CAROLINA FERRO* I rapporti tra fonti comunitarie e fonti nazionali ed i riflessi di tali rapporti sulla validità degli atti amministrativi. Il riconoscimento del sistema normativo comunitario come specie a sè stante del tutto eterogenea e non paragonabile con le esperienze e i tradizionali modelli dogmatici del diritto internazionale è presente fin dalle primissime pronunce della Corte di Giustizia ,in particolare nella sentenza 5 Febbraio 1963 C-26/62. la pronuncia segna il punto di arrivo di un lungo percorso giurisprudenziale sull’effetto diretto della normativa comunitaria e si fonda sulla premessa teorica che il trattato istitutivo delle Comunità europee si differenzi dai comuni trattati internazionali perché esso è costitutivo di un ordinamento giuridico originale, che riconosce come soggetti propri non solo gli Stati membri ma anche i cittadini che vi appartengono. Le norme del Trattato istitutivo e le loro modifiche quindi hanno una immediata incidenza nell’ordinamento giuridico interno. Al vertice dell’originale sistema normativo si trovano i trattati e le norme che li modificano, li integrano e completano ai sensi dell’articolo 230 del Trattato. Attraverso la sottoscrizione del trattato si verifica una cessione di sovranità dello Stato membro verso la comunità europea. Le fonti di diritto secondario o derivato sono ben delineate nell’articolo 249 del Trattato CE, esse sono generalmente considerate equipollenti e non rigidamente ordinabili secondo uno schema gerarchico. L’unione europea emana regolamenti, direttive, decisioni, raccomandazioni e pareri. 1 I regolamenti, con la loro portata generale e immediata efficacia nel diritto interno, sono obbligatori in tutti i loro elementi e direttamente applicabili. I problemi più marcati invece sono determinati dalle direttive. L’ordinamento italiano conosce diverse fasi, affrontati a livello costituzionale, del rapporto tra diritto interno e diritto comunitario, e in ultima analisi dalla modifica del titolo V della Costituzione. I difficili rapporti tra diritto comunitario e diritto interno conoscono finora ben quattro fasi. La prima è stata caratterizzata dalla nota sentenza della Corte Costituzionale n°14 del 1964 che perveniva alle conclusioni della equiordinazione tra norme interne e norme comunitarie. Con la conseguenza che se una norma interna è successiva ad una norma comunitaria e con essa in contrasto si giunge all’ipotesi di abrogazione della norma comunitaria perché in contrasto con la norma interna. Non viene ritenuta praticabile la strada dell’inquadramento,nell’ambito della Costituzione della partecipazione dello Stato italiano al sistema dei trattati comunitari con il conseguente effetto di consentire per violazione dell’articolo 11 della cost.il sindacato costituzionale della norma interna che contrasta con il diritto comunitario. Questa interpretazione non è rimasta esente dalle critiche mosse dalla Corte di giustizia, la quale invocando l’articolo 5 del Trattato istitutivo ora articolo 10 evidenziava che l’adesione di uno stato membro ad un trattato come quello europeo implica che l’attività normativa dello stato mebro deve orientarsi ai principi da esso ricavabili. Infine dall’articolo 10 si ricava il principio secondo il quale in tutti gli stati membri deve esserci uniformità nell’attività normativa, con la prevalenza del diritto comunitario sulle norme interne. 2 La corte di giustizia quindi, in contrapposizione alla Corte Costituzionale, afferma il primato del diritto comunitario su quello interno come strumento necessario per assicurare l’uniformità e l’effettività del diritto comunitario. La seconda fase è caratterizzata, negli anni settanta da due sentenze la n° 183 del 1973 e la n° 232 del 1975. In queste decisioni la Corte Cost. muta radicalmente impostazione al problema e con l’aggancio all’articolo 11 della Costituzione utilizza lo strumento della declaratoria di incostituzionalità delle norme interne per contrasto con il principio costituzionale di cui all’articolo 11 della Carta costituzionale. L’impostazione della Consulta neanche questa volta convince la Corte di Giustizia,sostenendo il giudice comunitario che l’articolo 11 è norma costituzionale che regola i rapporti tra l’Italia e le Nazioni Unite, presupposti diversi e di natura economica, sociale e di competitività sono invece alla base dei rapporti tra l’Italia e le comunità europee. Il solo radicamento nell’art. 11 pone indubbiamente qualche problema interpretativo, specie in riferimento alla loro utilizzazione come parametri nel giudizio di costituzionalità. Le critiche mosse dalla Corte di Giustizia sono state recepite e si diede l’avvio alla terza fase del processo che vede il riconoscimento della primazia del diritto comunitario, che porta alla disapplicazione della norma interna in contrasto alla norma comunitaria. D’altra parte l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale che si è interamente formata solo con l’aggancio all’art. 11 e che è giunta alle conclusioni a tutti note cristallizzate nell’ormai storica sentenza 170/84. Con la terza fase la Corte Costituzionale evidenziò principi come la separazione e coordinazione degli ordinamenti, efficacia diretta del diritto comunitario derivato, non applicazione della norma interna configgente 3 con il diritto comunitario con i correttivi giustificati dalla particolarità di talune situazioni con assunzione a parametro della norma comunitaria, come norma interposta. La quarta fase è invece caratterizzata dall’impatto nuovo che ha determinato l’articolo 117 così come riscritto dalle modifiche del titolo V della Costituzione. La novità fondamentale consiste nell’avere introdotto il legislatore, riformando la costituzione, il rispetto dei vincoli derivanti dal diritto comunitario, nell’attività normativa riconosciuta allo Stato e alle regioni. In ordine a questo rilevante (e, potrebbe dirsi ) decisivo profilo che si riflette sulla ricostruzione del ruolo da attribuire al vincolo comunitario accolto nell’art. 117 si sono levate alcune obiezioni di fondo sulle quali conviene soffermarsi. Si è detto, infatti, che ove l’art, 117, 1° c., fosse assunto come unico parametro nel giudizio costituzionale si perverrebbe ad un esito paradossale, in qualche modo in contrasto con la stessa finalità cui è ispirata la norma costituzionale. La prevalenza del diritto comunitario verrebbe infatti ad essere assicurata mediante un meccanismo indiretto, vale a dire attraverso la dichiarazione di illegittimità costituzionale per contrasto con la norma comunitaria, mentre oggi la primazia del diritto comunitario trova la sua forte garanzia nella diretta applicabilità della norma comunitaria e nella correlativa non applicazione da parte del giudice italiano. Si tratterebbe, se così fosse, di una sorta di passo indietro della giurisprudenza costituzionale, che per un verso condurrebbe la Corte ad attribuire alla norma costituzionale in questione un significato diverso rispetto a quello della sua più genuina ratio e, dall’altro, finirebbe per 4 porsi in contrasto con l’intera evoluzione della giurisprudenza che ha assicurato stabilmente la prevalenza del diritto comunitario. All’art. 117 dovrebbe allora attribuirsi un significato di conferma e rafforzamento della impostazione fin qui seguita, e dovrebbe pertanto ritenersi consolidato il generale principio della prevalenza del diritto comunitario attraverso lo strumento della non applicazione affidato al giudice comune, con quei correttivi che affiorano dalla giurisprudenza costituzionale, vale a dire salvaguardando quelle ipotesi in cui la Corte ha giudicato assumendo la norma comunitaria come diretto parametro e che verrebbero, per così dire, rafforzate ed irrobustite dalla nuova disposizione costituzionale. Insomma il vincolo comunitario, altro significato non potrebbe avere se non quello di sancire definitivamente il sistema della non applicazione al quale potrà continuare ad affiancarsi – come è già avvenuto in particolari casi – quello della dichiarazione di illegittimità costituzionale per contrasto con la normativa comunitaria . Non vi è dubbio che dietro questa ricostruzione si intraveda l’intento di salvaguardare un’impostazione dei rapporti che ha comunque assicurato una base stabile all’ingresso del diritto comunitario nel nostro ordinamento contro possibili distorsioni discendenti da una interpretazione del “nuovo” vincolo contenuto nell’art. 117. E tuttavia una simile ricostruzione va oggi confrontata sia con l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale nel frattempo intervenuta che ha utilizzato per la prima volta il solo parametro dell’art. 117, sia, più in generale, con la posizione della Corte e con le significative aperture intervenute in ordine alla forte capacità del diritto comunitario di incidere sullo stesso riparto di competenze tra Stato e Regione. 5 La giurisprudenza costituzionale, successiva all’introduzione del vincolo comunitario nell’art. 117, si era infatti caratterizzata, nei suoi primi quattro anni, per un atteggiamento che era parso, per un verso, elusivo rispetto al ruolo da attribuire alla nuova norma costituzionale quale parametro nei giudizi di legittimità e, per altro verso, incline a riconoscere quale conseguenza dell’introduzione esplicita del vincolo una capacità del diritto comunitario ad incidere sul riparto interno delle competenze tra Stato-Regione. Pur con qualche cautela la Corte ha finito con l’ammettere l’idoneità del diritto comunitario a prevalere ed a condizionare il riparto interno delle competenze, con la conseguenza – come è stato esattamente osservato – di assorbire il profilo della legittimità costituzionale in quello della legittimità comunitaria. In altri termini, e con particolare riferimento ai limiti della legge regionale, una violazione da parte di quest’ultima del riparto di competenze fissato nella costituzione finisce per divenire irrilevante se la legge regionale risulta però conforme al diritto comunitario. Si configurava, pertanto, come contraddittoria una posizione che, contemporaneamente, apriva alla capacità di incidenza diretta dell’ordinamento comunitario ad operare sul riparto delle competenze costituzionalmente previste ed eludeva poi il tema del ruolo da attribuire all’art. 117, 1° comma nel giudizio di legittimità costituzionale. Queste posizioni fanno da sfondo a quella che è parsa una decisa svolta nella giurisprudenza più recente e che ha visto per la prima volta la Corte assumere ad esclusivo parametro di legittimità, nell’ambito di giudizi di legittimità in via di azione, proprio l’art. 117, 1° c., Cost.. Prima di queste due più recenti decisioni la Corte era stata investita di questioni nelle quali era prospettata la violazione del vincolo comunitario ex art. 117, ma aveva sempre finito per evitare di affrontare 6 il problema, ora ritenendo la questione assorbita dal richiamo ad altri parametri costituzionali specie in riferimento al riparto di materie tra Stato e Regione, ora giungendo a decisioni di inammissibilità nelle quali, in controluce, sembrava potersi intravedere la successiva apertura al richiamo diretto al primo comma dell’art. 117 assunto quale unico e diretto parametro. Con la sentenza 406 del 2005 la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una legge regionale, nella specie una legge della Regione Abruzzo recante “Disposizioni urgenti in materia di zootecnia” ritenendola “in palese contrasto con alcune delle prescrizioni fondamentali della normativa europea di cui alla direttiva n. 2000/75/CE del 20 novembre 200” e come tale in contrasto con il solo art. 117, 1° comma, mentre con la successiva sentenza 129 del 2006 la posizione viene ulteriormente ribadita e precisata ed anche rafforzata con la dichiarazione di illegittimità costituzionale di alcune disposizioni della legge regionale della Lombardia per contrasto con le direttive comunitarie “nell’interpretazione datane dalla Corte di Giustizia e riprodotta dal legislatore nazionale italiano”. La Corte sottolinea, in quest’ultima decisione come le “direttive comunitarie fungano da norme interposte atte ad integrare il parametro per la valutazione di conformità regionale all’art. 117, primo comma Cost.” e precisa poi che la norma costituzionale “collocata nella parte seconda della Costituzione, si ricollega al principio fondamentale contenuto nell’art. 11 Cost. e presuppone il rispetto dei diritti e dei principi fondamentali garantiti dalla Costituzione italiana”. La precisa intenzione di spostare l’attenzione interamente intorno al vincolo comunitario previsto dall’art. 117, 1° comma, emerge con chiarezza di contorni se si considera che la Corte avrebbe ancora una 7 volta potuto eludere in entrambi i casi di condurre il raffronto con la norma comunitaria direttamente e, dunque, senza assumere a parametro il 117, 1° comma Cost. Sia nell’uno che nell’altro caso, infatti, la direttiva comunitaria che si assumeva violata aveva ricevuto attuazione nell’ordinamento italiano con un atto legislativo, sia, pure, nel secondo caso, vale a dire quello deciso con la sentenza 129/2006, con un atto in via di definitiva confezione quale è uno schema di decreto legislativo, e la materia poteva ben a ragione ricondursi al novero delle materie di potestà concorrente, con conseguente indicazione tra i parametri invocati dal ricorrente anche dell’art. 117, terzo comma. Sarebbe stato facile, dunque, condurre lo scrutinio di costituzionalità evitando il problema della violazione della disciplina europea e lasciando così assorbito il profilo della violazione del vincolo comunitario, anch’esso, peraltro, in entrambi i casi indicato dallo Stato ricorrente tra i parametri che si assumevano violati. La Corte invece muta decisamente indirizzo e giunge così all’auspicato scongelamento dell’art. 117, 1° c., con una operazione che se, da una parte, forse non conduce alle estreme conseguenze possibili il ruolo della disposizione costituzionale, dall’altra si presta ad essere interpretata come base per futuri ulteriori svolgimenti della giurisprudenza costituzionale. Due aspetti di queste più recenti decisioni meritano di essere sottolineati. Nella prima delle due sentenze la Corte giunge alla dichiarazione di illegittimità per violazione dell’art. 117, 1° c., sulla scorta dell’accertato “palese contrasto” con le direttive comunitarie, di una violazione dunque che, per presentarsi come evidente dinanzi alle chiare indicazioni 8 provenenti dalla specifica direttiva comunitaria, non esigeva ulteriori approfondimenti. Simile ma non del tutto coincidente si rivela la ragione di fondo che spinge la Corte alla rinnovata utilizzazione del parametro costituzionale di cui si discorre nella più recente decisione del 2006. Qui la Corte è indotta a dichiarare l’illegittimità della normativa lombarda in tema di procedure ad evidenza pubblica per l’attribuzione di lavori, forniture e servizi muovendo dalla circostanza che il complesso delle direttive comunitarie ha trovato una chiara e puntuale precisazione ad opera della Corte di giustizia delle Comunità europee, di guisa che, potrebbe affermarsi, anche in questo caso la violazione ad opera della norma regionale della direttiva comunitaria, in quanto interpretata attraverso gli interventi di chiarificazione della Corte comunitaria, rivela una palese difformità con la disciplina comunitaria. Ma, in realtà nell’uno e nell’altro caso, affiora con sufficiente chiarezza di contorni un problema, o, forse, più correttamente, una implicazione verso la quale inevitabilmente finisce per dover urtare la giurisprudenza costituzionale, quella del rapporto con le questioni pregiudiziali di interpretazione del diritto comunitario affidate alla Corte di Giustizia. Il secondo profilo sul quale conviene soffermarsi è quello richiamato dalla Corte proprio nella sua più recente decisione laddove viene esplicitamente sottolineato che il nuovo art. 117, 1°comma, collocato nella parte seconda della Costituzione “si ricollega al principio fondamentale contenuto nell’art. 11 e presuppone il rispetto dei diritti e dei principi fondamentali garantiti dalla Costituzione italiana”. Non è difficile cogliere tra le righe di questa affermazione la volontà di determinare con maggiore precisione di contorni il significato della 9 nuova norma costituzionale aggiungendo un altro tassello all’ormai più che trentennale “cammino comunitario”. La Corte sembra voler chiarire in primo luogo, come la collocazione del 117, 1° c., nella parte seconda della costituzione non deve indurre a considerare il vincolo della funzione legislativa all’ordinamento comunitario come estraneo al novero dei principi fondamentali, bensì inserito proprio tra questi principi in ragione del suo stretto collegamento con l’art. 11. Il richiamo poi alla circostanza che un simile vincolo presupponga il rispetto dei diritti e dei principi fondamentali costituisce una conferma convinta della perdurante piena valenza di quella dottrina dei controlimiti che ha da sempre rappresentato uno snodo fondamentale dell’intera concezione comunitaria elaborata fino ad oggi dalla Corte. Ricevono piena conferma le opinioni di coloro i quali avevano posto l’accento sulla piena compatibilità tra il nuovo vincolo comunitario e le ragioni teoriche e dogmatiche che stavano al fondo della dottrina dei controlimiti In altri termini la Corte ribadisce come la costituzionalizzazione esplicita del vincolo comunitario come vincolo che informa di sé l’intera produzione legislativa, non incide più di tanto sull’idea che tale vincolo debba trovare un preciso condizionamento proprio nei principi fondamentali e nel sistema dei diritti costituzionali. Non significa però che nulla sia mutato rispetto al tempo precedente, quanto meno in conseguenza del fatto che tra i principi fondamentali è ora espressamente ricompresso proprio il “vincolo comunitario” la cui “intensità” pertanto potrà essere bilanciata e controllata dalla Corte proprio nel quadro più generale ed ampio dell’intero sistema dei diritti fondamentali. Ad un simile ordine di considerazioni potrebbe obiettarsi che il controllo sulla barriera dei controlimiti rappresenta pur sempre un rimedio 10 estremo, la garanzia ultima alla quale ricorrere rispetto ad intrusioni nel sistema dei principi fondamentali della costituzione, intrusioni che rappresentano un fenomeno marginale ed estremo con la conseguenza che, nell’esperienza concreta, poco o nulla finirebbe per mutare anche dopo la costituzionalizzazione del vincolo. E tuttavia può intravedersi nella posizione assunta dalla Corte la premessa per un diverso modo di intendere il controllo sul rispetto dei principi fondamentali, e tra questi, proprio del vincolo comunitario, perché l’esigenza di assicurare adeguata garanzia a questo principio potrà indurre la Corte (e, forse, inevitabilmente la condurrà) ad esercitare un controllo più incisivo sulla “legittimità comunitaria” delle leggi eliminando quelle sovrapposizioni ed interferenze con la stessa Corte di giustizia che, ormai da molti anni, caratterizzano nel loro complesso, il rapporto tra l’ordinamento interno e quello comunitario. In altri termini la Corte italiana, attraverso una più decisa e coraggiosa vigilanza sul rispetto del diritto comunitario da parte del legislatore interno, non solo potrà far chiarezza nell’ordinamento interno, bilanciando il controllo sul rispetto dei principi fondamentali con il controllo sul rispetto delle esigenze di conformità ed adeguamento al sistema normativo comunitario, ma potrà contribuire a ricondurre la stessa Corte di giustizia al ruolo di interprete del diritto comunitario e non già di giudice chiamato, surrettiziamente, a giudicare della legittimità comunitaria del diritto interno. E’ ora possibile trarre qualche, sia pure provvisoria, conclusione in ordine al ruolo ed al significato che il vincolo comunitario introdotto con il nuovo art. 117, 1° c., ha prodotto nel nostro ordinamento. Dalle indicazioni che possono trarsi dalla più recente giurisprudenza costituzionale, all’art. 117, 1° c., non possa solo attribuirsi l’effetto di 11 aver sancito la conferma e il consolidamento dei rapporti tra ordinamento e interno e ordinamento comunitario fino a quel momento acquisiti, bensì di aver introdotto stabilmente una norma che finirà per giocare un ruolo inevitabilmente decisivo e preponderante nel rapporto con il diritto comunitario. I termini del vincolo comunitario sembrano allora potersi rovesciare dovendosi attribuire all’art. 117, 1° comma, quella funzione specifica di riconoscimento e garanzia primaria che impone la costante conformazione all’ordinamento comunitario nel suo complesso, con la correlativa “trasformazione” dell’art. 11 Cost. in una disposizione che, fissando i limiti rigorosi entro i quali sono possibili le cessioni di sovranità, rappresenta la barriera di protezione dell’ordinamento interno ad una con il sistema dei principi supremi dell’ordinamento. Ma al tempo stesso, si ritiene che, ad essa debba essere riconosciuto il suo rilevante “posto” nel novero dei principi fondamentali della nostra costituzione, attribuendo correttamente ad essa il ruolo di norma cardine nei meccanismi di integrazione con tutte le conseguenze, specie nei riflessi sul giudizio di legittimità costituzionale, che ciò comporta. Se è vero, per le ragioni che si sono fin qui esposte, che le premesse dei futuri svolgimenti del ruolo che il “nuovo” vincolo comunitario può assumere si trovano già racchiuse nella giurisprudenza costituzionale più recente, sia sotto il profilo della possibile apertura del nostro giudice costituzionale alla proposizione delle questioni pregiudiziali di interpretazione del diritto comunitario alla Corte di giustizia, sia sotto il profilo di un diverso modo di intendere il controllo sui controlimiti e sul rispetto della “legittimità comunitaria”, è anche vero che l’ulteriore passo da compiere sembra davvero inevitabile. Ci si vuol riferire al problema dell’assunzione dell’art. 117, 1° c., come unico parametro di 12 legittimità anche nei giudizi in via incidentale, problema che, di fronte ai più recenti interventi della Corte, si configura ancora come un’ulteriore questione meritevole di non essere elusa. E, in questo senso, l’opinione di chi ha sottolineato l’incongruenza dell’atteggiamento della Corte che, fino ad oggi, ha circoscritto ai soli giudizi in via d’azione l’uso di questo parametro per giungere alla dichiarazione di illegittimità costituzionale, ma ha evitato di affrontare la questione nei giudizi in via incidentale. Senza ragionevolmente temere che la “non applicazione” da parte del giudice comune, quale principio cardine della prevalenza del diritto comunitario nel nostro ordinamento, possa essere messa in crisi – non essendovi ragioni perché questo radicato principio non possa continuare a svolgere il ruolo decisivo che ha già assunto – non vi è ragione per escludere che, quando una questione di legittimità proposta assumendo a parametro il vincolo comunitario giunga alla Corte, questa non dichiari l’illegittimità . Il vantaggio sul piano della certezza del diritto come su quello della piena conformità della produzione legislativa interna al vincolo comunitario è evidente. Di recente emanazione sono le due sentenze della Corte Costituzionale n°348 e 349 del 2007 che confermano la applicabilità anche nei giuridzi incidentali dell’articolo 117,comma uno, per dichiarare incostituzionale le norme di diritto interno che contrastano con i vincoli del diritto comunitario. Le due sentenze riguardano le tecniche di determinazione dell’indennità di esproprio disciplinate dall’articolo 5- bis della legge del 1992 e l’articolo 37 del testo unico sugli espropri. Il valore “comunitario” recepito nell’art. 117, 1° comma, con quel tanto di “monismo” che esso racchiude finisce per rendere, forse, non più rinviabile questa scelta. 13 Tuttavia nell’ambito della giurisprudenza amministrativa si registrano differenti posizioni sulla ricaduta in termini di legittimità che ha un atto amministrativo che risulta conforme al diritto interno ma in contrasto al diritto comunitario. Ci si chiede quale sorte subisce l’atto amministrativo in ipotesi di contrasto con il diritto comunitario. Prima di tutto occorre operare una distinzione : tra atto amministrativo conforme al diritto interno ma in contrasto con il diritto comunitario direttamente applicabile e atto amministrativo conforme al diritto interno ma in contrasto con una norma comunitaria non direttamente applicabile Nella prima ipotesi il rimedio considerato dalla teoria prevalente è fornito dall’impugnativa innanzi al giudice amministrativo il quale annulla l’atto per violazione di legge. Negli anni novanta si fa strada una interpretazione sostenuta dal Tar Piemonte con sentenza n°4 del 1989 secondo la quale il provvedimento amministrativo conforme al diritto interno ma in contrasto con il diritto comunitario direttamente applicabile è da considerarsi nullo. Tale soluzione viene aspramente criticata per due ragioni: estremizza un ragionamento non distinguendo il caso in cui l’atto è espressione del potere della pubblica amministrazione ed il caso in cui invece è espressione dell’esercizio del potere conferito alla pubblica amministrazione dalla legge. Infine,secondo i critici della teoria della nullità, il giudice non si è posto il problema su come risolverebbe la pronuncia di nullità del provvedimento stante che il giudice amministrativo ha potere di annullamento e non dichiarativo. 14 La giurisprudenza del Consiglio di Stato prevalente riconduce l’ipotesi del contrasto dell’atto amministrativo al diritto comunitario direttamente applicabile all’annullabilità per violazione di legge. Occorre infine precisare che i sostenitori della teoria della nullità sposano la concezione dualista dei due ordinamenti giuridici, quello nazionale e quello comunitario, concezione che in effetti la Corte Costituzionale non ha mai abbandonato; diversamente il Consiglio di Stato sposa l’impostazione monista, ovvero diritto interno e diritto comunitario costituiscono un unico ordinamento giuridico. Il contrasto tra norma interna e diritto comunitario non direttamente applicabile invece è stato risolto dalla giurisprudenza prevalente del Consiglio di Stato attraverso la categoria giuridica dell’eccesso di potere, riconducendo il tutto alla categoria dell’annullamento giurisdizionale del giudice amministrativo. Per completezza argomentativa non si può non riconoscere importanza a quell’orientamento dottrinario, conosciuto meglio come dell’interpretazione conforme, seguito da diverse sentenze della Corte di Giustizia europea (1990 Malcansing, sentenza Pupino, del 2005 e sentenza del 2006), applicando il principio di leale cooperazione ed effetto utile che consente di realizzare un giusto equilibrio, impone al giudice interno, nella fase ermeneutica a dare alla norma interna un significato,ciò può avvenire solo nell’ambito del contrasto tra atto amministrativo in contrasto con il diritto comunitario non direttamente applicabile. Ci si è chiesti infine se nell’ambito di questo dibattito giurisprudenziale ci sia spazio per la disapplicazione dell’atto amministrativo che contrasta con il diritto comunitario. 15 L’unico caso affrontato dalla Corte di giustizia risale ad un caso austriaco e deciso con sentenza del 29.04.99, caso Eric- Ciola a seguito della decisione la Corte di Giustizia sostiene la disapplicazione dell’atto amministrativo, il caso è rimasto isolato non si riscontrano altri casi analoghi e forse per la particolarità della fattispecie in quanto il caso temporalmente era ricondotto al periodo antecedente all’ingresso dell’Austria nella comunità europea e trattatava di una fattispecie penale che aveva come presupposto dell’azione criminale proprio un atto amministrativo divenuto non conforme ai principi di diritto comunitario una volta che l’austria entrò a fare parte dell’Unione Europea. L’ordinamento italiano invece ha conosciuto, nell’ambito della disapplicazione degli atti normativi in contrasto con il diritto comunitario la questione dei bandi di gara, che contenendo clausole immediatamente lesive impedivano la partecipazione alle procedure di gara violando tale clausola il principio di non discriminazione di derivazione comunitaria. L’adunanza plenaria del Consiglio di Stato con sentenza n°1 del 2003 ha tentato di risolvere la questione invitando nelle ipotesi di bando di gara contenente clausole immediatamente lesive, alla soluzione della immediata impugnativa delle clausole lesive contenute nello stesso bando di gara, posto che il giudice amministrativo non può disapplicare il bando di gara, in quanto atto riconducibile ai provvedimenti amministrativi. Nell’ambito della stessa questione è emerso, come in effetti, la struttura stessa del bando di gara sovente ripropone nel suo contenuto disposizioni normativi o ambiti normati dalla legge che disciplina la fattispecie e per questi ambiti la giurisprudenza ha ipotizzato che, essendo queste parti del bando una riproprosizione di disposizioni normativi possono essere ricondotte nell’alveo della disapplicazione della norma e 16 conseguentmente essere disapplicate dal giudice amministrativo se risultano in contrasto con il diritto comunitario. La disapplicazione dell’atto amministrativo, non ammessa nel nostro ordinamento, ha superato la prova di resistenza anche a livello comunitario. In diverse occasioni la Corte di Giustizia ha precisato che gli aspetti processuali di ogni singolo stato non hanno rilevanza per il diritto comunitario purchè siano rispettati diversi principi evidenziati dalla stessa Corte di giustizia. Il giudice comunitario si è pronunciato due volte nel 2003 e nel 2007 ed ha affermato che il diritto comunitario lascia liberi gli stati membri nella organizzazione delle norme di diritto processuale purchè siano rispettati questi principi : “tutela adeguata, sufficienza e proporzionalità non dissimile a quelle assicurate alle omologhe situazioni giuridiche soggettive di diritto interno”. Lo stesso principio è ribadito nella direttiva ricorsi 66/CE 2007 emanata dalla Commissione europea nel dicembre del 2007. Dott.ssa Carolina Ferro –SEGRETARIO GENRALE DEL COMUNE DI PIAZZA ARMERINA. 17