Tibaldi Unità dei Massoni

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L’UNITÀ DEI MASSONI IN UNA SOCIETÀ DISSOCIATA
La parola “Società”. prima ed oltre la complessità di cui è stata investita dalle
Scienze Umane, ha il significato chiaro, semplice e profondo di “ stare insieme”.
“Socio” è il compagno che segue e condivide propositi e destini di coloro con i quali
si allea, cioè si “lega” nelle imprese ideali, morali, civili, politiche, economiche e
“affettive”.
Indipendentemente dalla qualità e dal livello dei contenuti e dalle forme di
aggregazione vi è sempre “Società” quando due o più persone vogliono superare una
condizione di isolamento individuale per formare un “corpo” unitario.
Il concetto stesso di “corpo” rinvia, infatti, al concetto di “insieme”, di riunione di
parti, di organi.
Il valore, dunque, che si impone per dare senso e forma compiuta alla parola
“Società” è quello di “unione”.
Associarsi, tuttavia, non indica un generico “stare insieme”, seppure con i propositi di
un’impegnativa alleanza, ma mette in luce una forma specifica di relazione fra i
“soci” che è funzionale al costituirsi di una “realtà unitaria”.
Unire significa “rendere uno”.
Questo processo non rappresenta soltanto una metamorfosi, una semplice variazione
di modo o di stato.
In realtà indica un “passaggio all’essere”, il compiersi dell’esistenza.
Nel mistero coniugale, emblema e simbolo di ogni forma di unione, il due che
diventa uno, la “carne sola”, non rappresenta l’annullamento delle individualità ma,
al contrario, il raggiunto compimento della “qualità umana”.
Al punto da poter affermare che senza il realizzarsi di questa unione la persona
umana rimane incompiuta.
L’individuo che non si unisce all’altro non è più autonomo ma, al contrario, rinuncia
ad un’esistenza “perfetta”.
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Il mancato raggiungimento della “unità” non significa solitudine, separazione,
“individuazione” ma imperfezione dell’essere.
L’opposto di “unità” non è, allora, la dualità o l’alterità ma la negazione.
“Non – uno” vuol dire, infatti: non, nulla, nessuno.
E il “nulla” è ciò che non esiste più, che è perduto, morto.
Un’immagine elegante che rappresenta simbolicamente l’unione ci giunge dal latino
dove la parola “unio” indica una perla grande e preziosa “della più bell’acqua”.
Per tutti questi significati non stupisce che la “unione” stimoli sentimenti conflittuali
di desiderio e di timore, consci e inconsci.
Fino a rappresentare situazioni di disagio psichico o di impotenza quando, per
esempio, il “divenire una sola carne” viene vissuto inconsciamente non come il
compimento perfetto dell’essere ma come la perdita del Sé, una minacciosa
rappresentazione di morte.
È interessante ricordare che da SEM, la “radice verbale dell’unità”, derivano i termini
“semplice” e, soprattutto,”sincero” che evocano una dimensione dinamica e morale.
SEM, infatti, allude a ciò che si compie “una volta sola” o “in una volta sola” o “una
prima volta” o “una volta per tutte”, cioè definitivamente.
Qui il valore e la forza della unione appaiono evidenti perché rappresentati da un
impegno e da una responsabilità capaci di mettere in moto processi vitali e storici e
testimoniati da un comportamento sincero e autentico proprio perché conseguente a
scelte definitive.
Quando la “parola” si fa “corpo” e “comportamento” apre, in realtà, un orizzonte al
mondo delle norme e delle responsabilità.
Se lo “stare insieme” rende compiuta l’esistenza umana il riconoscerne e il rispettarne
le regole dona qualità a quell’esistenza.
Il celebre “Uomo senza qualità” di Musil è, forse, proprio l’Uomo incapace di
prendere una posizione corretta di fronte alla Società e alle sue regole.
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Per approfondire questa prospettiva ci viene in soccorso un grande psicoanalista,
Paul Federn, che suggerisce una serie di distinzioni misurate sul modo di porsi
rispetto alla “Società”.
Ne
deriva
una
classificazione
antropologica
ordinata
in
particolare
sull’atteggiamento, conscio o inconscio, di fronte alle regole e rappresentata da
quattro “tipi umani” esattamente definiti:
- il Sociale, che è in grado di capire le norme e le osserva
- l’A-sociale, che non è in grado di capire le norme e non può, quindi, osservarle
- l’Anti-sociale , che è in grado di capire le norme ma non le osserva
- il Dis-sociale, che interpreta le norme in modo bizzarro, incongruo o de –
formativo
dando
luogo
a
comportamenti
discordanti,
contradditori,
disorganizzanti.
Secondo questa classificazione il tipo “Dis-sociale” non soltanto appare il più
originale ma, probabilmente, anche il più inquietante.
Infatti, mentre i tipi “A-sociale” e “Anti-sociale” si manifestano attraverso
comportamenti tanto
distruttivi
quanto
facilmente
riconoscibili e,
quindi,
relativamente più facili da contrastare, il tipo “Dis-sociale” è oscuro, ambiguo, spesso
simulato e dissimulato.
Soprattutto non ha sempre una evidenza patologica e tende a penetrare e confondersi
nella “normalità” diventando, per questo, pericoloso e ingovernabile.
Sia nella forma patologica della “dissociazione” che in quella antropologica della
“dissocialità” è in gioco una perdita o, comunque, una alterazione della “identità”.
Si manifestano, cioè, conflitti, incongruenze, discordanze che anche quando non
raggiungono il limite estremo della “depersonalizzazione” rivelano la coesistenza di
modi contradditori di percepire, di relazionarsi e di pensare nei confronti di se stessi e
dell’ambiente.
Obiettivi e valori contradditori operano all’interno della personalità rendendo il suo
comportamento ed i suoi atteggiamenti profondamente ambigui, cioè, nell’apparenza
realistici e produttivi ma irragionevoli e distruttivi nella sostanza.
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Le cronache della vita politica, economica e del costume sono ricche, purtroppo,
oggi, di segnali che denunciano la diffusione di questa “dis-socialità” e delle sue
cause e rappresentazioni, in particolare il “difetto identità” e la “incapacità di
unione”.
Merita a questo proposito di essere sottolineata l’integrazione fra il concetto di
“identità” e il concetto di “unione” che trovano, in particolare, nel valore ricordato
della “sincerità” un punto fondamentale di connessione.
Se, infatti, “sincero” significa “integro” e “unione” significa “compimento
dell’essere”, la “identità” rappresenta la capacità di unirsi che è propria di chi è
“uguale a se stesso”.
Infatti, soltanto chi è “proprio lui”, cioè chi è “non – diviso ” fra il “dentro” e il
“fuori” può manifestarsi per ciò che è e “stare insieme” all’altro in modo autentico.
Ci si può chiedere, allora, se e come i Massoni possano e debbano rispondere ai
problemi drammatici posti dall’attuale crisi della “identità” e dalla diffusa “dissocialità”.
La prima risposta viene innanzitutto dal riconoscimento e dalla consapevolezza della
stessa “identità massonica” quale viene espressa dai Valori sui quali è costruita
l’essenza della Massoneria.
La “Libertà” come valore antagonista della stessa dis-socialità.
La parola “Libero”, infatti, come attestano le radici delle lingue indo-europee e indogermaniche significa prima di tutto “caro”, “amato” e, solo e proprio per questo,
affrancato, entrato a fare parte della famiglia a titolo di parità con gli altri membri,
degno.
Chi è autenticamente libero è colui che, come direbbe Federn, sa sinceramente
riconoscere le regole dello “stare insieme” ed è capace di osservarle in modo
consapevole e costruttivo.
La “Fratellanza” come valore antagonista della conflittualità, della contraddittorietà e,
quindi, fonte e rappresentazione di ogni forma di reale alleanza, solida e solidale ad là
di ogni legame di sangue.
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L’Uguaglianza come valore antagonista della “dis-identità”.
Se “equo” vuol dire, nel suo senso più profondo, “unito”, come soltanto può esserlo
un piano orizzontale, che non presenta disuguaglianze, una bilancia “che non pende
né di qua né di là” o un terreno perfettamente piano e, per questo, agevole, il concetto
di “uguaglianza” richiama l’idea della totalità e della continuità, di qualcosa che è
sempre uguale a se stesso, costante, intero.
La seconda e definitiva risposta che i Massoni possono e debbono dare, oltre alla
consapevolezza dei Valori identificanti, consiste, tuttavia, nel passare all’azione,
manifestando operativamente quella “capacità di unione”, quell’attitudine alla
“compiutezza dell’essere” che ancora li rende distinti e riconoscibili in ogni tempo e
oltre il tempo, in ogni forma della Storia e al di là della Storia.
:.Gianni Tibaldi
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