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Capitolo 1
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2.Il diritto ecclesiastico in Italia
S.
Il diritto ecclesiastico costituisce quella branca della legislazione, e più precisamente
del diritto pubblico, che regolamenta il fenomeno religioso.
Dottrina
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DEL GIUDICE V. ritiene che più correttamente si dovrebbe parlare di un «diritto delle confessioni
religiose» o «dei culti».
Tedeschi definisce il diritto ecclesiastico come «quel settore dell’ordinamento giuridico dello
Stato che riguarda il fattore religioso».
Parte della dottrina, in una visuale di più ampio respiro, descrive il diritto ecclesiastico come «il diritto dei cittadini ad un assetto dei rapporti fra Stato e confessioni religiose» e che, per questo verso
costituisca una vera e propria legislatio libertatis avente ad oggetto il diritto di libertà religiosa del
cittadino stesso (DE LUCA, VITALI).
In quest’ottica il diritto ecclesiastico è definito come «quel complesso di norme cui è commesso il
compito di svolgere e specificare i principi costituzionali di garanzia dellµ’interesse religioso e della
libertà religiosa degli individui e della eguale libertà delle confessioni» (CASUSCELLI).
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Es
Il diritto ecclesiastico italiano si basa su tre principi fondamentali:
— la libertà religiosa, sancita dall’art. 19 Cost., che riconosce il diritto di professare,
anche in forma organizzata, la propria fede religiosa con l’unico limite del rispetto
del buon costume e dall’art. 20, che vieta di imporre limiti ad enti per il loro fine
religioso (v. infra §4);
— l’uguaglianza religiosa, sancita dall’art. 8 Cost., il quale stabilisce l’uguaglianza
di tutte le confessioni religiose dinanzi alla legge col limite del rispetto dell’ordinamento giuridico (v. infra §5);
— la laicità dello Stato, sancita, in sostanza, dal combinato disposto degli artt. 8, 19
e 20 Cost., che garantiscono la neutralità dello Stato rispetto al fenomeno religioso
(v. infra §6).
C
op
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ig
Questi principi possono ricondursi più in generale all’art. 2 Cost. che garantisce i diritti dell’uomo anche nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, che ricomprendono anche le istituzioni religiose, ed all’art. 3 Cost. che sancisce l’uguaglianza sostanziale di tutti i cittadini vietando, quindi, anche le discriminazioni basate sul
credo religioso.
Funzione del diritto ecclesiastico è, allora, non quella di regolamentare il fenomeno
religioso in sé, ma quella di regolare i rapporti tra lo Stato e le istituzioni religiose in
ordine a quegli aspetti della loro attività che hanno rilievo giuridico.
Una peculiarità del diritto ecclesiastico è rappresentata dalla presenza di fonti non solo
unilaterali ma anche di derivazione pattizia, ossia frutto dell’accordo tra lo Stato e le
confessioni religiose.
Le norme del diritto ecclesiastico non costituiscono un corpo organico, ma si trovano in tutti i settori nei quali si articola l’ordinamento giuridico, dal diritto interna-
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Il diritto ecclesiastico ed i suoi principi
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zionale (al quale appartengono, ad esempio, le norme delle convenzioni internazionali sui diritti dell’uomo) al diritto costituzionale (che enuncia i principi fondamentali in
materia), al diritto civile (disciplina degli enti ecclesiastici, matrimonio religioso), al
diritto penale (tutela penale del sentimento religioso), al diritto del lavoro (rapporto
di lavoro nelle organizzazioni di tendenza), al diritto amministrativo (edilizia di culto,
beni culturali di interesse religioso).
Il futuro del diritto ecclesiastico
Es
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Di recente, qualche autore (BOTTA) ha osservato che oggi il diritto ecclesiastico vive una
nuova stagione. Nelle contemporanee società multiculturali, verso le quali si avvia anche
l’Italia, le diverse identità culturali reclamano il diritto ad essere e restare se stesse, rivendicando ambiti sempre maggiori di autonomia per la propria realizzazione. Non solo: una società multiculturale può facilmente trasformarsi in una società del conflitto, ideologico e religioso, in cui le istituzioni religiose operano sia per rivendicare maggiori spazi di libertà, ma soprattutto per far prevalere, per via politica e attraverso l’azione e i comportamenti dei propri
fedeli, la propria tavola dei valori, cui vorrebbero fossero ispirate le scelte dello Stato. Il problema fondamentale di questo tipo di società è, allora, quello di trovare un equilibrio tra le
rivendicazioni delle diverse identità culturali presenti su uno stesso territorio, da un lato, e un
minimo comune denominatore di valori condivisi dalla generalità dei cittadini, dall’altro
(FERRARI). In questo tipo di società, il diritto ecclesiastico non può più essere inteso come
una mera legislatio libertatis, avente ad oggetto il diritto di libertà religiosa dell’individuo da
far valere esclusivamente nei confronti dello Stato.
In questo nuovo contesto, infatti, il fenomeno religioso contribuisce in modo determinante a
formare le identità culturali e impone, pertanto, un intervento significativo del legislatore
volto al soddisfacimento degli interessi religiosi di tutti i cittadini.
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3.I rapporti tra diritto ecclesiastico e diritto canonico
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Il diritto ecclesiastico, almeno per quella parte che disciplina, all’interno dello Stato,
la vita della Chiesa cattolica, entra necessariamente in relazione con l’ordinamento
giuridico di quest’ultima che va sotto il nome di diritto canonico, per cui non sembra
inopportuno darne qualche breve cenno e puntualizzare le differenze tra i due ordinamenti.
Il diritto canonico può essere definito come «l’insieme delle norme giuridiche, poste
o fatte valere dagli organi competenti della Chiesa cattolica», norme secondo le quali «la Chiesa è organizzata e che regolano l’attività dei fedeli in relazione ai fini della
Chiesa stessa» (Del Giudice V.).
Da tale definizione si ricava che lo scopo del diritto canonico è l’organizzazione e la
regolamentazione della comunità dei credenti battezzati in Cristo (c.d. populus fidelis
per universum orbem dispersus), società che costituisce, nella sua struttura istituzionale, la Chiesa Cattolica (societas iuridice perfecta, in genere suo suprema).
C
Per Tedeschi il diritto canonico concerne l’ordinamento giuridico della Chiesa cattolica, costituendo un modello unico per una grande religione: le norme del diritto canonico riguardano
anch’esse il fenomeno religioso e sono certamente interessanti ai fini della determinazione del
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Capitolo 1
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contenuto delle fattispecie ecclesiastiche, ma assumono rilievo solo se esplicitamente richiamate
dal nostro ordinamento.
In sostanza, quindi, il diritto canonico (o per meglio dire l’ordinamento canonico) è costituito da
quell’insieme di norme che (HERVADA):
S.
a) creano i rapporti giuridici canonici, e cioè i legami che collocano i fedeli in una determinata situazione giuridica all’interno del corpo sociale della Chiesa e in ordine ai suoi fini;
b) regolano tali rapporti;
c) organizzano la gerarchia degli organi componenti la Chiesa e ne regolano l’attività;
d) valutano e regolano i comportamenti dei fedeli.
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Come nota JEMOLO, la differenza fondamentale fra i due ordinamenti giuridici è data
dal fatto che:
— le norme del diritto canonico sono originarie ed autonome perché fatte valere da
uno Stato, come ha riconosciuto l’art. 7 della Costituzione;
— il diritto ecclesiastico, invece, è un complesso di norme che, per avere efficacia,
deve essere riconosciuto dall’ordinamento statuale: esso, infatti, costituisce un ramo
del diritto interno italiano e fa parte del diritto pubblico.
4.La libertà religiosa
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La libertà religiosa, quale principio o concetto giuridico, può definirsi «la libertà
garantita dallo Stato a ogni cittadino, di scegliere la propria credenza in fatto di religione» (D’AVACK).
La libertà religiosa non va confusa con la libertà di religiosità, cioè con la libertà di
ciascun individuo di determinarsi rispetto al sentimento religioso; quest’ultimo è, infatti, un concetto extragiuridico, attinente alla sfera personale, e quindi irrilevante per
il diritto.
Ne consegue che il diritto di libertà religiosa è un diritto pubblico subiettivo che si
inquadra nel vasto genus dei diritti di libertà.
Come tutti i diritti di libertà, esso si differenzia dai c.d. «d­iritti sociali » (es. diritto all’assistenza) perché, mentre questi comportano la pretesa verso lo Stato ad una prestazione
positiva (esempio: costruzione di ospedali etc.), il diritto di libertà religiosa del cittadino
postula, invece, la pretesa di una prestazione negativa, sia da parte dello Stato che dagli
altri cittadini, tenuti ad astenersi da quegli atti che possano impedirne il libero esercizio.
C
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Parte della dottrina (Tedeschi), al contrario, sostiene che la libertà religiosa può
configurarsi come un diritto soggettivo dell’individuo:
— non esclusivamente pubblico, perché non è solo tale il bene giuridico tutelato e la
sua tutela non deve provenire solo dallo Stato, ma anche dagli altri consociati;
— non negativo, perché principi e diritti costituzionali non possono sostanziarsi in
comportamenti omissivi dello Stato, che deve invece favorirne l’attuazione;
— non unico, perché se il concetto di libertà è uno solo, autonomi sono i diritti e i
regimi che li regolano;
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Il diritto ecclesiastico ed i suoi principi
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— non assoluto, ma relativo, perché trova un limite nei diritti degli altri e anche da
loro deve essere garantito.
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Il diritto di libertà religiosa include altresì la libertà di:
1) fede, ossia libertà di professare qualunque fede, di mutare convincimento, di non
professare alcuna fede, di manifestare nei confronti del fenomeno religioso un atteggiamento di indifferenza e di scetticismo, senza che ciò comporti alcuna conseguenza o discriminazione.
Anche la libertà religiosa negativa (la cd. libertà di ateismo), quindi, può essere
ricompresa nella libertà religiosa e godere della stessa tutela riconosciuta a quest’ultima dall’art. 19 Cost. Secondo alcuni Autori, superati peraltro dalla posizione
della Corte costituzionale, invece, la libertà negativa rientra nell’ambito della libertà di manifestazione di pensiero (art. 21 Cost.), che è soggetta a limiti più
stringenti della libertà religiosa;
2) propaganda, ossia libertà di fare proseliti mediante libri e altri mezzi di esternazione del pensiero, attraverso l’esaltazione della propria fede o la negazione del
fondamento dogmatico della fede altrui, con argomentazioni motivate o con asserzioni immotivate (LARICCIA);
3) culto, ossia la libertà di compiere atti di culto sia in privato che in luogo pubblico.
La previsione dell’art. 19 va coordinata con quanto prevede l’art. 17 Cost., che
impone il preavviso per le riunioni in luogo pubblico alle autorità, che possono
vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o incolumità pubblica.
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Sono stati pertanto dichiarati incostituzionali l’art. 1 del R.D. n. 289 del 1930, nella parte in cui
imponeva l’autorizzazione ministeriale per l’apertura del tempio di un culto ammesso, e l’art.
2 dello stesso regio decreto, che consentiva le riunioni dei fedeli senza preventiva autorizzazione governativa soltanto in un edificio la cui apertura fosse stata autorizzata e a condizione
che la riunione fosse presieduta o autorizzata da un ministro di culto. In tutti gli altri casi la
disposizione dell’art. 2 applicava le norme comuni per le riunioni pubbliche;
La Corte costituzionale ha ritenuto in contrasto con l’art. 19 Cost. l’appartenenza obbligatoria
alla Comunità israelitica imposta per legge agli ebrei residenti nel territorio della stessa. Attualmente tale appartenenza è il frutto di un atto volontario di adesione.
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4) costituire o appartenere ad associazioni di carattere religioso, che non possono
essere soggette a speciali limitazioni legislative, né a speciali gravami fiscali per la loro
costituzione, capacità giuridica ed ogni forma di attività per il solo fatto di possedere
un carattere ecclesiastico o perseguire un fine di religione o di culto (art. 20 Cost.).
C
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L’unico limite che espressamente l’art. 19 Cost. pone all’esercizio della libertà religiosa è rappresentato dal divieto di riti contrari al buon costume. Questa espressione è stata intesa da parte della dottrina (Finocchiaro) in maniera restrittiva, come
esclusione della legittimità dei riti che offendono la libertà, il pudore e l’onore sessuale; altra parte (Mortati) in modo più ampio intendendola come esclusione della
legittimità dei riti contrari al sentimento etico; parte della dottrina (D’Avack), infine,
la estende all’intero vivere civile. Si tratta, dunque, di concetto elastico e caratterizza-
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to da relatività storica, dal quale deve essere escluso ogni riferimento al generico ordine pubblico, come invece era previsto dall’art. 1 della legge n. 1159 del 1930 per i
culti acattolici.
Oltre al limite esplicito della contrarietà dei riti al buon costume, sussiste un limite
implicito che è connaturato a tutti i diritti: la necessità di tutelare altri diritti o interessi aventi rilevanza costituzionale.
In questo caso, i provvedimenti restrittivi della libertà religiosa:
— sono motivati dalla necessità di tutelare altri diritti fondamentali o interessi costituzionalmente rilevanti;
— sono ragionevoli, ossia capaci di tutelare gli altri diritti e interessi;
— sono proporzionati, ossia tali da comprimere la libertà religiosa senza renderne
impossibile l’esercizio e comunque tali da comportare il minor sacrificio possibile
per il diritto in questione.
L’ordinamento statale può, così, tutelare i diritti dei fedeli all’interno delle confessioni, limitando la libertà di queste ultime quando sono in gioco diritti fondamentali come
la dignità della persona umana o il diritto di agire e resistere in giudizio. Ad esempio,
i provvedimenti assunti dall’autorità confessionale per sanzionare comportamenti dei
fedeli o per allontanare qualcuno di essi dalla confessione non possono concretizzarsi
in espressioni offensive vietate dalla norme penali o civili, né tanto meno violare il
diritto alla difesa e al contraddittorio nel suo nucleo essenziale.
La libertà di coscienza
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Nella Costituzione non si parla affatto della libertà di coscienza che, invece, per una parte
della dottrina (BASSO, TEDESCHI) deve essere «posta a base delle esterne manifestazioni
della libertà religiosa, come un presupposto che attiene all’interna volontà».
Questa «carenza di previsioni normative» (TEDESCHI) è stata, però, avvertita dal legislatore
che finalmente ha colmato la lacuna con una interpretazione «estensiva» (nel senso più ampio
della parola) dell’art. 19 Cost. che ne viene a completare il valore precettivo.
Così, in quasi tutti i provvedimenti che regolano i rapporti fra Stato italiano e confessioni acattoliche si legge quanto segue: «La Repubblica italiana, nel garantire la libertà di coscienza di
tutti, riconosce agli alunni delle scuole pubbliche non universitarie il diritto di non avvalersi di
insegnamenti religiosi». Tale previsione sta ad indicare che, al di là delle previsioni costituzionali lo Stato ha voluto farsi espressamente carico della tutela di una libertà, quella di coscienza,
che non sappiamo se considerare autonoma o in qualche modo correlata alla libertà religiosa.
5.L’eguaglianza religiosa
C
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La Costituzione repubblicana, oltre ad interessarsi specificamente del fenomeno religioso, afferma alcuni principi che, per la loro ampiezza e generalità, influenzano la
natura e l’interpretazione delle norme di diritto ecclesiastico. Tali principi sono il
principio personalista e quello di eguaglianza.
L’art. 2 Cost. impone alla Repubblica di riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità.
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L’art. 3 Cost. stabilisce, poi, che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di
opinioni politiche, di condizioni personali e sociali (eguaglianza formale) e attribuisce alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale
che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno
sviluppo della persona umana (eguaglianza sostanziale).
Il principio dell’eguaglianza religiosa è sancito dall’art. 8 Cost. che così dispone:
«Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge».
br
Tale disposizione sancisce il principio del pluralismo confessionale in base al quale tutte le
confessioni religiose godono in egual misura dei diritti di libertà sanciti dalla Costituzione (Cerioli).
li
Nella nostra Costituzione, infatti, viene affermata in materia religiosa:
— una eguaglianza in senso assoluto che si riferisce agli individui;
— una eguaglianza in senso relativo che si riferisce, invece, alle confessioni religiose.
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L’art. 3, come detto, sancisce che «tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di religione», laddove l’art. 8 prevede che «tutte le confessioni religiose
siano egualmente libere davanti alla legge».
Come si vede, nel secondo caso non viene affermato un principio di eguaglianza assoluta (come per l’art. 3), in quanto tutte le confessioni religiose non vengono sottoposte ad un identico regime, limitandosi la Costituzione repubblicana ad affermare la
loro eguaglianza limitatamente alla sola libertà.
Questa parità del godimento della libertà sembra lasciare libero il legislatore nel trattamento delle varie confessioni religiose secondo che la necessità o l’opportunità lo
richiedano, con la conseguenza che, sempre mantenendo ferma la «garanzia della
libertà» per tutte, una confessione possa trovarsi in una condizione di preminenza rispetto alle altre.
ig
Come si concilia la preminenza data alla religione cattolica con i principi di libertà
e uguaglianza?
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Il pincipio di libertà religiosa non è violato, in quanto riconoscere particolari prerogative ad un soggetto non
significa di per sé limitare la libertà degli altri; inoltre, uguaglianza non significa solo trattare in modo
uguale situazioni uguali, ma anche trattare in modo diverso situazioni diverse, ed è quindi giusto che al
maggior peso che il cattolicesimo di fatto ha nella società italiana venga dato riconoscimento.
op
6.La laicità dello Stato
C
Nel punto 1 del Protocollo addizionale al nuovo Concordato (18-2-1984) è detto esplicitamente:
«Si considera non più in vigore il principio originariamente richiamato dai Patti Lateranensi della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano».
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Capitolo 1
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Questa dichiarazione comune dello Stato e della Santa Sede, nuova e, dal punto di
vista storico-ecclesiastico rivoluzionaria, costituisce una chiara affermazione se non
proprio della laicità quanto meno della neutralità dello Stato italiano in materia religiosa.
Essa sancisce ufficialmente la scomparsa dall’ordinamento giuridico italiano del Principio del confessionismo statale che, più o meno larvato, aveva informato il diritto
ecclesiastico post-unitario anche dopo la promulgazione della Costituzione del 1948.
La norma suddetta pone anche un principio interpretativo valido per tutte le norme di
derivazione pattizia, che dovranno essere interpretate conformemente al principio di
laicità dello Stato.
Soltanto dopo l’esplicita rinuncia al confessionismo da parte di Stato e Chiesa cattolica, la Corte costituzionale ha fornito una compiuta enunciazione del principio di
laicità. Con la sentenza n. 203 del 1989, infatti, la Consulta ha innanzitutto chiarito
che tale principio è un principio supremo dell’ordinamento, che caratterizza, cioè,
la stessa forma repubblicana dello Stato. Il suo contenuto emerge dagli artt. 2, 3, 7, 8,
19 e 20 della Costituzione e impone allo Stato non un atteggiamento di indifferenza
dinanzi alle religioni e al fenomeno religioso, o addirittura di estraneità o di ostilità,
bensì di garanzia per la salvaguardia della libertà di religione in regime di pluralismo
confessionale e culturale. Il carattere laico dello Stato italiano non esclude, quindi,
interventi legislativi al servizio di concrete istanze della coscienza civile e religiosa
dei cittadini.
Dottrina
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Quella che viviamo oggi viene definita come età post-secolare (ZAGREBELSKY), l’epoca, cioè, in
cui si assiste ad un ritorno della religione e delle sue istituzioni al centro della vita e dell’agire sociali,
dopo il tentativo della cultura illuminista e laica di relegare l’una e le altre nel campo del privato, irrilevante per la sfera pubblica. La religione appare, nella nostra epoca, l’unica forza in grado di fornire
prestazioni unificanti e di senso ad una società sempre più disgregata e nichilista. Ecco allora che le risorse della religione, nel nostro Paese quella cattolica, vengono mobilitate per creare identità e convergenza rispetto a determinati valori, ritenuti fondamentali anche per il vivere civile. La Chiesa cattolica,
tuttavia, è la rappresentante di una visione del mondo e dell’uomo totalizzante, che avanza la sua candidatura ad imporsi a tutta la società, quindi anche ai credenti di altre confessioni o ai non credenti, con
riferimento ad una serie di questioni cruciali come i rapporti di convivenza fra le persone, il concepimento della vita e il controllo delle nascite, la disponibilità della vita nei suoi momenti terminali.
La Chiesa può avvalersi del suo potere di influenza e di pressione nei confronti delle forze politiche
presenti negli organi costituzionalmente deputati alla decisione, dettare indicazioni di voto o invitare
all’astensione i propri fedeli, imponendo direttive vincolanti e minacciando sanzioni ecclesiastiche
nei confronti di coloro che dissentono politicamente. Tutto ciò può alterare i meccanismi di formazione politica delle decisioni dello Stato violando il principio della separazione degli ordini.
Alcuni Autori (Tedeschi), pertanto, ritengono che quello della laicità sia «un principio allo stato
tendenziale … di tipo convenzionale e come tale essenzialmente utile, ma non universalmente accetto», e ciò sulla base del «confessionismo strisciante» che può trarsi «dalle feste religiose e dal calendario, dall’apposizione di simboli religiosi nei tribunali e nelle scuole, dal fatto che i vescovi cattolici sono considerati ad un tempo autorità ecclesiastiche e dello Stato, e i parroci celebranti il matrimonio ufficiali dello stato civile».
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Il diritto ecclesiastico ed i suoi principi
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Si pone, a questo punto, il problema della compatibilità con i nuovi principi di libertà,
eguaglianza e laicità sanciti dalla Costituzione di quelle norme del codice penale ispirate al principio della religione di Stato.
Nel nostro codice penale prima di alcune importanti pronuncie della Corte costituzionale riscontravamo, infatti, un trattamento diverso, a seconda che si trattasse della
Chiesa cattolica o dei culti acattolici.
In particolare:
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— l’art. 724 puniva la bestemmia (con invettive o parole oltraggiose) «contro la Divinità o
i Simboli o le Persone venerati nella religione dello Stato», mentre l’art. 402 il vilipendio della religione di Stato se fatto pubblicamente; una analoga tutela, invece, non
era prevista per la bestemmia o il vilipendio relativi ai culti acattolici (differenza qualitativa);
— gli artt. 403, 404, 405, punivano, rispettivamente, l’offesa alla religione dello Stato mediante vilipendio di persone, mediante vilipendio di cose, nonché il turbamento di funzioni religiose del culto cattolico con una pena più severa rispetto a quella prevista per gli altri
culti.
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Successivamente con sentenza 14-11-1997, n. 329 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del 1° comma dell’art. 404 c.p. (offesa alla religione
di Stato mediante vilipendio di cose), nella parte in cui si prevedeva una pena minore se l’offesa era perpetuata contro un culto acattolico.
Successivamente con sentenza n. 508/2000 la Corte costituzionale ha dichiarato
l’illegittimità dell’art. 402 del codice penale, cancellando così il reato di vilipendio
contro la religione dello Stato, punito con la reclusione fino ad un anno.
Per i giudici della Consulta tale reato configurava violazione degli articoli 3 e 8 della
Costituzione, in materia di uguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di religione
e l’uguale libertà di tutte le religioni di fronte alla legge.
In forza di questi principi fondamentali e con il venir meno del principio della religione cattolica come sola religione di Stato (Nuovo concordato), l’atteggiamento dello
Stato — si legge nella sentenza — «non può che essere di equidistanza e imparzialità
nei confronti di tutte le confessioni religiose, senza che assumano rilevanza alcuna il
dato quantitativo dell’adesione più o meno diffusa a questa o quella confessione religiosa e la maggiore o minore ampiezza delle relazioni sociali che possono seguire alla
violazione dei diritti di una o dell’altra di esse».
Tale posizione di equidistanza e imparzialità, del resto, è il riflesso del principio di
laicità, che la Corte ha tratto dal sistema delle norme costituzionali.
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7.Evoluzione storica dei rapporti fra Stato italiano e Chiesa cattolica
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La politica dello Stato italiano nei confronti del fenomeno religioso, e della Chiesa
Cattolica in particolare, può essere suddivisa in tre periodi.
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Capitolo 1
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A) La questione romana
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La conquista, nel 1861, di gran parte del territorio dello Stato della Chiesa e la sua
annessione al neocostituito Regno d’Italia diedero luogo ad un aspro contenzioso tra
le autorità ecclesiastiche e lo Stato Italiano. Per affermare l’autorità dello Stato e incamerare l’enorme patrimonio accumulato dalla Chiesa, vennero allora emanate la L.
7-7-1866 n. 3036 e la L. 19-8-1867 n. 3848 (le c.d. leggi eversive), le quali disponevano la soppressione di tutti gli enti ecclesiastici che lo Stato giudicava non necessari
per il soddisfacimento dei bisogni religiosi della popolazione e la devoluzione al demanio del loro patrimonio.
Quando, nel 1870, la conquista di Roma e la sua annessione all’Italia portarono alla
scomparsa dello Stato della Chiesa ed alla fine del potere temporale del Papa, la questione si aggravò poiché il Pontefice riteneva che la sovranità territoriale fosse un’irrinunciabile garanzia di indipendenza per la Chiesa Cattolica e quindi rifiutò di partecipare a trattative col Regno d’Italia per definire il nuovo status giuridico della Chiesa.
Nasceva così la c.d. «questione romana».
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Lo Stato regolò allora unilateralmente i propri rapporti con la Chiesa tramite la L. 133-1871 n. 214, la c.d. legge delle Guarentigie, che riconobbe:
— l’inviolabilità dei palazzi del Vaticano e del Laterano;
— una rendita annua alla Chiesa;
— l’indipendenza delle gerarchie ecclesiastiche dallo Stato.
Perché la legge delle Guarentigie non fu riconosciuta dalla Chiesa?
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La legge della Guarentigie non fu mai completamente accettata dalla Chiesa in quanto non offriva garanzie
di stabilità. Il legislatore italiano, infatti, in qualunque momento, avrebbe potuto trasformare unilateralmente il contenuto della legge stessa.
B) I Patti Lateranensi
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Quando lo Stato unitario si consolidò e le pretese della Chiesa non vennero più considerate una minaccia all’Unità nazionale, si diffuse nel Paese un clima sempre più favorevole al miglioramento dei rapporti tra Stato e Chiesa.
Sotto questa spinta, dopo laboriose trattative tra lo Stato e la Chiesa, vennero stipulati l’11 febbraio 1929 i Patti Lateranensi (sui quali v. infra cap. 2°, §2) i quali risolvevano definitivamente la questione romana: essi, infatti, assicuravano alla Chiesa le
garanzie d’indipendenza che questa chiedeva e, inoltre, presentavano sufficiente stabilità, avendo carattere bilaterale.
La regolamentazione del fenomeno religioso venne di lì a poco completata dalla L.
24-6-1929 n. 1159 sui culti ammessi, che regolamenta le confessioni religiose acattoliche.
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Il diritto ecclesiastico ed i suoi principi
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C) Il nuovo Concordato
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I Patti Lateranensi vennero riconosciuti dal nuovo Stato repubblicano, ed anzi ebbero
riconoscimento nell’art. 7 Cost. (v. infra cap. 2°, §2).
Essi, però, erano in grave contrasto con i principi costituzionali che sanciscono la libertà religiosa e la laicità dello Stato laddove il Concordato del 1929 poneva la Chiesa Cattolica in una posizione di privilegio tale da potersi quasi parlare di uno Stato
confessionale.
Inoltre i Patti non erano più consoni allo spirito dei tempi, data la progressiva laicizzazione della società italiana.
Di questi mutamenti ha preso atto la stessa Chiesa Cattolica che, nel Concilio Vaticano II, ha riconosciuto l’opportunità di una separazione tra Chiesa e comunità politica
e, al tempo stesso, di una sana collaborazione, purché siano comunque garantiti i diritti fondamentali dell’uomo sia come cittadino che come fedele.
Tutte queste istanze sono sfociate nella modifica dei Patti Lateranensi, stipulata tra lo
Stato italiano e la Santa Sede il 18 febbraio 1984; con essa si è arrivati ad una regolamentazione dei rapporti con la Chiesa cattolica che, pur riconoscendo l’importanza del
ruolo di quest’ultima, non si pone in contrasto con i principi costituzionali (v. infra,
cap. 2°, §3).
Questionario
1. Quali sono i principali modelli di atteggiamento che storicamente gli Stati
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hanno assunto nei confronti del fenomeno religioso? (par. 1)
2. Quali sono i principi fondamentali sui quali si basa il diritto ecclesiastico ita-
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liano? (par. 2)
3. In cosa differisce il diritto ecclesiastico dal diritto canonico? (par. 3)
ig
4. Secondo la Costituzione repubblicana come può essere intesa la libertà religiosa? (par. 4)
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5. Quale limite la Costituzione pone alla libertà religiosa? (par. 4)
6. Il principio dell’eguaglianza religiosa sancisce l’eguaglianza di tutte le religioni dinanzi alla legge? (par. 5)
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7. Quale principio è stato soppiantato dall’affermarsi della laicità dello Stato? (par. 6)
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8. Cosa si intende per «Questione romana»? (par. 7)
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 fonti
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Capitolo 2 Le
i
del diritto ecclesiastico
Sommario1. Classificazione delle fonti. - 2. L’art. 7 della Costituzione ed i
br
1.Classificazione delle fonti
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Patti Lateranensi. - 3. Il nuovo Concordato. - 4. I principi del
nuovo Concordato. 5. La Costituzione e i culti acattolici. - 6. Il
principio pattizio.
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Si definiscono fonti del diritto gli atti o fatti dai quali traggono origine le norme giuridiche.
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Nell’ambito delle fonti del diritto è possibile distinguere:
a) le fonti di produzione, che rappresentano lo strumento tecnico predisposto o riconosciuto dall’ordinamento che serve a creare le norme giuridiche.
Le fonti di produzioni si suddividono in:
1. fonti fatto, ovvero fonti non scritte determinate da fatti sociali o naturali considerati idonei a produrre diritto (fonti non scritte);
2. fonti atto, ossia atti normativi posti in essere da organi o enti nell’esercizio di
poteri ad essi attribuiti dall’ordinamento (fonti scritte).
b) le fonti sulla produzione, che costituiscono le norme che determinano gli organi
e le procedure di formazione del diritto;
c) le fonti di cognizione, che sono gli strumenti attraverso cui è possibile conoscere
le fonti di produzione.
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Per quanto riguarda il diritto ecclesiastico si distinguono:
a) fonti di provenienza unilaterale statale, distinte in:
1) norme costituzionali:
— artt. 2, 3, che tutelano i diritti fondamentali, fra cui è ricompresa la libertà
religiosa, e sanciscono il principio di eguaglianza senza discriminazioni
fondate sulla religione;
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— artt. 19, 20, che riconoscono e tutelano la libertà religiosa e vietano trattamenti discriminatori fondati sul fine di culto o il carattere ecclesiastico degli
enti;
— artt. 17, 18 e 21, che sanciscono libertà strettamente connesse a quella religiosa quali la libertà di riunione, di associazione e di manifestazione del
pensiero;
— art. 33, che sancisce la libertà di insegnamento, anche religioso;
— artt. 7 e 8, che tracciano il regime dei rapporti con la Chiesa cattolica e le
confessioni acattoliche.
2) norme ordinarie generali:
— art. 629 c.c., che detta disposizioni a favore dell’anima;
— art. 831 c.c., che prevede disposizioni circa i beni ecclesiastici ed edifici di
culto;
— artt. 402-406, 664, 724 c.p. che prevedono delitti contro la religione;
3) norme ordinarie speciali: si tratta di norme emanate per disciplinare specificamente la materia ecclesiastica, tra cui particolarmente significativa è la L. 256-1929, n. 1159 che regola le confessioni acattoliche;
b) fonti di provenienza unilaterale confessionale, promananti da ordinamenti giuridici religiosi, come quelle di diritto canonico, cui lo Stato riconosce efficacia
giuridica poiché attengono a rapporti lasciati all’esclusiva regolamentazione dell’autorità religiosa;
c) fonti di provenienza bilaterale, che rivestono esteriormente il carattere di atti
unilaterali, poiché sono recepite in leggi dello Stato, ma trovano la loro fonte in
accordi bilaterali (fonte pattizia); tra le più importanti possiamo citare:
— L. 27-5-1929, n. 810, esecuzione dei Patti Lateranensi;
— L. 25-9-1985, n. 121, esecuzione del nuovo Concordato;
— trattato di pace del 10-2-1949, art. 15 sulla tutela delle minoranze religiose;
— L. 20-5-1985, n. 206, sulla disciplina della materia degli enti e beni ecclesiastici;
— varie leggi di attuazione delle intese stipulate con le confessioni acattoliche (v.
infra cap. 13°);
d) fonti regionali, che disciplinano materie attinenti al fenomeno religioso come
l’istruzione, la salute, la valorizzazione dei beni culturali, la promozione e organizzazione di attività culturali. La materia dei rapporti della Repubblica con le confessioni religiose resta, tuttavia, di esclusiva competenza statale, per cui un’eventuale legislazione regionale che recepisca accordi fra le Regioni e le confessioni
religiose non può che riguardare aspetti specifici, rientranti nella competenza legislativa regionale e direttamente connessi con interessi delle comunità territoriali
rappresentate dalle Regioni;
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Le fonti del diritto ecclesiastico
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e) fonti di diritto internazionale, promananti da soggetti di diritto internazionale che
trovano applicazione nell’ordinamento italiano mediante le leggi di esecuzione.
In tale categoria rientrano, ad esempio:
— il Trattato di pace del 10-2-1947, il cui art. 15 è dedicato alla tutela delle minoranze religiose;
— la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 10-12-1948, che all’art.
18 riconosce ad ogni individuo il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e
di religione. Tale diritto include anche la libertà di cambiare religione o credo,
e la libertà di manifestare, individualmente o in comune, e sia in pubblico che
in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti. La Dichiarazione è priva di valore
vincolante, essendo una semplice raccomandazione, e non prevede alcun meccanismo che garantisca la sua applicazione automatica;
f) fonti del diritto dell’Unione europea, che hanno profondamente inciso sugli ordinamenti giuridici degli Stati membri. La sempre maggiore centralità del tema dei
diritti fondamentali nell’Unione europea trova conferma nell’elaborazione, avvenuta nel 2000, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
La Carta riconosce la libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Tale diritto
include la libertà di cambiare religione o convinzione, così come la libertà di manifestare la propria religione o la propria convinzione individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e
l’osservanza dei riti. Il diritto all’obiezione di coscienza è riconosciuto secondo le
leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio (art. 10). La Carta afferma, inoltre,
il divieto di discriminazioni fondate sulla religione (art. 21) e stabilisce che l’Unione rispetta, fra l’altro, la diversità religiosa (art. 22).
Il nuovo Trattato dell’Unione europea, così come modificato dal Trattato di Lisbona,
all’art. 6 afferma che l’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella
Carta dei diritti fondamentali, che acquista lo stesso valore giuridico del Trattati.
Le disposizioni della Carta si applicano alle istituzioni europee come pure agli
Stati membri, ma esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione. I diritti
riconosciuti dalla Carta che trovano fondamento nei trattati europei si esercitano
alle condizioni e nei limiti definiti dai trattati stessi. Laddove, poi, la Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla CEDU, il significato e la portata
degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta CEDU, ferma restando la
possibilità per l’Unione di concedere una protezione più estesa. Infine la Carta non
va interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti dalle Costituzioni degli Stati membri.
Con riferimento, infine, alle manifestazioni collettive ed organizzate del fenomeno
religioso, l’art. 17 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea dispone che
l’Unione rispetta e non pregiudica lo status previsto nelle legislazioni nazionali per
le chiese e le associazioni o comunità religiose degli Stati membri precisando che, nel
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riconoscere l’identità e il contributo specifico, mantiene un dialogo aperto, trasparente e regolare con le chiese e le organizzazioni filosofiche e non confessionali.
Altro documento fondamentale adottato nell’ambito europeo è la Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
(CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950 nell’ambito del Consiglio d’Europa
e divenuta esecutiva in Italia con L. 4 agosto 1955, n. 848.
La CEDU (art. 9) riconosce ad ogni persona il diritto alla libertà di pensiero, di
coscienza e di religione. Tale diritto include la libertà di cambiare religione o pensiero, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio pensiero
individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto,
l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti. La libertà di religione può essere oggetto di restrizioni soltanto con misure stabilite per legge e necessarie, in
una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della
salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.
Fra le pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia religiosa più
significative, si ricordano quelle che hanno avuto ad oggetto: il proselitismo, la
tutela della sensibilità religiosa della maggioranza, la libertà religiosa dei gruppi
di minoranza, la libertà di auto-organizzarsi delle comunità religiose, con particolare riferimento alla possibilità di scegliersi i propri rappresentanti senza ingerenze
delle pubbliche autorità, la libertà di religione collegata alla libertà di associazione, i simboli religiosi, l’insegnamento religioso obbligatorio, la discriminazione
sul lavoro per motivi religiosi.
Da ultimo, va segnalato che, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (Dichiarazione n. 2, nuovo art. 6 TUE), è stata prevista l’adesione dell’Unione europea
alla CEDU: «L’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali […] I diritti fondamentali, garantiti
dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri,
fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali».
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2.L’art. 7 della Costituzione ed i Patti Lateranensi
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I rapporti tra lo Stato e la Chiesa Cattolica sono regolati dall’art. 7 Cost. che:
— al primo comma, sancisce che lo Stato e la Chiesa Cattolica sono, ciascuno nel
proprio ordine, indipendenti e sovrani;
— al secondo comma, sancisce che i rapporti tra Stato e Chiesa sono regolati dai
Patti Lateranensi la cui modifica, se non concordata dalle parti, richiede il procedimento di revisione costituzionale.
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Il primo comma enuncia il riconoscimento della Chiesa Cattolica come ordinamento
autonomo ed originario: ciò significa che il diritto canonico, ossia le norme prodotte
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Le fonti del diritto ecclesiastico
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dall’ordinamento ecclesiastico, è frutto di un ordinamento sovrano e quindi ha valore
in sé e non in virtù di un riconoscimento statale. Tale norma pone però anche una limitazione a questo riconoscimento, affermando che quest’autorità è riconosciuta alla
Chiesa solo nel proprio ordine, e cioè nel limiti in cui non venga messa in discussione
la sovranità dello Stato ed il rispetto delle sue leggi.
Il secondo comma ha la funzione di garantire la Chiesa Cattolica da un’eventuale arbitraria decisione dello Stato di regolare unilateralmente i propri rapporti con la Chiesa stessa, attribuendo valore di norma Costituzionale ai Patti Lateranensi, cioè agli
accordi stipulati tra Stato e Chiesa l’11 febbraio 1929.
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Storicamente i Patti Lateranensi rappresentarono la risoluzione di tutti i motivi di attrito tra lo Stato Italiano e la Chiesa Cattolica sorti in seguito alla presa di Roma nel 1870 e comunemente noti
come questione romana (v. supra cap. 1°, §7). Infatti, dopo la presa di Roma da parte del Regno
d’Italia, i rapporti con la Chiesa furono unilateralmente regolati con la legge 214 del 13 marzo 1871,
la c.d. «legge delle Guarentigie», che formalmente si preoccupava di garantire rendite, immunità
e privilegi al Sommo Pontefice ma che non fu mai accettata dalla Chiesa perché, essendo una
legge interna dello Stato Italiano, non presentava garanzie di stabilità potendo essere, in qualsiasi momento, abrogata da un’altra legge ordinaria dello Stato (Enciclica «Ubi nos» del 15-5-1871);
questa preoccupazione fu superata con la stipula dei Patti Lateranensi, che si qualificavano come
un accordo bilaterale tra ordinamenti sovrani. Alle preoccupazioni della Chiesa venne incontro
anche la Costituzione Repubblicana che, prevedendo per la modifica unilaterale dei Patti il procedimento di revisione costituzionale, diede loro la richiesta garanzia di stabilità.
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I Patti Lateranensi constavano di tre distinti documenti:
— il Trattato, che risolveva la questione dello stato territoriale della Chiesa riconoscendo la sovranità del Pontefice sullo Stato della Città del Vaticano, esteso su un
territorio di 0,44 kmq all’interno della città di Roma;
— il Concordato, che regolava i rapporti tra lo Stato e la Chiesa in Italia;
— la Convenzione finanziaria, con la quale furono regolate le questioni sorte dopo le
spoliazioni degli enti ecclesiastici a seguito delle leggi eversive.
Punti qualificanti del Concordato del 1929
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— riconoscimento della religione cattolica quale religione di Stato (art. 1 del Trattato);
— una serie di privilegi per gli ecclesiastici (artt. 3, 4, 7);
— preventiva approvazione dello Stato per le nomine dei Vescovi e dei Parroci, e giuramento di fedeltà allo Stato italiano dei Vescovi (artt. 19-23);
— riconoscimento, da parte dello Stato, dei provvedimenti emanati dall’autorità ecclesiastica in materia spirituale e disciplinare contro ecclesiastici (art. 5 correlato con l’art. 23 del
Trattato);
— particolare regime di favore, finanziario e fiscale, per gli enti ecclesiastici (art. 29, 3°
comma);
— intervento finanziario a favore del clero, la c.d. congrua (art. 30);
— riconoscimento degli effetti civili del matrimonio religioso e riserva ai tribunali ecclesiastici delle cause relative (art. 34);
— insegnamento della dottrina cristiana in tutte le scuole pubbliche, eccettuate le università,
considerato «fondamento e coronamento» dell’istruzione pubblica (art. 36).
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Dottrina
3.Il nuovo Concordato
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Ci si è chiesto se il legislatore, richiamando esplicitamente i Patti Lateranensi come fonte per regolare i rapporti tra Stato e Chiesa, li abbia, di fatto, costituzionalizzati.
Da qui la non ancora sopita polemica tra:
— i c.d. curialisti (cioè i paladini della posizione di superiorità della Chiesa) i quali sostengono, con
svariati motivi, una «forza» superiore (rango costituzionale o meno) delle norme concordatarie:
tali autori vengono anche denominati ecclesiasticisti;
— i c.d. regalisti (cioè i giuristi laicisti) i quali si sforzano di dimostrare il rango ordinario delle
norme concordatarie per evitare che i privilegi da esse stabilite a favore della Chiesa possano
intaccare i principi di uguaglianza e libertà sanciti dalla Costituzione.
La dottrina dominante (in un primo momento favorevole) ha poi escluso tale costituzionalizzazione
per un duplice ordine di motivi:
1) il contenuto di molteplici norme dei Patti, oltre a non essere più conforme ai principi ispiratori
della Costituzione, è relativo a rapporti concreti e non avrebbe, quindi, carattere «materialmente»
costituzionale;
2) la possibilità, prevista dal 2° comma dell’art. 7, di modifica dei Patti a mezzo dell’ordinario procedimento legislativo, comporterebbe (ove si riconoscesse la costituzionalità delle norme pattizie)
per alcune norme costituzionali (in aperto contrasto con il principio dell’art. 138 Cost.), forme di
revisione diverse da quelle previste per tutte le altre e sottratte interamente agli interventi popolari
(MORTATI).
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Il Concordato del 1929 con il trascorrere del tempo è divenuto superato, sia perché la
posizione di privilegio concessa alla Chiesa contrastava con i valori di eguaglianza
espressi dalla nuova Costituzione repubblicana, sia perché esso non era più consono
alla nuova visione dei rapporti tra Chiesa e mondo contemporaneo emersa dopo il
Concilio Vaticano II.
Esso, pertanto, dopo laboriose trattative, è stato sostituito da un nuovo accordo tra la
Repubblica Italiana e la Santa Sede stipulato il 18 febbraio 1984 ed entrato in vigore il
4 giugno 1985 e comunemente denominato nuovo Concordato. Tale accordo, anche
se formalmente definito «di modifica» del precedente Concordato, costituisce in realtà
uno strumento radicalmente nuovo di regolamentazione dei rapporti tra Stato e Chiesa.
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Rispetto al nuovo Concordato si è posto il problema se questo sia coperto dalla stessa garanzia
prevista per il precedente accordo dall’art. 7, e cioè il procedimento aggravato per la modifica
unilaterale; la dottrina prevalente ha assunto una posizione contraria rispetto a tale riconoscimento, in quanto l’art. 7 fa espresso riferimento solo ai Patti Lateranensi e non, anche, alle loro successive modifiche.
Si deve ritenere, pertanto, che il nuovo Concordato possa essere modificato con legge ordinaria
dello Stato. Per quanto, poi, riguarda il problema del contrasto delle norme concordatarie con
quelle costituzionali, l’orientamento della Corte Costituzionale è che le prime, pur non potendo
ritenersi costituzionalizzate, non sono tenute al rispetto di ogni norma costituzionale, ma solo dei
principi fondamentali della Costituzione. Il problema, comunque, si poneva in maniera spinosa
solo nei confronti del vecchio Concordato perché in quello nuovo sono stati eliminati i principali
motivi di attrito con la Costituzione.
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Le fonti del diritto ecclesiastico
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Il nuovo Concordato consta di tre elementi:
— il Preambolo, in cui si fa riferimento alle trasformazioni della società italiana a
partire dalla Costituzione repubblicana ed all’importanza del Concilio Vaticano II
nella vita della Chiesa Cattolica per motivare la revisione dei Patti Lateranensi;
— il testo vero e proprio in 14 articoli;
— il Protocollo addizionale, in 7 punti, che assicura, con opportune chiarificazioni,
la migliore applicazione dei Patti Lateranensi e delle modifiche convenute ed evita difficoltà interpretative.
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Per l’attuazione del suo contenuto sono stati già emanati alcuni provvedimenti legislativi e amministrativi quali:
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— la L. 20-5-1985, n. 222 recante «Disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia e per
il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi» (che ha sostituito, abrogandola, la cit. L. 848/1929 sugli enti ecclesiastici), nonché il regolamento di esecuzione approvato con D.P.R. 13-2-1987, n. 33;
— il D.P.R. 16-12-1985, n. 751 concernente la «Esecuzione dell’intesa tra l’autorità scolastica italiana e la Conferenza episcopale italiana per l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche» cui hanno fatto seguito provvedimenti specifici di attuazione
relativamente alla scuola materna (D.P.R. 24-6-1986, n. 539), alla scuola elementare (D.P.R.
8-5-1987, n. 204 e D.P.R. 26-2-1988, n. 161) alla scuola media (D.P.R. 21-7-1987, n. 350) e
alle scuole secondarie superiori (D.P.R. 21-7-1987, n. 339);
— il D.P.R. 22-2-1994, n. 175 concernente l’Approvazione dell’intesa Italia-Santa Sede per il
riconoscimento dei titoli accademici pontifici;
— il D.P.R. 26-9-1996, n. 571 che ratifica l’intesa tra il Ministero per i beni culturali e la C.E.I. per
la tutela dei beni culturali di interesse religioso appartenenti ad enti e istituzioni ecclesiastiche;
— il D.P.R. 27-10-1999, n. 421 recante la «Esecuzione dell’intesa sull’assistenza spirituale
al personale della Polizia di Stato di religione cattolica».
— il D.P.R. 16-5-2000, n. 189 recante la «Esecuzione dell’intesa fra il Ministro per i beni e le
attività culturali e il presidente della Conferenza episcopale italiana» in tema di conservazione e consultazione degli archivi d’interesse storico e delle biblioteche degli enti e istituzioni ecclesiastiche;
— il D.P.R. 30-3-2004, n. 121 recante l’«Approvazione degli obiettivi specifici di apprendimento propri dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole d’infanzia», cui
sono seguiti il D.P.R. 30-3-2004, n. 122 relativo alle scuole primarie e il D.P.R. 16-1-2006, n.
39 relativo agli istituti statali e paritari del secondo ciclo;
— il D.P.R. 4-2-2005, n. 78 recante l’«Esecuzione dell’intesa fra il Ministro per i beni e le
attività culturali ed il Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, firmata il 26 gennaio 2005, relativa alla tutela dei beni culturali di interesse religioso appartenenti a enti
e istituzioni ecclesiastiche».
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Dottrina
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Si discute, in dottrina, se anche le norme del nuovo Concordato del 1984 godano della stessa copertura costituzionale (sia pure nei limiti sopra precisati) dei Patti lateranensi del 1929.
Le univoche formulazioni del 4° comma del Preambolo e dell’art. 13, n. 1, che definiscono le norme
stesse «modificazioni consensuali del concordato lateranense» sembrano non lasciare dubbi circa
la sussistenza di tale «copertura».
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Capitolo 2
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Di parere contrario DE BERNARDIS il quale pone l’accento sull’intrinseco contenuto del nuovo
Concordato, che, a suo dire, si discosterebbe talmente da quello lateranense, «da non assomigliarli
nemmeno dal punto di vista meramente sistematico».
Per Tedeschi ciò che l’art. 7, 2° comma, Cost., aveva costituzionalizzato non erano le singole
norme degli accordi del ’29, ma il principio pattizio (v. infra §6), ossia il principio in base al quale
lo Stato non avrebbe proceduto, nelle materie di comune interesse, unilateralmente, ma in via bilaterale. Pertanto l’Autore considera l’art. 7 solo una dichiarazione di principio, che «vincolava il Parlamento a non legiferare in maniera contraria ai patti ed il governo ad eseguire gli impegni assunti».
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4.I principi del nuovo Concordato
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La struttura del nuovo Concordato è radicalmente diversa da quella precedente. In
luogo, infatti, di un ponderoso testo formulato in maniera minuziosa e casistica, esso
si presenta in un’agile struttura di appena 14 articoli volti, più che a regolamentare
specificamente i rapporti tra Stato e Chiesa, ad enunciare i principi ai quali tale regolamentazione dovrà ispirarsi. Ciò consente al Concordato di adattarsi con maggior
elasticità al mutare dello spirito dei tempi, garantendogli una maggior durata. Sono poi
previsti numerosi stralci su materie specifiche, la cui regolamentazione è rinviata ad
accordi successivi con l’autorità ecclesiastica.
Gli stralci in questione possono così riassumersi:
decisioni sulle festività religiose con valore civile (art. 6);
determinazione dei titoli accademici ecclesiastici riconoscibili dallo Stato;
organizzazione dell’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche (art. 9);
organizzazione dell’assistenza spirituale nelle forze armate, nelle carceri e negli ospedali (art.
11);
— conservazione ed uso dei beni culturali di proprietà ecclesiastica (art. 12);
— determinazione dei principi per la definizione degli enti ecclesiastici e per la revisione della
disciplina degli impegni finanziari e degli interventi dello Stato nella gestione patrimoniale dei
benefici ecclesiastici (art. 7).
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I principi fissati dal nuovo Concordato possono essere così riassunti:
a) Neutralità dello Stato in materia religiosa (art. 1)
Viene abrogato il principio della religione di Stato, e viene affermata la laicità
dello Stato (v. supra cap. 1°, §5). Neutralità dello Stato non significa, però, indifferenza dello Stato rispetto al fenomeno religioso: lo Stato, conscio dell’importanza che la religione riveste per la maggioranza dei suoi cittadini, s’impegna a garantire la piena realizzazione dell’individuo anche in questo campo, disinteressandosi
solo di quegli aspetti del fenomeno religioso che si collocano nella sfera dell’irrilevante giuridico. In quest’ottica si situa l’impegno dello Stato, previsto dall’art.
11, volto a garantire l’assistenza spirituale ai cittadini in determinate strutture
pubbliche: forze armate, polizia, ospedali, istituti di assistenza e di cura, istituti di
pena e di prevenzione, secondo modalità da stabilire con successive intese tra lo
Stato e l’autorità ecclesiastica.
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Le fonti del diritto ecclesiastico
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b) Completa autonomia dell’organizzazione ecclesiastica (art. 4)
La neutralità dello Stato in materia religiosa si traduce anche in una maggior libertà per la Chiesa: viene infatti abrogata la norma che prevedeva il gradimento dello
Stato per la nomina degli ecclesiastici con cura d’anime, permanendo soltanto
l’obbligo dell’autorità ecclesiastica di comunicare a quella civile le nomine effettuate.
c) Abrogazione dei privilegi per gli enti ecclesiastici (art. 7)
Viene a cadere tutta la serie di privilegi ed esenzioni accumulate dagli enti ecclesiastici. Viene riconosciuta personalità giuridica agli enti ecclesiastici con fine di
religione e di culto esistenti in Italia; agli effetti delle leggi tributarie tale fine viene equiparato a quelli di beneficenza ed istruzione. Le attività diverse da quelle di
culto sono invece soggette alle leggi dello Stato ed al regime tributario ordinario.
La regolamentazione della materia viene comunque demandata ad una commissione paritetica le cui conclusioni hanno formato oggetto della L. 20-5-1985 n. 222.
d) Disciplina del matrimonio cattolico (art. 8)
Il Concordato del 1929 riconosceva il matrimonio canonico quale sacramento e
quindi ne sanciva il carattere indissolubile. Il nuovo accordo, intervenuto dopo
l’emanazione, nel 1970, della legge sul divorzio, si limita a riconoscere effetti civili al matrimonio contratto secondo il diritto canonico. Viene inoltre abbandonato
il regime di esclusività della giurisdizione ecclesiastica in ordine alle cause relative ai matrimoni religiosi: le sentenze di nullità del matrimonio religioso pronunciate dai tribunali ecclesiastici non sono più indispensabili ai fini della cessazione
degli effetti civili del matrimonio canonico trascritto; esse possono essere dichiarate efficaci per lo Stato con lo stesso procedimento e con gli stessi presupposti
previsti per ogni altra sentenza straniera.
5.La Costituzione e i culti acattolici
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La disciplina dei culti acattolici (1) è contenuta nell’art. 8 della Costituzione che, dopo
aver sancito nel primo comma l’eguaglianza nella libertà di tutte le confessioni religiose (ivi compresa quella cattolica) stabilisce in particolare, al 2° e 3° comma:
«Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo
i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano.
I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative
rappresentanze».
L’art. 8, 2° comma, Cost., ricollegandosi al principio generale dell’art. 2, ha riconosciuto alle confessioni non cattoliche un ambito di autonomia e di libertà mai avute
nella passata legislazione ecclesiastica.
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(1) Tutta la normativa attualmente vigente, inerente la disciplina dei rapporti tra lo Stato italiano e le confessioni diverse dalla cattolica è esaminata unitariamente nel cap. 13° esclusivamente dedicato ai culti acattolici.
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Capitolo 2
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È stato, infatti, riservato ad esse il potere di autodeterminazione, cioè il potere di
porre norme efficaci anche nei confronti dello Stato, attraverso statuti interni alle singole confessioni. Il potere di autodeterminazione trova il suo limite nell’ordinamento
giuridico italiano con il quale gli statuti delle confessioni non debbono essere in contrasto. La dottrina prevalente è del parere che tale formula comprenda, quanto meno,
l’ordine pubblico e il buon costume.­­
Il 3° comma dell’art. 8 Cost. stabilisce che i rapporti fra Stato e confessioni religiose
diverse dalla cattolica «sono regolati per legge sulla base di intese con le relative
rappresentanze».
L’intesa, nella sua più elementare nozione, non è altro che un accordo tra la confessione religiosa e lo Stato su questioni concernenti sia l’una che l’altra parte.
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Dottrina
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Tale pratica ha indotto alcuni autori a riscontrare un certo parallelismo con la norma dell’art. 7, 2°
comma, Cost., configurando le intese come dei veri e propri concordati (BIANCONI, CASUSCELLI,
FINOCCHIARO).
Tale tesi non è accolta dalla dottrina prevalente (JEMOLO, DEL GIUDICE V., PETRONCELLI,
LARICCIA) in base alle seguenti considerazioni:
— le intese ex art. 8 Cost. esauriscono la loro funzione sul piano del diritto nazionale e costituiscono convenzioni di diritto pubblico interno;
— gli accordi o concordati ex art. 7 Cost. intervengono tra due ordinamenti giuridici primari (ciascuno nel suo ordine «indipendente e sovrano») con rilevanza internazionale.
È, comunque, da condividere in proposito l’opinione di CRISAFULLI secondo il quale ambedue le
norme si riconducono ad un principio comune più generale, prescrivente che la legislazione statale
in materia ecclesiastica non debba essere unilaterale, ma di regola preventivamente concordata.
Per quanto concerne il valore delle intese c’è da rilevare che una parte della dottrina ha attribuito,
alle intese stesse, la natura di semplici presupposti politici, negando sostanzialmente ad esse qualunque valore giuridico.
Dall’art. 8 Cost. deriverebbe non un obbligo, ma solo una facoltà per lo Stato; ove questi se ne avvalga e raggiunga l’intesa, ne consegue l’obbligo di emanazione di una legge conforme ad essa.
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6.Il principio pattizio
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Dal combinato disposto dell’art. 7, comma 2, secondo il quale i rapporti fra Stato e
Chiesa cattolica sono regolati dai Patti Lateranensi e le eventuali modificazioni agli
stessi devono essere concordate da entrambe le parti oppure richiedere il procedimento di revisione costituzionale, e dell’art. 8, comma 3, che affida alle intese la regolamentazione dei rapporti fra Stato e confessioni acattoliche, si evince che le relazioni
fra lo Stato e le confessioni religiose sono regolate da un principio, assurto a rango
costituzionale, secondo il quale le materie di interesse comune dell’ordine spirituale e
di quello temporale devono tendenzialmente essere regolate attraverso il previo accordo fra le parti (cd. principio pattizio).
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Esistono differenze tra i Patti lateranensi e le intese con i culti acattolici?
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Le fonti del diritto ecclesiastico
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Esistono, tuttavia, delle differenze fra i Patti Lateranensi e le intese con i culti acattolici. I primi sono veri e
propri trattati internazionali, le cui leggi di esecuzione assumono il rango di fonti atipiche, caratterizzate
da una forza passiva rinforzata rispetto alle altre leggi ordinarie. Le modifiche ai Patti, infatti, se concordate con la Chiesa non impongono un procedimento di revisione costituzionale, in tutti gli altri casi si. Le
leggi di esecuzione dei Patti non possono neppure essere soggette a referendum popolare. Quanto alle norme dei Patti, il richiamo esplicito contenuto nell’art. 7 ha prodotto diritto, per cui le stesse hanno ottenuto
copertura costituzionale anche se in nessun caso possono violare i principi supremi dell’ordinamento
costituzionale dello Stato (sentenza n. 30 del 1971).
Le intese sono invece atti di diritto interno, in relazione ai quali non sussiste un obbligo per lo Stato di
stipularle. Tuttavia, una volta che tali intese siano recepite in legge, quest’ultima gode di una forza passiva
rinforzata in quanto può essere modificata soltanto da successiva legge che recepisce una nuova intesa fra
le parti. Tuttavia, le leggi di recepimento delle intese restano leggi ordinarie e le norme in esse contenute
sono sindacabili dalla Corte costituzionale non solo quando violano i principi supremi, ma anche qualunque
altra norma di rango costituzionale.
se
Questionario
1. Come possono essere classificate le fonti del diritto ecclesiastico? (par. 1)
Es
2. In quali documenti si sostanziano i Patti Lateranensi? (par. 2)
3. Quali istanze recepisce il nuovo concordato? (par. 3)
4. A cosa fa riferimento il Protocollo addizionale del nuovo Concordato? (par. 3)
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5. Quali sono i principi fondanti del nuovo Concordato? (par. 4)
6. Quali limiti impone la Costituzione ai culti acattolici? (par. 5)
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7. Quali sono le differenze tra i Patti Lateranensi e le intese? (par. 6)
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Capitolo 2
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— artt. 19, 20, che riconoscono e tutelano la libertà religiosa e vietano trattamenti discriminatori fondati sul fine di culto o il carattere ecclesiastico degli
enti;
— artt. 17, 18 e 21, che sanciscono libertà strettamente connesse a quella religiosa quali la libertà di riunione, di associazione e di manifestazione del
pensiero;
— art. 33, che sancisce la libertà di insegnamento, anche religioso;
— artt. 7 e 8, che tracciano il regime dei rapporti con la Chiesa cattolica e le
confessioni acattoliche.
2) norme ordinarie generali:
— art. 629 c.c., che detta disposizioni a favore dell’anima;
— art. 831 c.c., che prevede disposizioni circa i beni ecclesiastici ed edifici di
culto;
— artt. 402-406, 664, 724 c.p. che prevedono delitti contro la religione;
3) norme ordinarie speciali: si tratta di norme emanate per disciplinare specificamente la materia ecclesiastica, tra cui particolarmente significativa è la L. 256-1929, n. 1159 che regola le confessioni acattoliche;
b) fonti di provenienza unilaterale confessionale, promananti da ordinamenti giuridici religiosi, come quelle di diritto canonico, cui lo Stato riconosce efficacia
giuridica poiché attengono a rapporti lasciati all’esclusiva regolamentazione dell’autorità religiosa;
c) fonti di provenienza bilaterale, che rivestono esteriormente il carattere di atti
unilaterali, poiché sono recepite in leggi dello Stato, ma trovano la loro fonte in
accordi bilaterali (fonte pattizia); tra le più importanti possiamo citare:
— L. 27-5-1929, n. 810, esecuzione dei Patti Lateranensi;
— L. 25-9-1985, n. 121, esecuzione del nuovo Concordato;
— trattato di pace del 10-2-1949, art. 15 sulla tutela delle minoranze religiose;
— L. 20-5-1985, n. 206, sulla disciplina della materia degli enti e beni ecclesiastici;
— varie leggi di attuazione delle intese stipulate con le confessioni acattoliche (v.
infra cap. 13°);
d) fonti regionali, che disciplinano materie attinenti al fenomeno religioso come
l’istruzione, la salute, la valorizzazione dei beni culturali, la promozione e organizzazione di attività culturali. La materia dei rapporti della Repubblica con le confessioni religiose resta, tuttavia, di esclusiva competenza statale, per cui un’eventuale legislazione regionale che recepisca accordi fra le Regioni e le confessioni
religiose non può che riguardare aspetti specifici, rientranti nella competenza legislativa regionale e direttamente connessi con interessi delle comunità territoriali
rappresentate dalle Regioni;
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Le fonti del diritto ecclesiastico
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e) fonti di diritto internazionale, promananti da soggetti di diritto internazionale che
trovano applicazione nell’ordinamento italiano mediante le leggi di esecuzione.
In tale categoria rientrano, ad esempio:
— il Trattato di pace del 10-2-1947, il cui art. 15 è dedicato alla tutela delle minoranze religiose;
— la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 10-12-1948, che all’art.
18 riconosce ad ogni individuo il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e
di religione. Tale diritto include anche la libertà di cambiare religione o credo,
e la libertà di manifestare, individualmente o in comune, e sia in pubblico che
in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti. La Dichiarazione è priva di valore
vincolante, essendo una semplice raccomandazione, e non prevede alcun meccanismo che garantisca la sua applicazione automatica;
f) fonti del diritto dell’Unione europea, che hanno profondamente inciso sugli ordinamenti giuridici degli Stati membri. La sempre maggiore centralità del tema dei
diritti fondamentali nell’Unione europea trova conferma nell’elaborazione, avvenuta nel 2000, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
La Carta riconosce la libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Tale diritto
include la libertà di cambiare religione o convinzione, così come la libertà di manifestare la propria religione o la propria convinzione individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e
l’osservanza dei riti. Il diritto all’obiezione di coscienza è riconosciuto secondo le
leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio (art. 10). La Carta afferma, inoltre,
il divieto di discriminazioni fondate sulla religione (art. 21) e stabilisce che l’Unione rispetta, fra l’altro, la diversità religiosa (art. 22).
Il nuovo Trattato dell’Unione europea, così come modificato dal Trattato di Lisbona,
all’art. 6 afferma che l’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella
Carta dei diritti fondamentali, che acquista lo stesso valore giuridico del Trattati.
Le disposizioni della Carta si applicano alle istituzioni europee come pure agli
Stati membri, ma esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione. I diritti
riconosciuti dalla Carta che trovano fondamento nei trattati europei si esercitano
alle condizioni e nei limiti definiti dai trattati stessi. Laddove, poi, la Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla CEDU, il significato e la portata
degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta CEDU, ferma restando la
possibilità per l’Unione di concedere una protezione più estesa. Infine la Carta non
va interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti dalle Costituzioni degli Stati membri.
Con riferimento, infine, alle manifestazioni collettive ed organizzate del fenomeno
religioso, l’art. 17 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea dispone che
l’Unione rispetta e non pregiudica lo status previsto nelle legislazioni nazionali per
le chiese e le associazioni o comunità religiose degli Stati membri precisando che, nel
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riconoscere l’identità e il contributo specifico, mantiene un dialogo aperto, trasparente e regolare con le chiese e le organizzazioni filosofiche e non confessionali.
Altro documento fondamentale adottato nell’ambito europeo è la Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
(CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950 nell’ambito del Consiglio d’Europa
e divenuta esecutiva in Italia con L. 4 agosto 1955, n. 848.
La CEDU (art. 9) riconosce ad ogni persona il diritto alla libertà di pensiero, di
coscienza e di religione. Tale diritto include la libertà di cambiare religione o pensiero, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio pensiero
individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto,
l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti. La libertà di religione può essere oggetto di restrizioni soltanto con misure stabilite per legge e necessarie, in
una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della
salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.
Fra le pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia religiosa più
significative, si ricordano quelle che hanno avuto ad oggetto: il proselitismo, la
tutela della sensibilità religiosa della maggioranza, la libertà religiosa dei gruppi
di minoranza, la libertà di auto-organizzarsi delle comunità religiose, con particolare riferimento alla possibilità di scegliersi i propri rappresentanti senza ingerenze
delle pubbliche autorità, la libertà di religione collegata alla libertà di associazione, i simboli religiosi, l’insegnamento religioso obbligatorio, la discriminazione
sul lavoro per motivi religiosi.
Da ultimo, va segnalato che, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (Dichiarazione n. 2, nuovo art. 6 TUE), è stata prevista l’adesione dell’Unione europea
alla CEDU: «L’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali […] I diritti fondamentali, garantiti
dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri,
fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali».
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Capitolo 2
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2.L’art. 7 della Costituzione ed i Patti Lateranensi
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I rapporti tra lo Stato e la Chiesa Cattolica sono regolati dall’art. 7 Cost. che:
— al primo comma, sancisce che lo Stato e la Chiesa Cattolica sono, ciascuno nel
proprio ordine, indipendenti e sovrani;
— al secondo comma, sancisce che i rapporti tra Stato e Chiesa sono regolati dai
Patti Lateranensi la cui modifica, se non concordata dalle parti, richiede il procedimento di revisione costituzionale.
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Il primo comma enuncia il riconoscimento della Chiesa Cattolica come ordinamento
autonomo ed originario: ciò significa che il diritto canonico, ossia le norme prodotte
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Le fonti del diritto ecclesiastico
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dall’ordinamento ecclesiastico, è frutto di un ordinamento sovrano e quindi ha valore
in sé e non in virtù di un riconoscimento statale. Tale norma pone però anche una limitazione a questo riconoscimento, affermando che quest’autorità è riconosciuta alla
Chiesa solo nel proprio ordine, e cioè nel limiti in cui non venga messa in discussione
la sovranità dello Stato ed il rispetto delle sue leggi.
Il secondo comma ha la funzione di garantire la Chiesa Cattolica da un’eventuale arbitraria decisione dello Stato di regolare unilateralmente i propri rapporti con la Chiesa stessa, attribuendo valore di norma Costituzionale ai Patti Lateranensi, cioè agli
accordi stipulati tra Stato e Chiesa l’11 febbraio 1929.
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Storicamente i Patti Lateranensi rappresentarono la risoluzione di tutti i motivi di attrito tra lo Stato Italiano e la Chiesa Cattolica sorti in seguito alla presa di Roma nel 1870 e comunemente noti
come questione romana (v. supra cap. 1°, §7). Infatti, dopo la presa di Roma da parte del Regno
d’Italia, i rapporti con la Chiesa furono unilateralmente regolati con la legge 214 del 13 marzo 1871,
la c.d. «legge delle Guarentigie», che formalmente si preoccupava di garantire rendite, immunità
e privilegi al Sommo Pontefice ma che non fu mai accettata dalla Chiesa perché, essendo una
legge interna dello Stato Italiano, non presentava garanzie di stabilità potendo essere, in qualsiasi momento, abrogata da un’altra legge ordinaria dello Stato (Enciclica «Ubi nos» del 15-5-1871);
questa preoccupazione fu superata con la stipula dei Patti Lateranensi, che si qualificavano come
un accordo bilaterale tra ordinamenti sovrani. Alle preoccupazioni della Chiesa venne incontro
anche la Costituzione Repubblicana che, prevedendo per la modifica unilaterale dei Patti il procedimento di revisione costituzionale, diede loro la richiesta garanzia di stabilità.
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I Patti Lateranensi constavano di tre distinti documenti:
— il Trattato, che risolveva la questione dello stato territoriale della Chiesa riconoscendo la sovranità del Pontefice sullo Stato della Città del Vaticano, esteso su un
territorio di 0,44 kmq all’interno della città di Roma;
— il Concordato, che regolava i rapporti tra lo Stato e la Chiesa in Italia;
— la Convenzione finanziaria, con la quale furono regolate le questioni sorte dopo le
spoliazioni degli enti ecclesiastici a seguito delle leggi eversive.
Punti qualificanti del Concordato del 1929
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— riconoscimento della religione cattolica quale religione di Stato (art. 1 del Trattato);
— una serie di privilegi per gli ecclesiastici (artt. 3, 4, 7);
— preventiva approvazione dello Stato per le nomine dei Vescovi e dei Parroci, e giuramento di fedeltà allo Stato italiano dei Vescovi (artt. 19-23);
— riconoscimento, da parte dello Stato, dei provvedimenti emanati dall’autorità ecclesiastica in materia spirituale e disciplinare contro ecclesiastici (art. 5 correlato con l’art. 23 del
Trattato);
— particolare regime di favore, finanziario e fiscale, per gli enti ecclesiastici (art. 29, 3°
comma);
— intervento finanziario a favore del clero, la c.d. congrua (art. 30);
— riconoscimento degli effetti civili del matrimonio religioso e riserva ai tribunali ecclesiastici delle cause relative (art. 34);
— insegnamento della dottrina cristiana in tutte le scuole pubbliche, eccettuate le università,
considerato «fondamento e coronamento» dell’istruzione pubblica (art. 36).
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Capitolo 2
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Dottrina
3.Il nuovo Concordato
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Ci si è chiesto se il legislatore, richiamando esplicitamente i Patti Lateranensi come fonte per regolare i rapporti tra Stato e Chiesa, li abbia, di fatto, costituzionalizzati.
Da qui la non ancora sopita polemica tra:
— i c.d. curialisti (cioè i paladini della posizione di superiorità della Chiesa) i quali sostengono, con
svariati motivi, una «forza» superiore (rango costituzionale o meno) delle norme concordatarie:
tali autori vengono anche denominati ecclesiasticisti;
— i c.d. regalisti (cioè i giuristi laicisti) i quali si sforzano di dimostrare il rango ordinario delle
norme concordatarie per evitare che i privilegi da esse stabilite a favore della Chiesa possano
intaccare i principi di uguaglianza e libertà sanciti dalla Costituzione.
La dottrina dominante (in un primo momento favorevole) ha poi escluso tale costituzionalizzazione
per un duplice ordine di motivi:
1) il contenuto di molteplici norme dei Patti, oltre a non essere più conforme ai principi ispiratori
della Costituzione, è relativo a rapporti concreti e non avrebbe, quindi, carattere «materialmente»
costituzionale;
2) la possibilità, prevista dal 2° comma dell’art. 7, di modifica dei Patti a mezzo dell’ordinario procedimento legislativo, comporterebbe (ove si riconoscesse la costituzionalità delle norme pattizie)
per alcune norme costituzionali (in aperto contrasto con il principio dell’art. 138 Cost.), forme di
revisione diverse da quelle previste per tutte le altre e sottratte interamente agli interventi popolari
(MORTATI).
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Il Concordato del 1929 con il trascorrere del tempo è divenuto superato, sia perché la
posizione di privilegio concessa alla Chiesa contrastava con i valori di eguaglianza
espressi dalla nuova Costituzione repubblicana, sia perché esso non era più consono
alla nuova visione dei rapporti tra Chiesa e mondo contemporaneo emersa dopo il
Concilio Vaticano II.
Esso, pertanto, dopo laboriose trattative, è stato sostituito da un nuovo accordo tra la
Repubblica Italiana e la Santa Sede stipulato il 18 febbraio 1984 ed entrato in vigore il
4 giugno 1985 e comunemente denominato nuovo Concordato. Tale accordo, anche
se formalmente definito «di modifica» del precedente Concordato, costituisce in realtà
uno strumento radicalmente nuovo di regolamentazione dei rapporti tra Stato e Chiesa.
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Rispetto al nuovo Concordato si è posto il problema se questo sia coperto dalla stessa garanzia
prevista per il precedente accordo dall’art. 7, e cioè il procedimento aggravato per la modifica
unilaterale; la dottrina prevalente ha assunto una posizione contraria rispetto a tale riconoscimento, in quanto l’art. 7 fa espresso riferimento solo ai Patti Lateranensi e non, anche, alle loro successive modifiche.
Si deve ritenere, pertanto, che il nuovo Concordato possa essere modificato con legge ordinaria
dello Stato. Per quanto, poi, riguarda il problema del contrasto delle norme concordatarie con
quelle costituzionali, l’orientamento della Corte Costituzionale è che le prime, pur non potendo
ritenersi costituzionalizzate, non sono tenute al rispetto di ogni norma costituzionale, ma solo dei
principi fondamentali della Costituzione. Il problema, comunque, si poneva in maniera spinosa
solo nei confronti del vecchio Concordato perché in quello nuovo sono stati eliminati i principali
motivi di attrito con la Costituzione.
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Le fonti del diritto ecclesiastico
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Il nuovo Concordato consta di tre elementi:
— il Preambolo, in cui si fa riferimento alle trasformazioni della società italiana a
partire dalla Costituzione repubblicana ed all’importanza del Concilio Vaticano II
nella vita della Chiesa Cattolica per motivare la revisione dei Patti Lateranensi;
— il testo vero e proprio in 14 articoli;
— il Protocollo addizionale, in 7 punti, che assicura, con opportune chiarificazioni,
la migliore applicazione dei Patti Lateranensi e delle modifiche convenute ed evita difficoltà interpretative.
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Per l’attuazione del suo contenuto sono stati già emanati alcuni provvedimenti legislativi e amministrativi quali:
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— la L. 20-5-1985, n. 222 recante «Disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia e per
il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi» (che ha sostituito, abrogandola, la cit. L. 848/1929 sugli enti ecclesiastici), nonché il regolamento di esecuzione approvato con D.P.R. 13-2-1987, n. 33;
— il D.P.R. 16-12-1985, n. 751 concernente la «Esecuzione dell’intesa tra l’autorità scolastica italiana e la Conferenza episcopale italiana per l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche» cui hanno fatto seguito provvedimenti specifici di attuazione
relativamente alla scuola materna (D.P.R. 24-6-1986, n. 539), alla scuola elementare (D.P.R.
8-5-1987, n. 204 e D.P.R. 26-2-1988, n. 161) alla scuola media (D.P.R. 21-7-1987, n. 350) e
alle scuole secondarie superiori (D.P.R. 21-7-1987, n. 339);
— il D.P.R. 22-2-1994, n. 175 concernente l’Approvazione dell’intesa Italia-Santa Sede per il
riconoscimento dei titoli accademici pontifici;
— il D.P.R. 26-9-1996, n. 571 che ratifica l’intesa tra il Ministero per i beni culturali e la C.E.I. per
la tutela dei beni culturali di interesse religioso appartenenti ad enti e istituzioni ecclesiastiche;
— il D.P.R. 27-10-1999, n. 421 recante la «Esecuzione dell’intesa sull’assistenza spirituale
al personale della Polizia di Stato di religione cattolica».
— il D.P.R. 16-5-2000, n. 189 recante la «Esecuzione dell’intesa fra il Ministro per i beni e le
attività culturali e il presidente della Conferenza episcopale italiana» in tema di conservazione e consultazione degli archivi d’interesse storico e delle biblioteche degli enti e istituzioni ecclesiastiche;
— il D.P.R. 30-3-2004, n. 121 recante l’«Approvazione degli obiettivi specifici di apprendimento propri dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole d’infanzia», cui
sono seguiti il D.P.R. 30-3-2004, n. 122 relativo alle scuole primarie e il D.P.R. 16-1-2006, n.
39 relativo agli istituti statali e paritari del secondo ciclo;
— il D.P.R. 4-2-2005, n. 78 recante l’«Esecuzione dell’intesa fra il Ministro per i beni e le
attività culturali ed il Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, firmata il 26 gennaio 2005, relativa alla tutela dei beni culturali di interesse religioso appartenenti a enti
e istituzioni ecclesiastiche».
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Dottrina
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Si discute, in dottrina, se anche le norme del nuovo Concordato del 1984 godano della stessa copertura costituzionale (sia pure nei limiti sopra precisati) dei Patti lateranensi del 1929.
Le univoche formulazioni del 4° comma del Preambolo e dell’art. 13, n. 1, che definiscono le norme
stesse «modificazioni consensuali del concordato lateranense» sembrano non lasciare dubbi circa
la sussistenza di tale «copertura».
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Capitolo 2
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Di parere contrario DE BERNARDIS il quale pone l’accento sull’intrinseco contenuto del nuovo
Concordato, che, a suo dire, si discosterebbe talmente da quello lateranense, «da non assomigliarli
nemmeno dal punto di vista meramente sistematico».
Per Tedeschi ciò che l’art. 7, 2° comma, Cost., aveva costituzionalizzato non erano le singole
norme degli accordi del ’29, ma il principio pattizio (v. infra §6), ossia il principio in base al quale
lo Stato non avrebbe proceduto, nelle materie di comune interesse, unilateralmente, ma in via bilaterale. Pertanto l’Autore considera l’art. 7 solo una dichiarazione di principio, che «vincolava il Parlamento a non legiferare in maniera contraria ai patti ed il governo ad eseguire gli impegni assunti».
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4.I principi del nuovo Concordato
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La struttura del nuovo Concordato è radicalmente diversa da quella precedente. In
luogo, infatti, di un ponderoso testo formulato in maniera minuziosa e casistica, esso
si presenta in un’agile struttura di appena 14 articoli volti, più che a regolamentare
specificamente i rapporti tra Stato e Chiesa, ad enunciare i principi ai quali tale regolamentazione dovrà ispirarsi. Ciò consente al Concordato di adattarsi con maggior
elasticità al mutare dello spirito dei tempi, garantendogli una maggior durata. Sono poi
previsti numerosi stralci su materie specifiche, la cui regolamentazione è rinviata ad
accordi successivi con l’autorità ecclesiastica.
Gli stralci in questione possono così riassumersi:
decisioni sulle festività religiose con valore civile (art. 6);
determinazione dei titoli accademici ecclesiastici riconoscibili dallo Stato;
organizzazione dell’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche (art. 9);
organizzazione dell’assistenza spirituale nelle forze armate, nelle carceri e negli ospedali (art.
11);
— conservazione ed uso dei beni culturali di proprietà ecclesiastica (art. 12);
— determinazione dei principi per la definizione degli enti ecclesiastici e per la revisione della
disciplina degli impegni finanziari e degli interventi dello Stato nella gestione patrimoniale dei
benefici ecclesiastici (art. 7).
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I principi fissati dal nuovo Concordato possono essere così riassunti:
a) Neutralità dello Stato in materia religiosa (art. 1)
Viene abrogato il principio della religione di Stato, e viene affermata la laicità
dello Stato (v. supra cap. 1°, §5). Neutralità dello Stato non significa, però, indifferenza dello Stato rispetto al fenomeno religioso: lo Stato, conscio dell’importanza che la religione riveste per la maggioranza dei suoi cittadini, s’impegna a garantire la piena realizzazione dell’individuo anche in questo campo, disinteressandosi
solo di quegli aspetti del fenomeno religioso che si collocano nella sfera dell’irrilevante giuridico. In quest’ottica si situa l’impegno dello Stato, previsto dall’art.
11, volto a garantire l’assistenza spirituale ai cittadini in determinate strutture
pubbliche: forze armate, polizia, ospedali, istituti di assistenza e di cura, istituti di
pena e di prevenzione, secondo modalità da stabilire con successive intese tra lo
Stato e l’autorità ecclesiastica.
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b) Completa autonomia dell’organizzazione ecclesiastica (art. 4)
La neutralità dello Stato in materia religiosa si traduce anche in una maggior libertà per la Chiesa: viene infatti abrogata la norma che prevedeva il gradimento dello
Stato per la nomina degli ecclesiastici con cura d’anime, permanendo soltanto
l’obbligo dell’autorità ecclesiastica di comunicare a quella civile le nomine effettuate.
c) Abrogazione dei privilegi per gli enti ecclesiastici (art. 7)
Viene a cadere tutta la serie di privilegi ed esenzioni accumulate dagli enti ecclesiastici. Viene riconosciuta personalità giuridica agli enti ecclesiastici con fine di
religione e di culto esistenti in Italia; agli effetti delle leggi tributarie tale fine viene equiparato a quelli di beneficenza ed istruzione. Le attività diverse da quelle di
culto sono invece soggette alle leggi dello Stato ed al regime tributario ordinario.
La regolamentazione della materia viene comunque demandata ad una commissione paritetica le cui conclusioni hanno formato oggetto della L. 20-5-1985 n. 222.
d) Disciplina del matrimonio cattolico (art. 8)
Il Concordato del 1929 riconosceva il matrimonio canonico quale sacramento e
quindi ne sanciva il carattere indissolubile. Il nuovo accordo, intervenuto dopo
l’emanazione, nel 1970, della legge sul divorzio, si limita a riconoscere effetti civili al matrimonio contratto secondo il diritto canonico. Viene inoltre abbandonato
il regime di esclusività della giurisdizione ecclesiastica in ordine alle cause relative ai matrimoni religiosi: le sentenze di nullità del matrimonio religioso pronunciate dai tribunali ecclesiastici non sono più indispensabili ai fini della cessazione
degli effetti civili del matrimonio canonico trascritto; esse possono essere dichiarate efficaci per lo Stato con lo stesso procedimento e con gli stessi presupposti
previsti per ogni altra sentenza straniera.
5.La Costituzione e i culti acattolici
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La disciplina dei culti acattolici (1) è contenuta nell’art. 8 della Costituzione che, dopo
aver sancito nel primo comma l’eguaglianza nella libertà di tutte le confessioni religiose (ivi compresa quella cattolica) stabilisce in particolare, al 2° e 3° comma:
«Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo
i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano.
I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative
rappresentanze».
L’art. 8, 2° comma, Cost., ricollegandosi al principio generale dell’art. 2, ha riconosciuto alle confessioni non cattoliche un ambito di autonomia e di libertà mai avute
nella passata legislazione ecclesiastica.
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(1) Tutta la normativa attualmente vigente, inerente la disciplina dei rapporti tra lo Stato italiano e le confessioni diverse dalla cattolica è esaminata unitariamente nel cap. 13° esclusivamente dedicato ai culti acattolici.
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Capitolo 2
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È stato, infatti, riservato ad esse il potere di autodeterminazione, cioè il potere di
porre norme efficaci anche nei confronti dello Stato, attraverso statuti interni alle singole confessioni. Il potere di autodeterminazione trova il suo limite nell’ordinamento
giuridico italiano con il quale gli statuti delle confessioni non debbono essere in contrasto. La dottrina prevalente è del parere che tale formula comprenda, quanto meno,
l’ordine pubblico e il buon costume.­­
Il 3° comma dell’art. 8 Cost. stabilisce che i rapporti fra Stato e confessioni religiose
diverse dalla cattolica «sono regolati per legge sulla base di intese con le relative
rappresentanze».
L’intesa, nella sua più elementare nozione, non è altro che un accordo tra la confessione religiosa e lo Stato su questioni concernenti sia l’una che l’altra parte.
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Dottrina
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Tale pratica ha indotto alcuni autori a riscontrare un certo parallelismo con la norma dell’art. 7, 2°
comma, Cost., configurando le intese come dei veri e propri concordati (BIANCONI, CASUSCELLI,
FINOCCHIARO).
Tale tesi non è accolta dalla dottrina prevalente (JEMOLO, DEL GIUDICE V., PETRONCELLI,
LARICCIA) in base alle seguenti considerazioni:
— le intese ex art. 8 Cost. esauriscono la loro funzione sul piano del diritto nazionale e costituiscono convenzioni di diritto pubblico interno;
— gli accordi o concordati ex art. 7 Cost. intervengono tra due ordinamenti giuridici primari (ciascuno nel suo ordine «indipendente e sovrano») con rilevanza internazionale.
È, comunque, da condividere in proposito l’opinione di CRISAFULLI secondo il quale ambedue le
norme si riconducono ad un principio comune più generale, prescrivente che la legislazione statale
in materia ecclesiastica non debba essere unilaterale, ma di regola preventivamente concordata.
Per quanto concerne il valore delle intese c’è da rilevare che una parte della dottrina ha attribuito,
alle intese stesse, la natura di semplici presupposti politici, negando sostanzialmente ad esse qualunque valore giuridico.
Dall’art. 8 Cost. deriverebbe non un obbligo, ma solo una facoltà per lo Stato; ove questi se ne avvalga e raggiunga l’intesa, ne consegue l’obbligo di emanazione di una legge conforme ad essa.
ig
6.Il principio pattizio
C
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Dal combinato disposto dell’art. 7, comma 2, secondo il quale i rapporti fra Stato e
Chiesa cattolica sono regolati dai Patti Lateranensi e le eventuali modificazioni agli
stessi devono essere concordate da entrambe le parti oppure richiedere il procedimento di revisione costituzionale, e dell’art. 8, comma 3, che affida alle intese la regolamentazione dei rapporti fra Stato e confessioni acattoliche, si evince che le relazioni
fra lo Stato e le confessioni religiose sono regolate da un principio, assurto a rango
costituzionale, secondo il quale le materie di interesse comune dell’ordine spirituale e
di quello temporale devono tendenzialmente essere regolate attraverso il previo accordo fra le parti (cd. principio pattizio).
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p.
Esistono differenze tra i Patti lateranensi e le intese con i culti acattolici?
A
 27
Le fonti del diritto ecclesiastico
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S.
Esistono, tuttavia, delle differenze fra i Patti Lateranensi e le intese con i culti acattolici. I primi sono veri e
propri trattati internazionali, le cui leggi di esecuzione assumono il rango di fonti atipiche, caratterizzate
da una forza passiva rinforzata rispetto alle altre leggi ordinarie. Le modifiche ai Patti, infatti, se concordate con la Chiesa non impongono un procedimento di revisione costituzionale, in tutti gli altri casi si. Le
leggi di esecuzione dei Patti non possono neppure essere soggette a referendum popolare. Quanto alle norme dei Patti, il richiamo esplicito contenuto nell’art. 7 ha prodotto diritto, per cui le stesse hanno ottenuto
copertura costituzionale anche se in nessun caso possono violare i principi supremi dell’ordinamento
costituzionale dello Stato (sentenza n. 30 del 1971).
Le intese sono invece atti di diritto interno, in relazione ai quali non sussiste un obbligo per lo Stato di
stipularle. Tuttavia, una volta che tali intese siano recepite in legge, quest’ultima gode di una forza passiva
rinforzata in quanto può essere modificata soltanto da successiva legge che recepisce una nuova intesa fra
le parti. Tuttavia, le leggi di recepimento delle intese restano leggi ordinarie e le norme in esse contenute
sono sindacabili dalla Corte costituzionale non solo quando violano i principi supremi, ma anche qualunque
altra norma di rango costituzionale.
se
Questionario
1. Come possono essere classificate le fonti del diritto ecclesiastico? (par. 1)
Es
2. In quali documenti si sostanziano i Patti Lateranensi? (par. 2)
3. Quali istanze recepisce il nuovo concordato? (par. 3)
4. A cosa fa riferimento il Protocollo addizionale del nuovo Concordato? (par. 3)
©
5. Quali sono i principi fondanti del nuovo Concordato? (par. 4)
6. Quali limiti impone la Costituzione ai culti acattolici? (par. 5)
C
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7. Quali sono le differenze tra i Patti Lateranensi e le intese? (par. 6)
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S.
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