La prima guerra mondiale

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unità
II
La prima guerra
mondiale
Riferimenti storiografici
1
Nel riquadro il kaiser Guglielmo II e l’imperatore d’Austria Francesco
Giuseppe.
Sommario
1
2
3
Le violenze contro i kosovari albanesi nel 1912
La produzione industriale in Francia e in Germania
I prigionieri di guerra
F.M. Feltri, Chiaroscuro – Nuova edizione © SEI, 2012
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Le violenze contro i kosovari albanesi
nel 1912
UNITÀ II
Quando la Serbia, nell’autunno del 1912, riuscì a impadronirsi del Kosovo, i kosovari albanesi furono considerati come degli intrusi e dei ladri, degli usurpatori che si erano impadroniti
della terra altrui, grazie al sostegno di una potenza straniera non
cristiana. Ne nacque una feroce pulizia etnica, anticipatrice dei
numerosi stermini che avrebbero segnato il Novecento.
LA PRIMA GUERRA MONDIALE
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Un giornalista che seguì la guerra, il corrispondente da
Vienna del giornale ucraino “Kievskaia Mysl”, Lev Bronshtein (più noto nella storia con il nome di Lev Trotzkij), rimase
impressionato dalle prove di atrocità da parte delle forze
serbe e bulgare. Un ufficiale serbo gli disse che le peggiori
furono commesse non dall’esercito regolare ma dai cetnici
[= guerriglieri, partigiani, n.d.r.] paramilitari: «Tra di loro vi
erano intellettuali, uomini di pensiero, fanatici nazionalisti,
ma si trattava di individui isolati. Per il resto erano solo delinquenti, ladri, che si erano uniti all’esercito per far bottino».
Ma altre prove persuasero Trotzkij che l’uccisione degli albanesi e la distruzione dei loro villaggi fosse il risultato di
qualcosa di più dell’iniziativa di qualcuno: concluse che «i
serbi della Vecchia Serbia», nel loro sforzo nazionale di correggere i dati delle statistiche etnografiche a loro non molto
favorevoli, sono impegnati molto semplicemente nello sterminio sistematico della popolazione musulmana [= i kosovari albanesi, n.d.r. ]. [...]
A gran parte dei giornalisti stranieri fu proibito di entrare in Kosovo, ma alcune notizie filtrarono: un giornalista danese a Skopje riferì che 5000 albanesi erano stati
uccisi a Pristina dopo la cattura della città, e scrisse che
la campagna serba aveva «assunto il carattere di un orrendo massacro della popolazione albanese». Alcune
informazioni raggiunsero il mondo esterno attraverso la
Chiesa cattolica: fu da un prete cattolico locale che il
“Daily Telegraph” apprese di un massacro a Ferizaj,
dove il comandante serbo aveva invitato gli albanesi a
ritornare alle loro case in pace: quelli che lo fecero (300400) furono poi portati fuori e fucilati. Il resoconto più
complesso e agghiacciante fu quello di Lazer Mjeda, arcivescovo cattolico di Skopie, in una relazione a Roma
del 24 gennaio 1913. Scrisse che a Ferizaj solo tre albanesi musulmani di età superiore ai 15 anni erano stati
lasciati in vita; la popolazione albanese di Gjilan era
stata anch’essa massacrata, nonostante la città si fosse
arresa senza combattere e Giacova era stata completamente saccheggiata. Ma il caso peggiore fu Prizren,
che, come Gjilan, si era arresa pacificamente:
«La città sembra il regno della morte. Picchiano alle
porte delle case albanesi, portano via gli uomini e sparano loro immediatamente. In pochi giorni il numero degli uomini uccisi ha raggiunto 400. Per quanto riguarda
le devastazioni, i saccheggi e gli stupri, non occorre parlarne; d’ora innanzi l’ordine del giorno è: qualunque
cosa è permessa contro gli albanesi – non solo permessa, ma voluta e ordinata. E nonostante tutti questi
orrori, il comandante militare, Bozo Jankovic, ha obbligato i notabili della città, con la pistola in pugno, a spedire un telegramma di ringraziamento al re Pietro!»
Nel complesso, l’arcivescovo calcolò che il numero
totale di albanesi uccisi in Kosovo a questo punto fosse
già di 25 000. Questo dato concordava con altri rapporti
apparsi sulla stampa europea, che avevano fornito una
stima di 20 000 ai primi di dicembre. Nel 1914, una
commissione internazionale d’inchiesta istituita dal Carnegie Endowment [= organizzazione mondiale per la
promozione della pace, n.d.r.] pubblicò i propri risultati.
Non azzardò una valutazione per quanto riguardava il
numero totale di albanesi uccisi, ma concluse che era
stato attuato qualcosa di simile a una politica sistematica: «Case e interi villaggi ridotti in cenere, popolazioni
disarmate e innocenti massacrate... questi furono i
mezzi che vennero e sono tuttora utilizzati dai soldati
serbo-montenegrini, con l’intenzione di trasformare del
tutto il carattere etnico delle regioni abitate esclusivamente da albanesi».
Una speciale caratteristica della politica serba e
montenegrina fu la conversione forzata dei musulmani
e cattolici all’ortodossia. Essa fu applicata con particolare vigore dai montenegrini, che controllavano la regione
di Pec; nel maggio 1913, il console austriaco a Prizren
riferì che 2000 famiglie musulmane nella città di Pec
erano state convertite e che quelli che rifiutavano venivano torturati o uccisi. [...] Il motivo immediato di tutte
queste misure era, come lo si riconobbe chiaramente in
alcuni resoconti citati prima, quello di cambiare le statistiche della popolazione e quindi di rafforzare la posizione diplomatica dei governi serbo e montenegrino
per vedersi riconosciuto il diritto di incorporare queste
terre conquistate.
N. MALCOM, Storia del Kosovo. Dalle origini ai giorni nostri,
Bompiazni, Milano 1999, pp. 290-292, trad. it. M. PAGLIANO,
O. PUTIGNANO E M. W. CROCE
Chi erano i «cetnici»?
Si può individuare una precisa regia, dietro i massacri? Quali obiettivi erano perseguiti?
Quale comportamento permetteva, a volte, di evitare l’uccisione?
F.M. Feltri, Chiaroscuro – Nuova edizione © SEI, 2012
La guerra pose a tutti gli stati dei gravi problemi economici; la Germania, ad esempio, dovette risolvere il problema della produzione in laboratorio dei materiali che non poteva più importare dall’estero. In Francia, invece, vennero elaborati nuovi
sistemi per la produzione in serie di armamenti.
Fra i principali belligeranti, la Francia si trovò coinvolta
in modo particolarmente drastico nelle prime settimane
di guerra. Le perdite iniziali furono molto pesanti e l’economia si avvicinò al collasso. La crisi della Francia
venne resa più grave dal fatto che, con la stabilizzazione
del fronte, la parte del Paese che rimaneva al di là delle
linee tedesche era particolarmente importante come
fonte di ferro e carbone: il nerbo della costruzione di
armi. Anche nelle fabbriche di armamenti che erano rimaste ben al di qua delle linee francesi, la manodopera
scarseggiava, dal momento che gli operai validi erano
stati richiamati al pari degli altri [= come tutti gli altri cittadini abili al servizio militare – n.d.r.]. Di conseguenza,
quando divenne chiaro che l’artiglieria avrebbe dovuto
sparare una granata dopo l’altra attraverso la linea delle
trincee in quantità fino a quel momento inimmaginabili,
il ministro francese della Guerra concluse, già il 20 settembre del 1914, che sarebbe stato necessario congedare uomini dall’esercito per produrre le munizioni necessarie. In un primo momento, regnò la confusione. Gli
industriali vennero autorizzati a setacciare le stazioni
ferroviarie e altri luoghi del genere in cerca di personale
opportunamente qualificato. [...] Ma nel corso della
guerra [...] la produzione francese di granate da 75 mm
riuscì a soddisfare la domanda nel 1915, e raggiunse un
livello di oltre 200000 unità al giorno: venti volte la produzione iniziale. In seguito, la conversione su nuovi tipi
di armi (grandi pezzi da artiglieria da 155 mm e novità
come aeroplani e carri armati) divenne più importante del
semplice numero di granate. Anche in questo campo i
francesi eguagliarono o superarono le possibilità delle altre potenze, al punto che, quando la Forza di Spedizione
Americana cominciò ad arrivare in Francia, un accordo
sancì che la maggior parte dell’equipaggiamento pesante fosse fornito da officine e da arsenali francesi. Più
della Gran Bretagna e molto più dell’America, la Francia
divenne così l’arsenale della democrazia nella prima
guerra mondiale.
I tedeschi avevano un problema differente. [...] Dal
momento dello scoppio della guerra, la Royal Navy [= la
marina da guerra inglese – n.d.r.] dichiarò il blocco delle
coste tedesche e rese sempre più difficile l’accesso ai fornitori d’oltremare. [...] I tedeschi però riuscirono a reperire
sostituti per molti prodotti. Per esempio, il rame fu rimpiazzato da altri metalli negli involucri delle granate; e, per
quegli usi per i quali era insostituibile, il ricorso alle leghe
e al trattamento elettrolitico consentì di utilizzare al massimo le quantità disponibili. Migliaia di altri adattamenti nei
procedimenti industriali preservarono le materie prime
scarse, evitando crolli significativi della produzione. Ma
nulla poteva rimpiazzare i nitrati nella fabbricazione della
polvere da sparo. I chimici sapevano già come trasformare l’azoto atmosferico in nitrati, ma il processo non era
mai stato sperimentato su scala industriale, dati gli alti costi che comportava. Dopo che nell’ottobre del 1914 lo
stock iniziale di polvere da sparo della Germania si esaurì,
la prosecuzione dei combattimenti dipese dalla produzione di nitrati da parte di impianti industriali creati completamente ex novo. In mancanza di questo, la guerra sarebbe velocemente giunta a termine, dal momento che
era praticamente impossibile contrabbandare i nitrati del
Cile attraverso il blocco britannico.
Di conseguenza, per i primi due anni di guerra il ministro della Guerra accordò la pianificazione e regolò le
dimensioni dello sforzo bellico nazionale sulla base della
quantità di polvere da sparo disponibile di mese in
mese. Nel 1914, 1000 tonnellate al mese era il massimo
che fu possibile produrre, mentre all’esercito ne occorrevano 7000 tonnellate per poter sparare liberamente.
Nell’autunno del 1914 il ministero della Guerra fissò
dapprima un obiettivo di 3500 tonnellate al mese, per
elevarlo a 4500 nel dicembre del 1914, quando svanirono definitivamente le prospettive di una sollecita vittoria. Nel febbraio del 1915 l’obiettivo fu portato a 6000
tonnellate al mese. La produzione di polvere da sparo rimase al di sotto di questi obiettivi, ma non di molto, dal
momento che nel luglio del 1915 ne vennero effettivamente prodotte 6000 tonnellate. Il ministero della Guerra
e l’industria tedesca potevano ben andare fieri del risultato, anche se 6000 tonnellate di polvere da sparo al
mese non erano ancora sufficienti a soddisfare una domanda sempre crescente.
W. MCNEILL, Caccia al potere. Tecnologia, armi, realtà sociale
dall’anno Mille, Feltrinelli,
Milano 1984, pp. 261-265
Di quale comune convinzione è segnale il fatto che, in un primo tempo, anche gli operai specializzati impiegati nelle
fabbriche di munizioni fossero stati chiamati alle armi?
Come fu risolto dai tedeschi il problema della carenza di nitrati?
Fu possibile all’industria bellica francese e a quella tedesca rispondere alle richieste dei rispettivi eserciti?
F.M. Feltri, Chiaroscuro – Nuova edizione © SEI, 2012
UNITÀ II
La produzione industriale in Francia
e in Germania
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RIFERIMENTI STORIOGRAFICI
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I prigionieri di guerra
UNITÀ II
La prima guerra mondiale coinvolse milioni di soldati. Non
solo le perdite, ma anche il numero dei prigionieri raggiunse dimensioni che nessun altro conflitto del passato aveva mai toccato. Tutti gli stati si trovarono impreparati di fronte al fenomeno
della prigionia di massa: i soldati catturati, pertanto, spesso vissero in condizioni igieniche pessime e sperimentarono la
fame.
LA PRIMA GUERRA MONDIALE
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Smisurata ed estrema in ogni suo aspetto, la prima
guerra mondiale conobbe anche i primi fenomeni di detenzione di massa. Come erano milioni gli uomini mobilitati, così per la prima volta furono milioni i prigionieri deportati nei territori europei e sottoposti alla reclusione per
mesi e anni. La guerra si rivelava anche in questo un
prodotto della modernità. Solo un moderno sistema
ferroviario poteva assicurare un flusso di uomini di tale
ampiezza. E il trattamento delle schiere immani di prigionieri pose problemi organizzativi e logistici che non si
erano mai presentati in maniera analoga. Secondo cifre
ufficiali i prigionieri catturati dai due schieramenti in
campo nel corso della guerra furono complessivamente
otto milioni e mezzo: quattro milioni circa catturati dalle
potenze dell’Intesa [= Gran Bretagna, Francia, Russia,
Italia e Stati Uniti – n.d.r.] e intorno ai quattro milioni e
mezzo catturati dagli Imperi centrali [= Germania e Austria-Ungheria – n.d.r.]. Spesso l’arrivo dei prigionieri
avveniva a ondate di molte migliaia dopo grandi scontri, e le strutture di detenzione dovevano essere approntate in fretta e furia con la costruzione di agglomerati di baracche recintati, in certi casi ad opera degli
stessi prigionieri. A Rastatt nel Baden esisteva un campo
denominato Russenlager perché era stato costruito dai
soldati russi catturati nel corso di una delle prime grandi
battaglie del fronte orientale. In Germania i prigionieri detenuti dopo un solo mese di guerra erano già 200000,
ma salirono a 600000 nel gennaio del 1915, e a un milione e settecentocinquantamila alla fine del 1916.
Possiamo immaginare cosa significasse organizzare
questi milioni di uomini, registrarli, ricoverarli, sorvegliarli, nutrirli. L’orrore per il caso limite dello sterminio
promosso dai nazisti nel corso della seconda guerra
mondiale, divenuto un paradigma [= esempio rappresentativo – n.d.r.] della crudeltà al di là di ogni paragone
possibile, ha messo generalmente in ombra e fatto dimenticare le anticipazioni di tutto questo già presenti nei
campi di prigionia della prima guerra mondiale. Naturalmente ci sono differenze non trascurabili tra le due vicende. Nel caso dello sterminio nazista siamo di fronte
a un deliberato proposito di annientamento di interi
gruppi etnici e categorie di persone, giunto per così dire
alla perfezione tecnica e organizzativa. Viceversa nel
caso dei campi di detenzione della Grande Guerra la violenza esercitata sui prigionieri era solo in parte frutto dell’odio e della volontà punitiva; in gran parte era piuttosto la conseguenza dello spostamento coatto e della
concentrazione improvvisata di grandi masse, spesso
già provate [= sottoposte ad esperienze di sofferenza –
n.d.r.], in condizioni di emergenza. [...]
Ad aggravare la situazione in Germania e in Austria
si aggiunsero le difficoltà alimentari dovute al blocco navale imposto dallo schieramento avversario, che colpirono la generalità della popolazione in maniera via via più
pesante e a maggior ragione si riverberarono sui prigionieri. Essi patirono così, oltre ai rigori della disciplina, anche il freddo e la fame. Le razioni giornaliere prevedevano un poco di caffè d’orzo, minestre con qualche
foglia di cavolo o rapa, una minima quantità di pane o
di patate. Tale regime alimentare assicurava ai prigionieri
una quantità di calorie inferiore alle 1000, quando ne sarebbero state necessarie – per sopravvivere in luoghi
freddi – almeno 3300. Molti morirono di stenti e di malattie, in particolare la tubercolosi e l’edema da fame (in
tedesco Hungeroedem). In un solo reparto dell’ospedale
di Mauthausen nell’Austria superiore, tra il novembre del
1917 e l’aprile del 1918, si registrarono 500 morti per
enterite [= infiammazione dell’intestino tenue – n.d.r.]. A
Sigmundsherberg (Bassa Austria) nel 1917 morirono
491 prigionieri italiani, di cui 247 per polmonite, e nei
primi nove mesi del 1918 i morti furono 1779, di cui 503
per polmonite. Non solo nelle trincee ma nei campi di
prigionia fa la sua comparsa la morte in massa i cui tratti
tipici, fissati dalle statistiche ma anche dai documenti fotografici, sembrano anticipare – nei mucchi informi di cadaveri accatastati, nelle schiere spettrali di
uomini rapati a zero – le immagini di annientamento
dei campi di sterminio [sarebbe più corretto utilizzare, in
questo caso, l’espressione campi di concentramento –
n.d.r.] organizzati dai nazisti, talvolta nelle stesse località, venticinque anni dopo.
Gli italiani che finirono nei campi austro-tedeschi furono complessivamente 600000, circa la metà dei quali
catturati nel corso della rotta di Caporetto. I principali
campi che li accolsero furono, oltre a Mauthausen e
Singmundsherberg, Theresienstadt in Boemia, Celle
nell’Hannover, Rastatt nel Baden. [...] Dei 600000 prigionieri circa 100000 non tornarono più, la maggior
parte dei quali morti di tubercolosi, di stenti e di fame.
A. GIBELLI, La grande guerra degli Italiani 1915-1918, Sansoni,
Firenze 1998, pp. 124-131
Che cosa distingue la pur grave condizione dei soldati detenuti nei campi di prigionia, negli anni 1914-1918, da quella
dei deportati nei lager nazisti durante la seconda guerra mondiale?
Quali problemi tipici della Germania e dell’Austria-Ungheria aggravarono le condizioni dei prigionieri internati in questi due
paesi?
Che cosa significa l’espressione morte di massa?
F.M. Feltri, Chiaroscuro – Nuova edizione © SEI, 2012
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