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LA VOCE
DEL POPOLO
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De festivalibus et de vanitatibus
di Patrizia Venucci Merdžo
Gentilissimi,
il corrente mese, ormai agli sgoccioli, è stato tutto un
traffico di eventi artistico-culturali legati sia al Festival
“Kvarner”, che alle celebrazioni di San Vito, al Festival
Opatija e all’apertura delle “Notti estive di Fiume”.
Nel segmento musicale non sono mancate nemmeno
le stars del crossover internazionale. Al “Kvarner” ha
fatto la su apparizione Nigel Kennedy, detto anche Nigel Gonzales per il suo Vivaldi fatto a trecento all’ora.
D’accordo, virtuoso del violino e tutto quanto; peccato
però che stravolga il carattere e polverizzi l’atmosfera
magica delle pagine del “Prete rosso”.
Quindi, alla Scena aperta di Abbazia, c’è stato Maksim
Mrvica, detto anche Maksim il Bello. Sembra uscito direttamente dallo scalpello di Michelagnolo: tipo “David” versione matura, e un po’ punk. Peccato si sia miserevolmente
rovinato il plastico avambraccio sinistro con una quantità
esagerata di tatuaggi. Se ci mette un po’ più di cuore (che
non è solo una pompa) in Chopin, ha tutto da guadagnare.
C’è stato poi il turno, in occasione della premiazione di Istria nobilissima a Portorose, di Giovanni Allevi,
detto anche Giovanni il Modesto; che nella sua...modestia intende compiere “un parricidio intellettuale” nei
confronti della musica classica così come Platone fece
rispetto al pensiero di Parmenide. Parole sue. Ma cosa
vuole “parricidiare” ‘sto giovanotto! Continui con la
sua musica d’intrattenimento, se gli pare, e cerchi di
non vendere troppo fumo! Se gli riesce.
Poi c’ è la questione dei festival di stagione. Quello
di Fiume è stato aperto da certi signori – i “Pujo” – che
“annaspavano” per aria a suon di rumoracci psichedelici, mentre la gente di sotto se la filava alla chetichella.
“È un festival fatto senza soldi”, ha comunicato la soprintendente. Questo lo abbiamo capito. Assente del tutto il segmento cameristico.
Quelli della metropoli però – alla faccia della crisi –
se la passeranno alla grande alle “Serate al Grič”. Diciannove concerti di tutti i generi con musicisti croati ed
ospiti stranieri, in un mese circa.
Costerà quattro milioni e mezzo l’“Estate spalatina”,
di cui 800.000 kune la prima del “Nabucco” e alcuni
concerti. (Avranno lo zio americano?, o il Teatro di Spalato ha una propria Zecca a disposizione?) Si spera, per
gli spalatini, che tutta sta montagna di soldini sarà spesa
bene. Devo ammettere, che in tempi di disoccupazione dilagante, di gente che lavora senza percepire un soldo e di
pensionati alla fame, certe cifre spese in “progetti culturali” che non di rado suscitano perplessità, mi fanno una
certa impressione.
È un autentico gioiello di musica da camera – sebbene comprenda pure la partecipazione di due orchestre
sinfoniche – il festival zaratino “Le serate musicali a S.
Donato”. Dieci concerti con compagini di musica medievale, rinascimentale, barocca (e non solo) di altissimo livello e di reputazione internazionale – tra cui i
“Dialogos“ istruiti dall’ apprezzatissima medievalista e
cantante zaratina Katarina Livljanić - con copie di strumenti antichi, che nella loro arcaica armonia di suoni
e di voci si spanderanno e faranno vibrare le mura medievali del suggestivo luogo di culto, evocando antiche,
ma nel contempo sempre nuove sensazioni e dimensioni
dello spirito! Che invidia! Che invidia! Che invidia!
Un momento di primo piano nell’ambito della settimana della cultura fiumana – oltre al bel concerto del Maestro Giulio Mercati in San Vito, offerto dal Consolato
generale d’Italia a Fiume e dalla CI di Fiume – è stata la
serata in onore di Nino Serdoz, l’ illustre Maestro fiumano stabilitosi a Roma nel secondo dopoguerra, e la presentazione della monografia a lui dedicata e pubblicata
dalla Società di Studi Fiumani di Roma.
Maestro di ampia cultura – aveva studiato e suonato
con i vari Tyberg, Kubelik, ad Abbazia e a Trieste, assimilando quel raffinatissimo mondo musicale mitteleuropeo –,
di grande sensibilità e umanità, aveva fondato l’associazione “Giuseppe Tartini” e l’omonima Orchestra da camera,
diventando un punto di riferimento per la capitale italiana.
I Maestri di una volta erano speciali. Avevano una
cultura del cuore, un atteggiamento di servizio e di religioso innamoramento verso la Musica stupendi, e, già paghi della loro alta “missione” non agivano pensando ad
onori e glorie.
Oggi la “carriera” la si “costruisce”. Efficienti, professionali, istruiti nella creazione del loro “image”,
pronti a fare le “capriole” davanti alla telecamere, con
i loro manager, i direttori d’orchestra contemporanei di
solito “producono” musica di buona “qualità”. Eppure,
assai spesso viene a mancare quel palpito dell’umano,
quella scintilla superiore che rendono veramente grande
la Musica.
Festivalieramente Vostra
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A LA RECHERCHE DE LA MEMOIRE PERDUE L’opera e la vita dell’illustre Maestro fium
Serdoz e la sua Orchestra «Giuseppe Tarti
di Helena Labus Bačić
«N
ino Serdoz e l’Orchestra Tartini” è il titolo
della monografia, edita
nel 2011 dalla Società di studi fiumani di Roma – presentata alla CI
di Fiume in occasione della “Settimana della cultura fiumana” - nella
quale viene ricordato un personaggio di grande importanza per la cultura italiana e per la scena musicale romana in particolare: il maestro
Giovanni Nino Serdoz, fondatore
dell’Orchestra “Giuseppe Tartini”
e – come viene rilevato nell’introduzione firmata dal presidente della Società di studi fiumani, Amleto
Ballarini – “l’anima di Fiume che riviveva in esilio“.
Il maestro Serdoz nacque a Fiume il 7 maggio del 1909. Rimasto
senza genitori in giovane età, visse
la propria infanzia con gli zii Antonia e Stefano. Abitò nel quartiere di
Braida, in via Manzoni. Frequentò la Scuola di Musica fiumana, per
continuare in seguito la sua formazione al Conservatorio “Tartini” di
Trieste, dove studiò violino e viola
con il maestro Augusto Serrazanetti.
Studiò contrappunto e composizione con il maestro Marcello Tyberg
e scrisse numerosi saggi di critica e
di estetica musicale per vari quotidiani. Fu autore del libro “Famiglia
ideale”, un trattato di strumentazione per ragazzi, e lavorò pure come
consulente musicale esterno presso il Centro di Produzione TV di
Roma. Ma soprattutto, fu fondatore e direttore dell’Orchestra d’Archi
“Giuseppe Tartini” di Roma.
È appunto questa sua appassionata attività artistica – sono ben 682
i concerti, coronati da straordinari
successi, che tenne con la sua orchestra – che gli procurò la nomina di
Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. I suoi
concerti erano caratterizzati da un
repertorio raffinato e originale, impreziositi dalla partecipazione di solisti di fama internazionale.
Suonò sotto la bacchetta
di Franz Lehar
A Fiume, il talento di Serdoz venne presto riconosciuto e gli venne affidata la direzione dell’orchestra del
GUF, l’unica organizzazione universitaria sostenuta e ammessa dal regime di allora. Il giovane maestro ebbe
successo anche nella vicina Abbazia,
dove si distinse alla guida del quartetto d’archi insieme a Wanda Tiberg,
Mary Klinz Kubelik ed Elsa Claricini. Sempre ad Abbazia suonò nella
sala di Villa Angiolina sotto la direzione del grande Franz Lehar, “quella bacchetta magica e quel compositore destinati a diventare quasi leggenda fino ai nostri giorni”.
Il 20 aprile 1941 sposò nella
chiesa dei Cappuccini Liliana Callimici, abitando poi con lei in via Pomerio fino al dopoguerra. A Fiume
nacque nel 1942 la figlia Marisa e
dopo l’esodo, a Roma nel 1951, il
figlio Roberto. La musica divenne
una voce di consolazione, fonte di
una vita nuova, il che portò alla fondazione, nel 1950, dell’Associazione “Tartini” e dell’Orchestra d’Archi “Giuseppe Tartini”. L’associazione nasce come attività culturale musicale, ricostituita dagli esuli
fiumani-giuliani-dalmati. Superate
con grande tenacia varie difficoltà, arrivano i primi successi. Grazie
all’oculata scelta dei brani in repertorio, svolge un’attività concertistica di alto livello. “L’ispiratore, l’ideatore, il fondatore è lui, il maestro
Nino Serdoz”. L’orchestra si dimostra un complesso di ragguardevole livello per la seria professionalità
degli strumentisti.
Speficità della «Tartini» fu
un intelligente contributo alla
rinascita di pagine rare della
musica cameristica del XVIII
secolo, pagine talora quasi
sconosciute eppure bellissime
L’alto livello
dell’Orchestra «Tartini»
Scrive il maestro stesso della sua
orchestra: “Evidente nelle esecuzioni di insieme un’impeccabile dosatura delle sonorità e del ritmo, una
fusione perfetta, una musicalità frutto di impegni interpretativi validi
perché ogni strumento sa sottomettere il proprio estro alle esigenze di
un perfetto equilibrio artistico”.
I concerti di successo si susseguono a Roma e in altre città italiane e l’orchestra raccoglie consensi
di critica e di pubblico per oltre quarant’anni. È particolarmente apprezzata per la sua riscoperta di un vasto
repertorio barocco troppo a lungo
ignorato. “Caratteristica della ‘Tartini’ fu infatti un intelligente contributo alla rinascita di pagine rare
della musica cameristica del XVIII
secolo, pagine talora quasi sconosciute eppure bellissime. Inconsueti gli autori, le scelte di programma,
inconsueti anche gli organici. Denominatori comuni di questi concerti,
tutti barocchi, la grazia, la freschezza delle composizioni, la ricchezza
di idee musicali. Grandi i riconoscimenti della stampa per questa operazione culturale di ampio interesse.
Grandi i consensi del pubblico”.
Rivalorizzazione
pionieristica di un prezioso
repertorio barocco
La “Tartini” esegue con rigorosa disciplina artistica musiche rare
e preziose, quasi sempre escluse dai
programmi musicali correnti, proprio grazie alla brillante direzione
del maestro Serdoz, alla sua raffinata scelta del repertorio e alla sua sen-
La profonda umanità del Maestro
E’ ancora intriso di profonda emozione il ricordo di Alexandra
Stefanato: “Ricordo con grande commozione il mio primo concerto come solista con orchestra, diretto dal Maestro Giovanni
Serdoz e lo ringrazio ancora oggi per la grande fiducia accordatami in quell’occasione. Egli mi diede così la possibilità di presentarmi nella chiesa di San Marco in Piazza Venezia e Roma a soli
18 anni, appena diplomata.
Mi fu affettuosamente vicino durante le prove, paziente e prodigo di preziosi consigli. Non potrò mai ringraziarlo abbastanza
per questo. Quel concerto rimane il ricordo più emozionante della
mia vita e segnò l’inizio di molte altre partecipazioni all’attività
della Società Tartini. Proseguendo nella vita professionale posso
dire di non aver più incontrato nel mondo musicale una Personalità così carismatica e come me molti colleghi della mia generazione. Caro Maestro, ci manchi molto”.
sibilità di artista. Gli autori eseguiti
dall’organico sono numerosissimi e
spaziano dal ‘500 fino ai giorni nostri. L’orchestra, come già rilevato,
coinvolge solisti di fama internazionale, tra i quali sono da menzionare il celebre violoncellista Massimo
Amfitheatrof, il flautista Severino
Gazzelloni, il violinista Salvatore
Accardo, la pianista Ornella Puliti
Santoliquido, il violinista Uto Ughi,
e via dicendo.
Uno dei momenti che testimoniano il prestigio dell’orchestra e
del suo direttore è il concerto che
ha visto come solista il violoncellista Massimo Amfitheatrof. “Con un
programma dedicato preferibilmente ai compositori del ‘600 e del ‘700,
l’archetto di Amfitheatrof, noto nei
maggiori teatri del mondo, manda
in visibilio il pubblico presente, sol-
levando vivo entusiasmo soprattutto in alcuni passaggi di ardua maestria: il suo violoncello canta, ora
sommesso, ora seducente, ma sempre in perfetta armonia con l’orchestra e nella magia avvolgente di Serdoz la cui direzione mette in chiaro
la tecnica brillante, la preziosità dei
suoni, la chiarezza dei disegni, l’armonia sublime dell’insieme”.
Suonare davanti
alla regina d’Olanda
Nel secondo centenario della
morte di Giuseppe Tartini, il maestro Serdoz non venne meno all’appello e presentò in repertorio suggestive composizioni dell’autore istriano, tra le quali anche trascrizioni per
archi di alcuni brani. Un’operazione tecnica, questa, che rivela un se-
rio impegno artistico e una profonda
competenza musicale.
La stagione 1978-’79 si chiuse
con un eccellente concerto del Trio
d’Archi “Rondò“ che vide in veste
di solista il violista fiumano Francesco Squarcia, protagonista di altri concerti memorabili. Uno degli
eventi di maggior rilievo nella ricca storia dell’Orchestra “Tartini“
è il concerto a Porto Ercole: “Una
folla enorme, cinquecento e seicento persone; è presente anche la regina d’Olanda. Il concerto rivela una
ineccepibile preparazione che non
conosce difficoltà tecniche, un affiatamento encomiabile tra gli strumentisti, una preparazione superba dell’oboista Gianfranco Pardelli
e una direzione chiara, autorevole,
brillante: quella del maestro Nino
Serdoz“.
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mano Giovanni Nino Serdoz, in una monografia edita dalla Società di studi fiumani di Roma
ini», l’anima di Fiume che riviveva in esilio
«Un’impeccabile
dosatura delle
sonorità e del ritmo,
una fusione perfetta,
una musicalità
frutto di impegni
interpretativi validi
perché ogni strumento
sa sottomettere il
proprio estro alle
esigenze di un perfetto
equilibrio artistico»
Giovanni Nino Serdoz si spense
il 10 ottobre del 2004.
Il racconto monografico
di una vita all’insegna
della musica
La monografia annovera pure
una breve intervista, svolta sempre
dal presidente della Società di studi fiumani, Amleto Ballarini, con il
figlio del maestro Serdoz, Roberto.
Si susseguono quindi pagine che illustrano la fervida attività del complesso diretto da Serdoz, i ricordi
commoventi di musicisti con i quali
collaborò, quindi articoli di tante testate che testimoniano il grande successo dell’orchestra.
Si ispirò alla prestigiosa
Società di Concerti
di Fiume
Segue un testo scritto dal maestro stesso in occasione del 40.esimo della fondazione dell’Orchestra
“Tartini“, nel quale ricorda gli inizi
modesti del complesso, che nacque
da un quartetto d’archi e crebbe con
il tempo per diventare una prestigiosa orchestra. Numerose sono le fotografie che testimoniano l’attività
della “Tartini“, mentre un capitolo
della monografia è dedicata ai numerosi solisti di fama internazionale che collaborarono con il maestro
Serdoz. Vi è incluso pure un elenco,
seppure incompleto, delle composizioni eseguite dall’orchestra nel corso degli anni.
Infine, è giusto concludere con le
parole dello stesso maestro, scritte
in occasione del quarantesimo della fondazione dell’Orchestra “Tartini“, nelle quali ricorda il ruolo imprescindibile della prestigiosissima
Società di Concerti di Fiume che –
come rileva lo stesso maestro – fu
presa come modello per l’Associazione Musicale “Giuseppe Tartini“.
D’Annunzio: «A Fiume
la musica è un’istituzione
statuale»
“Allo stato attuale emerge una
particolarità: il vibrare di sentimenti
di una propaggine, la ‘Tartini’, saldati ad antiche radici culturali verso
la lontana immagine di ciò che fu un
tempo la Società di Concerti di Fiume. Ispirarsi a quel prestigioso modello, dal quale riesumare per talea,
non sbiadita invero, una mnemonica carta carbone nel contesto di una
continuità ideale, questo, sì, è stato
l’humus smisurato di stimoli che ha
portato la ‘Tartini’ al 40.esimo appuntamento annuo con la musica.
In una lettera indirizzata ad Arturo Toscanini, Gabriele D’Annunzio, parlando di Fiume, scriveva: ‘ una città dove la musica
è un’istituzione statuale...’. Ed era
vero. Fiume, città di frontiera, era
il punto d’incontro dei maggiori
esponenti del concertismo internazionale mittel ed est europeo; mostri di sapere e di dire musica, dei
loro concerti gli anziani ricorderanno la ‘completezza’ tecnica e la
‘totalità’ del suono che scaturivano
dai loro preziosi strumenti in programmi emergenti dalla profondità
della loro letteratura musicale“.
«La direzione di Serdoz
mette in chiaro la tecnica
brillante, la preziosità dei
suoni, la chiarezza dei
disegni, l’armonia sublime
dell’insieme», così la critica
L’affettuoso ricordo di Francesco Squarcia
Il noto violista connazionale Francesco Squarcia ebbe occasione di suonare sotto la bacchetta del Maestro Serdoz e di
Lui conserva ancora un vivissimo ricordo: “’Cantate... cantate!’ era la ricorrente sollecitazione che il Maestro, Giovanni
Nino Serdoz, mentre scandiva il
tempo con la bacchetta, pronunciava con voce calda e partecipe,
rivolgendosi ai musicisti interpreti, durante lo svolgersi delle
sessioni di concertazione e preparazione agli innumerevoli concerti con la Sua orchestra d’archi
“Giuseppe Tartini” che prendeva
appunto il nome dall’omonima
associazione musicale fondata da
lui a Roma. […]
Davvero l’Associazione Musicale “Giuseppe Tartini” è stata a Roma, per molti decenni,
un punto di riferimento costante e di primissimo piano nel panorama musicale della città. Vi
hanno collaborato i più prestigiosi solisti ed interpreti vari del
mondo italiano e non ed il Maestro Serdoz con un repertorio a
vasto raggio ha saputo valorizzare anche autori meno noti, ma
non per questo meno importanti. Mi considero un privilegiato
per aver avuto l’opportunità di
collaborare e dare il mio contributo all’Associazione sia come
membro dell’insieme strumentale che come solista; ne sono
orgoglioso e davvero ancora riconoscente anche per aver trovato in quell’ambito un angolo
di autentica “fiumanità”. […] Le
pagine di storia musicale che il
caro Nino Serdoz ha scritto sono
indelebilmente scolpite nella realtà di Roma capitale e lasciano
oltre ad un congruo patrimonio
di cultura, anche un unicum fatto di schietta, sincera, profonda,
affettuosa umanità.”
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ARS ANTIQUA Qualche esempio d’interpretazione moderna delle fonti di musica me
Pregiudizi e storture esecutive di un ra
patrimonio tutto da riscoprire
di Nicoletta Gossen
I
Altre interpretazioni non si ac- mentale che restituisce il testo mocontentano di questo, ma cercano nodico in forma ornamentata. Un
di arricchire la ballata aggiungendo flauto dolce di bambù è chiamato ad
voci strumentali o allungando la du- ornare la monodia originale. È inrata del brano con pre-, inter- o po- dubbio che la scelta dello strumento
stludi strumentali, come ad esempio solista dipenda dalle idee dell’internella registrazione del gruppo Mi- prete sul medioevo. Forse involontariamente l’effetto prodotto è quelcrologus del 1988.
Su un accompagnamento di per- lo di certe musiche di meditazione in
cussioni, cerca di emergere una voce voga negli anni Ottanta (New Age).
forte e un po’ monotona. Durante Un’interpretazione simile rafforza
tutto il brano, il tamburo riproduce nell’uditore l’idea di un medioevo
Pregiudizi rispetto
una pulsazione regolare. Le finezze mistico e meditativo. L’esecuziodell’originale mensurale vengono ne lascia anche pensare alla musica
al medioevo
letteralmente “abbattute” dall’uni- giapponese o indiana, creando ancora un ponte fra musica medievale e
Sia gli interpreti, sia il pubbli- formità del nuovo ritmo.
co hanno un’immagine preconcetta dell’epoca che noi, in mancanza
di un termine più preciso, chiamiamo “medioevo”. Dall’umanesimo in
avanti, attraverso l’illuminismo, il
romanticismo francese o tedesco e i
movimenti di revival del medioevo
che si sono avvicendati fino ai giorni nostri, molto è stato detto e scritto
sul medioevo. E tutto questo ha lasciato le sue tracce sul fruitore odierno, che eredita i cliché di un medioevo primitivo, mistico, crudele, ingenuo e “oscuro”, come viene più sovente aggettivato. Più di una volta
mi è stato chiesto, ad esempio: “Ma
nel medioevo, esisteva già la musica?”. E se nel 2003 su un giornale
svizzero un lettore dichiarò che era
ora di finirla con questa “tecnologia
medievale dell’energia nucleare”, va
da sé che il termine “medioevo”, per
estensione, venga ormai associato
a tutto ciò che suona inadeguato ai
tempi, vetusto, persino ridicolo.
I fruitori della musica medievale,
L’ Amor Cortese
cioè interpreti, pubblico e l’industria
la cosiddetta world music. Questa
discografica possiedono una propria
La «rumoreggiante»
incisione mette in rilievo due aspetti
immagine del medioevo, proprie
musica popolare
dell’immagine moderna del medioaspettative su ciò che immaginano
evo: l’aspetto mistico-meditativo e
essere la musica medievale e questa
del Trecento
l’aspetto esotico, tralasciando cometerogeneità di immagine si rifletLa sonorità di questa incisione pletamente l’elemento fondamentate sulla pratica musicale attuale. Lo
stesso brano può presentarsi in un evoca quella di certa musica popo- le: il testo.
Adattamenti al gusto moderno
modo completamente diverso a se- lare. L’associazione musica medioeNel 1995, il gruppo “Microloconda delle scelte del gruppo che lo vale-musica popolare è molto diffuesegue. Paradigmatico è il caso del- sa, poiché si tenta di trovare nella se- gus” riprese “Lucente stella” facenla ballata monodica “Lucente stella conda ciò che si ignora nella prima, do precedere la melodia originale da
che’l mio cor desfay”, tramandata- ossia come suonava. Specie nell’am- un brano strumentale, inventando un
ci da un’unica fonte, sul folio 22 del bito dell’interpretazione della musi- contrappunto ritmicamente monocosiddetto Codice Rossi (Bibliote- ca italiana del Trecento è diffuso un tono e un postludio assai lungo alla
ca Vaticana, Rossi 215), risalente al simile orientamento. Nella musico- fine. Invece della recitazione mo1370 circa, che contiene musica ita- logia questo fenomeno ha una lun- nodica di una poesia, si ascolta una
liana anonima profana, monodica e ga tradizione. Durante il suo discor- composizione polifonica contemso di rettorato a Göttingen nel 1930, poraneo-medievale, neo-medievapolifonica.
Ludwig osservò: “Accan- le. Il ritmo mensurale dell’originaCanto monodico come Friedrich
to alla gracile e raffinata arte polifo- le viene semplificato in un modello
nica dei madrigalisti italiani, un’im- ritmico ripetitivo dell’accompagnarecitazione poetica
petuosa corrente di canto popolare- mento strumentale. La tipica forma
Il testo di “Lucente stella” si in- sco religioso rumoreggia nell’Italia della ballata in cinque parti – ripreserisce stilisticamente nella tradizio- del Trecento”. È di quella “corrente sa, due piedi, volta e seconda ripresa
ne del Dolce Stil Novo. Nel secon- di canto” che si nutrono le interpre- – diventa un modello tripartito: indo piede della ballata “gli atti tuoi tazioni quando non si tratta di gra- troduzione, parte principale, postluprometton salute a chi si specchia cile polifonia ma appunto di musi- dio, una sorta di forma classica, più
nel tuo bel viso”, la donna idealiz- ca monodica del Trecento. Ludwig a familiare agli uditori. Invece di prozata porta salute e quindi conoscen- sua volta si appoggiava ad una certa porre una delle immagini stereotipaza a chi si riconosce nel suo viso. tradizione. Già Raphael Georg Kie- te del medioevo, l’esecuzione adatta
L’amore come via della salute. Que- sewetter nel 1838 alludeva alle “me- il brano al gusto moderno, offrendo
sta è l’idea fondamentale dell’amor lodie popolareggianti” dei trovie- all’uditore un modello di riferimencortese. In questo senso “Lucente ri francesi del Duecento e chiamò i to a lui più vicino, quello classico.
Le tre interpretazioni che abbiastella”, nonostante le inflessioni ve- canti dei trovatori “veri canti poponeziane rivelate dal testo, non è po- lari”. Se oggi la musica medievale mo sentito mostrano tre idee diffeesia popolare. È importante ricorda- è interpretata in chiave popolareg- renti dello stesso brano originale.
re che il canto monodico nel corso giante, però, non lo si deve né a Lu- La libertà nella scelta si spiega con
del medioevo è prima di tutto una dwig né a Kiesewetter, ma alle com- le lacune sulla pratica musicale del
recitazione poetica e questo impli- parazioni fra melodie popolaresche Trecento. Certuni hanno però la tenca che l’interpretazione musicale si moderne di varie regioni e un certo denza ad esagerare queste lacune per
orienti sul testo. Un’interpretazione repertorio medievale. È facile im- giustificare le proprie scelte stilistiche si basa sul manoscritto, che non maginarsi quanto questo possa risul- che. Vorrei citare ad esempio alcune frasi di un’intervista rilasciata da
è nient’altro che una linea melodica tare problematico.
Nel 1991 il gruppo “Alla France- una suonatrice di viella: “Suonare
su un testo poetico, si preoccuperà di
declamare il testo nella maniera più sca” incise la ballata “Lucente stel- una canzone esoterica di un trovala” in una versione puramente stru- tore, non partendo da musica scritta,
intelligibile e rispettosa possibile.
musicisti che si interessano al
repertorio medievale hanno ormai gli strumenti necessari per
studiarlo e conoscerlo a fondo. Tuttavia, il tipo di esecuzione non dipenderà solo da quanto essa sia informata storicamente ma anche dai
gusti estetici personali, spesso piegati all’organico a disposizione al
momento e al pubblico, quindi al
mercato.
ma solo da una poesia criptica, difficile da capire, pone numerose difficoltà perché si è costretti a prendere delle decisioni e comporre una
parte”. In questa dichiarazione l’arte
trobadorica viene etichettata come
“esoterica”, e si suggerisce erroneamente l’idea che di questo repertorio
non esista alcuna traccia scritta. In
realtà, sono trasmesse quasi 300 melodie. In confronto a una produzione
totale di circa 2500 poesie trobadoriche non è molto, certo, ma sempre
meglio di niente. Più avanti si afferma che la poesia sia difficile da capire, il che è vero se non la si affronta
seriamente. A partire da questi presupposti si è legittimati a comporre
qualcosa di completamente nuovo!
L’ignoranza viene esagerata al di là
del vero, al fine di acquistare totale libertà sull’interpretazione. È la
stessa strumentista a dichiarare più
avanti che: “suonare musica medievale è come cucinare senza ricetta”.
La volontà di soddisfare
le aspettative del pubblico
Ciascuna delle interpretazioni esprime delle idee personali sul
medioevo o tenta di familiarizzare il pubblico con un repertorio assai remoto. È comprensibile che gli
ensemble cerchino repertori meno
noti ma accattivanti per il pubblico – in questo caso la musica medievale. Al contempo è evidente
la preoccupazione di tenere conto delle abitudini d’ascolto odierne e di riproporre al pubblico ciò
che risponde alle sue aspettative di
‘sound’ medievale, quel ‘sound’ a
cui è stato educato negli ultimi cinquant’anni di prassi esecutiva di
quella musica. L’ascoltatore si attende un organico variegato e un
po’ esotico o un bordone permanente che fa da sottofondo all’intero brano. Questo sì che è medievale! È chiaro che non è il pubblico
ad aver stabilito questi criteri stilistici, ma sono i vari ensemble.
Cito dal sito internet di un gruppo di musica medievale: “Il medioevo, l’epoca in cui si sprofondava
nel fango, che odorava di lana bagnata e in cui mancava la carta igienica. Ma c’era di più della miseria
e della peste bubbonica. Quell’epoca era piena di musica, di suoni e
strumenti che oggi sono quasi dimenticati. Il nostro obiettivo è di
presentare la musica del medioevo
nella maniera più autentica possibile, mantenendo sempre l’aspetto più importante – vale a dire lo
“Swing”!. Così si creano le aspettative: la musica medievale si basa
sullo “swing”: viene ritmizzata in
modo da interessare un certo pubblico. Immagino che le interpretazioni di questo gruppo facciano
onore a queste premesse…
sica
Mercoledì, 27 giugno 2012
5
edievale
affinato
Concessioni all’industria
musicale, al pubblico,
al mercato
Il programma di un CD con musica medievale viene confezionato come una scatola di cioccolatini,
assortito con un po’ di tutto ma non
troppo. Se un brano è troppo corto, si
canta due o tre volte di seguito. Ma
chi ne ha determinato la durata? L’industria musicale coi titoli “tre minuti”
per la radio. D’altra parte, se possiede
molte strofe (il più lungo di cui ho conoscenza è di Guillaume de Machaut,
con 36 strofe), allora non si canterà
tutto ma si comincerà a tagliare per
arrivare alla durata “ideale”, procedimento però che non si adatta in tutti i
casi. Tutte queste modificazioni sono
concessioni al pubblico, al mercato.
Mettendo al centro dell’interesse la
musica stessa e non le aspettative del
pubblico, non è necessario scegliere strumenti esotici o aggiungere linee, introduzioni o postludi neo-medievali. Non si deve rimediare a una
presunta deficienza di questa musica
che nasce dal presupposto che il testo
tràdito non contenga che una piccola parte delle informazioni occorrenti
per una soddisfacente esecuzione.
Lontana da me l’idea di postulare un purismo sterile e di pretendere
che solo l’interpretazione monodica
senza accompagnamento sia lecita.
Questa forma di esecuzione ha però
due grossi vantaggi: si ascolta quello
che è trasmesso nel manoscritto, percependone l’origine poetica. I rifacimenti nello stile del secondo esempio, con Micrologus, suggeriscono
all’uditore un originale fittizio (questa versione è due volte più lunga
delle altre), che può esser copiato da
un altro gruppo come vero origina-
le, come è successo con questo brano. L’uditore crede dunque di ascoltare un originale medievale, quando
in realtà si tratta di una composizione nuova che da numerosi punti di
vista non può ritenersi soddisfacente. Mi spiego. Non sono composizioni veramente contemporanee, ma
nient’altro che timidi compromessi
in stile medievale, paragonabili a un
capanno di caccia neogotica. Questo è il risultato di una certa paura
dell’anacronismo, in cui si tenta di
diminuire la distanza temporale fra
quella musica e l’uditore odierno.
Ma queste nuove composizioni in
molti casi non raggiungono la qualità dell’originale, creando uno squilibrio all’interno delle singole parti dell’esecuzione, e tra un pezzo e
l’altro. Una composizione moderna
è sempre concepita per una determinato organico. Nella musica medievale mancano informazioni inequivocabili a questo riguardo. Il risultato è sovente un certo eclettismo, una
globalizzazione infelice e arbitraria nella scelta dei mezzi – al fine di
piacere al pubblico e di vivacizzare
un programma altrimenti “noioso” –
che né esteticamente né storicamente riesce a convincere.
Per l’interprete di musica medievale non si tratta di ritirarsi dal
mercato, di rinchiudersi in una torre
eburnea e mangiare pappa di miglio
invece del BigMac, ma di non proporre al pubblico un repertorio precotto e pronto al consumo. Ci vuole
coraggio per infrangere le consuetudini della storia della prassi esecutiva, che spesso ha celebrato oppure banalizzato la musica medievale
invece di comprenderla come fenomeno musicale al pari di altri e presentarla di conseguenza.
Liberarsi
dei luoghi comuni
Credo sia giunto il momento di
liberarsi di certi retaggi degli ultimi decenni e di ripensare a tutte le
concessioni fatte al pubblico. Solo
allora sapremo se l’astrazione della
fonte grafica potrà essere vivificata per mezzo dell’esecuzione sonora, senza tentare di adattare il brano
al pubblico, ma al contrario, cercando quasi di adattare il pubblico alla
musica, avvicinandoci a questa con
i mezzi oggi disponibili, accettando
l’inevitabile anacronismo e sottoponendo le vecchie abitudini ad uno
sguardo critico, poiché questi «fenomeni logori» – come dice Queneau – impediscono di veder chiaro
l’oggetto.
Le prime riproposizioni della musica medievale all’inizio del
Ventesimo secolo furono degli arrangiamenti estremi, come ad esempio la strumentazione di un organum del XIII secolo per grande orchestra e coro. Si riteneva che la
musica medievale, seppur storicamente interessante, fosse composta in maniera ‘primitiva’. Oggi si
dice di avere una maggiore stima di
questa musica (basti leggere il programma di un CD), ma molte interpretazioni mostrano una grande sfiducia negli originali. Questo dubbio
non viene espresso, ma è implicito
nell’esecuzione. Siamo meno sinceri dei pionieri della musica medievale del primo Novecento e meno
coerenti degli storici dell’Ottocento
come un Viollet-le-Duc, che dopo
aver studiato l’architettura gotica a
fondo, lavorò con la ghisa per rimediare alle presunte debolezze delle
costruzioni originali. Gli interpreti
moderni rinforzano i loro brani con
preludi, interludi o postludi e non
con la ghisa, ma non dicono di farlo
perché non si fidano dell’originale.
Al contrario: diranno che si tratta di
musica molto preziosa e la presenteranno come se questi brani fossero
difettosi ed essi fossero stati costretti a intervenire a loro modo.
Riscoprire la raffinata
musica medievale
Il pericolo è che la prassi esecutiva della musica medievale finisca in una via senza uscita, perché
verrà il giorno in cui l’interesse per
un flauto di bambù sarà svanito e il
bordone avrà perso il suo profumo
medievale. D’altra parte, delle composizioni dei maestri del medioevo
non abbiamo scoperto le infinite ricchezze che ancora celano, ma abbiamo grattato solo in superficie. Tutte queste opere stupende, prodotto
di un’arte altamente raffinata, sono
da ripensare, da riscoprire, anche
da parte di noi musicologi! Le condizioni di lavoro non sono mai sta-
te così favorevoli, considerato che
possiamo disporre di ottime edizioni critiche, di stupendi facsimili, di
eccellenti studi musicologici e iconografici e via dicendo. Non è più
necessario fingere che non si sappia abbastanza e che si sia costretti a
copiare quello che si è fatto durante
i cinquant’ anni passati. Queste interpretazioni, già diventate storiche,
hanno una loro legittimità e sono da
rispettare e intendere come prodotti del loro tempo, ma non possono
costituire un modello interpretativo,
oggi.
Non nego che ci siano ancora molti aspetti della pratica che rimangono oscuri, ma questo non ci
legittima a sfigurare la musica del
Medioevo con delle aggiunte doppiamente anacronistiche e musicalmente mediocri. Il musicista ben
informato ha il dovere di cercare
e proporre una forma della rappresentazione artisticamente autentica
(non parlo chiaramente di autenticità assoluta, poiché la ricostruzione precisa di un originale non sarà
mai possibile), cioè un’interpretazione che sarebbe soddisfacente anche se non si trattasse di musica di un’epoca così remota come
il medioevo. Intenzionalmente critico qui la mediocrità di coloro che
diffondono questo repertorio, che al
contrario esigerebbe ottimi interpreti, considerato l’alto grado di astrazione. Questa musica è quasi come
la poesia (trattandosi perlopiù di un
repertorio vocale) e pretende l’interpretazione di un poeta che si limita all’essenziale e non fa impiego di
versi superflui.
Per amore del vero, devo anche
dire che ci sono giovani interpreti
che lavorano già in questa direzione
e lasciano ben sperare che il mercato non sia il criterio assoluto per le
loro scelte interpretative: non incoraggiano, ad esempio, la diffusione
di vecchi cliché, come l’associazione musica medievale = musica popolare, impiegando quindi strumenti esotici o un bordone perpetuo. Il
lavoro di questi ensemble preconizza la bella «strada lattea del cielo»,
per citare un celebre madrigale di
Johannes Ciconia, che condurrà finalmente alla comprensione profonda di questa poesia musicale così affascinante.
6 musica
Mercoledì, 27 giugno 2012
DONNE IN MUSICA Maddalena Casulana, Francesca Caccini, Leonora Baroni e
L’ispirato apporto delle donne composit
Q
a cura di Clio Rostand
uale parte ha avuto la donna nell’ ambito musicale nel corso dei secoli, e in
quale misura l’elemento femminile
ha dato il suo contributo alla storia
dell’arte e della musica? Cantanti, liutiste, clavicembaliste, attrici, danzatrici di alto livello hanno
costellato il percorso della musica;
eppure nel campo della composizione, la componente muliebrerisulta decisamente limitata rispetto
a quella maschile.
Le cause andrebbero forse ricercate nelle scarse possibilità di
accedere ad una buona educazione
musicale, come pure al ruolo sociale femminile legato principalmente alla cura della famiglia? O
ancora i motivi andrebbero visti,
secondo alcuni, nelle specifiche
caratteristiche psicologiche della
donna, la quale sarebbe portata ad
altre forme di creatività, che non
siano la composizione e le scienze esatte?
Nel medioevo santa Ita Killeed
(vissuta fra la fine del V e l’inizio
del VI secolo) raccolse inni, mentre la badessa santa Hildegarda von
Bingen (1098-1179), personaggio
di straordinaria valenza intellettuale, scrisse messe, inni, responsori
e addirittura una sacra rappresentazione; le sue musiche hanno anche punti di contatto con la futura
musica dei minnesanger. Ci furono
donne fra i trovatori, come Beatrix
da Dia, ed è noto che alcune sapevano suonare strumenti a plettro o
a fiato. A proposito di melodramma, una statura superiore, forse
la prima vera musicista della storia, assume Francesca Caccini detta “la Caccina”, figlia del grande
Giulio Caccini e interprete autorevole dei primi melodrammi della Camerata fiorentina, ai primi del
seicento.
Ed è proprio sulle compositrici del Rinascimento e del Barocco
italiano che intendiamo soffermarci, onde metter in luce alcuni nomi
che certamente meritano di essere
ricordati per la vena creatrice feconda e persino potente da cui furono animate.
Ammirata da Orlando di Lasso
Maddalena Casulana, compositrice e cantante italiana (15441590) del tardo rinascimento, viene ricordata per essere stata la prima donna compositrice ad aver
pubblicato nella storia della musica occidentale.
Estremamente poco è noto riguardo alla sua vita di ciò che non
sia estrapolabile dalle dediche e
lettere scritte nella sua collezione
dimadrigali. Probabilmente nacque a Casole d’Elsa, vicino a Siena, come si evince dal suo nome.
Il suo primo lavoro è datato 1566;
quattro madrigali in una collezione, Il Desiderio, che lei produsse
a Firenze. Due anni dopo pubblicò
a Venezia il suo primo vero libro
di madrigali per quartetto di voci,
Il primo libro di madrigali, che fu
la prima composizione pubblicata da una donna nella storia della
musica occidentale. Quello stesso
anno Orlando di Lasso condusse
un’opera della Casulana alla corte di Alberto di Baviera a Monaco,
ma quella di composizione non ci
è giunta traccia.
Fu probabilmente vicina a Isabella de’ Medici, e le dedicò alcune
sue. Nel 1570, 1583 e 1586 pubblicò altri libri di madrigali, sempre a Venezia. Durante questo periodo sposò un uomo di nome Me-
zari, ma non ci sono giunte informazioni riguardo a lui, né dove
vissero. Basandosi sulle informazioni contenute nelle dediche alle
sue opere, probabilmente lei visitò
Verona, Milano e Firenze, e sicuramente andò a Venezia, poiché la
sua musica fu pubblicata lì e numerosi veneziani commentarono
le sue capacità.
Nella dedica del suo primo libro di madrigali ad Isabella de’
Medici ella dichiarò orgogliosamente il suo desiderio di mostrare al mondo il vanitoso errore degli
uomini di possedere essi soli doti
intellettuali, e di non credere possibile che possano esserne dotate anche le donne.
Il suo stile è moderatamente
contrappuntistico e caratterizzato da cromatismi, reminiscenza
di qualche lavoro del Marenzio
e dei molti madrigali di Philippe
de Monte, ma evita le sperimentazioni estreme dei compositori
della scuola di Ferrara come Luzzaschi eGesualdo. Le sue linee
melodiche sono cantabili e piuttosto accurate al testo. Altri compositori del tempo, come Philippe de Monte, ebbero una grande
considerazione di lei; Orlando di
Lasso condusse una sua composizione nuziale in Baviera rima-
nendo impressionato per la sua
bravura. Ci sono giunti un totale
di 66 madrigali della Casulana.
Francesca Caccini,
musa medicea
Personaggio di grande spicco
fu Francesca Caccini (Firenze,
18 settembre 1587 – 1640), compositrice, clavicembalista, liustista, pedagoga e soprano italiana,
figlia del grande Giulio Caccini, è considerata una fra le donne che maggiormente contribuirono all’evolversi della nascente musica barocca all’inizio del
‘600. Fu la prima donna a scrivere un’opera teatrale. Le date di
nascita e di morte sono incerte.
Ricevette una vasta educazione
umanistica, apprendendo il greco
e il latino, le lingue moderne le
matematiche.
Apprezzata per la sue doti musicali, non meno che per l’avvenenza, Francesca Caccini divenSuor Isabella Leonarda, si confrontò anche con la sola scrittune popolarmente nota con il dira strumentale, come è documentato da un volume di sonate
minutivo toscano di “Cecchina”,
che, oltre ad una sonata per violino e basso continuo, ne comtanto usuale da essere tradotto in
prende ben undici per due violini, violone e organo
latino nell’iscrizione didascalica
“CECHINE PULCHRITUDINIS
IMMORTALITATI”, posta sul spigliosi a Pistoia. Svolse anche una donna di alto ingegno e di
medaglione marmoreo con la sua l’attività di liutista e clavicembali- grande cultura, che emersero aneffigie, esistente nel palazzo Ro- sta a Firenze, presso i Medici, e fu che nella sua attività di poetessa.
Affrontò il debutto, all’età di
tredici, anni nell’Euridice composta dal padre. Già ne Le nuove musiche, Giulio Caccini – teorizzando il favellare in armonia –
spiegava come tutti i componenti
della sua famiglia, dalla moglie ai
figli, fossero dediti al canto.
Così Francesca portò avanti assieme alle sorelle Settimia e Margherita, oltre al fratello Pompeo,
(veri e propri musicisti professionistiante litteram) un proprio discorso musicale autonomo, componendo e suonando al servizio
della corte medicea, fatta eccezione per un soggiorno di pochi mesi
con la famiglia alla corte francese
di Maria de’ Medici. Una volta rientrata a Firenze, sposò il compositore G.B. Signorini-Malaspina,
da cui ebbe una figlia Margherita.
«La liberazione
di Ruggiero»
Leonora Baroni, coltissima frequentava la società aristocratica e mondana della Roma del XVII
secolo. Si mise in evidenza negli ambienti intellettuali romani: frequentò l’Accademia degli Umoristi, godette fra l’altro dell’amicizia di Milton, che le dedicò tre epigrammi in latino (1638-39) e
del cardinale Giulio Rospigliosi, futuro papa Clemente IX
Si ritiene che la sua feconda e
vivace produzione non fosse minore a quella di Jacopo Peri e di
Marco da Gagliano. Nell’inverno
del 1625 Francesca Caccini compose le musiche per la commediaballetto La liberazione di Ruggiero dall’isola d’Alcina, che fu rappresentata in occasione della visita del principe ereditario polacco
Ladislao Sigismondo. Queste pagine rivelano non solo un’intensità
emozionale, ma pure un alto grado
di conoscenza e abilità nell’usare
le tecniche e gli effetti della musica teatrale dell’epoca. La commedia piacque tanto al principe da indurlo a rappresentarla a Varsavia
nel 1628.
La liberazione di Ruggiero dimostra la grandissima cura che
l’autrice dedicava all’aderenza tra
testo e musica, la corrispondenza metrica tra sillaba e ritmo, la
meticolosa cura nel notare gli abbellimenti e i melismi vocali fluidi e di ampio respiro, l’attenzione
al fraseggio. Sebbene le sue composizioni non abbondino di dissonanze, a differenza del suo grande
contemporaneo Monteverdi, Francesca Caccini si rivela maestra nel
musica 7
Mercoledì, 27 giugno 2012
Suor Isabella Leonarda, protagoniste di primo piano della musica del ’500 e ’600
rici del Rinascimento e Barocco italiano
Maddalena Casulana volle mostrare al mondo il vanitoso errore degli uomini di possedere essi soli doti intellettuali, e di non
credere possibile che possano esserne dotate anche le donne
Francesca Caccini, di ampia e articolata cultura, si ritiene che la sua feconda
e vivace produzione non fosse minore a quella di Jacopo Peri e di Marco da Gagliano
sorprendere drammaticamente tramite l’armonia; e più che il linguaggio contrappuntistico, è l’armonia, l’accordalità a farsi portatrice della verità degli affetti.
Francesca Caccini compose le
musiche di scena per circa sedici
spettacoli su testi di Michelangelo
il Giovane (nipote del grande scultore) che si ritiene siano andate
perdute. Nel 1618 diede alle stampe una raccolta di trentasei canzoni „Ill Primo Libro delle Musiche
a una e due voci”, un compendio
stilistico espressivo della canzone
del tempo.
Dopo la morte del secondo marito, il nobile lucchese Tommaso Raffaelli, ritornò alla corte dei
Medici come insegnante di musica, componendo ed eseguendo
pure musica d’intrattenimento e
da camera per la corte delle dame.
Fu attiva fino al 1641.
Le è stato dedicato un cratere
di 38,1 di km diametro sul pianeta Venere.
Virtuosa della viola e potessa
Eleonora Baroni, o Leonora o
Lionora, detta anche l’Adrianella
o l’Adrianetta (Mantova, dicembre 1611 – Roma, 6 aprile 1670),
è stata apprezzatissima liutista,
compositrice e cantante italiana,
figlia di Muzio Baroni, un nobile
calabrese, e della cantante Adriana
Basile, sorella del poeta e letterato
napoletano Giambattista Basile.
Il nome di battesimo le venne
dato in onore di Eleonora de’ Medici, consorte del principe di Mantova Vincenzo Gonzaga, mentre il
soprannome “Adrianella” le derivò dalla madre, detta per la sua
avvenenza “la bella Adriana”. Dotata di ottima voce, ricevette verosimilmente la prima educazione musicale da lei, divenendo presto talmente abile da oscurarne la
fama. Nel 1633 la famiglia Baroni
si trasferì a Roma, dove ottenne la
protezione del cardinale Antonio
Barberini.
Eleonora conosceva molte lingue e componeva sia musica che
versi; era a suo agio nella società aristocratica e mondana della
Roma del XVII secolo. Si mise
pertanto in evidenza negli ambienti intellettuali romani: frequentò l’Accademia degli Umoristi, godette fra l’altro dell’amicizia di Milton, che le dedicò tre
epigrammi in latino (1638-39) e
del cardinale Giulio Rospigliosi, futuro papa Clemente IX. La
sua fama come cantante era tale
Maddalena Casulana fu la prima donna
compositrice ad aver pubblicato nella storia
della musica occidentale
Francesca Caccini al liuto
che nel 1639 fu pubblicata un’antologia a lei dedicata, contenente composizioni poetiche di autori quali Fulvio Testi,Francesco
Bracciolini, Lelio Guidiccioni e
Claudio Achillini Nel 1640 Eleonora Baroni sposò Giulio Cesare Castellani, segretario del cardinale Francesco Barberini. Nel
febbraio 1644 venne chiamata a
Parigi dal cardinale Mazzarino,
probabilmente dopo la critica positiva del violinista André Maugars al “nuovo stile recitativo”
della Baroni. Eleonora Baroni rimase col marito presso la corte di
Anna d’Austria per un solo anno.
Tornata a Roma, vi rimase per il
resto della sua vita. Ebbe un ruolo molto importante, anche in
politica, con l’ascesa al trono di
Clemente IX (1667-1669), a cui
sopravvisse solo pochi mesi.
Suor Isabella Leonarda prima autrice di musiche strumentali profane
Non solo dall’ambiente secolare emersero musiciste di vaglia;
la musa ispiratrice si rivolse pure
alle donne consacrate. E’ il caso
di suor Isabella Leonarda (1620 –
1704), conosciuta come La Musa
Novarese, che fu la prima donna
a pubblicare nel seicento musica
puramente strumentale, non liturgica. Benchè il suo genere predominante fosse il mottetto, sono le
sonate, con la loro inusuale struttura formale, ad assumere grande rilievo nel panorama musicale
dell’epoca.
Nata a Novara da nobile e illustre famiglia, dal 1636 segue la
sua vocazione religiosa entrando
nel locale Collegio delle Orsoline; qui trascorre tutta la sua vita
monastica, dedicandosi alla cura
del convento ed alla composizione.
Alcuni scritti, conservati agli
atti delle visite pastorali del tempo, documentano gli apprezzamenti di cui beneficiava suor Isabella, descrivendola come “abile
a cantare, scrivere, computare e
comporre musica”.
Il suo stile musicale è adeguato
alle necessità della pratica musicale nei conventi femminili dove,
a quei tempi, erano vietate le forme di polifonia e l’uso di strumenti diversi dall’organo. Nell’ambito
della sua vasta produzione, interamente dedicata alle composizioni
sacre, è prevalente il mottetto per
voce solista con accompagnamento dell’organo o, in qualche caso,
di pochi strumenti; tuttavia, Isabella Leonarda si confronta anche
con la sola scrittura strumentale,
come è documentato da un volume di sonate che, oltre ad una sonata per violino e basso continuo,
ne comprende ben undici per due
violini, violone e organo.
Queste sonate, peraltro, nella struttura e nella forma sono del
tutto lontane dalla sonata da chiesa
già codificata da Corelli nei quattro movimenti e con l’alternanza
dei tempi lento-veloce-lento-veloce; alcune di esse, anche se in quattro tempi, non rispettano quell’ordine, altre ancora hanno un numero di movimenti ben diverso, arrivando addirittura a tredici nella
sonata n. 4.
Delle quasi 200 composizioni,
pubblicate in venti raccolte tra il
1640 e il 1700, oggi più della metà
sono conservate a Bologna, le altre a Venezia e Milano.
Suor Isabella Leonarda era solita apporre due dediche alle sua
composizioni, una per la Vergine
Maria ed una per una persona altolocata, probabilmente scelta tra i
benefattori del convento.
8 musica
Mercoledì, 27 giugno 2012
MUSICA SACRA Il più celebre «Panis angelicus» quello di Cesar Franck
Il Pane degli angeli secondo
San Tommaso d’Aquino
«P
anis Angelicus» è il primo verso
della penultima strofa dell’inno
latino “Sacris solemniis”, composto da San Tommaso d’Aquino. L’inno
fa parte di una liturgia completa da lui scritta per la solennità del Corpus Domini, sia
per la Messa che per l’Ufficio.
Il fenomeno per cui una strofa di Sacris solemniis è stata presa separatamente
dal resto del canto è accaduto anche con
altri inni dell’Aquinate per il Corpus Domini: Verbum supernum prodiens (le cui
ultime due strofe iniziano con O salutaris
Hostia) e Pange lingua (le cui ultime due
strofe iniziano con Tantum ergo).
La strofa che comincia con le parole
Panis angelicus (“pane degli angeli”) è
stata spesso musicata separatamente dal
resto dell’inno. La versione più famosa è quella di César Franck, che nel 1872
scrisse una partitura per tenore, organo,
arpa, violoncello e contrabbasso; in seguito incorporò l’inno nella sua Messe à
troi voix (Op. 12). La sua esecuzione più
celebre fu quella di John McCormack al
Phoenix Park di Dublino, ma l’inno è stato cantato, tra gli altri, da Luciano Pavarotti, Plácido Domingo, Roberto Alagna,
come anche dai soprani Magda Olivero e
Renata Tebaldi.
« Panis angelicus
fit panis hominum;
dat panis caelicus
figuris terminum;
O res mirabilis:
manducat Dominum
pauper, servus et humilis.
Te, trina Deitas
unaque, poscimus:
sic nos tu visita,
sicut te colimus;
per tuas semitas
duc nos quo tendimus,
ad lucem quam inhabitas.
Amen. »
d’Aquino, Sacris Solemniis, strofe 6-7)
VOCI STORICHE Adelina Patti una delle maggiori soprano dell’Ottocento
Eccentrica artista che conquistò il suo tempo
Adelina Patti (Madrid, 19 febbraio 1843 – Craig-y-Nos, 27 settembre 1919) è considerata uno dei
più grandi soprani di coloratura del
XX secolo.
Adela Juana María Patti, nome
con il quale venne battezzata l’8
aprile 1843, nacque a Madrid, città
dove all’epoca lavoravano entrambi i genitori.
Il padre era il tenore di forza siciliano Salvatore Patti (1800-1869),
la madre il soprano Caterina Chiesa
Barilli (deceduta nel 1870) al secondo matrimonio (dal primo, con l’organista, compositore e insegnante di
canto romano Francesco Barilli, Caterina aveva avuto quattro figli: l’acclamato soprano Clotilde Barilli, il
baritono Ettore, il basso profondo
Antonio e il basso cantante Nicolò).
Famiglia d’artisti
Adelina, ultimogenita, non fu
l’unica dei figli della coppia a seguire la carriera artistica: le sorelle maggiori Carlotta (1835-1889) e Amalia
(1831-1915, che divenne moglie del
pianista Maurice Strakosch) furono stimate cantanti, mentre il fratello Carlo (1842-1873) fu violinista e
direttore d’orchestra.
Nel 1844 la famiglia si trasferì a New York, dove il padre lavorò
dapprima alla Palmo’s Opera House
(demolita nel 1876) e in seguito (dal
1849 al 1852) come secondo tenore nella compagnia dell’Astor Place
Opera House, guidata all’epoca dal
compositore e impresario austriaco
Max Maretzek.
Le famiglie Maretzek e Patti,
oltre ad essere vicine di casa, erano legate da rapporti di amicizia e
la piccola Adelina, che si contraddistinse fin da piccola per capacità canore e memoria musicale, era spesso incentivata a cantare (in cambio
di spiccioli o dolciumi) in occasioni
dei raduni delle due famiglie.
La sua formazione canora si
deve al fratellastro, Ettore, e al cognato Maurice Strakosch. Si racconta che nel 1850, dopo aver assi-
stito ad un concerto di Jenny Lind,
al ritorno a casa fu in grado di ripetere alla perfezione i brani cantati
dal soprano svedese.
La prima apparizione pubblica risale al 1852, in occasione di un concerto del violinista Michael Hauser,
a cui seguirono numerose tournée
negli Stati Uniti e Cuba (dove accompagnò il pianista e compositore Louis Moreau Gottschalk). Il suo
debutto operistico risale al 24 novembre 1859 alla New York’s Academy of Music, quando la sua interpretazione di Lucia di Lammermoor
di Donizetti, assieme al tenore Pasquale Brignoli, incontrò il favore
della critica.
ca; il suo aspetto fanciullesco le conferiva un’ottima presenza scenica.
Nella sua giovinezza, secondo le testimonianze, la voce straordinariamente limpida le consentì di eccellere nei ruoli di Zerlina nel Don Giovanni, Rosina ne Il barbiere di Siviglia (versione per soprano), nonché
soprattutto nei ruoli di coloratura di
Lucia di Lammermoor e La sonnambula, che saranno sempre i suoi cavalli di battaglia, cimentandosi anche in ruoli più lirici quali Margherita del Faust e Giulietta di Romeo e
Giulietta, entrambe di Charles Gounod. Sua celeberrima antagonista fu
il soprano ungherese Etelka Gerster.
Alla conquista
del mondo
Conclusa la stagione a New
York, si recò a Londra, accompagnata dal padre, dove fu ingaggiata dal manager del Covent Garden
Theatre e debuttò il 14 maggio 1861
nel ruolo di Amina ne La sonnambula di Vincenzo Bellini, riscuotendo notevole successo. Si esibì quindi in Germania, nei Paesi Bassi, in
Belgio e, nell’autunno dello stesso anno, al Théâtre Italien di Parigi, nuovamente nel ruolo di Amina
(16 novembre 1861). In Italia debuttò nella stagione 1865-66.
Nel 1862 si esibì alla Casa Bianca cantando Home! Sweet Home!,
un brano composto da John Howard
Payne per l’opera Clari-The Maid
of Milan, commuovendo Abramo
Lincoln e la moglie (in lutto per la
recente perdita del figlio Willie).
Adelina rimase legata al brano che
divenne uno dei bis più frequenti ai
suoi concerti, accanto alla canzone
popolare Comin’ Thro’ the Rye, riveduta nel XVIII secolo da Robert
Burns.
La sua carriera proseguì di successo in successo. Cantò negli Stati
Uniti, in Europa, in Russia e in Sud
America, suscitando ovunque l’entusiasmo del pubblico e della criti-
La Patti era considerata una cantante poco incline alla sperimentazione, il programma dei suoi concerti includeva invariabilmente le stesse
arie. D’altro canto fu un’attrice convincente in ruoli patetici come Gilda nel Rigoletto, Leonora nel Trovatore e Violetta nella Traviata. Quando la sua voce maturò, si cimentò in
ruoli di maggior peso, in opere come
L’Africaine, Les Huguenots e Aida.
Nel 1885 giunse a interpretare Carmen al Covent Garden, raccogliendo
uno dei rari insuccessi della sua carriera. Si sposò tre volte: nel 1868 con
il marchese di Caux, da cui divorziò
nel 1885; nel 1886 con il tenore Ernest Nicolini, che fu suo compagno
anche sulla scena e che morì nel
1898; nel 1899 con il barone svedese Rolf Caderström, di 27 anni più
giovane di lei.
Le è stato dedicato un cratere di 47
km di diametro sul pianeta Venere.
Vocalità e personalità
interpretativa
Come Rosina
nel “Barbiere di Siviglia”
Dotata di una voce non potente ma limpida e di splendido timbro
nonché di straordinaria estensione e
agilità, fu una delle più autentiche
dive teatrali del suo tempo e come
tale si concesse ogni genere di libertà nell’adattare gli spartiti ai suoi
mezzi vocali. Si narra che un giorno,
esibendosi nell’aria del Barbiere di
Siviglia “Una voce poco fa” accompagnata al pianoforte dall’anziano
Rossini, aggiunse una tale quantità
di abbellimenti che il compositore,
dopo essersi congratulato, le chiese
con perfidia chi avesse scritto l’aria.
Come Carmen
Ritiratasi in un grandioso castello di sua proprietà presso Craig-yNos, in Galles, la Patti continuò ad
esibirsi privatamente nel piccolo teatro del palazzo. Tra il 1903 e il 1906,
ormai sessantenne, decise di incidere la propria voce grazie agli apparecchi della Gramophone Company,
che proprio in quel periodo era alla
ricerca di cantanti di fama per arricchire il proprio catalogo. Con la Gramophone la Patti incide una ventina
di pezzi, spaziando dalle arie d’opera
(Casta diva da Norma, Ah non credea mirarti da La sonnambula, ecc.),
ad alcune canzoni popolari inglesi in
voga alla fine dell’Ottocento. Nonostante l’età la sua voce si mostrava
ancora duttile ed armoniosa, il che
unito all’antichità della tecnica vocale ha reso le sue registrazioni particolarmente apprezzate ancora oggi
da parte degli appassionati del canto
pre-verista.
Anno VII / n. 60 del 27 giugno 2012
“LA VOCE DEL POPOLO” - Caporedattore responsabile: Errol Superina
IN PIÙ Supplementi a cura di Errol Superina
Progetto editoriale di Silvio Forza / Art director: Daria Vlahov Horvat
edizione: MUSICA [email protected]
Redattore esecutivo: Patrizia Venucci Merdžo / Impaginazione: Vanja Dubravčić
Collaboratori: Helena Labus Bačić, Clio Rostand, Nicoletta Gossen
Foto: Archivio
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