da
"Che bello, non c'è più Dio"
di Piergiorgio Odifreddi
«Le religioni sono o inutili o dannose. Quelle monoteiste sono anche oppressive. Comunque, per
fortuna, sono tutte superate». Parla James Watson, lo scopritore della struttura del Dna. E dice cose
molto 'scorrette' anche sui diritti umani, sulla morale e sul multiculturalismo
(05 marzo 2012)
James WatsonSe Einstein è stato l'icona scientifica della prima metà del
Novecento, Watson e Crick lo sono stati della seconda. Dei tre, l'unico
ancora vivo e vegeto è James Watson, che quando fece nel 1953 la scoperta
della struttura a doppia elica del Dna non aveva che 25 anni. L'essere salito
sul piedistallo più alto così giovane, e il possedere un carattere schietto e
provocatorio, l'hanno reso fin da subito un "enfant terrible". Per sessant'anni
le sue prese di posizioni sulle questioni più disparate hanno, a seconda dei
casi e delle disposizioni di chi ascoltava, divertito, interessato, stimolato,
seccato o infuriato. Probabilmente lo faranno anche le risposte a questa
intervista, in cui Watson, ormai non più "enfant", ma sempre "terrible", non
edulcora le sue opinioni su argomenti controversi, che vanno dalla religione
alla
politica.
Lei ha ricevuto un'educazione religiosa?
"Mia madre era formalmente cattolica. E mia nonna, che viveva con noi, lo
era devotamente. Io ho fatto la prima comunione e la cresima. Poi ho preferito sfruttare la domenica per andare a
osservare gli uccelli con mio padre, invece che in chiesa con mia madre".
Suo padre era ateo?
"Sì, dall'adolescenza. Per questo la fede non ebbe un grande impatto nella nostra famiglia. Non ricordo che ci siano mai
state discussioni sulla religione: veniva considerata come qualcosa di sorpassato".
Non è mai stato intrigato, come il giovane
"No, mi è sempre sembrato un vuoto gioco di parole".
Darwin,
dall'argomento
del
Disegno
intelligente?
Ma lei crede che ci sia un ordine nell'universo?
"Beh, ovviamente ci sono le leggi di natura. Per quanto mi riguarda, ci sono sempre state e sempre ci saranno:
l'assunzione che rimangano valide è continuamente confermata induttivamente, e le cose funzionano".
Non si chiede da dove derivano queste leggi di natura?
"Io penso semplicemente che ci sono domande che non hanno risposta, e che sia inutile stare a parlarne. Da quando ho
lasciato l'università, dove mi avevano fatto studiare un po' di logica e di filosofia, e leggere Aristotele, Agostino e
Tommaso, ho smesso di pensare a queste cose".
La filosofia non le è mai interessata?
"No. E meno che mai la filosofia della scienza. Sono naturalmente interessato alle sue ricadute etiche e morali, ma
questo è un altro paio di maniche. Ad esempio, mi piacerebbe sapere se certe caratteristiche comportamentali, come
l'altruismo o l'egoismo, sono determinate dai geni. E da quali, in particolare".
Solo dal punto di vista genetico, o anche evoluzionistico?
"I due aspetti sono legati, ovviamente: un gene viene selezionato se produce un vantaggio evolutivo. Ed è interessante
capire quale sia il vantaggio collettivo offerto dai comportamenti altruistici, che a prima vista appaiono individualmente
svantaggiosi. Naturalmente, l'altruismo non è universale: ci si preoccupa molto dei propri famigliari, meno dei propri
amici, meno ancora dei conoscenti, e poco o niente degli altri. C'è una gerarchia nella lista di coloro che sentiamo di
dover aiutare, e la lista varia a seconda delle persone: può essere più o meno lunga, e arrivare a includere anche gli
animali".
La sua li include?
"Non direi. Non capisco bene cosa ci si guadagnerebbe, ad esempio, a concedere diritti agli scimpanzé, come qualcuno
ha proposto. A dire il vero, trovo ridicola l'idea stessa dei diritti umani".
Animali, vuol dire.
"No, umani. Da dove derivano, questi diritti, se non si crede all'esistenza di Dio? Cose come il cibo, la salute o
l'istruzione sono bisogni e responsabilità, ma non diritti".
Lei sembra più sensibile all'evoluzione biologica, che a quella culturale.
"Dico solo che le leggi sociali non sono leggi di natura. Prendiamo il quinto comandamento, "Non uccidere": l'istinto
naturale di sopravvivenza ci spinge a violarlo, quando qualcun altro sta per uccidere noi. Non bisognava forse uccidere
Hitler? Io non sono nemmeno contrario alla pena di morte per i criminali biologicamente antisociali, nel senso di
sprovvisti di sentimenti di empatia: in fondo, non soddisfano i requisiti necessari per meritare la pietà umana".
© RIPRODUZIONE RISERVATA