8. HENRI LEMAÎTRE Shakespeare. Il cinema immaginario e il pre-cinema1 Se la bibliografia shakespeariana è una tra le più ricche esistenti, la filmografia shakespeariana si presenta ugualmente ampia. La lista degli adattamenti cinematografici tratti da Shakespeare, compilata dal British Film Institute, conta non meno di sessantanove titoli e non può certo considerarsi esaustiva. Inoltre, di questi sessantanove film cinquantaquattro sono anteriori al 1930; e di trentasette opere teatrali scritte da Shakespeare, diciotto, quasi la metà, sono state oggetto di un trattamento cinematografico. Questo spoglio elenco di dati basterebbe da solo a dimostrare quanto sia stata forte la “ tentazione shakespeariana”durante tutta la storia del cinema. E infatti, fin dagli esordi, il cinema ha come presentito che aveva in Shakespeare uno dei suoi più prestigiosi precursori, e che poteva usare questa credenziale per assicurarsi un posto nella tradizione della grande drammaturgia. Ovviamente l’incontro tra Shakespeare e il cinema determina enormi problemi che non riguardano solo i rapporti generali tra teatro e cinema, o la questione dell’adattamento cinematografico di un’ opera letteraria: nell’ opera di Shakespeare ci sono tante e tali prospettive, tante e tali suggestioni poetiche e drammatiche, che, quando il cinema si accosta ad essa, mette in movimento un intero universo: ma è anche vero che, allo stesso tempo, questo universo si rivela capace di illuminare efficacemente la presenza ricorrente di alcune predilezioni dell’ arte cinematografica e, insieme, di precisare la geografia spirituale tipica di una certa visione drammatica della quale il cinema si compiace talvolta fino all’ossessione. Prima di affrontare un argomento così difficile, quindi, faremo qualche osservazione a titolo di preambolo: il mio scopo era innanzitutto quello di esaminare alcuni adattamenti shakespeariani per scoprire fino a che punto il cinema si fosse rivelato in grado di “ visualizzare”- per fare nostro un neologismo tratto dalla lingua del grande Will la profondità e l’immensità dell’universo shakespeariano. E si trattava anche di vedere come il cinema avesse potuto realizzare qualcosa di più di semplici adattamenti, e fino a che punto questo sforzo gli avesse consentito di valorizzare alcune delle sue potenzialità. In questo caso lo studio degli adattamenti cinematografici di Shakespeare poteva fornire un importante contributo all’ estetica cinematografica. Ma, in modo più preciso, questo progetto imponeva che si tentasse parallelamente una pur breve indagine sulla esatta natura dei rapporti segreti che intercorrono tra il mondo shakespeariano e una parte almeno dell’ universo cinematografico; rapporti che possono da soli spiegare perché, con tanta costanza e talvolta con successo, il cinema abbia coltivato la sua infatuazione per Shakespeare - non solo in quei film che sono adattati direttamente da testi shakespeariani, ma anche in quei lavori che presentano una incontestabile influenza shakespeariana. Il duplice e complesso argomento di questo studio è dunque, in tutta la sua vastità, l’affinità del cinema con Shakespeare e l’affinità di Shakespeare col cinema. Certamente non pretendiamo qui di esaurire un argomento così vasto. Vorremmo solo fissarne alcuni aspetti fondamentali e soprattutto dimostrare come l’arte del linguaggio shakespeariano, che trionfa nel conferire alla parola tutta la potenza magica dell’immagine, e l’ arte del cinema, che trionfa nel conferire all’ immagine tutta la potenza allusiva della parola, si accomunino all’ interno della stessa estetica drammatica. Nell’eterno conflitto fra “ mostrare”e “ dire” , che non ha mai cessato di travagliare la storia 1 Comparso in «Etudes Cinématographiques», nn. 6-7, IV trimestre 1960, pp. 383 sgg. Traduzione di Paola Frezza. del teatro, sembra che Shakespeare e il cinema siano riusciti, partendo da termini opposti, a negare l’opposizione che li metteva l’ uno contro l’altro ed a moltiplicare la ricchezza della loro “essenza” drammatica, facendola scaturire dall’ unione indissolubile tra “mostrare”e “dire”. A questo proposito, sia Shakespeare che il cinema - per lo meno ai suoi livelli più alti - sono in pieno contrasto con la formula “raciniana” di Thierry Maulnier, «La grandezza e la gloria dell’ uomo consistono nell’ aver smesso di mostrare dopo aver imparato a dire». E questa è forse l’ occasione per osservare che il cinema non ha avvertito la “tentazione raciniana” allo stesso livello di quella shakespeariana (nuova variazione sul tema “ Racine e Shakespeare”, per la quale sarebbe necessaria l’ abilità di uno Stendhal cineasta del ventesimo secolo!). Ci limiteremo soltanto a constatare gli orientamenti pre-cinematografici della drammaturgia shakespeariana: il cinema è diventato lo strumento di una mise-en-scène di Shakespeare che, se da una parte accentua alcuni problemi essenziali posti dall’ interpretazione della sua visione drammaturgica, dall’altra mette in evidenza alcune capacità peculiari del cinema fondate sulla natura stessa della sua tecnica, della sua estetica, della sua metafisica. E così, da Laurence Olivier a Orson Welles, da Mankiewicz a Castellani, attraverso fallimenti e successi, i film shakespeariani hanno guadagnato un posto importante nel vasto laboratorio della drammaturgia cinematografica. Una storia allo stesso tempo temeraria e confortante che conferma comunque la validità delle ambizioni della settima arte, mettendone alla prova le attitudini drammaturgiche. * … the eye itself, That most pure spirit of sense.. [... l’occhio, quel purissimo spirito dei sensi… Troilus and Cressida, III.iii.105-106] In questo passo William Shakespeare si incontra con San Tommaso. Infatti si legge nella Summa Theologica che il senso della vista e tra tutti i sensi il più nobile e il più degno, e quello che conduce più facilmente alla conoscenza delle realtà spirituali. Dal canto loro, i drammaturghi elisabettiani definiscono l’ occhio come l’ organo della perfetta percezione, pura essenza della comunicazione col mistero delle cose. Questa coincidenza di vedute tra un drammaturgo e un teologo può non essere d’altronde semplicemente fortuita, poiché lo stesso Shakespeare era influenzato, più di quanto si pensi, dalla cultura teologica. Egli è comunque, come testimonia il passo citato, in cui la definizione degli occhi è si parentetica, ma comunque significativa, un erede di quella passione per il visivo, di quella sensibilità acuta per i valori dell’ immagine che avevano segnato la cultura medioevale e che il Rinascimento si guardò bene dal rinnegare. Anche il dramma shakespeariano, per quanto elementari siano i suoi mezzi materiali di rappresentazione, assicura l’ espandersi dei valori visivi fin dentro il linguaggio, un linguaggio il cui rigoglio drammatico, così spesso, deve la sua efficacia propio al fatto che le parole, il loro ritmo e la loro disposizione riescono a produrre davanti allo sguardo interiore dello spettatore una sorta di film immaginario: i personaggi e la vita stessa delle loro azioni, la natura con le sue bellezze e i suoi orrori, le scenografie di città o palazzi, i campi di battaglia, il mare, con i suoi vascelli e le sue tempeste, le passioni umane, finalmente liberate da astrazioni psicologiche e incarnate nel vento o nei sogni, nella musica o nel teatro, tutto questo scorre e si compone sullo schermo della parola poetica in un’ immensa, dinamica architettura di forme, arabeschi e colori, secondo un gioco di alternanza o fusione di elementi realistici e fantastici. Quale regista potrà mai riportare sulla pellicola la ricchezza di immagini, di musica e di movimento contenuta nell’ energia verbale del mondo shakespeariano! Tuttavia, anche se supera in ricchezza le potenzialità del mezzo cinematografico, questa energia drammatica fa costantemente appello all’ occhio, porta dello spirito, dell’ anima e dell’ immaginazione e a tutti quei mediatori di poesia che ad esso si apparentano. Ma prima di scandagliare questo universo per cercare di individuare almeno i segni più evidenti della sua natura precinematografica, dobbiamo constatare prima di tutto che Shakespeare, nel contesto letterario elisabettiano, appariva, rispetto ad altri drammaturghi, come un autore “visivo” . Ed è proprio questa sua caratteristica, io credo, che può spiegare le ragioni della sua tradizionale rivalità con Ben Jonson. Non si potrebbe infatti sostenere che questa rivalità fosse contraddistinta dall’ opposizione tra un’ estetica pre-cinematografica e un’estetica letteraria del teatro? L’autore di Volpone, impregnato di cultura classica tanto che di Shakespeare, suo rivale, non poteva fare a meno di dire: «thou hadst small Latine and less Greeke», concepiva il teatro secondo la regola classica dell’ unità formale del linguaggio letterario, che più tardi ispirò il classicismo francese e la letteratura pura di Racine. E Ben Jonson è rimasto celebre nella storia della letteratura inglese per aver dichiarato senza mezzi termini: «Shaksperr wanted Arte». Il significato della parola è chiaro: ciò che Ben Jonson intende per “Arte” è proprio la ricerca del perfetto “ dire”piuttosto che del “ mostrare” , teoria che egli espose nel prologo di Volpone e in quello di Ognuno fuori dalle sue manie (Everyman out of his Humour): un’estetica letteraria valida sia per la tragedia che per la commedia, così come l’ estetica pre-cinematografica di Shakespeare. Dobbiamo ricordarci che Ben Jonson è soprattutto un umanista, mentre Shakespeare è un teatrante per il quale la lingua è solo uno strumento al servizio di un’ impresa creativa che ne supera continuamente i limiti. Ben Jonson si considera “ artista” nella misura in cui riesce ad inscrivere lo svolgimento lineare di un’ azione nell’ ordine formale di un “ discorso”e la qualità estetica della lingua costituisce per lui, secondo la tradizione di Aristotele e di Orazio, il valore supremo. In Shakespeare, invece, la lingua non è più l’organo del discorso estetico, ma diventa piuttosto, come lo schermo cinematografico, la porta attraverso la quale si affollano, nell’immaginazione dello spettatore, forme, esseri e cose dell’ universo drammatico. L’impulso che guida Shakespeare non è l’Arte cara a Ben Jonson, ma piuttosto una sorta di realismo totale che, portando al suo più alto grado l’effetto di una presenza concreta e materiale del linguaggio, rompe le frontiere abituali dell’ espressione letteraria: il genio di Shakespeare risiede forse, prima di tutto, proprio in questa continua metamorfosi del linguaggio, che di solito trascende il semplice simbolismo e riesce a creare un universo allo stesso tempo ricco e complesso, sovraccarico di eventi e in continuo movimento. A questo proposito niente è più significativo dell’ uso che Shakespeare fa del “ tempo”, fondamentalmente orientato verso una “ compressione degli eventi” , secondo la definizione che è stata data del “tempo” cinematografico. Ora, questo “tempo” non è solo ed esclusivamente verbale: ma è in grado di sconvolgere l’ ordine ritmico per divenire quella pulsazione cosmica, spirituale, storica, e musicale, che fa muovere il dramma; e, nel caso di Shakespeare, dà senso alla sua definizione della poesia come “ energia” : “powerful rhyme” . Questo era d’ altronde l’orientamento basilare del teatro elisabettiano, e Shakespeare realizza, grazie al suo ineguagliabile “tempo” pre-cinematografico, l’affermazione entusiastica che Thomas Kyd mette in bocca a Hieronymo nella sua Tragedia spagnola (The Spanish Tragedy): «There you may show a passion, there you may show a passion». In tutta l’opera di Shakespeare non c’è miglior esempio di questo “ tempo”energetico della tragedia Antonio e Cleopatra, da molti considerata il suo capolavoro (Coleridge l’ ha definita la più “sorprendente”). Mai come in questo caso il dramma è immune dal rischio di essere ridotto a uno sviluppo lineare: la costruzione drammatica è molto complessa sia nello spazio che nel tempo e il ritmo delle scene ha il solo scopo di creare un senso di ubiquità nell’immaginazione dello spettatore. Ma non si tratta, come accade spesso a teatro, di un’ubiquità di tipo illusionistico, ma di un’ubiquità densa e dinamica che supera i rapidi cambiamenti scenografici e di luogo e assicura una sorta di continuità nella molteplicità. Quest’ultima, a sua volta, attribuisce al dramma quella dimensione di “ infinita varietà”, che rende così difficile la messa in scena di questa tragedia. Così il dramma shakespeariano - ed è questo il punto in cui sotto il profilo fenomenologico, esso si avvicina di più al cinema - sviluppa all’infinito la mobilità dello spettatore e la sua capacità di percepire un’altra dimensione, dando vita a quell’iper-realismo dell’ immaginario che è una delle più grandi aspirazioni del cinema. Ecco ad esempio come si esorcizza, per un attimo, l’invasamento bestiale di Calibano ne La tempesta: … The isle is full of noises sounds, and sweet airs, that give delight and hurt not. Sometimes a thousand twangling instruments Will hum about mine ears; and sometimes voices, That, if I then had waked after long sleep, Will make me sleep again; and then, in dreaming, The clouds methought would open and show riches Ready to drop upon me: that, when I waked I cried to dream again. [... L’isola è piena di rumori, di suoni, di dolci arie che danno gioia e non malinconia. Talvolta note acute di migliaia di strumenti mi ronzano all’orecchio, o voci che mi fanno addormentare anche se desto dopo lungo sonno: e allora in sogno pare che si rompano le nubi e mostrino tesori, pronti a cadere su di me, così che, sveglio, piango perché vorrei sognare ancora.] Questo sogno pre-cinematografico di Calibano che “fa vedere nuvole che si aprono traboccanti di ricchezze”non è forse già un presentimento della magia onirica della sala cinematografica? E che quello di Calibano sia un sogno, provocato dalla magia di Prospero, non è un dato indifferente, se si pensa al simbolismo generale della Tempesta: una magia illusionistica, come quella di ogni spettacolo (poiché l’ ideale di ogni spettacolo consiste nel rendere reale la finzione), ma una magia in grado di elevare l’ animo più ottuso o più malvagio - e Calibano possiede entrambe le caratteristiche - ad una sorta di pura surrealtà poetica. Senza dubbio era questa l’ idea che si era fatta del teatro ShakespeareProspero; ed è l’ idea che si fanno del cinema i suoi autori e teorici più esigenti. Così il desiderio pre-cinematografico di “mostrare” che spiega la densità visiva e il “tempo” energetico del dramma shakespeariano, porta all’ impiego dei molteplici mezzi della “perfetta illusione”, quella stessa di cui il cinema svilupperà la tecnica. Essa è infatti il contrario dell’“illusione letteraria” , quella che, proprio rinunciando all’uso della tecnica del “mostrare”, sia pure attraverso la mediazione della parola, porta all’ estrema perfezione l’ arte indiretta del “dire”. I nostri romantici più acuti non si sono sbagliati, e se hanno scelto Shakespeare invece di Racine è perché hanno voluto cambiare strada, cercare l’illusione diretta e perfetta. Ad esempio, riguardo alla tragedia shakespeariana Vigny ha dichiarato: «Mi piace per la sua consistenza... la riconosco dal ritmo, dal linguaggio, dal clima poetico...». E, ancora più esplicitamente Stendhal scrive: «Io credo che questi brevi momenti di perfetta illusione si ritrovino con maggior frequenza nelle tragedie di Shakespeare che in quelle di Racine». Senza dubbio, a questo punto dobbiamo chiarire alcuni equivoci. Se, insieme con Stendhal, pretendiamo di trovare in Shakespeare una presenza, anche episodica, della perfetta illusione, e individuare in questo il segno di un orientamento precinematografico, qualcuno potrebbe rilevare la povertà tecnica del palcoscenico elisabettiano, per quello che riguardava la messa in scena. Come si potrebbe riconoscere in un teatro che rappresenta una foresta con un cartello e che confessa - nel prologo dell’Enrico V - la sua povertà scenica, l’antenato drammatico più vicino all’arte cinematografica, proprio quando quest’ultima è caratterizzata dalla profusione e spesso dall’ abuso di una mise-enscène realistica? Una tale osservazione introduce anche il problema dei meccanismi psicologici che si trovano dietro la creazione di una completa illusione e dietro il livello di “credulità” del pubblico. L’illusione, nei suoi aspetti tecnici dipende dal rapporto che si instaura tra lo spettacolo e il pubblico: con i suoi cartelli o con le sue descrizioni verbali, il dramma shakespeariano cerca di ottenere gli stessi effetti che il cinema ottiene attraverso tutto il suo concreto realismo: ma la natura dell’ illusione teatrale non appartiene a un livello di esperienza materiale - e questo spiegherebbe la ragione del fallimento di un certo realismo cinematografico. In conclusione il pre-cinema shakespeariano appartiene ad una tipologia che si potrebbe definire “cinema immaginario”(il termine pre-cinema riguarda lo scopo che il dramma cerca di ottenere, il termine “ cinema immaginario”riguarda gli strumenti tecnici impiegati). L’evoluzione degli strumenti tecnici non altera infatti la natura del fine teatrale, né la scelta estetica del “mostrare”: dobbiamo infatti cercare qui le differenze estetiche e psicologiche che distinguono la rappresentazione intellettuale caratteristica del “dire” e la presenza visiva - sia pure immaginaria - che caratterizza al contrario il “mostrare” tipico dell’arte di Shakespeare e del cinema. Il che non vuol dire che non ci sia anche in Shakespeare - nella sua opera c’è tutto - un ordine poetico della parola. Dobbiamo ripetere ancora che, se in Shakespeare troviamo il pre-cinema, egli non potrebbe certamenle ridursi solo al pre-cinema. Ma è pur vero che, come dimostra la reazione di un Ben Jonson, i contemporanei di Shakespeare hanno visto in lui soprattutto, come più tardi Vigny o Stendhal, il rappresentante di una estetica della perfetta illusione contrapposta all’ ideale letterario dell’illusione intellettuale. Il fatto è che Shakespeare, uomo di teatro nel senso pieno del termine, è estremamente solidale col suo pubblico, il quale non gli chiede l’ “ arte”, nel senso che Ben Jonson dà a questo termine, ma una illusione in un certo senso fisica, e la desidera così ardentemente da essere pronto a collaborare, con tutta la sua ingenuità, con tutta la sua immaginazione, per realizzarla; e questo - notiamolo di sfuggita - è anche il caso del pubblico cinematografico. Anche in questo caso i nostri romantici avevano capito bene Shakespeare. In una cronaca, raccolta poi nel volume L’art moderne, dal titolo Shakespeare aux Funambules, Théophile Gautier si lascia andare a scrivere: «Che pubblico! Ecco un vero pubblico! Se mai qualcuno vorrà rappresentare in Francia Il sogno di una notte di mezza estate, La tempesta, II racconto d’ inverno di Shakespeare, potrà farlo solo su queste povere tavole tarlate, davanti a questi spettatori vestiti di stracci». Certo, si deve fare la tara ad una certa esagerazione romantica, ma è pur vero che, da un punto di vista psicologico se non sociale, una drammaturgia della perfetta illusione corrisponde a un pubblico che cerca il contatto fisico con l’energia vitale dello spettacolo. Forse si può proprio spiegare in questo modo, almeno in parte, il malinteso che ha spinto tanti “ letterati”a disprezzare a priori il cinema (un po’ come Voltaire, che disprezzava Shakespeare pur invidiandolo), e, insieme, anche l’errata concezione di una estetica letteraria del cinema: Racine e Shakespeare appartengono, in questo senso, a due categorie drammaturgiche radicalmente opposte e fra le quali ci sarà forse una possibilità di traduzione o di trasposizione, ma non di sintesi. Di fatto, mentre il pubblico del teatro letterario crede di aver già raggiunto un alto grado di “ cultura” e di essersi così completamente spogliato dei vecchi vestiti di Calibano, il pubblico di quel teatro che cerca la perfetta illusione è ancora Calibano, e lo spettacolo e la magia grazie alla quale Calibano potrà essere trasformato: Shakespeare è Prospero. Ora, sia per il suo pubblico che per il carattere della sua drammaturgia, il cinema - soprattutto se non lo riduciamo al cinema francese - ci sembra prendere le parti di ShakespeareProspero piuttosto che quelle di Ben Jonson e Racine. Ma qui occorre liberarsi rapidamente di alcuni malintesi: questa distinzione non rappresenta una gerarchia; Shakespeare non è inferiore a Racine, né il cinema alla letteratura; e, ancora, quando parliamo di due tipi di spettatori, corrispondenti a due categorie di spettacolo, è chiaro che, anche se può succedere che questi due tipi di spettacolo si differenzino socialmente o eticamente, questa differenziazione è, in un certo senso, contingente: infatti, in ognuno di noi si ritrovano entrambe le caratteristiche psicologiche ed estetiche delle due tipologie di spettatori, come riflesso della duplice pulsione che è in ciascuno di noi e che è inerente alla nostra natura di uomini e di spettatori, al “ mostrare”e al “dire”.Ogni spettatore ha in sé, anche se non vuole confessarlo, un Calibano in attesa di Prospero. Raramente il teatro si è rivolto a quello spettatore totale che è anche oggi lo spettatore di cinema, come l’ Inghilterra elisabettiana. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che Shakespeare non è un “miracolo” come Racine, ma il prodotto geniale di un’epoca teatrale che uno storico della letteratura inglese così descrive; «Possiamo pensare ad un immenso iceberg, del quale il dramma elisabettiano propriamente detto non è che la cresta, luminosa e fosforescente, che corrisponde al breve periodo della carriera attiva di Shakespeare, dal 1587 al 1612 circa. Un quarto di secolo nel corso del quale è stato scritto quanto c’è di più prodigioso nel teatro inglese - forse il momento creativo più importante della storia del teatro dall’ epoca, altrettanto breve, della tragedia ateniese». E in effetti, prima e dopo Shakespeare si trovano tutti gli altri elisabettiani, i cui propositi artistici, pur con delle varianti, sono gli stessi. Quando si comincia ad occuparsi della storia materiale del teatro elisabettiano, delle sue opere e della sua vita, si rimane colpiti dalla straordinaria produzione drammatica che fioriva un po’dovunque in Inghilterra; dappertutto si incontrano compagnie di attori, generalmente ambulanti - si pensi a quelli che compaiono nell’Amlelo - ma si incontrano attori anche nelle università e nei palazzi dei nobili, così come nelle taverne popolari: il teatro è dovunque. proprio come oggi il cinema; e si sposa altrettanto bene con i costumi raffinati e con quelli rozzi, in un’ epoca in cui convivevano raffinatezza e brutalità. Come ha notato, non senza humour, un critico, il Globe non era molto diverso dal Paris Garden e i combattimenti d’orsi e di tori piacevano agli stessi spettatori che amavano Romeo e Giulietta. Lo spettatore elisabettiano pretendeva dal teatro passione e parossismo sia nello spettacolo raffinato che in quello volgare. E Shakespeare ha scritto sia Romeo e Giulietta che Tito Andronico. La parola chiave usata dagli elisabettiani per descrivere il piacere provato dagli spettatori teatrali è, a questo riguardo, significativa: ravished, affascinato, un termine che ricorda i procedimenti magici e che contiene il presentimento del fascino suscitato dal cinema. L’ arte drammatica che soddisfaceva questo bisogno di “ incanto” e di fascinazione parossistica non poteva non lasciarsi tentare, come il cinema oggi, dall’usare tutti gli strumenti a sua disposizione nel suo intento di suscitare quella “temperie passionale”, il cui desiderio animava il pubblico elisabettiano, come anima il pubblico cinematografico dei giorni nostri. Questa osservazione ci riporta alla preminenza nella drammaturgia di un’ossessione visiva che si otteneva, in assenza di sofisticati strumenti tecnici, ricorrendo all’immaginazione dello spettatore. Stranamente c’ è in Shakespeare un’autentica ossessione per l’“occhio” che spinge la sua tendenza pre-cinematografica a realizzare prima di tutto uno “show”, forse proprio quel “ biggest show in the world” tanto caro alla propaganda pubblicitaria del cinema americano - l’aspetto Cecil B. De Mille di Shakespeare. Questo ci spiega come, in assenza di appropriati strumenti tecnici, Shakespeare abbia cercato di soddisfare la sua inclinazione al meraviglioso ed alla pienezza di effetti attraverso ciò che si potrebbe definire la messa in scena verbale dei suoi testi. È stato precisamente questo che ha scioccato i più raffinati dei suoi contemporanei, ma che ha, senza dubbio, affascinato la sua platea popolare e aristocratica. Ma il cinema immaginario di Shakespeare non è pre-cinematografico unicamente nella messa in scena; lo è anche, e forse soprattutto, nella struttura; e l’ossessione per il visivo che mirava a creare un momento d’ incanto, ha condotto l’ autore a inventare delle strutture che trascendono l’ ordine stesso della realtà. Parlare di découpage e di montaggio per Shakespeare è tecnicamente corretto: montaggio e découpage saranno infatti gli strumenti utilizzati per comprimere gli eventi temporali e per porre lo spettatore in una condizione vicina a quella dell’ ubiquità. Un tale lavoro è particolarmente evidente nell’organizzazione spaziale di Antonio e Cleopatra (che secondo i tecnici è la tragedia più difficile da “mettere in scena”nel senso teatrale dell’ espressione). Allo stesso modo il montaggio del II atto di Come vi piace, con la sua giustapposizione di frammenti temporali, un tempo strutturato in modo completamente libero rispetto alla monotona continuità del tempo, potrebbe essere scelto come esempio di découpage cinematografico. Nel Re Lear, per esempio, fin dall’inizio vediamo sostituita all’unità d’azione la tecnica del montaggio parallelo di due linee d’ intreccio, che sono l’ una (Gloster-Edmund-Edgar) il riflesso simbolico dell’altra (Lear- Regan-Goneril-Cordelia). Allo stesso modo è quasi impossibile trovare in Shakespeare uno sviluppo chiaro e lineare fondato sull’ ordine continuo della parola; le “scene”, infatti (o forse sarebbe meglio dire le “sequenze") sono continuamente organizzate secondo un complesso contrappunto spazio-temporale e il punto di vista cambia continuamente. In poche parole, la tecnica shakespeariana, nel suo complesso, tende a fare della scena un luogo di libertà: a questo proposito, lo straordinario bisogno di spazio testimoniato dalla drammaturgia di Shakespeare è già di per sé altamente significativo; aggiungiamo inoltre che il bisogno di tempo, di un tempo denso, multiplo, dalle dimensioni infinitamente varie e espanse, è altrettanto caratteristico. A queste due necessità fondamentali risponde, nei suoi elementi accessori e di struttura, la tecnica shakespeariana. Certamente solo uno studio più ampio su questa arte del découpage e del montaggio e sui suoi metodi di compressione del tempo e dello spazio potrebbe rivelare in quale proporzione il cinema immaginario è presente nei lavori di Shakespeare e allo stesso tempo potrebbe farci capire l’ importanza che ha avuto nella storia del cinema la tentazione shakespeariana. Accontentiamoci ora di considerare che anche a livello di un’analisi parziale ed episodica, il teatro di Shakespeare ci appare come uno sforzo diretto verso una totale visualizzazione dell’ umanità e del mondo. Porre tutto ciò che esiste nella dimensione dello “show” ; “ far vedere” , come dicono lo Hieronimo di Thomas Kyd e il Calibano di Shakespeare, questa è la principale e esclusiva missione del teatro. Si può parlare di un cinema immaginario nel momento in cui vengono utilizzate, come è avvenuto coi drammaturghi elisabettiani, quelle tecniche e quelle strutture più indicate per una tale missione. Interi drammi come il Giulio Cesare (cfr. per esempio, lo straordinario racconto pre-cinematografico di Casca alla seconda scena del I atto) e Antonio e Cleopatra (al quale si può anche aggiungere Il racconto d’inverno) appartengono a questa categoria, per non parlare di altri passi che hanno questa caratteristica, come il prologo dell’Enrico V. Rimane da verificare se, paradossalmente, l’eventuale realizzazione di questo cinema immaginario non corra il rischio di impoverirne la ricchezza e potenza! Potrebbe darsi che il cinema verbale di Shakespeare fosse più efficace delle realizzazioni, pur notevoli sotto molti punti di vista, di Laurence Olivier nell’Enrico V o di Castellani nel Romeo e Giulietta. Ma dopo tutto non ci dobbiamo scandalizzare se nel cinema si verifica un processo che accade molto spesso in architettura: sappiamo che i più grandi capolavori architettonici sono rimasti spesso allo stato di sogni disegnati; ma non è raro che questi abbozzi di sogni abbiano poi fecondato realizzazioni successive. Perché non vedere quindi in Shakespeare e nella sua lezione come il progetto mai realizzato di un cinema immaginario in grado ancora di fecondare le opere di oggi? Forse il film più profondamente shakespeariano della storia del cinema non è nessuno dei film tratti direttamente da Shakespeare, ma un film del più shakespeariano tra i maestri della regia cinematografica, Orson Welles: questo film e La signora di Shangai.