UN BRESCIANO AL VERTICE DEL GOVERNO. GIUSEPPE

UN BRESCIANO AL VERTICE DEL GOVERNO.
GIUSEPPE ZANARDELLI (1826-1903)
Giuseppe Zanardelli (Brescia, 26 ottobre 1826-Maderno, 26 dicembre 1903) rappresentò storicamente la più
importante e illustre personalità politica di Brescia. Non solo per le cariche ricoperte durante la sua lunga e
onorevole carriera (ministro, presidente della Camera dei deputati, presidente del Consiglio dei ministri), ma
anche per il suo apporto di giurista e di statista nella difficile costruzione di un credibile regime politico
liberale in Italia. Ebbe sempre grande attenzione alla sua terra e alla sua gente ed esercitò un'influenza
positiva e concreta nelle vicende economiche, politiche, sociali del territorio nell'arco di un quarantennio. La
sua figura è stata recentemente rivisitata e ricordata nel 2003 con una mostra al Vittoriano di Roma, in
occasione del primo centenario della morte.
Studente di giurisprudenza dell'Università di Pavia, nel 1848 si arruolò volontario e prese parte alla
campagna del Trentino. Si rifugiò in Toscana dopo l'armistizio, ma alla fine della Prima guerra d'indipendenza
tornò a Brescia, dove fu sempre osteggiato dalle autorità austriache. Nel frattempo tenne i contatti con i
liberali piemontesi e lombardi, collaborò al giornale "Il Crepuscolo", scrivendo soprattutto saggi di economia
politica. Nel 1859 fu uno degli organizzatori dell'insurrezione bresciana, il capo della Sinistra liberale locale.
Nel 1861 fu eletto alla Camera dei deputati (la prima dell'Italia unita in uno Stato sovrano e indipendente).
Nella carica fu sempre rieletto sino alla morte, fedele al suo Collegio di Iseo. In Parlamento fu personalità
eminente e una delle più ascoltate della Sinistra costituzionale.
Nel marzo del 1876, alla caduta della Destra, entrò nel primo governo di Agostino Depretis come ministro dei
Lavori pubblici, ma si dimise nel novembre del 1877 perché contrario alla legge sulle convenzioni ferroviarie,
convinto che essa non tutelasse sufficientemente l'interesse pubblico.
Nel marzo 1878 fu di nuovo ministro agli Interni nel governo dell'amico Benedetto Cairoli (1825-1889) dove
propugnò una politica liberale e garantista fondata sul rigido principio che l'ordine pubblico dovesse essere
mantenuto con molto rigore ma non con azioni arbitrarie e violente. Dal maggio 1881 al maggio 1883 fu
ministro guardasigilli di Grazia e Giustizia di nuovo con Agostino Depretis. Nel 1882 elaborò e firmò la nuova
legge elettorale di allargamento del suffragio ai cittadini che sapessero leggere e scrivere. Fu favorevole a una
politica dell'alternanza fra partiti differenti per principi e programmi e, quindi, contrario alla pratica
trasformistica di Depretis, che aveva modellato un blocco politico tenuto insieme soprattutto dall'aspirazione
e dalla pratica del potere.
Tornò al governo quattro anni dopo, nell'aprile del 1887, con Depretis prima e Francesco Crispi poi: fu
nuovamente ministro della Giustizia fino al febbraio del 1891. Nel 1887 promulgò il nuovo Codice penale, il
Codice di commercio, la legislazione sul lavoro femminile e minorile: norme che disegnarono uno Stato
moderno e liberale.
Dal 24 novembre 1892 al 22 febbraio 1894 fu presidente della Camera dei deputati (la più importante carica
elettiva del Regno), di nuovo dal 6 aprile 1897 al 26 gennaio 1898; dal dicembre 1897 al maggio 1898 fu ministro della Giustizia nel gabinetto presieduto da Antonio Starabba Di Rudinì (1839-1908). Per la terza volta fu
eletto presidente della Camera dal 17 novembre 1898 al 30 maggio 1899. Zanardelli diventò presidente del
Consiglio il 15 febbraio 1901 e fu l'artefice del cambiamento politico che tutto il Paese auspicava dopo la
drammatica fine del XIX secolo. Si dimise - stanco e malato, in contrasto con Giolitti che aveva lasciato il governo a giugno e voleva assumere la carica presidenziale al suo posto - alla fine di ottobre del 1903. Mori nella
villa di Maderno, sul Lago di Garda, il 26 dicembre.
La figura di Zanardelli è ricordata principalmente per Il codice penale del 1889 (comunemente detto codice
Zanardelli dal nome dell' allora ministro di Grazia e Giustizia bresciano che ne promosse l'approvazione). Fu il
codice penale in vigore nel Regno d'Italia dal 1890 al 1930.
Nella Relazione al Re di presentazione del nuovo codice, Zanardelli si diceva convinto che “le leggi devono
essere scritte in modo che anche gli uomini di scarsa cultura possano intenderne il significato; e ciò deve dirsi
specialmente di un codice penale, il quale concerne un grandissimo numero di cittadini anche nelle classi
popolari, ai quali deve essere dato modo di sapere, senza bisogno d’interpreti, ciò che dal codice è vietato”.
Zanardelli riteneva che la legge penale non dovesse mai dimenticare i diritti dell'uomo e del cittadino e che
non dovesse guardare al delinquente come ad un essere necessariamente irrecuperabile: non occorreva solo
intimidire e reprimere, ma anche correggere ed educare.
Entrato in vigore il 1º gennaio 1890 (seppur approvato, tra l'altro con l'unanimità delle due Camere, già dal
30 giugno 1889), questo codice aboliva la pena di morte (che era ancora in vigore nei principali Stati europei)
e consentiva una limitata libertà di sciopero. Inoltre introduceva la libertà condizionale, il principio
rieducativo della pena ed aumentava la discrezionalità del giudice al fine di adeguare la pena alla effettiva
colpevolezza del reo.
Il Codice Zanardelli sostituì il Codice penale del 1865 che di fatto era il codice del Regno di Sardegna del
1859 esteso (con qualche modificazione) all'intero territorio del Regno d'Italia, ad esclusione della Toscana
ove rimase in vigore il Codice penale locale perché non conteneva la pena di morte a differenza del Codice
sardo.
Per tale ragione è solo con il presente Codice Zanardelli che si raggiungerà la effettiva unificazione
legislativa del Regno.
Con l'avvento del governo Mussolini, molte sue norme furono di fatto disattese e nel 1930 si arrivò alla
formale soppressione del codice Zanardelli, che venne sostituito dal codice Rocco.
il Codice Zanardelli costituisce a tutt'oggi la principale fonte penalistica del diritto dello Stato della Città del
Vaticano, che lo recepì in seguito ai Patti Lateranensi del 1929 assieme all'intera legislazione italiana allora
vigente.
Sebbene in difetto d'aggiornamento per reati più recenti (quali ad esempio lo spaccio di sostanze
stupefacenti), per i quali le autorità vaticane hanno dovuto cercare altre fonti nel loro ordinamento giuridico,
la sua permanente vigenza può costituire un segno della modernità di questa originale codificazione penale
italiana quasi del tutto scomparsa dietro l'ultima legislazione di epoca fascista