LA SINDROME DA IMMUNO-DEFICIENZA ACQUISITA (AIDS)

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LA SINDROME DA IMMUNO-DEFICIENZA ACQUISITA
(AIDS)
La sigla sta per Sindrome da Immuno-Deficienza Acquisita (Acquired Immuno-Deficiency
Syndrome). La malattia è caratterizzata dal progressivo indebolimento di tutte le difese
immunitarie dell'organismo, quelle cioè che si mobilitano quando il corpo viene aggredito da
microrganismi esterni, come batteri e virus.
ORIGINI DELL'HIV
Introduzione
Nel 1981 i CDC di Atlanta (Centers for Diseases Control) segnalarono il riscontro di alcuni casi
di una rara forma di polmonite, la Polmonite da Pneumocystis carinii, in omosessuali maschi di
Los Angeles. Successive osservazioni portarono a stabilire che queste polmoniti interessavano
soggetti con immunodepressione, e che si manifestavano prevalentemente in chi aveva avuto
trasfusioni di sangue o comportamenti sessuali a rischio. In tal modo venne ipotizzata la
presenza di un agente infettivo trasmissibile.
Nel luglio 1982, dato l'incremento del numero di questi casi, le autorità sanitarie americane
coniarono il termine di AIDS (Acquired ImmunoDeficiency Syndrome) per questa nuova
patologia. Nel maggio 1983 il gruppo di Luc Montagnier dell'Istituto Pasteur di Parigi segnalò
l'identificazione di un Retrovirus che poteva essere il responsabile dell'AIDS; questa scoperta
fu confermata nello stesso anno da Robert Gallo del National Cancer Institute di Bethesda, il
quale a sua volta fu in grado di isolare lo stesso virus dal sangue di alcuni malati di AIDS.
Questo virus venne inizialmente denominato HTLV-III (Human T-Lymphocytotropic virus tipo
3), data la sua somiglianza con l'HTLV-I, un Retrovirus responsabile di alcune forme di
leucemia. In seguito si scoprì che questo virus aveva delle caratteristiche biologiche diverse da
quelle dei Retrovirus noti fino a quel momento, per cui venne chiamato con il nuovo termine di
HIV (Human Immunodeficiency Virus).
Nel marzo 1985 la FDA (Food and Drug Administration) approvò il primo test per la
determinazione degli anticorpi contro il virus HIV, che venne immediatamente introdotto tra gli
esami eseguiti per la sorveglianza di routine dei donatori di sangue. Due anni dopo, nel marzo
1987, venne registrato negli Stati Uniti il primo farmaco attivo contro l'HIV, la Zidovudina
(AZT).
Nel 1991, dopo un decennio dall'inizio dell'epidemia, l'OMS (Organizzazione Mondiale della
Sanità) rese noto che circa 10 milioni di persone in tutto il mondo avevano contratto
l'infezione, e che circa la metà di queste erano già decedute per AIDS. Nel 1992 furono
effettuati i primi studi finalizzati a dimostrare l'efficacia di una terapia con due farmaci, mentre
nel dicembre 1995 la FDA approvò il Saquinavir, il primo di una nuova e promettente classe di
farmaci, gli inibitori delle proteasi. Nel luglio 1996, in occasione della 11a Conferenza
Internazionale sull'AIDS tenutasi a Vancouver, Canada, sono stati riportati i successi dei nuovi
regimi di terapia combinata con almeno tre farmaci, in grado di azzerare la replicazione virale
nel sangue nella maggior parte dei soggetti trattati, arrestando così l'evoluzione dell'infezione.
L'OMS ha stimato che nel corso del 1997 circa 5,8 milioni di persone hanno contratto l'HIV
(delle quali 590.000 sono bambini) ad un ritmo di circa 16.000 nuove infezioni al giorno, e che
2,3 milioni di persone sono decedute di AIDS. Nel 1998 sempre l'OMS stima che siano oltre 30
milioni le persone infettate dal virus, con almeno 12 milioni di deceduti dall'inizio dell'epidemia.
L'entusiasmo provocato nei Paesi Occidentali dai successi dei nuovi regimi terapeutici si
scontra con la realtà epidemiologica dell'infezione: infatti la grande maggioranza delle persone
HIV positive, circa l'85-90%, è concentrata nei Paesi in via di sviluppo e principalmente
nell'Africa sub-Sahariana, Paesi che non possono permettersi l'elevato costo dei farmaci
indispensabili per la terapia. La Conferenza Internazionale sull'AIDS che si è tenuta a Ginevra
nel giugno 1998, il cui motto era Bridging the Gap, ha sottolineato questi aspetti, e proprio
per questi motivi l'ultima Conferenza Mondiale del giugno 2000, si è svolta a Durban, in
Sudafrica.
Le origini dell'HIV
Sebbene varie ipotesi siano state fatte nel corso degli ultimi 15 anni, è ormai chiaro che l'HIV
si è formato attraverso un processo di evoluzione naturale. La teoria che ha trovato maggiori
consensi circa l'origine dell'HIV sostiene infatti che questo virus sia derivato da mutazioni
genetiche di un virus che colpisce alcune specie di scimpanzé africani, il SIV (Scimmian
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Immunodeficiency Virus); tramite studi di biologia molecolare è stato possibile stabilire una
relazione fra l'HIV ed il SIV, identificando una omologia genetica del 98% tra questi due virus,
ed arrivando a costruire un vero e proprio albero genealogico virale. L'infezione da HIV sarebbe
pertanto una zoonosi, cioè una infezione trasmessa all'uomo da altre specie animali: l'HIV
sarebbe migrato dal serbatoio dei primati a quello umano probabilmente con la cacciagione
oppure tramite riti tribali che comportavano il contatto con il sangue di questi animali. Il SIV
sarebbe poi mutato nell'HIV nel corso di molti anni attraverso successive variazioni genetiche.
Tale ipotesi è stata recentemente confermata dal lavoro di un gruppo di ricercatori della
University of Alabama di Birmingham, presentata alla 6a Conferenza sui Retrovirus e sulle
Infezioni Opportunistiche tenutasi a Chicago nel febbraio 1999, dove una particolare specie di
scimpanzé, il Pan troglodytes troglodytes, è stata riconosciuta quale più probabile sorgente
dell'infezione per l'uomo.
L'HIV sarebbe quindi verosimilmente esistito per lungo tempo in piccole comunità tribali
dell'Africa. L'urbanizzazione, soprattutto durante il colonialismo, ha portato a grandi
spostamenti di persone e all'acquisizione di costumi più liberi, con conseguente aumento degli
scambi sessuali, dovuti anche alla prostituzione. Questi movimenti hanno favorito la diffusione
dell'HIV, creando così una "base" di individui infetti, sufficiente alla futura espansione
dell'infezione. In seguito, vari fattori quali i contatti con l'Occidente, l'uso di siringhe
ipodermiche non sterili per le campagne di vaccinazione, l'impiego di emotrasfusioni nei casi di
malaria, hanno favorito la diffusione dell'HIV. Nell'Occidente, libertà sessuale e
tossicodipendenza hanno poi originato l'epidemia che abbiamo conosciuto negli anni '80 e '90.
Un articolo pubblicato sulla rivista Nature dal gruppo di David Ho (direttore del Aaron Diamone
AIDS Research Center di New York), ha riportato la scoperta di tracce del menoma dell'HIV in
un campione di sangue appartenente ad un uomo vissuto a Kinshasa (Congo) e deceduto nel
1959. Tramite analisi molecolari di questo virus, confrontato con altri ceppi virali isolati più
recentemente, è stato possibile stimare l'origine dell'HIV prima del 1940, ipotizzando quindi
che la trasmissione del virus dallo scimpanzé all'uomo sarebbe avvenuta per la prima volta
circa 60 anni fa.
In un altro lavoro, recentemente pubblicato sulla rivista Science, l'analisi di sequenze
genetiche del virus, elaborate con sofisticati modelli statistici e con l'ausilio di supercomputers,
ha permesso di stimare che il ceppo originario dell'HIV risalga fin dal 1931.
CARATTERISTICHE DEL VIRUS
L'HIV è un virus con menoma ad RNA appartenente alla famiglia dei Retrovirus, genere
Lentivirus. Attualmente se ne conoscono due tipi: HIV-1, diffuso in tutto il mondo (quello che
abitualmente conosciamo) e HIV-2, presente solo in alcuni Paesi africani e meno virulento del
tipo 1.
Come molti altri tipi di virus, l'HIV è composto schematicamente da tre parti
1) Envelope: è il rivestimento esterno, formato da una membrana lipidica e da "proiezioni"
proteiche, costituite da due glicoproteine denominate gp120 e gp41: la gp41 forma la base di
queste proiezioni, mentre la gp120 forma la parte più esterna. Queste strutture sono
importanti per i meccanismi che permettono al virus di legarsi alle cellule bersaglio.
2) Matrice: strato proteico situato all'interno dell'envelope, che circonda la parte centrale del
virus. Contribuisce alla stabilità strutturale della particella virale.
3) Core : circondato dalla matrice, il core contiene le parti vitali del virus: il materiale
genetico, costituito da due catene di RNA, e gli enzimi fondamentali per i processi di
replicazione virale, quali la transcriptasi inversa (p51), l'integrasi (p32) e la proteasi (p11).
L'RNA contiene tre geni principali che codificano la sintesi di importanti componenti strutturali
e funzionali del virus:
- env: codifica la produzione della glicoproteina gp160, la quale poi si scinde a formare la
glicoproteina di superficie gp120 e la glicoproteina transmembrana gp41, entrambe presenti
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nell'envelope;
- pol: codifica la sintesi degli enzimi transcriptasi inversa, integrasi e proteasi;
- gag: codifica la sintesi della proteina nucleocapsidica p24.
Sono poi presenti altri geni, tat, nef, rev, ecc., responsabili della regolazione delle diverse fasi
del ciclo replicativo del virus.
Replicazione dell'HIV
L'HIV, come tutti i virus, è incapace di replicarsi autonomamente, in quanto necessita
dell'apparato metabolico di una cellula; il ciclo replicativo dell'HIV viene solitamente suddiviso
in varie fasi.
1) Adesione: per poter penetrare nella cellula bersaglio l'HIV deve prima di tutto legarsi ad
essa; il virus si può legare a cellule che abbiano sulla loro superficie uno specifico recettore,
denominato CD4, al quale aderisce tramite una specifica porzione dell'envelope, costituita da
due glicoproteine: la gp120, più esterna, e la gp41, situata più internamente.
Il primo legame avviene quindi tra la gp120 ed il recettore CD4; è necessario però anche un
secondo legame, che avviene tra la gp120 ed un corecettore presente sulla superficie della
cellula (il principale di questi corecettori è stato denominato CCR5; si è visto che persone
affette da una difetto genetico di questo corecettore sono in grado di resistere all'infezione).
2) Fusione: una volta avvenuto anche questo secondo legame con il corecettore, la gp120
subisce una variazione della propria struttura ed una modifica della posizione, permettendo
così l'esposizione della gp 41; questa è in grado di fondersi con la membrana cellulare,
aprendo la porta all'ingresso del virus nella cellula.
3) Penetrazione nella cellula: avvenuta la fusione il virus penetra nella cellula. Soltanto il
core virale entra però all'interno della cellula, mentre il rivestimento glicoproteico dell'envelope
rimane all'esterno della cellula.
4) Uncoating: una volta penetrato nella cellula, il core perde il proprio rivestimento proteico
che viene degradato in un processo chiamato uncoating (svestimento); in questo modo si
libera la parte centrale del virus che contiene il menoma ad RNA e gli enzimi virali.
5) Trascrizione inversa: è il processo con il quale le informazioni genetiche del virus
contenute in una singola catena di RNA vengono copiate in una doppia catena di DNA. Questo
processo, che avviene nel citoplasma della cellula nelle prime ore successive all'infezione,
necessita dell'intervento di uno specifico enzima virale, la transcriptasi inversa. La trascrizione
inversa si svolge in tre fasi:
a) sintesi di una catena di DNA complementare all'RNA virale;
b) degradazione della catena di RNA originaria;
c) costruzione della seconda catena di DNA complementare alla prima.
Il risultato è quello di ottenere un DNA a doppia catena contenente tutte le informazioni
genetiche che erano presenti nel menoma originario ad RNA. Questa nuova molecola di DNA
virale prende il nome di Provirus.
6) Integrazione: il Provirus viene trasportato nel nucleo della cellula. In questa sede, grazie
all'intervento di un altro enzima virale, l'integrasi, viene inserito nel menoma cellulare, dove
rimane per tutta la vita della cellula (l'unico modo per eliminare il Provirus è quello di uccidere
la cellula). A questo punto l'HIV, sotto forma di Provirus, può rimanere in fase di latenza anche
per lunghi periodi di tempo, duplicandosi solo con la replicazione della cellula stessa.
7) Trascrizione del Provirus: ad un certo momento il virus può attivarsi: in questo caso il
DNA virale "ordina" alla cellula la produzione di propri componenti, quali le proteine strutturali,
gli enzimi e l'RNA genomico. Il Provirus, come il resto del cromosoma della cellula, è in grado
di utilizzare l'RNA polimerasi cellulare per trascrivere il proprio DNA in RNA. Completata la
trascrizione, il nuovo RNA virale esce dal nucleo della cellula e viene trasportato nel
citoplasma. In questa sede l'intervento dei ribosomi cellulari porta alla sintesi delle nuove
proteine virali.
8) Intervento della Proteasi: subito dopo la loro "costruzione" le proteine virali non sono
ancora in grado di funzionare adeguatamente; è necessario l'intervento di un altro enzima
virale, la proteasi, il quale agisce modificando la struttura delle proteine in modo da renderle
perfettamente funzionanti: si formano così gli enzimi e le proteine strutturali del virus.
9) Assemblaggio: i componenti virali neoprodotti (proteine e genoma) vengono quindi
trasportati alla periferia della cellula dove vengono assemblati tra loro dando origine al core del
nuovo virus.
10) Gemmazione: si chiama così il processo di fuoriuscita delle nuove particelle virali dalla
cellula infetta: il core del nuovo virus si avvicina alla membrana cellulare e la attraversa per
fuoriuscire dalla cellula stessa; durante questo passaggio viene rivestito dell'involucro
glicolipidico, l'envelope . A questo punto la nuova particella virale (virione) è completata, ed è
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così in grado di andare ad infettare un'altra cellula bersaglio e di dare inizio ad un nuovo ciclo
replicativo.
PATOGENESI DELL'AIDS
Meccanismo di infezione
La probabilità che dopo l'ingresso del virus nell'organismo l'infezione si instauri effettivamente
dipende principalmente da due fattori: la carica infettante, cioè il numero di particelle virali
penetrate (più la carica virale è alta maggiore è il rischio di infezione), ed il numero di cellule
recettive (cioè suscettibili di essere infettate) presenti nella sede di ingresso del virus.
Come detto in precedenza, l'HIV è in grado di infettare le cellule che presentano sulla loro
superficie il recettore CD4; molti tipi di cellule dell'organismo umano possiedono questo
recettore, tuttavia il bersaglio principale del virus è rappresentato dal linfocita T Helper (o
linfocita CD4+). E' stato inoltre dimostrato che l'HIV, per poter penetrare in una cellula, oltre al
recettore CD4 necessita anche della presenza di altre strutture sulla superficie cellulare,
denominate corecettori, il principale dei quali è denominato CCR5. Questi sono dei recettori
per delle sostanze denominate chemochine, normalmente prodotte da alcune cellule del
sistema immunitario. Alcuni studi recenti hanno dimostrato che persone con un difetto
genetico omozigote (completo) per il quale non viene prodotto il recettore CCR5 sono resistenti
all'infezione, e che persone con un difetto eterozigote (parziale) possono essere infettate
dall'HIV ma hanno una progressione molto lenta dell'infezione. Altri studi hanno mostrato
invece che persone con un'altra variante genetica, per cui producono molto più CCR5, hanno
una progressione più rapida dell'infezione.
Il linfocita CD4 costituisce il cardine principale di tutto il sistema immunitario, essendo in grado
di regolare, come un direttore d'orchestra, l'attività di tutte le altre cellule responsabili della
difesa immunitaria dell'organismo. Altre cellule che possono essere infettate dal virus sono i
monociti, un tipo di globuli bianchi, ed i macrofagi, cellule di difesa presenti nei tessuti. Una
volta che l'infezione si è stabilita, il virus entra nel torrente circolatorio e dalla
sede di ingresso si diffonde a tutto l'organismo, localizzandosi principalmente negli organi e nei
tessuti maggiormente popolati da cellule recettive, quali linfonodi, milza, fegato e midollo
osseo (organi del sistema emo-linfopoietico). In queste sedi il virus è in grado di stabilirsi e di
rimanervi a lungo in fase di latenza, oppure di replicarsi in modo continuo; i linfonodi in
particolare rappresentano una delle principali sedi di replicazione dell'HIV durante la fase di
latenza clinica (cioè nel periodo in cui l'infezione non dà nessun segno di sé).
Nel corso dell'infezione si stabiliscono quindi due diversi "compartimenti virologici", tra i quali
vi è però una comunicazione continua:
- compartimento attivo, costituito dal virus libero nel sangue e da quello contenuto nei
linfociti e monociti, dove il virus è attivamente replicativo ed è in grado di provocare danno al
sistema immunitario;
- compartimento di latenza (reservoirs), costituito da virus che non si replica attivamente,
ma che resta in fase latente in alcuni distretti dell'organismo. Questi compartimenti di riserva
sono principalmente rappresentati da alcuni organi, quali cervello e gonadi (dove ci sono
barriere anatomiche che impediscono la libera circolazione delle cellule e dei farmaci,
permettendo così la creazione di condizioni particolarmente favorevoli per la persistenza del
virus), e da alcuni compartimenti cellulari:
1. le cellule follicolari dendritiche dei linfonodi (FDC), che sono in grado di trattenere sulla
loro superficie esterna particelle virali che si possono mantenere infettive per lungo tempo.
Queste cellule hanno comunque una emivita di circa due settimane, e quindi abbastanza breve
(12 r).
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2. i macrofagi infettati, i quali non vengono uccisi dal virus, il quale può pertanto continuare
a replicarsi. L'emivita dei macrofagi in soggetti non infetti è di circa 15 giorni.
3. i T linfociti CD4+ di memoria, che costituiscono probabilmente il più importante dei
compartimenti cellulari di riserva. In queste cellule latenti il virus non è in grado di replicarsi,
ma resta sempre presente con una copia del proprio menoma integrato nel DNA della cellula.
I linfociti CD4+ di memoria hanno una vita molto lunga, dato che la loro funzione biologica è
proprio quella di garantire all'organismo una protezione immunitaria nei confronti di antigeni
incontrati in precedenza; queste cellule, quando nel corso della loro vita incontrano l'antigene
per il quale sono "programmate", ritornano alla fase attiva, durante la quale possono
permettere al virus di replicarsi. In seguito, dopo diversi cicli di replicazione, molte di queste
cellule andranno incontro a morte, mentre altre ritorneranno alla fase di latenza, contribuendo
così al mantenimento di una stabile riserva virale. Questo serbatoio virale sarebbe quindi il
principale responsabile della persistenza dell'infezione anche in corso di una efficace terapia
antiretrovirale, rappresentando in questo modo il più importante ostacolo alla eradicazione
dell'infezione.
Risposta immune nei confronti dell'HIV
In genere i virus, quando infettano un organismo, inducono una intensa risposta da parte del
sistema immunitario, soprattutto dell'immunità cellulo-mediata, espletata prevalentemente dai
linfociti killer, in grado di distruggere direttamente le cellule infette, e dai linfociti T-helper
CD4+, in grado di produrre varie sostanze (citochine) dotate di attività antivirale o che hanno
la capacità di stimolare altre cellule, come per esempio i linfociti B, i quali a loro volta
producono gli anticorpi.
L'HIV induce una risposta immune basata principalmente sulla attività dei linfociti CD4+;
questa può essere indirizzata in due modi differenti, a secondo della sottoclasse di T-helper che
viene maggiormente stimolata:
- risposta T-helper 1 (Th1): inducono prevalentemente l'immunità cellulo-mediata.
Vengono attivati alcuni linfociti citotossici (linfociti CD8) in grado di bloccare in modo
abbastanza efficace le cellule infettate dal virus; in questo caso l'infezione viene contrastata
meglio e l'infezione progredisce più lentamente verso la fase di malattia;
- risposta T-helper 2 (Th2): inducono prevalentemente l'immunità umorale. Viene ridotta
la produzione di linfociti CD8 mentre aumenta la produzione di anticorpi; questo tipo di
risposta non è in grado di contrastare efficacemente la replicazione virale, per cui la
progressione dell'infezione avviene in modo più rapido.
Si pensa quindi che lo sviluppo della malattia sia provocato da un progressivo passaggio dalla
risposta Th1 alla risposta Th2.
Variabilità genetica
L'HIV ha la capacità di andare facilmente incontro a variazioni della propria struttura genetica
(mutazioni), che si verificano soprattutto in seguito ad errori di "copiatura" da parte della
transcriptasi inversa. Queste mutazioni provocano l'insorgenza di ceppi varianti, che aiutano il
virus a non essere riconosciuto, e quindi non adeguatamente combattuto, dal sistema
immunitario. Le mutazioni sono inoltre responsabili dell'insorgenza di resistenza ai farmaci in
corso di terapia antivirale.
Immunodeficienza
Durante tutto il periodo di infezione c'è una continua ed incessante lotta tra il virus ed il
sistema immunitario. L'HIV con l'andar del tempo è in grado di produrre un danno progressivo
al sistema immunitario, che alla fine non è più in grado di svolgere efficacemente le proprie
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funzioni. Si verifica così una situazione di immunodeficienza, in seguito alla quale un individuo
può essere infettato da microrganismi che sono solitamente innocui per chi ha una normale
funzione immunitaria (infezioni opportunistiche).
La teoria finora ritenuta più valida per spiegare come l'HIV provoca il deficit immunitario è
probabilmente quella ipotizzata dal Dott. David Ho. In termini semplici, Ho paragona la
riduzione dei linfociti T al calo del livello di acqua in una vasca nella quale il deflusso dallo
scarico sia più veloce dell'afflusso di nuova acqua dal rubinetto. In pratica Ho sostiene che i
linfociti T vengano infettati e distrutti dall'HIV più velocemente di quanto il sistema
immunitario sia in grado di produrne di nuovi.
Studi più recenti sembrano però dimostrare che questo meccanismo da solo non sia sufficiente
a spiegare il severo grado di immunodeficit che si verifica nei soggetti con infezione da HIV
nelle fasi più avanzate della malattia.
Ricercatori della University of California hanno utilizzato una nuova tecnica di biologia
molecolare per studiare in vivo la dinamica della produzione e della distribuzione dei T linfociti
in pazienti HIV positivi, confrontando i risultati ottenuti con quelli riscontrati in volontari sani.
La teoria che ne è emersa afferma che la causa principale dello sviluppo dell'immunodeficienza
non è tanto la distruzione delle cellule T esistenti (anche se questo comunque avviene), ma
piuttosto la conseguenza della incapacità da parte del sistema immunitario di produrre nuove
cellule ad un ritmo adeguato. Per usare il paragone del Dr. Ho, il livello dell'acqua nella vasca
diminuisce non tanto perchè aumenta la velocità dello scarico, ma soprattutto perchè si riduce
la quantità di acqua che affluisce dal rubinetto.
Ci sarebbe quindi un qualche fattore che impedisce la produzione di nuove cellule in quantità
adeguata. Gli Autori ipotizzano che ciò possa dipendere prevalentemente da un danno a carico
degli organi dove ha sede la produzione dei T linfociti, e cioè il midollo osseo ed il timo.
DIAGNOSI DELL'AIDS
Per l'identificazione dell'infezione da HIV sono disponibili varie metodiche, basate sulla
identificazione degli anticorpi prodotti dal sistema immunitario contro l'HIV (metodiche
sierologiche) oppure sulla ricerca di antigeni e molecole del virus stesso (metodiche
virologiche).
Ai fini della diagnosi di infezione attualmente vengono utilizzati il test ELISA ed il test WesternBlot:
1- Test Immunoenzimatico (ELISA)
E' la metodica utilizzata per il test di screening, in quanto di facile esecuzione e di costo
limitato. Questo test ricerca gli anticorpi prodotti contro alcuni antigeni virali, in particolare gp
41 e gp120, che dopo una prima infezione restano nell'organismo per tutta la vita. Il test ha
una sensibilità di oltre il 95%, ma in alcuni casi si possono avere delle risposte errate:
- falsi positivi: il test risulta positivo in assenza di infezione. Può succedere in persone con
malattie che alterano la funzione del sistema immunitario portando alla produzione di anticorpi
anomali (es: leucemie, linfomi, malattie autoimmuni, gravi epatopatie, ecc.);
- falsi negativi: il test risulta negativo anche se l'infezione è presente. Può succedere in
persone che si sono infettate molto recentemente, ma nelle quali non si sono ancora formati gli
anticorpi che reagiscono con il test; questo avviene solitamente nelle prime settimane (o mesi)
dopo il contagio, e questo intervallo di tempo prende il nome di periodo finestra (vedi Quadri
clinici).
Per questi motivi un test negativo va sempre ripetuto fino ad almeno 6 mesi dopo un evento a
rischio di contagio, ed un test positivo richiede sempre l'esecuzione di un altro test di
conferma.
2- Western Blot (WB)
E' un test dotato di maggiore specificità e sensibilità, utilizzato per confermare la positività di
un test ELISA. Questa metodica permette di evidenziare la presenza di anticorpi diretti contro
le maggiori proteine virali: il test viene definito positivo quando sono presenti almeno 2 degli
anticorpi principali; se il test risulta dubbio o indeterminato va ripetuto dopo alcuni mesi. Nella
figura è schematizzato l'algoritmo diagnostico impiegato per la diagnosi di infezione da HIV. Vi
sono poi metodiche basate sulla ricerca di antigeni o componenti virali, che vengono
solitamente utilizzate non a fini diagnostici ma per il monitoraggio dell'andamento
dell'infezione, in particolare in corso di terapia antiretrovirale.
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3- Antigenemia p24
La proteina p24 è un antigene del core virale, e la sua presenza nel sangue indica uno stato di
attiva replicazione del virus. La positività dell'antigenemia p24 è più frequente nel periodo
successivo al contagio e nelle fasi più avanzate della malattia. Questo test attualmente non
viene più eseguito, in quanto superato per sensibilità dalla ricerca dell'RNA virale.
4- Viremia (HIV-RNA)
Consente di ricercare molecole di RNA virale, la cui quantità nel sangue è direttamente
proporzionale al grado di attività replicativa del virus. La viremia viene espressa in numero di
copie di HIV-RNA per ml; ci sono vari tipi di test che possono essere utilizzati per la
determinazione della viremia:
Q-PCR (Quantitative Polymerase Chain Reaction): noto con il nome di Amplicore Monitor
Test (Roche), è la metodica più diffusa, ed ha un range di sensibilità tra 300 e 1.000.000 di
copie; è stato inoltre sviluppato, sempre dalla Roche, un test definito UltraSensitive, in quanto
arriva a misurare fino a 20 copie/ml;
bDNA (branched-chain DNA): sviluppato dalla Chiron, ha una sensibilità che varia dalle 50
alle 500.000 copie;
NASBA (Nucleid Acid Sequence-Based Amplification): sviluppato dalla Organon Teknika, è il
test solitamente meno utilizzato, ed ha una soglia inferiore di 80 copie.
Nella pratica clinica questo test viene oggi impiegato principalmente per due scopi: la
stadiazione dell'infezione ed il monitoraggio della risposta alla terapia antiretrovirale. Viene
anche utilizzato per la diagnosi precoce di infezione in particolari situazioni, quali le esposizioni
accidentali negli operatori sanitari e la trasmissione materno-fetale.
5- Isolamento virale
E' la metodica più importante per dimostrare la presenza di una infezione virale, ma nella
pratica clinica non viene utilizzata a causa del costo elevato e delle difficoltà operative che
richiedono la presenza di un laboratorio molto specializzato. L'isolamento virale oggi viene
impiegato essenzialmente a fini di ricerca.
EPIDEMIOLOGIA DELL’AIDS
In Italia
Al 31 dicembre 1999 in Italia sono stati notificati 45.605 casi di AIDS. Di questi, il 78% erano
di sesso maschile, e l'età mediana della diagnosi (calcolata solo per gli adulti) era di 33 anni
per i maschi e di 31 anni per le femmine. Il nostro Paese è al terzo posto in Europa come
numero di casi, dopo Spagna e Francia, ma è al secondo posto come incidenza (numero di casi
in rapporto al numero di abitanti).
A partire dalla seconda metà del 1996, verosimilmente grazie alla disponibilità di nuovi farmaci
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per la terapia dell'infezione da HIV, si è osservata una progressiva riduzione del numero di
nuovi casi; nel grafico della Figura a lato è riportata la distribuzione annuale dei casi di AIDS e
dei decessi correlati.
In Italia la regione più colpita è la Lombardia, con 13.832 casi notificati alla fine del 1999,
seguita da Lazio ed Emilia-Romagna; Brescia è la terza città d'Italia dopo Milano e Roma.
La figura sottostante mostra i tassi di incidenza per regione di residenza, calcolati in base ai
soli casi segnalati nel corso del 1999; è evidente la differenza di incidenza tra le diverse regioni
del Nord e del sud d'Italia.
La maggior parte dei casi di AIDS (circa il 62%) interessa soggetti tossicodipendenti, ma
l'andamento nel tempo mostra una aumento dei casi attribuibili a trasmissione eterosessuale;
altro dato importante è rappresentato dal fatto che questi casi interessano prevalentemente il
sesso femminile: infatti il 35,7% delle femmine con AIDS hanno acquisito l'infezione per via
eterosessuale, contro l'11,1% dei maschi.
Per quanto riguarda l'età, la maggior parte dei casi di AIDS sono diagnosticati nella fascia d'età
compresa tra i 25 ed i 35 anni. Così come si è ridotto il numero dei nuovi casi di AIDS, a
partire dal 1996 si è osservata anche una drastica diminuzione del numero dei decessi correlati
all'Aids. La figura sottostante mostra le curve di sopravvivenza dei casi di AIDS, che
evidenziano un netto aumento della sopravvivenza di tutti i casi diagnosticati a partire dal
1996.
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Nel mondo
L'HIV è in continua diffusione in tutto il mondo, espandendosi rapidamente in aree geografiche
fino a pochi anni fa relativamente risparmiate dall'epidemia, e rafforzando la sua presenza nei
Paesi dove l'AIDS è già la principale causa di morte nelle persone di età compresa tra i 20 ed i
50 anni.
Recenti stime dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e dell'UNAIDS (United Nations
Programme on HIV/AIDS) riportano che dall'inizio dell'epidemia alla fine del 1999 oltre 50
milioni di persone hanno contratto l'infezione in tutto il mondo. Di queste, 48 milioni sono
adulti e 5 milioni sono bambini (con età inferiore ai 15 anni); a causa dell'Aids 18,8 milioni di
persone risultano già decedute, 15 milioni di adulti e 3,8 milioni di bambini (Tabella a lato). Nel
corso del 1999 i nuovi contagi sono stati 5,4 milioni, cioè circa 15.000 al giorno, ed i decessi
sono stati 2,8 milioni, dei quali 500.000 bambini.
La grande maggioranza di queste infezioni è localizzata nel Paesi in via di sviluppo.
Persone che
hanno
contratto
l'infezione da
HIV
Persone
decedute a
causa
dell'AIDS
Persone
attualmente
viventi con
l'HIV/AIDS
53.1
18.8
34.3
M
23.4 (44.1%)
7.3 (38.8%)
17.3 (50.4%)
F
24.6 (46.3%)
7.7 (40,9%)
15.7 (45.7%)
5.1 (9.6%)
3.8 (20.2%)
1.3 (3.8%)
Totale
Adulti
Bambini
Si stima che circa il 90% dei sieropositivi nel mondo sia concentrato nei Paesi dell'Africa subSahariana e dell'Asia meridionale (soprattutto Thailandia e India).
La figura a lato riporta il numero stimato di persone con l'infezione nel mondo alla fine del
1999 (dalla figura è possibile evidenziare ulteriori dettagli sulla epidemiologia di singole aree
geografiche).
In questi Paesi sono anche concentrati la maggior parte dei bambini che vivono con l'infezione
(circa l'87% del totale).
Questo dato dipende da vari fattori: molte donne africane in età fertile sono sieropositive,
mediamente hanno più figli delle donne europee o americane, allattano i propri figli e non
hanno a disposizione farmaci per ridurre il rischio di trasmissione.
TRASMISSIONE DELL'AIDS
Trasmissione
L'HIV è stato isolato in tutti i tessuti e liquidi biologici di un soggetto sieropositivo (Tabella
sottostante).
10
Isolamento HIV
Trasmissione
accertata
Sangue
si
Liquido seminale
si
Secreto vaginale
si
Latte materno
si
Saliva
no
Lacrime
no
Sudore
no
Urine
no
Feci
no
Tuttavia la semplice presenza del virus in un materiale biologico non significa che il contatto
con quello stesso materiale rappresenti un evento efficace per la trasmissione dell'infezione.
Perché ciò avvenga è infatti importante che si verifichino due condizioni:
- una idonea via di trasmissione
- una adeguata quantità di virus
Una quantità di virus (carica virale) sufficiente a trasmettere l'infezione si può ritrovare
solo in determinati liquidi biologici, quali sangue, liquido seminale, secreto vaginale e, in
percentuale inferiore, nel latte materno.
Altri materiali sono considerati a rischio solo se contaminati da sangue, in quanto la
concentrazione di HIV è troppo bassa perché la trasmissione possa avvenire. Un soggetto che
ha contratto l'infezione in un modo, per esempio tramite contatto con sangue infetto, può
trasmetterla per altra via, per esempio mediante un rapporto sessuale.
Trasmissione sessuale
La trasmissione sessuale dell'HIV rappresenta la modalità di contagio prevalente nel mondo
ed è il fattore maggiormente responsabile della rapida espansione dell'epidemia in Paesi
asiatici quali l'India e la Tailandia. La trasmissione può avvenire per contatto sia omosessuale
11
che eterosessuale, ed in quest'ultimo caso è più frequente da uomo a donna che non da
donna a uomo.
E' comunque difficile stabilire con certezza la percentuale di rischio di contagio in seguito ad un
rapporto sessuale; infatti ci sono persone che si sono contagiate dopo un singolo rapporto,
mentre altre non hanno contratto l'infezione anche dopo anni di rapporti con un partner
sieropositivo. Ci sono infatti molti fattori che influenzano la possibilità che si verifichi
effettivamente la trasmissione del virus (Tabella in basso):
Fattori associati ad aumento del Rischio
-
N° contatti sessuali
Malattia avanzata
Infezione primaria
Malattie genitali
Contraccettivi orali
Uomo-Donna
Donna-Uomo
Sì
Sì
Sì
Sì
Sì
Sì
Sì
Sì
Sì
Non noto
Fattori associati a riduzione del Rischio
- Uso del profilattico
- Terapia antiretrovirale
- Uso di spermicidi
Sì
Possibile
Possibile
Sì
Possibile
Non noto
1- Fattori comportamentali
- Numero di partners diversi
- Rapporti con persone ad alto rischio (prostitute, tossicodipendenti)
- Utilizzo del profilattico
- Tipo di rapporto
- Condizioni psichiche: l'utilizzo di droghe o alcolici può infatti compromettere la capacità di
giudizio, e quindi la consapevolezza di utilizzare adeguati strumenti di prevenzione in caso di
rapporti a rischio.
2- Concomitante presenza di malattie sessualmente trasmesse
La presenza di altre malattie che interessano gli organi genitali, quali per esempio Condilomi,
Herpes, lesioni ulcerative, ecc., favoriscono la trasmissione dell'HIV, per diversi motivi:
- le lesioni sulla cute e sulle mucose costituiscono una comoda porta d'ingresso per il virus;
- nelle zone infiammate c'è una elevata concentrazione di cellule bersaglio del virus, quali
linfociti, monociti e macrofagi, per cui il virus trova subito un terreno ideale per la sua
moltiplicazione;
- i soggetti sieropositivi risultano maggiormente infettanti, in quanto nelle loro secrezioni sono
presenti un maggior numero di particelle virali.
3- Fattori legati al singolo individuo
- Infettività: non tutti i soggetti sieropositivi sono infettanti allo stesso modo; la possibilità di
trasmettere l'infezione infatti dipende anche dallo stadio dell'infezione e dalla quantità di virus
presente nel sangue e nelle secrezioni. In particolare la carica virale è solitamente più elevata
nel periodo immediatamente successivo al contagio e nelle fasi più avanzate della malattia.
L'infettività può inoltre variare in relazione alla terapia antiretrovirale: una riduzione della
replicazione virale indotta dalla terapia riduce le probabilità di trasmissione del virus. In un
recente studio sono state osservate per un periodo di circa 3 anni 415 coppie "discordanti"
(cioè con solo uno dei due partner sieropositivo); la trasmissione dell'infezione si è verificata in
90/415 coppie (incidenza: 11.8% anni-persona), e si è potuto osservare che il contagio
avveniva raramente nelle coppie dove il partner sieropositivo aveva una carica virale <1500
copie.
- Resistenza all'infezione: per particolari caratteristiche genetiche e immunologiche alcuni
individui sono particolarmente resistenti all'infezione, per cui non si contagiano anche se
12
vengono esposti al virus (ciò è stato osservato per individui che possiedono variazioni
genetiche di particolari corecettori necessari all'HIV per poter infettare le cellule).
4- Fattori legati al virus
- Carica virale: come detto prima, dipende essenzialmente dallo stadio dell'infezione e dalla
terapia.
- Genotipo virale: sono noti 17 genotipi diversi di HIV, e vari studi hanno dimostrato che
alcuni di questi hanno una più elevata trasmissibilità per via sessuale, come per esempio il
genotipo E, particolarmente diffuso in Thailandia.
NB: Questi fattori però non possono essere conosciuti a priori, per cui bisogna
sempre considerare che può bastare anche un solo rapporto per contrarre l'infezione.
E' stato ampiamente dimostrato che il virus non è presente negli spermatozoi, ma si trova
libero nel liquido seminale, oppure sotto forma di DNA provirale nel nucleo delle cellule
mononucleate, anch'esse presenti nel liquido seminale. Per tale motivo è possibile ipotizzare la
fecondazione artificiale nel caso di coppie discordanti, con uomo sieropositivo e donna
sieronegativa. In Centri clinici specializzati viene infatti eseguito un particolare trattamento del
liquido seminale, in grado di eliminare la parte potenzialmente infetta e di conservare invece
gli spermatozoi, i quali vengono poi utilizzati per la fecondazione artificiale.
Trasmissione con il sangue
L'HIV può essere trasmesso tramite trasfusione di sangue infetto o di emocomponenti
preparati con sangue di una persona infetta. Infezioni secondarie ad emotrasfusioni erano
descritte soprattutto prima del 1985, anno in cui si è reso disponibile il test per lo screening dei
donatori. In seguito le segnalazioni di infezioni secondarie a trasfusione di sangue sono
divenute sempre più rare; a ciò hanno contribuito diversi fattori, quali lo screening dei
donatori, la ripetizione del test su tutte le unità di sangue prelevate, l'abolizione dei donatori
professionali e l'educazione sanitaria dei donatori, in modo che questi evitino volontariamente
la donazione se hanno avuto dei comportamenti a rischio.
Recentemente (luglio 1999) in Australia è stato riportato un caso di infezione da HIV avvenuto
tramite emotrasfusione, il primo dal 1985; il sangue proveniva da una donatrice che aveva
donato il sangue durante il periodo finestra. Attualmente la Croce Rossa Internazionale stima
che il rischio che avvenga un contagio con queste modalità sia di 1 caso ogni 1.200.000
trasfusioni, mentre nel 1995 i CDC di Atlanta riportavano un rischio di 1 ogni 500.000
trasfusioni.
Trasmissione parentale
La via parenterale è il modo più facile che ha il virus per poter essere trasmesso da un
individuo all'altro; l'efficienza della trasmissione parenterale può infatti arrivare fino al 90%.
Ciò è dovuto al fatto che il virus, arrivando direttamente nel torrente circolatorio, trova subito
moltissime cellule bersaglio, rappresentate essenzialmente dalle cellule mononucleate (linfociti
e monociti).
Il fattore di rischio principale per la trasmissione parenterale dell'HIV è rappresentato senza
dubbio dalla tossicodipendenza. Questa modalità di contagio è quella prevalente in Italia e in
tutta l'Europa Occidentale. In Italia, soprattutto nelle grandi città del Nord, sono state descritte
percentuali di sieropositività tra i tossicodipendenti di oltre il 60%. La trasmissione del virus tra
i tossicodipendenti avviene principalmente tramite la contaminazione con sangue infetto di
aghi e altri oggetti utilizzati per la preparazione della droga, i quali vengono spesso riutilizzati
più volte e scambiati tra persone diverse. Uno studio condotto nel 1992, basato sull'impiego di
un modello matematico costruito analizzando la presenza di HIV nel sangue residuo di siringhe
utilizzate da tossicodipendenti sieropositivi, ha stimato in 1 ogni 150 iniezioni il rischio di
contagio.
Anche altre pratiche, come i tatuaggi ed il body piercing, sono a rischio per la trasmissione
dell'HIV; infatti tali manovre vengono spesso eseguite da personale inesperto che ignora le
corrette procedure di sterilizzazione degli aghi. Qualsiasi oggetto che superi l'integrità della
barriera cutanea può essere infatti in grado di trasmettere infezioni quali l'HIV ed i virus
dell'epatite, per cui tutti questi oggetti devono sempre essere adeguatamente sterilizzati.
Esposizione accidentale
L'HIV è un virus poco resistente all'ambiente esterno, anche se in condizioni favorevoli può
sopravvivere anche per due o tre giorni. L'essiccamento provoca una riduzione della carica
virale di oltre il 90% in poche ore. In caso di ferita accidentale con materiale contaminato,
13
perchè avvenga effettivamente il contagio sono importanti vari fattori:
- Carica virale nel sangue residuo;
- Tipo di strumento con il quale avviene la contaminazione (per esempio una puntura con un
ago cavo è più pericolosa della lesione con un ago pieno, in quanto il residuo di sangue è
maggiore nel primo caso);
- Durata del contatto e profondità della lesione;
- Lesioni preesistenti dell'operatore e suo stato immunitario.
Complessivamente, dopo una esposizione accidentale con sangue contaminato il
rischio di contrarre l'infezione è di circa lo 0,2-0,3%.
Trasmissione verticale
L'HIV può essere trasmesso dalla madre al figlio. Questo può avvenire essenzialmente tramite
tre modalità:
- durante la gravidanza attraverso la placenta (20-40%)
- durante il parto (40-70%)
- tramite l'allattamento (15-20%)
Per ridurre il rischio di infezione del neonato alle donne sieropositive viene solitamente
praticato il parto cesareo e viene consigliato di non allattare. Uno studio, pubblicato nel 2000
su JAMA, condotto su una coorte di donne sieropositive del Kenia, ha dimostrato una riduzione
fino al 44% della trasmissione verticale del virus nelle donne che non allattavano.
Complessivamente il rischio che il neonato resti contagiato è di circa il 15-25%, ma
questa percentuale è stata notevolmente ridotta (fino a meno del 5%) con l'utilizzo
di profilassi farmacologica durante la gravidanza e dopo il parto.
Il rischio di trasmissione dell'infezione varia poi in base ad altri fattori legati alla madre, quali
le condizioni cliniche generali, il livello di viremia, il numero di CD4+, la concomitante presenza
di altre malattie sessualmente trasmesse.
I bambini nati da madri sieropositive nascono anch'essi sieropositivi, in quanto gli anticorpi
materni che identificano la sieropositività passano nel sangue del neonato durante la
gravidanza. Poi, se il bambino non ha contratto l'infezione, questi anticorpi materni pian piano
vengono smaltiti, per cui il bambino "diventa" sieronegativo. Se invece il bimbo ha contratto
l'infezione, allora inizia a produrre anticorpi propri e quindi "resta" sieropositivo. Altra conferma
della avvenuta infezione si può avere con la determinazione della carica virale (HIV-RNA).
Quando non si trasmette
Nella Tabella in basso sono illustrate le modalità attraverso le quali non si trasmette l'infezione.
I comuni contatti sociali NON sono idonei alla trasmissione del
virus; se così fosse le caratteristiche epidemiologiche dell'infezione
sarebbero completamente diverse da quelle attuali.
Un semplice bacio NON è a rischio per la trasmissione dell'HIV.
L'unico ipotetico rischio è riferito al bacio profondo in presenza di
lesioni sanguinanti del cavo orale.
Una persona sieropositiva che ha dei colpi di tosse o degli
starnuti NON è in grado di trasmettere l'infezione.
Gli oggetti casalinghi quali le stoviglie NON sono idonei alla
trasmissione del virus.
NON c'è rischio di contrarre l'infezione frequentando piscine o
bagni comuni. Il cloro uccide l'HIV, e la diluizione rende
estremamente bassa la concentrazione del virus.
14
Gli animali domestici NON trasmettono l'HIV; questo infatti è un
virus che colpisce solo la specie umana.
Le zanzare NON possono trasmettere il virus; se così fosse
l'andamento dell'epidemia sarebbe stato molto diverso. L'HIV non è
in poi grado di sopravvivere all'interno dell'insetto, ed inoltre la
zanzare succhia il sangue, non lo inietta.
QUADRI CLINICI DELL’INFEZIONE DA HIV
Quadri clinici dell'infezione da HIV
Il decorso dell'infezione da HIV è caratterizzato da diverse fasi cliniche, la cui evoluzione è
molto variabile potendo essere influenzata da svariati fattori, primo fra tutti l'impiego di una
adeguata terapia antiretrovirale. Schematicamente si distinguono 5 stadi clinici, partendo dal
momento del contagio fino allo sviluppo della malattia conclamata, cioè l'AIDS.
Infezione acuta primaria
Viene così definita la fase iniziale dell'infezione, rappresentata dal periodo immediatamente
successivo al contagio. Nelle prime settimane di infezione gli anticorpi specifici contro l'HIV non
si sono ancora formati, per cui il test per la diagnosi di sieropositività risulta negativo. Nei casi
di avvenuto contagio solitamente il test diventa positivo dopo 2-3 mesi, ma ciò può accadere
anche più tardivamente, per cui di solito il test viene ripetuto anche a distanza di almeno 6
mesi dall'evento a rischio. L'intervallo di tempo che va dal contagio alla positivizzazione del
test viene definito "periodo finestra", mentre la comparsa degli anticorpi viene definita
sieroconversione.
In questo periodo si osserva una elevata replicazione virale, che man mano si riduce in seguito
alla attivazione di una specifica risposta immunitaria; per tale motivo in questa fase il soggetto
risulta particolarmente infettante.
Recenti studi hanno dimostrato come durante questa fase, fin dai primi giorni o addirittura
dalle prime ore successive all'infezione, avviene una "lotta" tra il virus ed il sistema
immunitario, il cui esito andrà ad influenzare la successiva evoluzione della malattia.
L'infezione acuta decorre molto spesso in modo del tutto asintomatico, mentre a volte si può
15
manifestare con un quadro clinico aspecifico che insorge circa 3-6 settimane dopo il
contagio. In questo caso i sintomi possono essere simili a quelli di una sindrome influenzale o a
quelli della mononucleosi (malattia infettiva benigna provocata dal virus di Epstein-Barr):
febbre, mal di gola, malessere generale, stanchezza, sudorazioni, ingrossamento delle
ghiandole linfatiche ; a volte vi può essere anche un esantema tipo orticarioide.
Più raramente, in alcuni pazienti si possono presentare dei quadri clinici più importanti, come
per esempio una meningite a liquor limpido o manifestazioni quali la candidosi orale.
Infezione asintomatica
L'infezione da HIV è caratterizzata da un lungo periodo di latenza clinica, durante il quale non
si ha alcun sintomo o segno di malattia. Durante questa fase la replicazione del virus nelle
cellule del sangue è assente o molto bassa, mentre invece si mantiene sempre attiva a livello
delle ghiandole linfonodali. Non si ha quindi una latenza biologica dell'infezione; infatti la
persistenza di replicazione negli organi linfoidi provoca una lenta ma graduale perdita di
linfociti CD4+: ogni giorno circa il 5% dell'intero comparto dei CD4+ viene distrutto dal virus,
ma per lungo tempo le cellule eliminate vengono rimpiazzate pressoché integralmente.
Una persona sieropositiva in questa fase non può certamente essere riconosciute come tale in
base all'aspetto, come rappresentato da un poster di una campagna pubblicitaria, e se non è a
conoscenza del proprio stato può inconsapevolmente trasmettere l'infezione ad altri.
La durata di questa fase è molto variabile, e può essere influenzata da vari fattori, tra i quali
soprattutto l'impiego di una terapia antiretrovirale. In assenza di trattamento la maggior parte
dei pazienti evolve verso la malattia in un periodo medio di circa 8-10 anni; una quota minore
ha una evoluzione più rapida, in circa 4-6 anni, mentre un 10-12% circa di soggetti
sieropositivi hanno la tendenza a non ammalarsi anche dopo 12 anni e oltre di infezione; questi
ultimi vengono definiti long term non-progressors.
16
La spiegazione di questa lenta progressione potrebbe essere attribuita a fattori genetici che
influenzano la capacità del sistema immunitario di contrastare l'infezione virale.
Lo sviluppo di una sintomatologia clinica evolve parallelamente alla compromissione delle
difese immunitarie, evidenziate dal calo dei linfociti CD4+, e all'aumento della replicazione
virale. L'andamento di questi valori influenza in modo determinante il rischio di progressione
dell'infezione.
Linfoadenopatia Generalizzata Persistente (PGL o LAS)
Questa fase in realtà spesso non è differenziabile da un punto di vista clinico rispetto alla
precedente, e non rappresenta un fattore di rischio particolare per lo sviluppo della malattia.
Infatti non vi sono particolari sintomi clinici, ed il dato principale è rappresentato
dall'ingrossamento dei linfonodi, che dal punto di vista strutturale presentano una alterazione
della propria struttura istologica.
Complesso AIDS-correlato (ARC)
Questa fase, la cui definizione viene descritta da un punto di vista clinico ma non viene
solitamente utilizzata nella pratica clinica, è caratterizzata da vari sintomi clinici e da
determinate alterazioni degli esami di laboratorio, come riassunto nella tabella in basso.
Identificano il quadro di ARC anche alcune cosiddette infezioni opportunistiche minori, quali:
- Candidosi orale o oro-faringea
- Leucoplachia orale villosa
- Herpes-Zoster multidermatomerico
- Condilomatosi genitale
La fase di ARC solitamente precede la fase della malattia conclamata.
AIDS
Col progredire del danno al sistema immunitario, evidenziato dalla marcata riduzione dei
linfociti CD4+, l'organismo viene esposto al rischio di sviluppare determinate patologie, di tipo
infettivo e neoplastico, definite opportunistiche. Le infezioni opportunistiche sono provocate da
microrganismi abitualmente presenti nell'ambiente, che non sono patogeni per soggetti con
integrità delle difese immunitarie ma che possono provocare malattie anche gravi in pazienti
che abbiano una situazione di immunodeficienza. Si considera che il rischio di sviluppare
queste infezioni sia presente quando i linfociti CD4+ sono inferiori ai 200/mmc, mentre è molto
elevato per valori inferiori a 100/mmc.
La fase di malattia conclamata, definita con il termine di AIDS (Sindrome da ImmunoDeficienza
Acquisita), inizia proprio quando compare una di queste patologie. Nella tabella in basso viene
riportato l'elenco di queste infezioni.
17
Prima della disponibilità dei nuovi farmaci antiretrovirali (quindi prima del 1996 in Italia) la
sopravvivenza media di un paziente sieropositivo dal momento della diagnosi di AIDS era di
circa 10-12 mesi. Negli ultimi anni invece, grazie alle nuove possibilità terapeutiche la prognosi
è radicalmente cambiata, con un miglioramento oltre che della durata anche della qualità della
vita.
Un recente studio dell'EuroSIDA Study Group, recentemente pubblicato sulla rivista Lancet, ha
analizzato i cambiamenti che si sono osservati nella presentazione clinica delle patologie AIDScorrelate dopo l'introduzione della terapia HAART: l'incidenza di nuove infezioni opportunistiche
maggiori, misurata in tasso per 100 anni-paziente, è passata dal 30.7% del 1994 al 2.5% del
1998.
TERAPIA DELL’AIDS
Introduzione
Negli ultimi due anni sono stati fatti notevoli ed entusiasmanti passi avanti nella terapia
dell'infezione da HIV. Ciò che ha reso possibile questo miglioramento può essere riassunto nei
seguenti punti:
- una migliore comprensione della patogenesi dei danni prodotti dall'HIV;
- la possibilità di determinare la carica virale, e di avere così un parametro diretto della
effettiva replicazione virale;
- la disponibilità di nuovi farmaci con una potente attività antiretrovirale;
- la comprensione della necessità di utilizzare combinazioni terapeutiche con più farmaci
contemporaneamente.
La Conferenza Mondiale sull'infezione da HIV tenutasi a Vancouver, Canada, nel 1996, è
18
diventata una pietra miliare nella storia della malattia, in quanto per la prima volta vennero
mostrati i risultati delle nuove combinazioni terapeutiche, e per la prima volta si arrivò ad
ipotizzare la possibilità di eradicare l'infezione. Il motto coniato dal dott. David Ho, "Hit Early,
Hit Hard", cioè "Colpisci presto, Colpisci forte", ha modificato radicalmente l'atteggiamento
terapeutico nei confronti dell'infezione, portando ad iniziare la terapia più precocemente di
quanto non venisse fatto in passato. Il razionale di questa strategia consiste nell'iniziare il
prima possibile la terapia in modo da bloccare la replicazione virale quando il sistema
immunitario è ancora efficiente e quindi in grado di recuperare pienamente le sue funzioni, e
prima che insorgano mutazioni nella popolazione virale in grado di indurre resistenza alla
terapia stessa.
Nella pratica clinica questa teoria si scontra con altri aspetti:
- la difficile tollerabilità dei farmaci, i quali possono provocare effetti collaterali che ne
richiedono la sospensione e che richiedono un impegno notevole da parte del paziente per
rispettare le dosi e le modalità di assunzione;
- la possibile insorgenza di resistenze, in grado di rendere inefficace l'azione dei farmaci;
- la difficile penetrazione dei farmaci in vari distretti dell'organismo, i cosiddetti santuari, nei
quali pertanto il virus non può essere aggredito.
Per tali motivi oggi si ritiene che l'eradicazione dell'infezione non sia realizzabile con gli
strumenti attualmente a disposizione, mentre si pensa che un obiettivo raggiungibile possa
essere quello di cronicizzare l'infezione, cioè di arrestarne l'evoluzione a tempo indeterminato.
A tale scopo, prima di iniziare una terapia antiretrovirale è opportuno considerare anche le
possibilità di trattamento che potranno essere utili in seconda battuta, cioè dopo un eventuale
fallimento del regime iniziale. Per questo molti Autori preferiscono oggi iniziare una terapia con
un regime cosiddetto protease-sparing, cioè "risparmiatore degli inibitori della proteasi": tale
approccio consiste nell'iniziare la terapia con una associazione che contenga un NNRTI anziché
un IP, in modo da migliorare la compliance del paziente (maggiore tollerabilità e minori effetti
collaterali degli NNRTI rispetti agli IP) preservando l'efficacia degli IP in caso di un eventuale
fallimento virologico.
Questa strategia terapeutica è supportata da studi clinici che hanno confrontato regimi a base
di Indinavir (un inibitore della proteasi) con regimi a base di analoghi non-nucleosidici della
transcriptasi inversa, quali la Nevirapina (Studio Atlantic) o l'Efavirenz (Studio DuPont 006).
Uno studio analogo, lo Studio CNA 3005, ha invece confrontato una associazione di 3 RTI
contenente l'Abacavir allo schema contenente Indinavir, dimostrando anche in questo caso una
efficacia sovrapponibile.
Sono attualmente disponibili in Italia 11 farmaci antiretrovirali appartenenti a tre diverse classi
farmacologiche, ognuna con un diverso meccanismo d'azione. Tutti questi farmaci non sono in
grado di uccidere il virus, ma agiscono bloccandone la replicazione. Tali farmaci pertanto non
sono attualmente curativi, ed i pazienti in trattamento, anche se hanno una carica virale non
rilevabile nel sangue, devono comunque ritenersi sempre potenzialmente infettanti.
Inibitori Nucleosidici della Transcriptasi Inversa (RTI)
I farmaci appartenenti a questa classe sono stati i primi ad essere utilizzati nella terapia
dell'infezione da HIV; il capostipite di questi infatti, la Zidovudina (AZT), è stata utilizzata fin
dal 1987. I risultati che si ottenevano erano però solo transitori, e questo era dovuto al fatto
che il suo impiego in monoterapia provocava rapidamente l'insorgenza di resistenze.
Meccanismo d'azione: questi farmaci sono in grado di inibire il processo di replicazione del
virus mediante il blocco della trascrizione dell'RNA virale in DNA provirale; agiscono
19
sostituendosi alle basi azotate durante la trascrizione, in modo che il DNA provirale
neoformato sia incompleto e quindi incapace di originare nuove particelle virali.
Inibitori Non-Nucleosidici della Transcriptasi Inversa (NNRTI)
Questa classe di farmaci fu scoperta circa 10 anni fa, ma il loro sviluppo era stato ostacolato
dagli scarsi risultati ottenuti in seguito all'impiego in monoterapia, che aveva comportato la
rapida insorgenza di resistenza.
Meccanismo d'azione: anche questi, come i farmaci della classe precedente, sono inibitori
della transcriptasi inversa, ma agiscono con un meccanismo diverso: si legano direttamente al
sito attivo dell'enzima, bloccandone l'azione ed impedendo così che avvenga la formazione del
DNA provirale.
In Italia sono attualmente registrati due farmaci appartenenti a questa classe. Questi farmaci
hanno una buona biodisponibilità ed una lunga emivita, per cui possono essere somministrati
solo una o due volte al giorno.
Inibitori della proteasi(IP)
Sono i farmaci che hanno radicalmente modificato l'impatto della terapia antiretrovirale,
essendo caratterizzati da una potente attività di blocco della replicazione virale.
Meccanismo d'azione: questi farmaci agiscono nell'ultima fase del ciclo replicativo dell'HIV,
inibendo la proteasi virale, un enzima che permette la maturazione delle nuove particelle virali
rendendole a loro volta infettanti. In questa sono elencati gli inibitori delle proteasi
attualmente disponibili.
Il motivo principale dell'insuccesso di una terapia è dovuto alla insorgenza di resistenza ai
farmaci; ciò succede quando il virus va incontro a delle mutazioni della propria struttura
genetica che gli permettono di "sfuggire" all'azione del farmaco. Poiché le mutazioni compaiono
durante la replicazione, è evidente che la loro insorgenza è la diretta conseguenza di una
incompleta soppressione dell'attività virale, quale si verifica per esempio in caso di assunzione
scorretta della terapia o di inadeguatezza della stessa.
Per ridurre il rischio che ciò accada sono essenziali due fattori:
20
- utilizzare più farmaci in combinazione fra loro;
- ottimizzare l'aderenza del paziente alla terapia.
Terapia con più farmaci
L'impiego di una terapia di combinazione con farmaci diversi consente di aggredire il virus da
più parti, riducendo così la possibilità che questo possa andare incontro a mutazioni e quindi a
sviluppare resistenza.
Vari studi hanno evidenziato la diversa efficacia clinica e virologica della monoterapia
comparata con l'impiego di almeno 2 o 3 farmaci. Il primo studio che ha mostrato la
superiorità della triplice terapia è stato l'ACTG 320; questo studio ha dimostrato che la
combinazione AZT-3TC-IDV è molto più efficace dei soli AZT-3TC nel sopprimere la replicazione
virale, anche in pazienti in fase avanzata di infezione.
Nella figura viene schematizzato il diverso andamento della replicazione virale in corso di
mono, duplice o triplice terapia.
Aderenza al trattamento
L'aderenza al trattamento, cioè l'assunzione costante e regolare della terapia, è fondamentale
per un buon esito della stessa. Un adeguato successo virologico richiede una aderenza alla
terapia superiore al 90%.
L'aderenza alla terapia dipende da vari fattori:
Compliance: gli schemi terapeutici della terapia combinata richiedono l'assunzione di
numerose compresse al giorno (anche più di 15!), ma soprattutto richiedono una particolare
attenzione alle modalità di somministrazione; infatti ogni farmaco va preso ad orari fissi stando
attenti a non saltare le dosi, ed inoltre alcuni vanno presi a stomaco pieno ed altri a digiuno.
Durata: la terapia va proseguita a tempo indeterminato, per cui il paziente in trattamento con
antiretrovirali deve considerarsi come un malato cronico che deve assumere costantemente i
farmaci per prolungare la sopravvivenza. L'interruzione della terapia comporta infatti
invariabilmente la ripresa della replicazione virale e quindi della progressione dell'infezione.
Tossicità: l'ostacolo principale all'aderenza alla terapia per periodi prolungati è comunque
rappresentato dalla tossicità dei farmaci, i quali possono provocare vari effetti collaterali che
possono obbligare alla sospensione del trattamento, anche in presenza di un beneficio clinico.
In tal caso va tenuta presente una regola generale: in caso di intolleranza o di tossicità è
sempre meglio sospendere del tutto la terapia piuttosto che assumere i farmaci a
dosaggio ridotto. Ciò infatti, per quanto già visto in precedenza, potrebbe favorire
l'insorgenza di resistenze.
Test di Resistenza
Il problema delle resistenze ai farmaci è pertanto il principale motivo di insuccesso di una
terapia antiretrovirale. In pazienti che abbiano fallito una terapia sarebbe perciò importante
21
poter avere la possibilità di determinare in modo esatto a quali farmaci il virus è diventato
resistente.
Attualmente sono in fase di uso sperimentale due diversi tipi di test per la determinazione della
resistenza dell'HIV ai farmaci antiretrovirali. Tali test, non ancora ufficialmente approvati
dall'FDA, se usati correttamente in determinati casi sono in grado di migliorare l'efficacia della
terapia.
Le linee guida dell'IAS del maggio 2000 indicano la necessità di eseguire un test di resistenza
nelle seguenti situazioni:
- nella scelta di un regime terapeutico quando siano state fallite terapie precedenti, e più in
generale in qualsiasi occasione sia necessario cambiare una terapia;
- nella scelta del regime iniziale di trattamento, soprattutto quando vi sia il sospetto che il
paziente sia stato infettato con un virus già resistente;
- nella donna gravida
Sono attualmente disponibili due diversi tipi di test di resistenza: l'esame genotipico e l'esame
fenotipico.
Test genotipico:
Il genoma dell'HIV, l'RNA virale, è costituito da diversi geni, ognuno dei quali è a sua volta
costituito da una specifica sequenza di nucleotidi. Modificazioni di questa sequenza sono
definite mutazioni. Mutazioni a livello dei geni che codificano per la produzione degli enzimi
deputati alla replicazione virale, la transcriptasi inversa (RT) e la proteasi (PR), possono
indurre resistenza ai farmaci che agiscono su questi enzimi (RTI e NNRTI per il primo, inibitori
della proteasi per il secondo). I test genotipici sono progettati per determinare la presenza di
variazioni della sequenza nucleotidica in questi geni, e si basano sulle tecniche di
amplificazione genica (PCR) usate anche per la determinazione della carica virale.
Nella tabella in basso sono riassunti i vantaggi e gli svantaggi di questo test.
Test Genotipici
Vantaggi
Svantaggi
- Relativamente semplice da
eseguire
- Disponibile ovunque
- Risposta rapida
- Permette di rilevare
mutazioni "sentinella" prima
che queste provochino
variazioni del fenotipo
- Non rileva la presenza di
varianti virali
minori
- L'interpretazione richiede la
precedente conoscenza delle
mutazioni che inducono la
resistenza
- Non può stabilire l'effetto di
più mutazioni sul fenotipo
virale
La validità di questa metodica è stata dimostrata da due grossi studi, Il GART ed il VIRADAPT ,
nei quali i pazienti che fallivano un trattamento contenente un inibitore della proteasi venivano
randomizzati a modificare la terapia o secondo le indicazioni di un test genotipico, oppure
secondo le consuete indicazioni cliniche. In entrambi gli studi si è osservato un andamento
migliore nel gruppo di pazienti che aveva modificato la terapia sulla base del test genotipico. In
questi pazienti inoltre l'HIV-RNA si riduceva in maggior misura.
Test fenotipico:
Questo test è in grado di saggiare l'efficacia dei farmaci direttamente su virus coltivati in
laboratorio, nei quali siano stati "trapiantati" i geni RT e PR del virus del paziente. Questo test
è però molto più lungo e complesso da eseguire, ma fornisce risultati in teoria più vicini alla
realtà, ed è in grado di determinare la presenza di una resistenza ad un certo farmaco anche
se non è ancora nota la particolare mutazione che induce quella resistenza.
Nella tabella in basso sono riassunti i vantaggi e gli svantaggi del test fenotipico.
Test Fenotipici
Vantaggi
Svantaggi
- Permette di rilevare
l'effetto di più mutazioni
associate
- Non rileva la presenza di
varianti minori
- E' costoso e lungo da eseguire
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- Fornisce dati sulla
resistenza crociata tra i vari
farmaci
- La complessità ne limita
l'esecuzione a pochi laboratori
specializzati
- Lungo tempo
Lo studio VIRA 3001 è stato eseguito con criteri simili a quelli precedentemente citati,
utilizzando il test fenotipico anziché quello genotipico, ed anche in questo caso si sono ottenuti
risultati migliori nei pazienti che avevano modificato la terapia sulla base del test.
Ciò che ancora limita un estensivo impiego di tali metodiche è la mancanza di una
interpretazione sicura e standardizzata dei risultati.
Un tentativo di fornire un supporto al clinico per l'interpretazione del test genotipico è la
costruzione del cosiddetto Fenotipo Virtuale, realizzato dalla VIRCO, Belgio. Questa
metodica dovrebbe consentire di predire il fenotipo virale sulla base di un ampio database
relazionale nel quale sono registrati il genotipo ed il fenotipo di oltre 100.000 pazienti ai quali
sono stati effettuati entrambi i test. L'attendibilità con la quale questo fenotipo Virtuale
rispecchia l'effettivo fenotipo del paziente va dall'80% ad oltre il 95%, a secondo del tipo di
farmaco in studio.
Monitoraggio del livello dei farmaci nel sangue
Il dosaggio della quantità di farmaco presente nel sangue dovrebbe servire ad ottimizzare le
dosi da somministrare ad ogni singolo paziente, in quanto eventuali differenze di assorbimento
e di distribuzione del farmaco da persona a persona potrebbero influenzare l'efficacia della
terapia. Nella pratica clinica in realtà non è ancora chiaro se questo tipo di misurazione possa
portare a dei benefici reali. Uno studio recente ha analizzato la potenziale utilità di questo
monitoraggio per le varie classi di farmaci: gli RTI non sono candidati ideali a causa delle
difficoltà (e del costo) che si incontrano per misurare i metaboliti attivi di questi farmaci, che
sono dei nucleosidi intracellulari; gli NNRTI hanno una lunga emivita, per cui il monitoraggio
del livello plasmatico appare essere superfluo; gli IP invece si presentano come dei candidati
ideali per l'esecuzione di questo esame, in quanto le loro concentrazioni sono spesso variabili e
ciò influisce direttamente sull'efficacia della terapia.
Attualmente l'impiego di questa metodica di monitoraggio viene utilizzata da laboratori molto
specializzati solo nell'ambito di studi clinici controllati.