Sfide culturali. I diritti delle donne Il multiculturalismo è contro le donne? Giuseppe Mantovani La richiesta di concedere ad alcuni gruppi sociali dei diritti particolari costituisce un grosso problema per le istituzioni e le persone che si ispirano a principi liberali, perché secondo questi principi sono le persone, non i gruppi, che sono titolari di diritti. Quando poi a reclamare “diritti” particolari sono gruppi che negano ad alcuni dei loro membri dei diritti essenziali – come è il caso di “culture” che negano alle donne il diritto alla libertà di movimento, alla scelta dello sposo, alla gestione della loro sessualità – allora il conflitto tra diritti dei gruppi e diritti degli individui sembra insolubile. Chi aderisce a una visione multiculturale e guarda con attenzione e rispetto anche a queste tradizioni culturali “non occidentali” si pone dunque contro le donne? Sì, secondo alcune femministe “occidentali”. Ma fino a che punto è condivisibile questa posizione? Quali diritti diamo a quei gruppi che trattano le donne come nullità? Siamo entrati in un momento storico in cui, in tutto il mondo, vengono avanzate da numerosi gruppi sociali – specialmente, ma non necessariamente, da gruppi minoritari – rivendicazioni di riconoscimenti politici della loro “diversità culturale”. «Le richieste dei gruppi che vogliono difendere questo o quell’aspetto della loro diversità culturale sono diventate rivendicazioni nella sfera pubblica delle democrazie capitaliste e sono coinvolte in battaglie per la ridistribuzione e il riconoscimento. Cultura è diventato sinonimo di identità, un marcatore e un differenziatore di identità. Naturalmente la cultura è sempre stata un marcatore della distinzione sociale. Quello che c’è di nuovo è che i gruppi che si formano ora intorno a questi marcatori di identità chiedono allo stato e alle sue agenzie un riconoscimento legale e l’assegnazione di risorse per preservare e proteggere le loro specificità culturali. Le politiche dell’identità trascinano lo stato in guerre culturali. Di conseguenza, il concetto stesso di cultura è cambiato» (Benhabib, 2005). Mentre in tempi neppure troppo lontani l’enfasi era 1 SFIDE CULTURALI. I DIRITTI DELLE DONNE posta sull’assimilazione, che appariva come un valore condiviso e indiscutibile, oggi essa è posta sulla difesa della “differenza”. Ne è un esempio la questione del velo islamico, protrattasi in Francia durante gli ultimi quindici anni (Box 1). Secondo Susan Okin, un’attivista femminista statunitense che ha scritto sulla «Boston Review», autorevole rivista della East Coast, un saggio polemico dal titolo Is multiculturalism bad for women?, non si possono concedere diritti speciali ai gruppi che opprimono le donne: «Che cosa si deve fare», si chiede Okin (1999), «quando le richieste delle minoranze culturali o religiose contrastano con la norma dell’uguaglianza di genere che è almeno formalmente sostenuta dagli stati liberali (per quanto essi possano poi violarla nella pratica)?». È vero che spesso le “culture occidentali” predicano bene ma razzolano male, come mostrano ad esempio le statistiche sulle violenze domestiche negli Stati Uniti, ma in esse, almeno in teoria, le donne non sono discriminate. Invece, dice Okin, «alcune culture non accettano, neppure in teoria, il principio secondo cui tutte le persone meritano uguale rispetto e attenzione (naturalmente nessuna cultura mette poi pienamente in pratica questo principio). Le tensioni circa un trattamento decente delle donne sono molto acute. In alcune culture contemporanee vediamo pratiche – tra cui differenze nella nutrizione e nelle cure sanitarie, nei diritti di proprietà, di riunione, di partecipazione politica, nella vulnerabilità alla violenza, nell’esclusione da opportunità educative – che sfidano l’idea che le donne abbiano diritto ad essere trattate come eguali. Queste tensioni diventano particolarmente forti quando consideriamo le proposte di alcuni multiculturalisti di garantire alle minoranze culturali dei “diritti di gruppo” per preservarle da pressioni indesiderate che potrebbero produrre dei cambiamenti nei loro stili di vita. Come possiamo concedere diritti speciali a gruppi che trattano le donne come delle nullità?» (ibidem). Numerose femministe americane vedono nel multiculturalismo un nemico, poiché ritengono che molte “culture non occidentali” opprimano le donne in aree importanti, quali la sessualità, il matrimonio, il diPSICOLOGIA CONTEMPORANEA N. 192 - NOV.-DIC. 2005 vorzio, la riproduzione, la cura dei figli, il lavoro domestico. Okin chiama in causa non solo le “culture” ma anche le loro religioni, che considera responsabili dello stato di sottomissione delle donne al potere patriarcale. Secondo Okin non si devono concedere diritti speciali ai gruppi che discriminano le donne, specialmente se in essi le donne non sono rappresentate in modo adeguato: «Dato che l’attenzione ai diritti delle minoranze culturali, per essere compatibile con i fondamenti del liberalismo, deve mirare al benessere dei membri di questi gruppi, non ci sono giustificazioni per accettare che gli autoproclamati leader di questi gruppi – che sono invariabilmente maschi anziani – rappresentino gli interessi di tutti i membri dei gruppi. A meno che le donne – e più specificamente le donne giovani (perché le donne anziane spesso cooperano al rafforzamento delle diseguaglianze di genere) – siano pienamente rappresentate nelle negoziazioni sui diritti dei gruppi. Gli interessi delle donne possono essere più danneggiati che favoriti dalla concessione di simili diritti» (Okin, 1999). Che dire di fronte a prese di posizione così drastiche? Tensioni fra diritti dei gruppi e diritti delle persone La prima reazione, giustificata, è quella di non generalizzare e non ricorrere a stereotipi. Non solo le culture “non-occidentali” sono molto differenti tra di loro, ma tra esse esistono società che non opprimono le donne. Anche per quanto riguarda “culture” che sono spesso messe sotto accusa per le restrizioni che pongono ai diritti delle donne, come è il caso delle società islamiche, va tenuto presente che si tratta di un mondo molto diversificato al suo interno. Ciò che accade in Pakistan può non accadere in Tunisia, ciò che vale per l’Arabia Saudita può non valere per l’Indonesia. Un recente studio di Riaz Hassan (2003), un sociologo formatosi nelle Università del Punjab e dell’Ohio e oggi docente all’Università di Flinders, in Australia, condotto in Egitto, Kazakhistan, Indonesia e Pakistan con 4500 interviste in profondità svolte da squadre di intervistatori locali, mostra la presenza di una sorprendente gamma di opinioni differenti tra i musulmani intervistati, sia uomini che donne, specie per quanto riguarda i diritti delle donne. Gli stessi ulema, guide spirituali musulmane, che vengono di solito considerati legati a concezioni conservatrici dall’opinione pubblica “occidentale”, sono spesso fortemente impegnati nel rinnovamento della fede tradizionale (Muhammad Qasim Zaman, 2003). 2 SFIDE CULTURALI. I DIRITTI DELLE DONNE Clifford Geertz, illustre antropologo culturale, ora professore emerito a Princeton, commenta così queste ricerche: «Ormai, si sarà notato, gli Stati Uniti sono diventati una potenza mediorientale. Quale sarà il loro contributo in tale veste, specie nell’infuriare delle lotte tra fazioni sciite a Baghdad, degli attentati dinamitardi a Riad e Casablanca, di fronte all’inesausta vitalità di Al-Qaeda e all’intero assortimento di conflitti urbani in tutta la regione e oltre, resta ancora da vedere. Ma certo la concezione dell’Islam che professori, politici, giornalisti, polemisti e altre figure ufficialmente impegnate a orientare l’opinione pubblica si affannano a costruire davanti ai nostri occhi avrà un’enorme importanza nel determinare la nostra linea di condotta» (Geertz, 2004). In un mondo globale la responsabilità di un insegnante, di uno psicologo, di uno studente va ormai molto al di là del cortile di casa. La nostra idea di “cultura” influenzerà non solo il modo in cui trattiamo gli “altri” nella vita quotidiana o nell’attività professionale, ma modificherà anche le politiche pubbliche del nostro paese. Per questo motivo, pur rendendoci conto del fatto che si tratta di posizioni in qualche misura contestate, dobbiamo prestare attenzione alle voci che denunciano la violazione dei diritti delle donne in alcuni settori delle società islamiche. Voci che sono spesso perseguitate e che pagano un alto prezzo per esprimersi. Ci riferiamo, ad esempio, ad Ayaan Hirsi Ali, una giovane donna di origine somala, figlia di un oppositore del regime di Siad Barre che nel 1976 si rifugiò con la famiglia in Arabia Saudita e poi in Kenya. La storia di Ayaan è drammatica: promessa sposa – secondo la tradizione, ma contro la sua volontà – ad un cugino, per evitare le nozze fugge in Germania e poi in Olanda, dove ottiene asilo politico e trova lavoro come interprete e mediatrice culturale. La sua attività la mette a contatto con le istituzioni che si occupano delle donne islamiche maltrattate da mariti, fratelli, padri. Si laurea in scienze politiche. Viene eletta nel parlamento olandese per il partito socialdemocratico. In seguito passa al partito liberaldemocratico. Per le sue critiche alla società islamica riceve numerose minacce di morte ed è costretta a rifugiarsi all’estero. Scrive la sceneggiatura di un breve filmato dal titolo Sottomissione, che denuncia la condizione di soggezione ed il regime di percosse domestiche che affligge le donne musulmane. Il regista olandese Theo van Gogh per aver realizzato il film di Ayaan Hirsi Ali viene ucciso da un fondamentalista islamico in pieno giorno, davanti a 57 testimoni, in un parco di Amsterdam il 2 novembre 2004. Ayaan vive nascosta e sotto scorta per sfuggire alla condanna a morte. PSICOLOGIA CONTEMPORANEA N. 192 - NOV.-DIC. 2005 Scrive Ayaan Hirsi Ali (2005): «Come membro del direttivo di Amnesty International, trovo desolante constatare che la stragrande maggioranza delle donne musulmane sia tuttora incatenata al dogma della verginità. Questo comporta che le donne arrivino al matrimonio completamente ignare: ogni esperienza nel campo dell’amore e della sessualità è proibita. Lo stesso però non vale per gli uomini. Inoltre gli uomini e le donne all’interno di una determinata cultura musulmana non godono affatto dei medesimi diritti. Molte donne semplicemente non hanno la possibilità di organizzarsi la vita in modo libero ed autonomo». Hirsi riconosce che molti uomini musulmani sono rispettosi delle donne, ma considera inadeguata la relazione tra i sessi che si realizza nelle società musulmane tradizionali: «Naturalmente non tutti gli uomini musulmani sono violenti o inclini a porre la donna su un gradino inferiore. Conosco un gran numero di musulmani meravigliosi che trattano con rispetto madri, sorelle e mogli. Anche gli uomini sono vittime quanto le donne del culto della verginità, anche se in forma indiretta […]. Attraverso un’educazione sbilanciata a proprio favore e la separazione fisica e mentale dei due sessi, l’uomo non ha quasi nessuna possibilità di sviluppare le doti comunicative necessarie per vivere in un contesto familiare. Non sorprende allora che molte musulmane nei Paesi Bassi si lamentino che il marito quasi non parla con loro» (ibidem). Di fronte a gruppi che non riconoscono i diritti di libertà dei loro membri il pensiero politico di ispirazione liberale non ha dubbi: i diritti delle persone hanno il sopravvento (Benhabib, 2005). L’eventuale riconoscimento delle “diversità” di gruppi minoritari è quindi subordinata a tre condizioni. La prima, quella della “reciprocità egualitaria”, richiede che i membri di minoranze linguistiche, religiose o “culturali” non subiscano – in forza della loro appartenenza alla minoranza – delle limitazioni dei loro diritti civili, politici od economici rispetto alla maggioranza. Se una donna, per il fatto di essere musulmana, non gode degli stessi diritti della sua vicina di casa non musulmana, allora non c’è “reciprocità egualitaria”. La seconda condizione è quella dell’“adesione volontaria”: una persona non può essere assegnata ad un gruppo linguistico, religioso o “culturale” semplicemente in base al luogo in cui è nata o alla famiglia a cui appartiene. Le persone, in vari momenti delle loro vite, dovrebbero poter scegliere i gruppi a cui aderire e poter dichiarare liberamente ed apertamente le loro scelte. In molte società islamiche le famiglie non sono disposte a concedere ai loro membri, in particolare alle loro figlie, questa libertà. La terza condizione, la “li3 SFIDE CULTURALI. I DIRITTI DELLE DONNE bertà di uscire” dal gruppo in qualsiasi momento, è un corollario della precedente. Anche questo principio non è normalmente accettato nelle società islamiche: l’apostasia, l’abbandono della religione musulmana, è punita con la morte. La cultura è un insieme di narrazioni conflittuali Nella posizione delle femministe americane, ma non solo americane, che vedono in “altre culture” delle strutture di oppressione della donna, è implicita una concezione della “cultura” reificata, cioè l’idea che una “cultura” abbia dei confini precisi e stabili, che contenga dentro i suoi confini dei gruppi sociali omogenei, che i confini siano impermeabili. Le tre caratteristiche sono chiaramente interconnesse e creano l’immagine di società separate, isolate, immutabili, non comunicanti con l’esterno. Nessuna società è così. Nella realtà i confini tra gruppi sono sempre porosi, permeabili. I gruppi sociali sono sempre disomogenei al loro interno; i confini tra gruppi sono di solito imprecisi, dipendono dalle circostanze, cambiano nel tempo, sono oggetto di continui conflitti e negoziazioni. L’idea reificata di “cultura” non coglie una realtà; è solo uno strumento del “discorso dominante” che afferma che è bene che “i nigeriani” stiano con i nigeriani, “i marocchini” con i marocchini, “i sikh” con i sikh: la creazione di stereotipi consente la creazione di barriere tra gruppi supposti omogenei (Mantovani, 2004a). E questo è il primo passo verso la creazione di ghetti culturali, o di forme di “multiculturalismo a mosaico” in cui ognuno è invitato a stare con i “suoi”: la soluzione ideale sia per leader “etnici”, interessati a “rappresentare” il “loro gruppo” all’esterno, che per quelli tra “noi”, gli autoctoni, che non vogliono mescolanze. La concezione della cultura come narrazione mette in discussione l’idea reificata di cultura che è sottintesa nelle parole di Okin (si veda il Box 2). Scrive Bonnie Honig, professore di scienze politiche alla Northwestern University: «La “cultura” è un modo di vita, una ricca grammatica dell’attività umana, un insieme di narrazioni diverse e spesso conflittuali in cui vengono negoziati comuni (fra)intendimenti, ruoli e responsabilità» (1999). Non possiamo quindi dire che accettiamo le persone, ma non le loro “culture”; dobbiamo accettare le “culture” differenti come narrazioni diverse situate nelle persone, persone che agiscono in un certo modo perché hanno una certa storia. «Come tale, la “cultura” è un sistema vivente per la distribuPSICOLOGIA CONTEMPORANEA N. 192 - NOV.-DIC. 2005 zione e l’applicazione della agency, del potere e dei privilegi tra i suoi membri e oltre. Raramente questi privilegi sono distribuiti lungo un solo asse di differenza così che, per esempio, tutti gli uomini hanno più potere di tutte le donne. La razza, la classe, la localizzazione, la discendenza accordano privilegi o svantaggi. Anche chi ha meno potere in un certo contesto ha una certa quota di agency in quel contesto, e questa agency è legata alla cultura, alle istituzioni e alle pratiche che l’hanno alimentata. Estinguere le culture non è la risposta giusta. Anni di esperimenti coloniali ed assimilazionisti dovrebbero aver insegnato che questi sforzi sono eticamente problematici e politicamente controproducenti» (ibidem). Introdurre la “agency”, termine che traduciamo con “agentività”, una parola assolutamente inelegante, significa dire che non esiste la “cultura” in astratto, ma esistono le persone, con le loro responsabilità nell’agire sociale. Le donne indù: valori e gratificazioni alternative Mentre la discussione sulle condizioni delle donne nelle società islamiche segue percorsi molto frequentati dagli studiosi e dai media, è la riflessione sulle donne nelle società indù che scende più in profondità nella disputa tra femministe americane e studiose indiane sostenute da (alcuni) antropologi “occidentali”. Bhiku Parekh, docente di teorie politiche nell’Università di Hull, chiede polemicamente: «Le culture minoritarie hanno diritto al rispetto solo se diventano liberali? Sarebbe una forma estrema di intolleranza che mostrerebbe scarso rispetto per la loro identità» (1999). è vero, ella dice, che nel mondo tradizionale indù la giovane sposa è spesso vessata dalla madre dello sposo (non dallo sposo, però), ma è anche vero che quando la donna diventa a sua volta madre, e poi suocera, acquisisce un rango molto elevato. A differenza che negli Stati Uniti, in India e in altre società «le donne sono trattate come inferiori quando sono giovani e non sposate, mentre sono riverite e considerate superiori agli uomini quando arrivano ad una certa età, diventano nonne, conducono una vita virtuosa o mostrano qualità straordinarie. Queste società presentano l’apparente paradosso di essere sessiste eppure capaci di accettare ed anche di apprezzare le donne come leader in tutti i settori della vita» (ibidem). Come si può dire che la “cultura” indù in generale opprime le donne? Specie se pensiamo che questa “cultura” accetta senza difficoltà capi di governo donne, come nel caso di Indira Gandhi, e ospita nel suo pan4 SFIDE CULTURALI. I DIRITTI DELLE DONNE theon potenti e temute divinità femminili come Kalì. Il giudizio sulla condizione femminile in India è un punto di forte frizione fra studiose di origine indiana e femministe americane. Mentre le femministe americane vogliono liberare le donne indù dal loro asservimento al patriarcato, le studiose indiane pensano che le donne indù non sono schiave di una “cultura” oppressiva, ma semplicemente hanno una visione del mondo diversa da quella americana: «Se alcune di loro non condividono la prospettiva femminista è sbagliato dire che sono vittime di una falsa coscienza generata culturalmente e che hanno bisogno di essere liberate da estranee bene intenzionate. Questo atteggiamento arrogante ed offensivo negherebbe loro quella condizione di eguaglianza che si pretende di portare» (ibidem). In effetti le differenze tra il mondo morale indù e quello statunitense sono notevoli, come mostra Richard Shweder (2003), docente di antropologia culturale a Chicago, che ha svolto per decenni ricerche sulla vita domestica delle donne indù di alta casta della città-tempio di Bhubaneswar, nella regione dell’Orissa. Queste donne vivono in famiglie allargate – composte dai fratelli adulti, dai loro genitori, dalle loro mogli, dai figli e dalle sorelle non sposate – in abitazioni in cui possono abitare fino a una ventina di persone. La coabitazione, che incarna il modello ideale di vita familiare per gli indù che seguono le tradizioni, cessa con la morte del padre o della madre vedova; allora i fratelli adulti abbandonano la casa comune e vanno a vivere per proprio conto con la moglie e i figli. La vita della donna indù è spezzata in due parti differenti: nella prima ella vive nella casa di suo padre, senza particolari responsabilità; nella seconda entra nella casa del marito, anzi della madre del marito, in cui è sottoposta all’autorità della suocera ed ha molti e gravosi compiti. Deve preparare e servire il cibo ai membri della famiglia, in pasti separati a seconda dei ranghi delle persone, pulire la casa e curare i figli, svolgere ogni genere di servizio per tutti i membri della famiglia, in particolare per i suoceri. Deve lavare e frizionare loro i piedi e, come atto di incorporazione nella nuova famiglia, è apprezzato che beva l’acqua in cui i piedi dei suoceri sono stati lavati. Inutile dire che il suo primo e assoluto dovere verso la sua nuova famiglia è quello di generare figli che continuino la famiglia. Ma con il tempo le cose cambiano: grazie ai figli e al duro lavoro sotto la guida della suocera, la nuora viene gradualmente assimilata alla famiglia di cui è entrata a far parte con il matrimonio. Ella lascia alle nuore più giovani i compiti più faticosi ed inizia a rappresentare la famiglia nelle relazioni con gli ospiti umani in visita e con gli ospiti divini che intratterrà in un locale speciale PSICOLOGIA CONTEMPORANEA N. 192 - NOV.-DIC. 2005 della casa. Quella della suocera è in India, a differenza che negli Stati Uniti, una posizione di grande prestigio e soddisfazione» (Shweder, 2003). Inevitabile la disputa tra le posizioni femministe, che vedono nella condizione delle donne indù una forma di schiavitù imposta dalla religione (Kondos, 1989; Dhruvarajan, 1988), e le studiose come Parekh, oppure antropologi come Shweder, che accusano le femministe di nutrire atteggiamenti neocoloniali: «Nella letteratura dell’antropologia femminista c’è un evidente tentativo di raccontare una storia di “emancipazione”, di universalizzare l’idea dell’oppressione delle donne, di abbandonarsi alla creazione di miti a fini politici. Ignorare i valori morali alternativi che sono evidenziati nella pratica della vita familiare in India, pensare che il controllo interiore, il servizio, la gratificazione differita non siano altro che forme di accettazione dell’oppressione, rappresentare le donne indù come vittime o sovversive significa non solo denigrare queste donne, ma anche impegnarsi in una nuova versione fine ventesimo secolo dell’imperialismo cognitivo e morale» (Shweder, 2003). Le donne indù di alta casta di Bhubaneswar danno alle loro attività quotidiane un senso che procura loro benessere (“hito”) morale e fisico, afferma Shweder sulla base delle interviste e autobiografie raccolte nel corso di lunghi anni, con la collaborazione di colleghi e colleghe locali. Dietro gli stili di vita differenti, ci sono mondi morali differenti. Mentre il successo di una donna “occidentale” si misura in termini di autonomia personale, di riuscita nel lavoro fuori casa, di abilità nello stringere (e sciogliere) relazioni intime, di capacità nel cercare nuove esperienze, anche sessuali, e nell’affermarsi in competizione con altri nel lavoro e nella vita sociale, il successo di una donna indù dell’Orissa si gioca su altri fattori: «In cima alla lista delle virtù e dei valori che le donne dell’Orissa sostengono stanno la castità, la modestia, il senso del dovere, l’autodisciplina, il differimento della gratificazione, il perfezionamento di sé e l’idea del servizio domestico. In fondo alla lista stanno la libertà personale e l’eguaglianza sociale» (ibidem). Si tratta di valori che sono diversi da quelli “occidentali” moderni: «In contrasto con i principi del pensiero liberale moderno, la visione del mondo che le donne e gli uomini dell’Orissa condividono è costruita sulla logica della differenza e della solidarietà invece che su quella dell’eguaglianza e della competizione. Né le donne né gli uomini nell’Orissa credono che donne e uomini siano uguali, anzi la maggior parte di loro considera incomprensibile, divertente o addirittura 5 SFIDE CULTURALI. I DIRITTI DELLE DONNE puerile l’idea che non si dovrebbe tenere conto delle differenze sessuali e che si dovrebbero trattare donne e uomini allo stesso modo» (ibidem). Per le donne e gli uomini dell’Orissa, secondo Shweder, le “pari opportunità” non sono un obiettivo desiderabile; la promozione della condizione della donna è vista in una cornice di solidarietà piuttosto che di competizione. è possibile che l’immagine che Shweder ci fornisce della “cultura” indù delle famiglie braminiche osservanti della città vecchia sia rigida e reificata (Mantovani, 2004b). è possibile, anzi probabile, che le cose stiano cambiando anche a Bhubaneswar, in un’India che si avvia ad essere uno dei poli di attrazione scientifica, economica e culturale del nuovo millennio. è possibile che già nel momento in cui Shweder conduceva le sue ricerche le cose stessero cambiando, e che le donne di Bhubaneswar raccontassero un mondo di virtù e di valori che stava tramontando. Ciò che importa a noi in questa sede non è sostituire ad uno stereotipo (quello della donna indù schiava della tradizione) un altro stereotipo (quello edificante della donna indù casta, modesta, autodisciplinata) ma provare a mettere tra parentesi il “nostro” mondo di valori – tutto sommato abbastanza vicino a quello delle femministe americane – quando ci troviamo di fronte ad “altri” mondi, che non sono totalmente “altri”, ma neppure completamente riconducibili alle nostre categorie. Riferimenti bibliografici Al-Hibri A. (1999), Is Western patriarchal feminism good for third world/minority women?. In S. M. Okin, Is multiculturalism bad for women?, Princeton, Princeton University Press. American Psychological Association (2003), Guidelines on multicultural education, training, research, practice, and organizational change for psychologists, «American Psychologist», 58, 377-402. Benhaib S. (2005), La rivendicazione dell’identità culturale. Eguaglianza e diversità nell’era globale (trad. it.), Bologna, Il Mulino. Dhruvarajan V. (1988), Hindu women and the power of ideologie, South Adley, Bergin & Garvey. Geertz C. (2004), Studi sull’Islam, «La Rivista dei Libri», 10, 26-21. Hassan R. (2003), Fathlines: Muslim conceptions of Islam and society, Oxford, Oxford University Press. Hirsi Ali A. (2005), Non sottomessa. Contro la segregazione nella società islamica (trad. it.), Torino, Einaudi. PSICOLOGIA CONTEMPORANEA N. 192 - NOV.-DIC. 2005 Honig B. (1999), My culture made me do it. In S. M. Okin, Is multiculturalism bad for women?, Princeton, Princeton University Press. Kondos V. (1989), Subjection and domicile. Some problematic issues relating to high caste Nepalese women. In J. N. Gray e D. J. Mearns (Eds.), Society form the inside out, New Delhi, Sage. Mantovani G. (2004a), Intercultura. è possibile evitare le guerre culturali?, Bologna, Il Mulino. Mantovani G. (2004b), Challenging cognitive and moral imperialism, «Contemporary Psychology», 49 (6), 756-759. Okin S. M. (1999), Is multiculturalism bad for women?, Princeton, Princeton University Press. Shweder R. A. (2003), Why do men barbecue? Recipes for cultural psychology, Cambridge, Harvard University Press. 6 SFIDE CULTURALI. I DIRITTI DELLE DONNE Zaman M. Q. (2003), The ulama in contemporary Islam: Custodians of change, Princeton, Princeton University Press. Giuseppe Mantovani è Ordinario di Psicologia degli atteggiamenti nella Facoltà di Psicologia dell’Università di Padova. Attualmente si occupa di psicologia sociale e culturale e delle conseguenze dell’introduzione delle nuove tecnologie. Recentemente ha scritto Intercultura. È possibile evitare le guerre culturali? (Bologna, Il Mulino, 2004). È autore, per questa rivista, di numerosi articoli di psicologia culturale ed è appena uscita la nuova edizione del suo famoso Elefante invisibile (Firenze, Giunti, 2005). Ha curato il Manuale di psicologia sociale edito da Giunti (Firenze, 2003). PSICOLOGIA CONTEMPORANEA N. 192 - NOV.-DIC. 2005 BOX 1 - L’affaire du foulard Se guardiamo ad alcune delle rivendicazioni di "identità" più gridate, ci rendiamo conto del fatto che la componente di conflittualità politica di queste vicende è spesso preponderante. Consideriamo la vicenda francese del velo islamico. Mentre in vari paesi "occidentali" l’adozione da parte di donne musulmane di questo abbigliamento non ha creato problemi particolari, salvo quello della riconoscibilità della persona nei documenti di identità e in certi contesti (banche, tribunali, ecc.), in Francia l’“affaire du foulard” è stato al centro di uno scontro molto duro tra i gruppi fondamentalisti musulmani e le autorità scolastiche e statali francesi. Lo scontro iniziò il 19 ottobre 1989, quando tre ragazze, Fatima, Leila e Shamira, furono espulse dal liceo di Creil, nel dipartimento dell'Oise, perché si erano presentate a scuola velate, nonostante si fossero impegnate, dopo una lunga trattativa con le autorità scolastiche, a non indossare il velo a scuola. Le ragazze erano state persuase a rompere gli accordi da Daniel Youssuf Leclecq, leader dell’organizzazione islamica “Integrité”. Le autorità scolastiche ponevano delle difficoltà all’uso del velo formalmente per ragioni di sicurezza, specie nelle lezioni di educazione fisica e di chimica, ma in realtà perché consideravano la presenza del velo 7 SFIDE CULTURALI. I DIRITTI DELLE DONNE islamico nella scuola pubblica francese una sfida alla sua laicità. Posta in questi termini, la questione del velo non era un problema di pudore o di libertà della donna nella presentazione di sé nella sfera pubblica. Si noti che nessuno metteva in discussione il diritto di indossare il velo in strada o al supermercato. L'oggetto della contesa era il diritto di indossare il velo nella scuola pubblica francese. La posta in gioco era il carattere a-confessionale della stessa, un contesto che aveva l’obiettivo di integrarle, in quanto studentesse della nazione francese, in un ideale di cittadinanza egualitaria e secolarista. Con la loro decisione di portare il velo a scuola le tre ragazze «introdussero a forza nella sfera pubblica quello che lo stato francese considerava un simbolo individuale, mettendo in tal modo in discussione le frontiere tra pubblico e privato […]. Le tre ragazze non hanno più considerato la scuola pubblica come uno spazio di acculturazione francese, ma hanno manifestato apertamente le loro differenze culturali e religiose» (Benhabib, 2005). La lotta per mantenere (come voleva lo stato) o modificare (come volevano i fondamentalisti musulmani) il carattere laico della scuola pubblica francese era chiaramente una lotta politica. La rivendicazione del diritto di portare il velo islamico nella scuola pubblica francese provocò numerose discussioni nei media, nelle scuole, nelle sedi politiche, nei movimenti islamici. Nel gennaio 2004, infine, il parlamento francese votò a larghissima maggioranza una legge che vietava nelle scuole elementari, medie inferiori e superiori «i segni e gli abiti che manifestano ostentatamente l’appartenenza religiosa degli alunni». In risposta i movimenti fondamentalisti islamici organizzarono manifestazioni a Parigi e in tutte le città francesi; ai cortei però parteciparono pochissime persone, poche migliaia a fronte di circa quattro milioni di musulmani che vivono in Francia. Opinioni differenti, per lo più favorevoli alla legge, furono espresse da varie autorità religiose islamiche sul territorio francese. Si registrarono anche interventi di politici stranieri, come quello di Rafsanjani, che invocò la «maledizione di milioni di persone» sulla Francia, qualora la legge non fosse stata ritirata. Un anno dopo, il bilancio dell'introduzione della legge appariva decisamente positivo. Nell'anno scolastico 2003-2004 ci furono 1500 casi, quest' anno ce ne sono stati 663; grazie al dialogo con gli allievi e le famiglie, la stragrande maggioranza dei contenziosi è stata risolta positivamente, cioè con l'accettazione della legge. PSICOLOGIA CONTEMPORANEA N. 192 - NOV.-DIC. 2005 BOX 2 - Libere a modo nostro Nell’opposizione tra femminismo occidentale e “culture altre” si può riconoscere anche una buona dose di etnocentrismo. Varie studiose, specialmente musulmane e indiane, accusano Okin e le sue colleghe di mettersi nella prospettiva di un “io” culturale dominante che vuole dettar legge all’“altro” culturale. Noi lavoriamo alla promozione della condizione femminile a modo nostro, dicono queste donne “nonoccidentali”; non è necessario essere allineate con i valori americani per impegnarsi nella promozione dei diritti delle donne. Azizah Al-Hibri, docente di diritto all’Università di Richmond e fondatrice di “Karamah” (Giuriste Musulmane per i Diritti Umani) rimprovera ad Okin di fare confusione tra gli aspetti religiosi e gli 8 SFIDE CULTURALI. I DIRITTI DELLE DONNE aspetti civili dell’Islam e di non conoscere la posizione islamica sulla donna: nel Corano la donna non è la via di ingresso nell’umanità del peccato originale. Il peccato originale è suggerito dal tentatore sia ad Eva che ad Adamo; entrambi sono tentati ed entrambi peccano. Al-Hibri sostiene che non è necessario abbandonare l’Islam per liberare le donne musulmane: «L’approccio migliore a questi problemi per le femministe musulmane è quello di riesaminare criticamente la giurisprudenza islamica alla luce dei principi di giurisprudenza e dell’interesse pubblico dei musulmani. Il risultato è una strategia articolata in tre punti. Primo, separare chiaramente le pratiche tradizionali dalle pratiche religiose. Questo ridurrebbe consi- derevolmente la resistenza dei musulmani nei confronti di certi tipi di cambiamento, cioè dei cambiamenti puramente culturali. Secondo, riesaminare in modo critico la giurisprudenza esistente per scoprire gli elementi culturali che sono da eliminare. Terzo, portare contributi moderni alla giurisprudenza islamica che tengano conto del tempo, del luogo, dell’interesse pubblico dei musulmani, di cui la metà sono donne. Questo processo è complicato e richiede tempo e non può essere cancellato a causa dell’impazienza delle femministe secolari» (1999). Lasciateci cambiare da sole, dice sostanzialmente Al-Hibri, non approfittate delle nostre attuali difficoltà per imporci il vostro modo di essere donne “libere”. PSICOLOGIA CONTEMPORANEA N. 192 - NOV.-DIC. 2005