Francesco Di Donato Sul presunto linguaggio criptico nell’elaborazione politico-istituzionale di Aldo Moro 1. Tra parrhesìa e complessità linguistica del reale Aldo Moro fu un’intelligenza che per tutta la vita lottò contro la propria identità1. Vi è nel suo stile, nell’incedere del suo pensiero, nella stessa costruzione del suo linguaggio una sorta di permanente dialettica interna, che appare oggi un’evidenza a chi proceda a un’analisi storica il più possibile scevra da condizionamenti ideologici, culturali e politici. Studiare il linguaggio di Moro è un’impresa tanto affascinante quanto paradossale. Gli storici constatano che nelle vicende umane domina spesso l’assurdo. Non è affatto raro il caso in cui, nel fatto storico, la realtà supera la fantasia. Utilizzando i termini di un grande giurista francese del XIX secolo, François Gény, si può dire che il reale non è solo il mero dato, il vissuto, l’accaduto, ma anche, anzi soprattutto, il costruito, un gioco spesso tacito e muto, avvolto in un velo sottile, talvolta diafano, di speranze, desideri, progetti, proiezioni utopistiche, fughe oniriche. Sono le passioni cieche a dominare il proscenio della storia2. I grandi fenomeni si determinano assai più sulla spinta di potenti energie passionali che per meditate e ben calcolate scelte razionali. Compito prioritario del “Politico” è quello di ricondurre i popoli al senso della realtà e al principio di effettività (la machiavelliana «verità effettuale della cosa»), senza tuttavia spegnerne l’energia creativa e senza affievolire la sensazione di poter proseguire un cammino di progresso e d’innovazione. Nell’azione politica rigore razionale e capacità di alimentare il sogno (I have a dream) devono coincidere. Precisamente nella realizzazione vivente di quest’ossimoro, in bilico permanente tra presente e futuro sta la nobile follia del “Politico”, la sua quasi-impossibilità. L’impresa politica è, per definizione, impresa paradossale, dal momento che l’energia vitale che attraversa un corpo sociale (o le minoranze attive presenti in esso), ciò che lo spinge ad agire e che mette in moto la storia, non è certo l’argomentazione razionale, bensì la rappresentazione immaginaria e l’abilità di mettere in moto energie passionali Dedico questo saggio a mio padre, Nicola Di Donato, da sempre interessato all’intelligenza complessa e “fuori le righe” di Aldo Moro. Anche lui, come il grande statista salentino, è in permanente rivolta contro la cultura dalla quale trae origine la propria identità. 2 Cfr. S. VEGETTI FINZI, Storia delle passioni, Laterza, Roma-Bari 1995; B. BESNIER, P.-F. MOREAU, L. RENAULT (a cura di), Les passions antiques et médiévales. Théories et critiques des passions, Puf, Paris 2003; P.-F. MOREAU (a cura di), Les passions à l’âge classique, Puf, Paris 2006. 1 nel contempo orientandole. Per questo è necessario che il “Politico” sappia servirsi anche, anzi soprattutto, delle enormi riserve di energia sprigionate dai sogni, dai desideri e dalle tensioni più o meno chiaramente serpeggianti nei cunei e negli anfratti dei sentimenti politici collettivi. Vero “Politico” è chi, riuscendo a intercettare falde nascoste e operanti nel sottosuolo sociale, sa servirsi dei sogni comuni per concretizzare realtà che sarebbe impossibile far emergere con l’uso delle sole facoltà del calcolo razionale. Proprio questo, del resto, è il quid che distingue la politica dall’amministrazione. L’autentico attore del proscenio politico deve saper costruire linguaggi complessi che siano in grado di racchiudere e descrivere la multiforme complessità del reale, tenendo conto della perenne sfasatura tra aspirazioni soggettive e oggettive possibilità e riuscendo a rendere questa dicotomia feconda anziché distruttiva. Il discorso politico deve animare un’entità algida e senza vita (il «lirismo del mostro freddo» di cui parlava Michel Foucault sulla scorta dello Zarathustra nietzscheano) riuscendo a proiettarla addirittura nel futuro. Un discorso veramente “politico” deve trasformare l’appiattimento che si prova quando si è immersi nel grigiore di una realtà deludente nell’industriosa speranza di contribuire a realizzare un sogno. Il “Politico” vero deve riuscire, dunque, ad animare l’inanimato, a trarre energia vitale da un corpo che scivola verso l’inerzia e la morte. Per farlo deve servirsi di arti raffinatissime e spesso invisibili o criptiche3, perché l’idea che la politica debba coincidere con l’«autenticità» è stato un mito che ha determinato un enorme progresso nel campo dell’azione sociale, ma la cui idolatria ha anche generato terribili mostri dai quali un idealismo subdolo e fallace non ha ci permesso – ancor oggi – di liberarci del tutto4. Per questo, ci aiuta a comprendere il nucleo profondo della realtà politica il paradossale aforisma, sempre fulmineo e spiazzante, di E. M. Cioran, secondo il quale «quando incontriamo un essere vero, la sorpresa è tale che ci chiediamo se non siamo vittime di un abbaglio»5. L’ingenuità è l’unico difetto che il “Politico” non può permettersi. Il “Politico” che costruisca un linguaggio semplice per descrivere una realtà complessa oltre a essere un baro è anche votato al sicuro fallimento della sua itrapresa. Egli truffa il pubblico – sapendo di truffarlo – poiché cavalca speranze che sa impossibili. L’onestà intellettuale e il senso dell’etica impongono, sul piano epistemologico e metodologico prima che propriamente politico, la parrhesìa (necessità di dire il vero). Ma la parrhesìa è impossibile se si utilizza un linguaggio inadeguato alla complessità del reale. Di regola la vita politica è una selva oscura, piena di trabocchetti e d’insidie. E (almeno) gli storici Su questo punto, di capitale importanza nella storia politica dell’Occidente, rinvio a M. SENELLART, Le arti di governare. Dal regimen medievale al moderno concetto di governo, trad. it. (sull’orig. francese, 1995), a cura di Francesco Di Donato, Esi, Napoli 2013 (e al mio saggio introduttivo Il paradosso di un’arte impossibile. Dal governo dei labirinti umani all’organizzazione sociale, ivi, pp. VII-XXXVIII). 4 Cfr. A. FERRARA, Modernità e autenticità. Saggio sul pensiero sociale ed etico di J. J. Rousseau, Armando, Roma 1989; IDEM, Autenticità riflessiva. Il progetto della modernità dopo la svolta linguistica, Feltrinelli, Milano 1999. 5 E. M. CIORAN, Confessioni e anatemi, trad. it. a cura di Mario Bortolotto, Adelphi, Milano 2007, p. 123. 3 dovrebbero sempre tener ben chiara la distinzione tra le teorie e le pratiche effettive di un sistema politico6. Tanto più in un Paese – come l’Italia – nel quale scarsissimi sono il senso dello Stato e lo spirito delle istituzioni e fortemente radicati e diffusissimi sono invece l’astuzia truffaldina, il cinismo spietato rivestito da apparente bonarietà e un radicatissimo particolarismo microfeudale. 2. Dall’olismo idealistico all’interazione empirico-sociale In un contesto di tal genere la grandezza di Aldo Moro è stato il tentativo impossibile di condurre gl’italiani verso un’introiettata e profonda riflessione sui loro atavici mali e di far partire una spinta razionale verso il superamento dello status quo in vista di un interesse più alto: quello della società e dello spirito cooperativo che essa porta naturalemente con sé. Per raggiungere questo risultato, Moro non poteva servirsi ipocritamente di un linguaggio semplice, ma dové servirsi di un linguaggio articolato, che solo una (prevedibile) reazione di rigetto poteva definire oscuro e criptico. Basta leggere oggi con attenzione le sue pagine per rendersi conto che la sua prosa, soprattutto quella della maturità, è di una chiarezza cristallina, ancorché venata da un costante tormento. Pochi uomini politici hanno saputo descrivere la situazione italiana con una limpidezza così attenta tanto alla sostanza dei problemi quanto alle sfumature che li caratterizzano. La riflessione morotea parte da lontano e si può dire che essa sia intrinseca alla stessa formazione scientifico-culturale del giovane studioso e futuro statista. Appaiono, a questo riguardo molto interessanti i primi corsi che Moro tenne all’università di Bari nel 1944-19457. È molto significativo che Moro partisse in quegli scritti dal «problema della vita» per approdare a una visione della società, del diritto e dello Stato imperniata sul concetto di «esperienza giuridica»8. Certo, la sua impostazione non è quella di un empirista anglosassone e in molti punti appare sensibilmente condizionata dall’idealismo crociano con una maggiore sottolineatura delle tematiche tipiche della visione cristiana9. Moro arriva ad Da questo punto di vista, sarebbe sempre bene operare, a monte di ogni discorso analitico, la distinzione di metodo tra spirito e pratica di un sistema, proposta da D. RICHET, Lo spirito delle istituzioni. Esperienze costituzionali nella Francia moderna, trad. it. (sull’orig. francese, 1973), a cura di Francesco Di Donato, Laterza, Roma-Bari 1998 (3a ediz. inalterata 2002). 7 A. MORO, Lezioni di Filosofia del diritto tenute presso l’Università di Bari, 2 voll.: I. Il Diritto; II. Lo Stato, Cacucci, Bari 1978. 8 È appena il caso di ricordare che la concezione del diritto come «esperienza giuridica» era stata da poco al centro della riflessione di Giuseppe Capograssi, di cui si può ricordare almeno, per la pertinenza diretta all’oggetto, il vol.: G. CAPOGRASSI, Studi sull'esperienza giuridica, Maglione, Roma 1932. 9 Ad es. nella convinzione dell’esistenza «di una realtà oggettiva» (MORO, Lezioni di Filosofia del diritto, cit. supra nota 7, I, p. 7), oppure nella definizione della speculazione filosofica come attività tendente a «definire l’universale giuridico» (ibid.), o nell’idea che il compito della cultura sia un «compito morale», consistente nel reperire «il senso della vita umana» (ivi, I, p. 8), o ancora nella convinzione che l’intelligenza dell’osservatore delle vicende storiche sia una «intelligenza operante» che constata la «verità che diventa storia» (ibid.). In alcuni punti è evidentissima l’influenza dello stile crociano, ma nel complesso appare altrettanto evidente come il giovanissimo studioso salentino tenda già faticosamente a distaccarsi da quell’impostazione di fondo 6 affermare, un po’ apoditticamente, che la «concezione teologica [è] essenziale per fondare un’etica»10. La sua preoccupazione principale non è quella di distinguere fatti e valori, ma piuttosto quella di «riportare l’un termine all’altro, di realizzare il valore nel fatto, di illuminare il fatto con il valore»11; cosicché, in definitiva, «la verità più profonda delle cose è nella ideale sintesi di valore e fatto, per cui la verità vive essenzialmente nella storia»12. In conseguenza di quest’impostazione, «la sola e vera molla che spinge all’azione» è per Moro l’«attesa ansiosa della verità» insita in quel problematico ossimoro che egli vuole «chiamare «fede nella gioia che traspare in ogni dolore umano»13. L’aspirazione intrinseca di Moro è quella di superare «l’inganno del tempo che travolge ogni cosa», attraverso l’inserimento di «ogni esperienza nell’assoluto e nell’eterno»14. Questa esperienza fusionale di assoluto e relativo, di eterno e contingente, di teologico e storico, è resa possibile da un principio primo che Moro enuncia in due tempi, un giudizio teoretico-speculativo e uno assiologico-soggettivo: il primo è formulato nella sentenza in cui egli afferma che «quello che è stato nella verità, è»15; il secondo nella spiazzante e lapidaria conclusione: «Per ciò è bello vivere»16, che non ha bisogno di commenti. Tuttavia, malgrado questo impianto di chiara impronta idealistico-religiosa, in molti passaggi si comprende chiaramente come la riflessione morotea inizi a porsi problemi complessi sui quali egli avvertiva l’insufficienza di una visione troppo sbilanciata sui princìpi ideali e troppo poco attenta all’osservazione fenomenologica della realtà in divenire. Questa iniziale inquietudine avrà bisogno di tempo per evolvere in angustiata urgenza di fornire risposte politicamente adeguate a una società in tumultuosa trasformazione. Osservatore acuto e sensibilissimo della realtà storica in evoluzione, Moro visse con grande e attento travaglio la complessa fase di mutamento che l’Italia attraversò dalla costituente alla straordinaria crescita economica degli anni Sessanta. Il succedersi degli eventi ebbe sulla sua visione del mondo, il cui impianto egli teneva a ogni costo a far restare nell’orizzonte di senso di una concezione cristiana, un’influenza potente che con ogni probabilità sconvolse il quadro iniziale, innestando numerosi e profondi elementi di ‘disturbo’. Vanno a questo proposito individuate due fasi cruciali di maturazione critica, corrispondenti a prima e dopo il “maggio 1968”. Per quanto si sentisse profondamente e sinceramente radicato in valori nei quali trovava saldo ancoraggio e conforto spirituale, Moro subì l’impatto delle novità intervenute abbracciando – sia pure in modo nebuloso e tormentato, una visione molto più tendente all’osservazione empirica e alla contraddittoria complessità del reale effettivo, cioè di «quel continuo farsi in cui consiste la vita» (ibid.). Sul punto si tornerà più diffusamente infra, § 6. 10 Ivi, p. 10. 11 Ivi, p. 11. 12 Ivi, p. 12. 13 Ivi, p. 15. 14 Ivi, p. 16. 15 Ibid. 16 Ibid. nell’intero mondo occidentale nella seconda metà degli anni Sessanta. Lo si nota chiaramente studiando l’evoluzione dei suoi discorsi politici17. Dopo il 1968 le aperture alla ‘modernità’ culturale e politica si fanno molto più pronunciate e decise nell’austera ed elegante oratoria morotea. Moro arriva a parlare di diritti dell’«individuo», e non più solo di statuto della «persona» e di «personalismo», utilizzando un concetto divenuto ordinario nella mentalità sociale odierna, ma che allora era percepito – specialmente dal punto di vista cattolico – come pericoloso e blasfemo. La morale cattolica, ufficialmente enunciata dal magistero papale, ha, infatti, sempre distinto tra «persona» e «individuo», difendendo la prima e osteggiando il secondo, identificato tout-court con una libertà licenziosa del singolo slegata da qualsiasi principio etico. È senza dubbio questo coraggioso linguaggio ad aver messo sull’avviso certi ambienti clericali e conservatori che da allora iniziarono un’ostilità che non ebbe mai fine nei confronti dell’uomo politico salentino, considerato astruso, non ortodosso e non allineato alle posizioni ufficiali o comunque largamente maggioritarie nell’ambito del cattolicesimo italiano. Moro, da parte sua, non fece mai nulla per ingraziarsi quegli ambienti, per smussare le asperità e le frizioni e preferì mantenere nel suo linguaggio la linea imperniata su quanto gli dettava la propria concezione della razionalità politica18. Per quanto egli restasse sempre coerente nell’abbracciare convintamente l’ideale di vita cristiano, iniziò allora a essere pienamente consapevole della solitudine del capitano che deve guidare la nave da solo nell’oceano notturno. Nasce da qui lo sforzo, mai attenuato in tutto il suo percorso politico, per superare le secolari incrostazioni che caratterizzavano (come per certi versi caratterizzano ancora) la secolare mentalità italiana, fondata, com’è stato recentemente dimostrato, su un’«asociale cordialità» e su un «bigottismo cinico»19. Il tentativo di conciliare i fondamenti religiosi, da lui fortemente e Cfr. A. MORO, La democrazia incompiuta, a cura di Andrea Ambrogetti, pubblicazioni del Corriere della Sera, RcS, Milano 2011. 18 Cfr. infra § 7. A questo proposito è molto significativo, perché dimostra in modo ineccepibile tanto la profonda laicità di Moro quanto il suo senso razionale dello Stato e delle scelte politiche giudicate necessarie per l’interesse generale, un episodio inedito che riassumo qui brevemente. Alla vigilia del varo del primo centrosinistra (1963), fortemente voluto da Moro, il cardinal Siri, arcivescovo di Genova e presidente della Cei (nonché a lungo uno dei più potenti papabili) inviò a Roma il padre gesuita Angelo Arpa, che insieme a don Gianni Baget Bozzo era tra i sacerdoti da lui più benvoluti e stimati. Diplomatico accortissimo, Arpa viaggiò di notte da Genova a Roma e la mattina presto consegnò brevi manu a Moro una lettera personale riservata da parte del cardinale. La lettera era un imperativo categorico dettato a Moro di desistere dall’idea, giudicata insana, di far nascere il governo con la partecipazione del PSI. Moro l’aprì, la lesse con attenzione e restò qualche secondo immobile e impenetrabile. Poi con estrema cortesia, ma senza inflessioni cordiali, disse: «Dica a Sua eminenza che terrò conto, finché possibile». L’episodio, a mia conoscenza mai rivelato, mi è stato riferito, intorno alla metà degli anni Novanta, direttamente da padre Angelo Arpa. 19 R. AJELLO, L’asociale cordialità. Contributo alla storia delle mentalità in Italia, in «Frontiera d’Europa», anno XIII, n. 1, 2007, 5-72. Si vedano anche F. FERRAROTTI, L’Italia in bilico, Laterza, Roma-Bari 1990; R. ROMANO, Paese Italia. Venti secoli di identità, Donzelli, Roma 1994; E. GALLI DELLA LOGGIA, L’identità italiana, Il Mulino, Bologna 1998; C. TULLIO-ALTAN, La nostra Italia. Clientelismo, trasformismo e ribellismo dall’Unità al 2000, con prefazione di Roberto Cartocci, Università Bocconi Editore, Milano 2000; P. SYLOS LABINI, Un Paese a civiltà limitata, Laterza, Roma-Bari 2001; S. PATRIARCA, Italianità. La costruzione del carattere nazionale, Laterza, Roma-Bari 2010 (ma il titolo originale in inglese è assai diverso: Italian Vices); e da ultimi S. CASSESE, L’Italia: una società senza Stato?, Il Mulino, Bologna 2011; F. FERRAROTTI, Il paradosso italiano. La povertà di un paese ricco, Solfanelli, Chieti 2012. 17 intimamente sentiti, con i motivi essenziali del pensiero critico moderno si può osservare su un duplice fronte, uno più scientifico-culturale, l’altro più politico e istituzionale. Sul primo, come ha osservato Norberto Bobbio, Moro si rivolse a innovare la vexata quaestio del rapporto tra diritto naturale e diritto positivo, un «topos classico del giusnaturalismo» che fu da lui «espresso con una singolare inversione del rapporto tra i due diritti» nel senso che nella prospettiva morotea il diritto naturale «è diritto positivo esso stesso, ché altrimenti non sarebbe neppure comparabile al primo e sparirebbe nel nulla»20. Quanto al secondo versante, soprattutto nella fase della maturità, Moro focalizzò sempre più la sua attenzione sul problema dell’assetto socio-istituzionale, con particolare riferimento al sistema politico e alla funzione dei partiti nella società e nelle istituzioni. In entrambi i casi – che corrispondono alle due principali fasi della sua vita – Moro costruì un’originalissima struttura concettuale e linguistica il cui vero fine era quello di produrre una salutare innovazione della mentalità e della cultura politica italiana, per emanciparla dalle secche nelle quali si era arenata. Quest’opera, coraggiosa e difficilissima come possono esserlo solo le azioni realmente innovative, presupponeva un’accurata presa di coscienza della complessa realtà peninsulare. Il linguaggio di Moro è perciò sempre fondato (e Cfr. N. BOBBIO, Il giovane Aldo Moro, in Id., Dal fascismo alla democrazia. I regimi, le ideologie, le figure e le culture politiche, a cura di Michelangelo Bovero, Baldini & Castoldi, Milano 1997, pp. 283-307: 289-90. La citaz. del passaggio è in MORO, Lezioni di Filosofia del diritto, cit. supra nota 7, I, p. 52. L’originalità di Moro è però, a mio parere, anche in un altro punto: nella sua definizione del diritto naturale la metafisica non è affatto preponderante. Pur essendo il suo impianto di fondo ispirato a un deciso spiritualismo, lo svolgersi del suo discorso mostra che in realtà egli identificava il “diritto naturale” con l’evoluzione della coscienza storica. In tal modo, il diritto naturale perdeva l’aggancio con il nucleo dogmatico e immutabile della sua concezione tradizionale, per diventare evolutivo alla stregua della coscienza etico-sociale. Per Moro, insomma, il diritto naturale non è tanto un ‘contenuto’ fisso, quanto una modalità dell’essere e del sentire umano che si dispiega in un’esigenza, in un’aspirazione perenne al perfezionamento della propria condizione. Di conseguenza l’esperienza del diritto, «per essere vita dello spirito, è libertà, spontaneità, novità» (ivi, p. 90). Lo schema moroteo, quindi, è agli antipodi di quello vichiano, verticale e discendente, del verum-factum, la Verità che s’invera nel fatto, ma quello, orizzontale, dal basso (sia pure, per così dire, di un ‘basso’ ispirato dall’‘Alto’) verso il basso stesso. Il «realizzarsi» della «verità nella storia» per Moro è soggetto a «mille deviazioni e incomprensioni» (ivi, pp. 19 e 135). «Naturale» è quindi quell’innato desiderio dell’animo umano al mutamento del diritto vigente; è, in sostanza, la spinta verso il miglioramento dell’esistente. Per questo – egli sostiene – il diritto naturale è perennemente vivo, in quanto energia creativa verso la permanente riforma del diritto positivo, il quale quindi, coerentemente a quest’impostazione, è in un certo senso un diritto ‘morto’, in quanto suscettibile di essere rimosso sulla base propulsiva del diritto naturale. In definitiva, pur credendo fermamente nell’esistenza di una «coscienza etica universale» (ivi, p. 52 ) e di un «valore universale ed indisponibile dell’azione» (ivi, p. 88), e pur ritenendo che «il mondo morale» si qualifica in un «suo particolare momento che è l’esperienza giuridica», cosicché entrambi «sono dominati da una esigenza di universalità che è il dato più squisitamente umano della nostra natura» (ivi, p. 50), Moro arriva però ad attribuire il primato al divenire storico «mobile ed aperto per la sua stessa inesauribilità (ivi, p. 52 ). Benché fondato su presupposti metafisico-spiritualistici e malgrado l’indistinzione tra «etica» e «morale» da lui adoperati come sinonimi senza sfumature (ma va pur precisato che questa importante distinzione è venuta delineandosi solo molto più tardi: cfr. I. MANCINI, L’ethos dell’Occidente. Neoclassicismo etico, profezia cristiana, pensiero critico moderno, Marietti, Genova 1990, pp. 27-42; F. CRESPI (a cura di), Etica e scienze sociali, Rosenberg & Sellier, Torino 1991, pp. 13-31; IDEM, Imparare ad esistere. Nuovi fondamenti della solidarietà sociale, Donzelli, Roma 1994, pp. 38-44. Sul punto sia consentito anche un rinvio al mio saggio: F. DI DONATO, Per un cristianesimo debole, in «Prospettive Settanta», nn. 2-3, 1991, pp. 364-405: 364-5), la speculazione morotea può considerarsi ascrivibile a una linea sostanzialmente realistica. Ciò ricollega il pensiero all’esperienza politica, vissuta da Moro in assoluta coerenza con i suoi princìpi di fondo eppure con grande e machiavelliana abilità. 20 non si distacca mai da essa) su una obiettiva descrizione della realtà com’egli la percepiva nella sua intricata evoluzione fenomenologica. Se si considera questo dato di fondo, questa matrice ‘epistemica’ del metodo e dello stile moroteo, si può accedere con maggiore comprensione alla struttura essenziale della sua logica d’interpretazione della realtà. Si può così pervenire a una visione critica più profonda, che superi il luogo comune che vuole il linguaggio di Moro criptico, oscuro e involuto, incomprensibile ai più e talvolta persino alle ristrette cerchie di protagonisti e osservatori politici (è rimasta celebre la battuta, di pessimo gusto, di un avversario politico che affermò che l’unica cosa chiara che Moro aveva in testa era la ciocca dei capelli sulla fronte). Descrivere una realtà complessa con un linguaggio semplicistico è o impossibile o ingannevole. La superficialità, spesso fedele accompagnatrice della destrezza, piena di sé e vuota d’idee originali e profonde, ha spesso pagato in un contesto come quello italiano nel quale il potere decisionale è detestato, temuto e osteggiato, mentre la difesa perinde ac cadaver dello status quo caratterizzato dalla polverizzazione microfeudale è la prima regola dell’agire politico. Essere ammessi al tavolo del gioco politico italiano è impossibile senza una condizione di piena partecipazione a questo tacito giuramento di fedeltà allo scacchiere microfeudale. Chiunque voglia proporre e perseguire azioni volte all’affermazione di una sovranità unitaria è trattato come un corpo estraneo e immediatamente emarginato ed espulso dal giro corporativo della dirigenza politica. La qualificazione identitaria del protagonista politico peninsulare è destinata, per comune volontà degli (è il caso di dire) attori sulla scena – chiunque essi siano – del gioco politico, a restare microfeudale: ogni protagonista deve mostrare in primo luogo e prioritariamente di voler astenersi da azioni volte a porlo indiscutibilmente al di sopra dell’oligarchia in una posizione sovrana. La sovranità in Italia è parcellizzata ed è quindi negazione di se stessa. 3. L’imperdonabile ‘colpa’ di Moro: voler superare l’assetto microfeudale italiano La ‘colpa’ grave di Moro – per la quale egli era guardato con sospetto e con circospezione nell’ambito del suo stesso partito –, una colpa che oggi appare, a chi osservi con lo sguardo disincantato dello storico, la sua maggiore e sublime virtù, fu di voler superare questa forma mentis e di lavorare per affermare un sistema di regole istituzionali e politiche nelle quali potesse affermarsi finalmente in Italia una vera sovranità, una sovranità cioè non parcellizzata e frammentata in un continuo e permanente negoziato tra i micropoteri centrifughi ciascuno dei quali rivendicante la propria porzione d’influenza. Una sovranità, in definitiva, collegata alla responsabilità dell’agire politico. Moro lavorò per tutta la seconda parte della propria vita, coincidente con la maggiore incisività della sua opera innovatrice, alla realizzazione di un equilibrio politico e istituzionale in cui si potesse finalmente determinare una democrazia compiuta con una logica di piena alternanza. Era, in quest’opera smisurata, nutrito da una convinzione incrollabile, che lo poneva in siderale distanza dal pensiero ‘debole’, espressione della strategia dei piccoli passi e della gestione del contingente e della precarietà immediata che invece caratterizzavano il metodo e la strategia di altri leaders democristiani. Anche se non lo disse mai esplicitamente, Moro riteneva – lo si evince da tutto il complesso dei suoi discorsi e scritti – che il potere logora, eccome, chi ce l’ha e che la realizzazione di uno spirito delle istituzioni che riuscisse ad accomunare tutto il Paese reale sarebbe risultata impossibile fino a quando una parte rilevante del Paese medesimo fosse stata aprioristicamente esclusa dall’alternanza al potere e quindi priva di responsabilità di fronte all’opinione pubblica. Effetto dirompente di quest’anomalia era per Moro uno dei vizi capitali della cultura italiana che inficiava la forma mentis dei cosiddetti intellettuali ‘engagés’ (e ‘enragés’): la critica non costruttiva, ma solo volta a demolire senza proporre praticabili e realistiche alternative. È un grave difetto che, per quanti passi in avanti le vicende storiche recenti ci abbiano costretto a fare, non abbiamo ancora del tutto superato21. Per Moro, invece, la difficoltà di articolare in un discorso coerente e persuasivo il disegno di una via di uscita dall’incompiuta transizione italiana al sistema politico-istituzionale democratico andava in parallelo con un rinnovamento profondo della mentalità e dei presupposti culturali e ideologici bloccati ai vecchi schemi della dicotomia secca tra bene e male, tra amico e nemico, tra progresso e conservazione. Di qui la sua preoccupazione di conciliare l’inconciliabile, di vincere la sfida impossibile di una causa che appariva persa, nella convinzione che è proprio nelle grandi sfide, nelle sfide che sembrano irrealizzabili che si tempra il carattere di un popolo e si forgia la caratura di un’autentica guida politica (oggi si direbbe leadership, per scimmiottare il contesto inglese dal quale restiamo in tutto distanti anni luce). Moro era uomo delle sfide impossibili, poiché la sua stessa condizione identitaria era continuamente sfidata dalla propria intelligenza sempre in movimento. E il suo linguaggio ne è la diretta testimonianza. La testimonianza di uno spirito inquieto in perenne ricerca della saggezza, intesa come punto di equilibrio possibile tra istanze diverse che dovevano purtuttavia trovare una sintesi politica, ancorché provvisoria e dinamica, nel superiore interesse di una nazione sempre sul punto di disfarsi per mancanza di collante socioistituzionale. Conciliare istanze diverse e persino opposte non significò però mai per Moro riesumare il metodo della logica medievale fondato sulla coincidentia È, tra l’altro, proprio questo uno dei principali motivi reconditi per cui non si riesce a introdurre un elementare correttivo all’assemblearismo parlamentare, che caratterizza il nostro assetto costituzionale, come la “sfiducia costruttiva”. Sul punto, cfr. però la puntuale disamina comparata di M. FRAU, Le origini weimariane del voto di sfiducia costruttivo e la prassi applicativa dell’istituto con particolare riferimento all’ordinamento tedesco, in «AIC. Rivista telematica giuridica dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti», n. 3/2012, pp. 1-18. 21 oppositorum. Nulla è più lontano dal suo sguardo dell’assemblaggio acritico o, peggio ancora, interessato, di opposte determinazioni. Conciliare per Moro non significa annullare le distanze e le differenze, bensì al contrario approfondirle e sottolinearne la natura alternativa, ma in un quadro comune che è l’interesse più alto al corretto e ordinato funzionamento del sistema politico e sociale. Tutta l’azione politica di Moro – e conseguentemente il suo linguaggio caratterizzato da un’elevato e crescente livello di complessità – fu rivolta a quest’obiettivo: all’Italia occorreva più che mai superare lo stadio di democrazia imperfetta in quanto bloccata dal cosiddetto “fattore K” (l’impossibilità, data la collocazione atlantica del Paese, di vedere ascendere il partito comunista al governo). La strada, irta ma obbligata, era allora spingere quella cultura politica relegata al ruolo di perenne opposizione senz’alcuna concreta speranza di diventare maggioranza di governo, a evolversi verso forme di moderazione e di occidentalizzazione compatibili con l’assetto democratico e con le scelte di politica internazionale compiute dall’Italia all’indomani della seconda guerra mondiale22. Moro si pone, insomma, di fronte a un compito improbo, un compito che con il senno di poi appare votato a un più che certo fallimento. Mutare la mentalità di un vasto contesto partendo dal lavoro ‘alto’ ossia dal funzionamento del sistema istituzionale e dall’evoluzione delle forze politico-partitiche è – lo si comprende ictu oculi – un obiettivo pressoché irraggiungibile. Ciononostante, Moro dedicò tutte le sue energie a questo immane sforzo, che fu prioritariamente uno sforzo di elaborazione teorica e di conseguenza uno sforzo di articolazione sintattica assolutamente fuori del linguaggio ordinario, ovviamente inutilizzabile per il raggiungimento dello scopo che si era prefisso. Quel linguaggio appariva perciò oscuro per due fondamentali motivi: per un verso esso era obiettivamente difficile per un contesto che si sentiva attaccato e minacciato da quello stesso linguaggio e quindi, istintivamente prim’ancora che razionalmente, lo respingeva e lo combatteva, ridicolizzandolo; per un altro l’establishment politico, vedendo in esso un potente veicolo di destrutturazione dei propri equilibri, si adoperò per isolarlo e denigrarlo, sottolineandone, agli occhi di un’opinione pubblica già di per sé fragilizzata da secoli d’indifferentismo e d’ipocrisia, le involuzioni e le perifrasi ellittiche, l’uso sapiente e audace della litote e di una tornitura della frase che per realizzare la descrizione di una condizione paradossale come quella italiana faceva largo uso di figure stilistiche e di strutture argomentative non ordinarie e quindi di comprensione non intuitiva. In quelle scelte e soprattutto nelle modalità in cui furono pensate e compiute, vi è già in nuce tutto il destino della nostra repubblica. Molto utile a una comprensione obiettiva degli eventi e della forma mentis che guidò le risoluzioni decisive, la ricostruzione di A. GIOVAGNOLI, Il partito italiano. La democrazia cristiana dal 1942 al 1994, Laterza, Roma-Bari 1996, spec. pp. 27-32: 30. Sul background culturale di quella mentalità politica, cfr., dello stesso A., La cultura democristiana. Tra Chiesa cattolica e identità italiana. 1918-1948, Laterza, Roma-Bari 1991. Si veda pure, al riguardo, la fine sintesi teorica di E. GENTILE, Né Stato né Nazione. Italiani senza meta, Laterza, Roma-Bari 2010. 22 Il linguaggio di Moro, infatti, nella ricerca di una descrizione puntuale e ineccepibile della particolare condizione politica italiana, aveva bisogno di utilizzare costruzioni e immagini che alla media razionalità non potevano che risultare ostiche, quando non del tutto incomprensibili, secondo una qualità che trova riscontro solo nel linguaggio dei grandi mistici e dei visionari23. 4. Semplificazione anglo-americana e fumisterie italiane Su questo facevano del resto leva i suoi nemici (più ancora occulti che palesi). Per loro Moro era la quintessenza del politico astruso, i cui discorsi mirabolanti e fumosi nascondevano in realtà una sola idea: «Portare i comunisti al governo». E così apparve anche alla scarna ed elementare razionalità empirica americana, per la quale risulta spesso incomprensibile una complessità come quella italiana, dov’è difficile far emergere le «idee chiare e distinte» e tutto si complica in un ginepraio d’interessi raramente distinguibili e identificabili, veicolati da discorsi il cui scopo prioritario è quello di occultare, depistare, deresponsabilizzare. Se per un verso bisogna riconoscere che spesso questa incomprensibilità d’oltre oceano, e più in generale dei Paesi del nord occidentale, ha dalla sua più di una buona ragione, poiché il carattere tipicamente italiano è percepito come il raggiro e la truffa per eccellenza (tutti ricordano il pungente aforisma di Ennio Flaiano: «In Italia la linea più breve per collegare due punti è l’arabesco»), per un altro occorre osservare che mai come nel caso di Aldo Moro quella diffidenza fu prondamente erronea. E si ha l’impressione che su questo equivoco ha potuto purtroppo concretizzarsi una delle principali ragioni dell’isolamento culturale prima che politico di Moro, cosa che fu probabilmente all’origine della sua tragica fine o che comunque non agevolò la soluzione – per dirla con le celebri parole di Sciascia – dell’affaire24. La cultura, la mentalità, la logica e la stessa struttura linguistica angloamericana sono tutte ispirate da un’esigenza primaria di semplificazione e perciò puntano, più che sulla deduzione da princìpi primi, sull’osservazione fenomenologica ed empirico-induttiva25. Il perno di questa struttura è l’Okham’s razor, per cui era estremamente difficile che un americano potesse persuadersi di fronte a ragionamenti articolati e cesellati come quelli di Moro. A monte vi è una diversa percezione della realtà, una differente visione del mondo. L’antiformalismo americano procede per semplificazioni convenzionali del reale, ossia per compartimenti concettuali direttamente funzionali a conseguire un determinato obiettivo preposto. Niente di più respingente e irritante e – oltretutto – incomprensibile per un americano che l’uso di arditi ossimori, di chiasmi e metonimie, di macchinosi intrecci concettuali tesi a dar conto di una realtà estremamente paradossale e complessa come quella italiana. Cfr. M. BALDINI, Il linguaggio dei mistici, Queriniana, Brescia 1986. L. SCIASCIA, L’affaire Moro, Sellerio, Palermo 1978 (più ediz. successive). 25 Cfr. J. DEWEY, Logica, teoria dell'indagine, trad. it. Einaudi, Torino 1949 (più ediz. successive). 23 24 Il linguaggio di Moro è intessuto di ossimori, di litoti, di epifonemi, di locuzioni circolari e ardite (mentre decisamente meno frequenti sono metafore e allegorie, poiché il linguaggio di Moro è alla ricerca di un’asciuttezza che lo ponga a suo modo in continua presa diretta con l’evoluzione della complessità del reale sociopolitico italiano). Nulla di più probabile, dunque, che l’incomprensione in un contesto come quello angloamericano, decisamente incompatibile, nella sua essenziale ricerca dell’efficacia e dell’utilità immediata, con le ricercate ed eleganti bulinature del periodare moroteo. È il caso di soffermarsi a questo riguardo – per il suo forte potere evocativo dell’intera personalità e azione politica dello statista salentino – sull’immagine più celebre, considerata nella vulgata ancor oggi diffusa la quintessenza del linguaggio moroteo, quella delle «convergenze (e/o divergenze) parallele». Di là da questa paradossale idea è importante cogliere la logica di fondo di quell’immagine, non tanto perché essa sia del tutto rappresentativa, come si crede, del complesso pensiero di Moro (è ormai abbastanza noto che la vicenda filologica di quell’affermazione è piuttosto complessa26), quanto perché essa esprime bene uno sfondo culturale nel quale si può cogliere sia la tormentata matrice del pensiero moroteo nel suo farsi, sia la non meno travagliata evoluzione del rapporto tra elaborazione teorica e sviluppo pratico-politico degli eventi storici in particolare nel campo sociale e istituzionale. Da questo punto di vista l’immagine delle “convergenze parallele” esprime perfettamente il lavorìo di Moro per descrivere una realtà politica assai complessa e intricata che un linguaggio more geometrico avrebbe finito con il disattendere, falsandola completamente. Per rendersene conto basterà riascoltare un passaggio del celebre discorso di Moro intitolato La politica non è solo convenienza, nel quale egli, con un suo tipico ossimoro concettuale, difende contemporaneamente «la coerenza e la flessibilità», ossia la fedeltà agl’ideali e la disinvoltura nella manovra politica27. Alcuni ne attribuiscono la paternità orale (quindi difficilmente documentabile) a don Luigi Sturzo, altri a Eugenio Scalfari che la utilizzò in un articolo su «L’Espresso» del 24 luglio 1960 intitolato «Il governo geometrico»: cfr. l’efficace sintesi della vicenda in M. MEDICI, Aldo Moro. L'intelligenza e gli avvenimenti. Testi, 1959-1978, Fondazione Aldo Moro, a cura di G. Quaranta, Milano, 1979, pp. LXXV-433: 34-5 (devo la segnalazione di questa citazione all’attenta ricerca di Daniele Mezzana, che ringrazio per avermela premurosamente fornita). In realtà, l’affermazione testuale di Moro (discorso alla Camera dei Deputati, 13 luglio 1961) parlava di «convergenze democratiche», riferendosi al governo di centro-sinistra imperniato sull’accordo programmatico tra DC e PSI. Successivamente Moro saprà però servirsi, accortamente giovandosene, della formula a lui attribuita e in precedenza da lui stesso disconosciuta come «formula geometrica assurda»; così nel discorso tenuto a Benevento il 18 novembre 1977 (al quale chi scrive assisté personalmente, giovanissimo, conservandone tutt’oggi un nitido ricordo), Moro riaffermò la validità di quell’immagine per descrivere il nuovo scenario che andava delineandosi con il governo della non-sfiducia e l’inizio di una fase di maggiore coinvolgimento del PCI nella politica di governo: «Se volessi richiamare una frase – che non so nemmeno se l’ho pronunciata o se mi è stata semplicemente attribuita – potrei dire che si tratta di un tipico caso di ‘convergenze parallele’». 27 La stessa struttura polidimensionale si nota nel discorso condotto da Moro su un tema di cruciale rilevanza come la laicità dello Stato. «In occasione dei lavori per la Costituzione», Moro difese gli «elevati valori morali» in gioco e prese parte per la tesi anti-laicista che a suo dire avrebbe ridotto «lo Stato a mera entità giuridica» estraniandolo «dal flusso della storia» e rendendolo così «indifferente verso cose che assumono per gli uomini, nei quali si risolve lo Stato, straordinaria importanza», cosicché «uno Stato che ignori la religione o le religioni, 26 Riascoltando o rileggendo passi come questo vengono in mente altre celebri parole, quelle di Piero Gobetti, il quale, nel trattare lo spinosissimo problema (divenuto poi uno dei più efficaci cavalli di battaglia azionisti e bobbiani) del rapporto tra “politica e cultura”28, scrisse che «i fermenti d’idee liberano il mondo dell’azione dai pericoli dogmatici e reazionari lasciando libero l’uomo di Stato ai suoi compromessi e alle sue astuzie»29. La novità, rispetto a questo schema gobettiano, è che in Moro i due momenti e le due figure – l’intellettuale che elabora e il politico che agisce – coincidono e coesistono. In Moro si realizza, al più alto livello della storia politico-istituzionale italiana ed europea, l’ambizioso tentativo di tenere assieme i due piani senza sfociare in una stridente e palese, nonché insanabile, contraddizione. È da questo tentativo che deriva la struttura fondamentale del linguaggio moroteo, irto d’intricate ‘coesistenze’ che sarebbero state in chiunque altro impensabili e impossibili. 5. Le «convergenze parallele»: storia di un ‘vero’ che divenne ‘falso’ L’immagine delle «convergenze parallele», quella che è, a torto o a ragione, divenuta il simbolo stesso, implicitamente dispregiativo, del linguaggio politico moroteo e della logica distorta e contraddittoria che vi era sottesa, appare, come giustamente è stato osservato, meno paradossale di quel che si percepisce di primo acchito30. L’assurdo si realizza, infatti, solo nel contesto della geometria euclidea, mentre nella geometria iperbolica (inizialmente detta «immaginaria») e in quella ellittica le linee geodetiche s’incontrano. Fin dai primi decenni del secolo XIX «l’idea che il postulato delle parallele non possa essere dimostrato» fu «comunemente accettata» dai matematici. In molti di loro, tra cui Legendre (1752-1833), Bolyai (1802-1860) e Gauss (1777-1855), che proseguirono ricerche già avviate da Saccheri (1667-1733) e Lambert (1728-1777), ma soprattutto nell’opera di Nicolaj Ivanovic Lobacevskij (1793-1856) cominciò, fin da allora, «ad affacciarsi l’idea che si possa costruire una geometria indipendente dal quinto postulato di Euclide»31. Nello spazio curvo, che secondo Einstein è il contesto oggettivo dell’universo, le rette geodetiche s’incontrano che si limiti freddamente a garantire ad esse condizioni di libertà è tale che rifiuta un impegno morale che per i singoli si pone come inderogabile esigenza» e si qualifica quindi come «uno Stato che manca di cose essenziali all’uomo e che si pone per ciò stesso in qualche modo pericolosamente fuori dell’uomo». Ma, subito dopo, Moro cambiò improvvisamente registro e affermò che con ciò non s’intendeva «indicare positivamente l’atteggiamento che ogni Stato deve assumere di fronte al fenomeno religioso (cosa delicatissima e storicamente variabile)», ma si voleva affermare, solo genericamente, «che lo Stato non può sbarazzarsi della religione, per procedere nella sua strada, perché con ciò, sia esso pure il più liberale, si è fatto già lontano dall’uomo e non vibra più all’unisono con lo spirito umano». 28 N. BOBBIO, Politica e cultura, Einaudi, Torino 1955. 29 P. GOBETTI, La Rivoluzione Liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia [1924], ediz. a cura di Ersilia Alessandrone Perona, Einaudi, Torino 1995, p. 18. 30 Cfr. MEDICI, op. loc. cit. supra nota 26, secondo il quale «la locuzione [solo] erroneamente» può essere «considerata […] un assurdo logico e linguistico». 31 Cfr. N. DODERO, P. BARONCINI, R. MANFREDI, Nuovi elementi di matematica, Sedes, Milano 1998, p. 363 ss. per definizione com’è facile dimostrare con il ricorso a semplici immagini sferiche. Lo spazio curvo può essere considerato in geometria l’equivalente della dimensione complessa in (teoria e pratica) politica. Questa complessità, che fu colta da un altro grande matematico, Bernhard Riemann (1826-1866), si può focalizzare nel concetto di «varietà n-dimensionale». Il ragionamento di Riemann dimostra, con una complessa articolazione logico-matematica, che «le geodetiche sono linee di equazione ax + by + c = 0 che si identificano con le rette del piano cartesiano»32. Ciò si risolve, in definitiva, a dimostrare che nella geometria pluridimensionale le linee geodetiche, equivalenti alle rette parallele nello spazio piano euclideo (unidimensionale), s’incontrano necessariamente. La conclusione geometrico-matematica è perfettamente sovrapponibile a quella storico-politica: di fronte a differenti teorie dello spazio e delle forme presenti in esso la verità non può essere pensata come «una proprietà intrinseca di una teoria». Ciò significa che per decidere se una geometria (o una teoria politica) è vera «è inutile indagare sulla sua struttura logica, ma è necessario stabilire se essa descrive esattamente lo spazio fisico»33, cioè la realtà socio-politicoistituzionale. 32 33 Ivi, p. 365. Ivi, p. 367. 6. Dalla forbita oscurità giovanile alla cristallina chiarezza di un linguaggio politico paradossale e complesso Da questa fondamentale dimostrazione si può inferire, per traslato, che il lessico di Moro, lungi dall’essere criptico, oscuro e contraddittorio, fu al contrario l’unico linguaggio capace d’intendere la complessa struttura ‘curva’ della realtà politica italiana, non solo descrivendola correttamente, ma proponendo anche soluzioni per favorirne l’evoluzione ragionata verso approdi utili e positivi per l’interesse generale. Si può dire, quindi, che la complessità del linguaggio moroteo era finalizzata all’obiettivo di semplificare la vita politico-istituzionale italiana, depurandola dalle secolari incrostazioni che la caratterizzavano e proponendo una rivoluzionaria evoluzione verso un sistema politico più essenziale, accessibile e trasparente. 6.1. La prima fase dell’elaborazione concettuale Vi è qui da notare un ulteriore paradosso nella falsa valutazione della presunta natura criptica dell’idioma moroteo: se proprio si volesse andare alla ricerca di un Moro meno chiaro e a tratti addirittura oscuro e contorto, ci si dovrebbe allora indirizzare verso l’acerbo e vigoroso pensiero della fase giovanile, manifestato soprattutto negli scritti universitari di filosofia del diritto. In quei lavori scientifici, usando un linguaggio forbito ma piuttosto astruso e involuto, pieno di locuzioni arabescate e di frasi incidentali e parentetiche lunghe, articolate e decisamente difficili da seguire, egli tentava di risolvere l’irrisolvibile groviglio insito nella preoccupazione di conciliare la dottrina cattolica con il pensiero critico della modernità giuspolitica34. L’intento del giovane Moro era quello di difendere da un lato l’idea che «la legge morale è necessariamente universale»35, e dall’altro una concezione della società come coesistenza plurale di opzioni etiche e politiche36. L’intenzione, in sé ammirevole considerando l’enormità del tema, per di più affrontato da uno studioso appena trentenne, si scontrava con la dura inconciliabilità di due universi mentali che veicolavano due visioni del mondo e due molto diverse sensibilità, teoretiche prima che politiche, nell’approccio al reale, in un momento storico nel quale quella frattura era molto sentita. Era giocoforza che in questo tentativo la logica delle idee “chiare e distinte” dovesse subire qualche forzatura Anche su questo punto, il suo pensiero si pose con largo anticipo problemi che sono in seguito stati oggetto di riflessioni e sviluppi di grande interesse. Si vedano, sul punto, tra una vasta bibliografia, F. BOLGIANI, V. FERRONE, F. MARGIOTTA BROGLIO (a cura di), Chiesa cattolica e modernità. Atti del Convegno della Fondazione Michele Pellegrino, Il Mulino, Bologna 2004; A. PROSPERI, P. SCHIERA, G. ZARRI (a cura di), Chiesa cattolica e mondo moderno. Scritti in onore di Paolo Prodi, Il Mulino, Bologna 2007. 35 MORO, Lezioni di filosofia del diritto, cit. supra nota 7, p. 141; «universale» è la parola maggiormente, e ossessivamente, ricorrente in quegli scritti. 36 Ivi, pp. 17 e 133: «La società si presenta innanzi tutto come molteplicità». 34 di troppo. Osserviamo, ad esempio, quale passaggio rappresentativo del tortuoso periodare giovanile di Moro, questo brano nel quale egli si sforza di dare una definizione articolata della compagine sociale, tentando in ogni modo di riportare a unità – secondo lo schema della logica hegeliana tesi/antitesi/sintesi – termini fortemente polarizzati: L’anima della società, quello per cui essa è se stessa, è la relazione, che implica la molteplicità, ma la supera instaurando l’unità, la quale ultima, a sua volta, non è l’unità indifferenziata che non rechi traccia del molteplice da cui è scaturita, ma appunto unità nella distinzione, ideale coesione del molteplice che in ciascun elemento rivive l’universale esigenza d’unità, e perciò continuo processo in svolgimento, sforzo nobilissimo per una conquista da compiere in ogni istante della vita. […] La relazione così intesa, quella che, una volta costituita (ma non è per questo costituita definitivamente), dà anima unitaria alla società è appunto la relazione che di questa realizza la profonda verità, e quindi non mero contatto tra soggetto e soggetto, il quale non si può escludere che esista anche nella forma più risoluta di negazione dell’altrui esigenza, perché ogni negazione include necessariamente un’affermazione e quindi ogni disconoscimento dell’altro uomo nella vita sociale è pur sempre un riconoscimento del rilievo che ha per noi l’altrui vita, ma appunto quella relazione che instaura un contatto fra i termini particolari, riconducendoli tutti all’universale valore di cui sono espressioni e quindi compaginandoli nella sola forma di relazione che sia umana (e da cui scaturiscono tutte quelle particolari) e che è l’amore37. Peraltro, già in questa fase, s’intravedevano spunti di grande interesse – soprattutto nel campo politico-istituzionale –, che lasciavano presagire, a una lettura attenta, gli sviluppi futuri. 6.2. La teoria morotea della statualità Tra queste linee tracciate dal Moro della prima fase, molto interessante – per la sua attualità oltre che per la sua originalità – appare la definizione dello Stato che per lui «è società che si svolge secondo un ideale di giustizia universalmente valido»38. Ora, quell’ideale di giustizia – che è innanzitutto eguaglianza sostanziale – non può essere attuato senza il principio di legalità, in quanto nello Stato democratico è la legge, atto rappresentativo della volontà popolare, il principale strumento di attuazione della giustizia. Qui Moro non sembra molto lontano dal giuspositivismo critico – oggi potremmo dire à la Michel Troper, secondo il quale lo «Stato» non è altro che il potere quando assume la «forma Ivi, pp. 21-22 e 137. Ivi, pp. 17, 133 e 150: va notato che nella seconda e nella terza formulazione (quella di pp. 133 e 150) scompaiono dalla definizione le ultime due parole («universalmente valido»). Il secondo vol. delle Lezioni, quello appunto dedicato a Lo Stato ripropone tel quel le pagine iniziali dedicate alla «Società». 37 38 giuridica»39, forma che nel contesto democratico non può che essere posta a tutela del principio egualitario –. Per Moro, inoltre, «l’esperienza statuale» è imprescindibile dall’identità nazionale, in quanto «lo Stato, nella sua tipica particolarità, si pone come Nazione»40. Infatti, […] distinguere nazione e Stato è impossibile, perché […] la nazione è la stessa storicità dello Stato che vibra nella coscienza dei cittadini e che è perciò immanente alla definizione di Stato come particolare-universale. […] Non è la nazione che crea lo Stato, perché la nazione è sempre Stato, anche se sembri sfornita di quelle caratteristiche di sovranità che dello Stato son proprie; […] ché se poi lo Stato non è nazionale, non è veramente Stato, ma momento negativo e provvisorio dell’esperienza sociale, perché sfornito di quelle caratteristiche di una unità veramente sentita e storicamente operante, senza della quale il suo compito proprio non potrebbe venire assolto. […] D’altra parte neppure esatto è dire […] che lo Stato crea la nazione, perché la nazione non è come risultato temporalmente distaccato dall’educazione formativa dello Stato, ma è la sostanza stessa del vivo processo per cui lo Stato è, facendosi come unità viva nella molteplicità41. Adottando quindi – com’egli stesso afferma – una definizione non appiattita su «un formalismo assolutamente inammissibile»42, Moro perviene, a mio avviso molto correttamente, a una concezione che, sia pure solo nebulosamente intravista in quel momento (in quanto incapsulata nel vecchio schema dialettico dell’idealismo ed esposta con uno stile alla cui ridondanza non è estranea una sensibile influenza crociana), può essere considerata antesignana delle più aggiornate teorie sullo Stato e sulla statualità43, giungendo in tal modo a chiarire a se stesso, attraverso un procedimento logico ex contrario, la principale causa dell’anomalia italiana. Su questo tema, come non mai, si può osservare perfettamente come l’intelligenza di Moro sia alacremente all’opera contro se stessa, come cioè essa si dimeni per fuoriuscire da schemi che pure naturaliter utilizzava, in quanto elementi che apparivano essenziali e imprescindibili alla formazione culturale del suo tempo. Malgrado le difficoltà a raggiungere la chiarezza cartesiana, per la sua spontanea propensione a combinare concetti opposti, che cercava in ogni Cfr. M. TROPER, Per una teoria giuridica dello Stato, trad. it. a cura di Agostino Carrino et al., Guida, Napoli 1998, pp. 170-1; IDEM, La théorie du droit, le droit, l’État, PUF, Paris 2001, pp. 267-81: 275. 39 MORO, Lezioni di filosofia del diritto, cit. supra nota 7, pp. 154-5. Ibid. 42 Ibid. 43 Mi permetto di rinviare, sul punto, al mio recente contributo: F. DI DONATO, Ceto dei giuristi e statualità dei cittadini. Il diritto tra istituzioni e psicologia delle rappresentazioni sociali, in L. TEDOLDI (a cura di), Alla ricerca della statualità. Un confronto storico-politico su Stato, federalismo e democrazia in Italia e in Europa, QuiEdit, Verona 2012, pp. 19-63. Si veda anche il dibattito tenutosi all’Università di Trento e parzialmente pubblicato da L. BLANCO (a cura di), sotto il titolo Atti del seminario di Trento, 15-16 dic. 2006, in «Storia Amministrazione Costituzione. Annale dell’Istituto per la Scienza dell’Amministrazione Pubblica», Il Mulino, n. 16/2008. Per ampie indicazioni bibliografiche rinvio al mio vol.: F. DI DONATO, La rinascita dello Stato. Dal conflitto magistraturapolitica alla civilizzazione istituzionale europea, Il Mulino, Bologna 2010. 40 41 modo di armonizzare smussandone le angolature più pronunciate, Moro coglie l’essenziale: per lui la statualità, intesa «come l’esperienza dell’uno che vive come molteplice»44, non si può ridurre a un mero fattore giuridico-normativo o teorico-politologico, ma abbraccia l’intera vita culturale e psicologica di una comunità nazionale, essendo determinata dal carattere e dalla mentalità diffuse e a sua volta influenzandoli. 6.3. Le «intuizioni di civiltà» e l’ideazione di una sovranità plurisociale Questa definizione, straordinariamente innovativa nel momento-cerniera tra l’esperienza dell’autoritarismo fascista e la democrazia repubblicana, porta Moro a concepire il potere statuale, e il correlato rapporto tra autorità e libertà, in modo del tutto originale e ancor oggi a mio parere denso di sviluppi fecondi. Moro sottolinea come lo Stato sia «essenzialmente popolo, perché è […] essenzialmente società e società vuol dire pluralità di particolari» che recano però in se stessi una «immancabile vocazione all’unità»45. Di conseguenza egli intende la sovranità dello Stato non «come una piramide il cui vertice […] rappresenta veramente l’essenziale», concezione che fa «perdere, quasi inconsciamente, l’idea più comprensiva e vera dello Stato come totalità dell’esperienza sociale che si svolge secondo la sua legge», ma come una sintesi tra istanze differenziate, «rappresentative di tutta la ricca e varia esperienza in cui il comando vive e per determinare la quale esso è necessariamente posto»46. Se la sovranità non è perciò riducibile «a puro comando», a sua volta la statualità non si può identificare – come erroneamente ancor oggi molti studiosi continuano esplicitamente o implicitamente a credere – con l’apparato istituzionale e i suoi strumenti decisionali, ma va piuttosto definita «come totalità dell’esperienza sociale» svolta nel quadro dell’organizzazione dello Stato e «secondo la sua legge»47. Moro dissipa qui un grande – è lui stesso a definirlo così – «equivoco» della dottrina classica dello Stato. È fondamentale, per lui, «rivendicare la complessità» di quest’ultimo, «che non si esaurisce affatto nel suo momento potestativo»48. Perciò va categoricamente esclusa «l’idea che sovranità sia espressione di mera potenza»49 e va invece considerata valida l’idea che lo Stato sia espressione sintetica di «volizioni» multiple50, e che i suoi «fini», tanto «essenziali» quanto «contingenti», sono tesi a perseguire MORO, Lezioni di filosofia del diritto, cit. supra nota 7, p. 156. Ivi, p. 158. 46 Ivi, p. 160. 47 Ibid. Ed è appena il caso di aggiungere che è stato proprio questo errore di fondo, consistente nell’identificare tout-court la statualità con la sovranità, a determinare l’insistenza sulla cosiddetta “crisi dello Stato”, sulla quale si è costruita in Italia una tanto vasta quanto ripetitiva letteratura, fin troppo nota per essere qui ricordata. 48 Ibid. 49 Ivi, p. 161. 50 Ivi, pp. 163-75. 44 45 «determinate intuizioni di civiltà»51. Con un’espressione che non avrebbe forse potuto utilizzare, ma che bene riassume il senso del suo composito pensiero, Moro sostiene in sostanza che la statualità sia il veicolo fondamentale del processo di civilizzazione che caratterizza il quid della cultura giuridico-politica e dell’organizzazione sociale e istituzionale dell’Occidente europeo52. La statualità morotea s’interseca qui con quello stratificato «spirito delle istituzioni» che caratterizza la plurisecolare esperienza politico-sociale degli Stati-nazione più avanzati d’Europa, nei quali è stata proprio quella solidità socioistituzionale a formare l’ossatura delle future democrazie53. Con questa concezione che – per quanto ciò possa apparire sorprendente – apparenta il pensiero di Moro più alla visione ‘liberale’ di uno Spinoza che a quella politico-morale di uno Hegel o dei pensatori politici cristiani che si presumerebbero più vicini alla sua sensibilità e alla sua visione del mondo, viene completamente spiazzata e superata l’idea dello “Stato etico” che si autoinveste «del compito di promuovere la cultura e di sviluppare l’eticità nel senso più largo», mentre il fine dello Stato moroteo è la garanzia della libertà dell’uomo «e non già il totale svolgimento della eticità nella storia»54. In tal senso l’esperienza statuale si qualifica – e qui Moro coglie con stupefacente acume il punto nevralgico nel quale si annida la ragione prima del processo di statualizzazione55 – come la sintesi di «ogni concreta attività umana», di ogni «attività sociale, volta a promuovere con forze associate, e però con efficacia storica di gran lunga superiore a quella del singolo, tutti gli scopi umani…»56. Ivi, pp. 176-80: 176. Moro precisa qui, con una frase che è anche un esempio perfetto del suo stile, che l’esistenza dello Stato si giustifica «in adempimento di una profonda vocazione umana, promuovere la quale in tutta la ricchezza della sua determinazione, è appunto dello Stato ragion d’essere essenziale». 52 Sia consentito, riguardo questo concetto, un rinvio alle considerazioni svolte nel mio saggio: F. DI DONATO, Critica della ragione ‘virtuosa’. Roland Mousnier: la civiltà giuridica dello Stato assoluto, in R. MOUSNIER, La costituzione nello Stato assoluto. Diritto, società, istituzioni in Francia dal Cinquecento al Settecento, a cura di Francesco Di Donato, ESI, Napoli 2002, pp. XV-CXXXVI: LXVIII-LXXVI. Cfr. anche Id., Sulla civilizzazione statuale, in «Ragion pratica» (in corso di stampa). 53 Cfr. RICHET, Lo spirito delle istituzioni, cit. supra nota 6; Ph. CORRIGAN, D. SAYER, The Great Arch. English State Formation as Cultural Revolution, Basil Blackwell, Oxford-New York 1985. Per un vasto quadro europeo, cfr. Ch. TILLY (a cura di), La formazione degli stati nazionali nell’Europa occidentale, trad. it. a cura di Rinaldo Falcioni e Gaspare Bona, Il Mulino, Bologna 1984; T. ERTMAN, Birth of Leviathan. Building States and Regimes in Medieval and Early Modern Europe, Cambridge Univ. Press, Cambridge 1997. Si vedano, infine, l’ampia e originale disamina di E. ROTELLI, Forme di governo delle democrazie nascenti. 1689-1799, Il Mulino, Bologna 2005; e l’opera, riassuntiva di un lungo percorso di ricerca sul tema, di R. AJELLO, Dalla magia al patto sociale. Profilo storico dell’esperienza istituzionale e giuridica, L’Arte Tipografica, Napoli 2013. 54 MORO, Lezioni di filosofia del diritto, cit. supra nota 7, p. 178. Si veda anche il passo – spinoziano quant’altri mai – a p. 179: «Scopo immanente dello Stato, sua ragion d’essere, in quanto esperienza sociale particolarmente caratterizzata, è appunto questa compiuta realizzazione dei fini dell’uomo, per la quale lo Stato è. […] Dire Stato val quanto dire società, e cioè sviluppo umano nella coesistenza necessaria; ma val quanto dire, che è cosa assai significativa, sviluppo dell’umanità secondo la sua intrinseca legge e quindi in un ordine». Per questa concezione della statualità ‘liberale’ in Spinoza, cfr. D. PARIGAUX, Spinoza l’anti-Léviathan, La Libre Pensée, Paris s. d. 55 E ciò in un’epoca, va sottolineato, in cui non esistevano gli studi socioanalitici dei quali disponiamo oggi: cfr., per tutti, R. BOUDON (a cura di), Trattato di sociologia, trad. it. a cura di Marco Santoro e Manuela Martini, Il Mulino, Bologna 1996. 56 MORO, Lezioni di filosofia del diritto, cit. supra nota 7, p. 180 (corsivo mio). In sostanza Moro comprende qui perfettamente che la nascita dello Stato moderno si fonda sulla necessità di superare l’eterogenesi dei fini e di mettere in opera di un’azione politica che, grazie a mezzi impersonali di gran lunga più potenti ed efficaci di quelli di cui sono capaci i singoli individui, riesca a centrare gli obiettivi intenzionali predeterminati dalla 51 Questo sistema organizzativo, finalizzato dunque a potenziare l’efficacia dell’azione sociale, è il risultato di un lungo processo storico il cui passaggio cruciale nel corso dell’Età moderna, lo Stato assoluto, non sfugge a Moro, che anche qui mostra una perspicacia davvero fuori dal comune nell’uscire dal solco tracciato dai consolidatissimi modelli interpretativi della storiografia politica egemone nel suo tempo e ispirata a un’idea di fondo che resiste ancor oggi nella visione di diversi studiosi (soprattutto coloro che sono influenzati dalla concezione idealistica)57. Con una notevole anticipazione sui tempi dell’evoluzione storiografica58, Moro comprese «l’assurdo puntuale» insito nella «formula» della sovranità assolutistica e affermò l’inesistenza storica di quel modello, formulato solo sul piano della teoria politica, ma mai pienamente inverato nella realtà istituzionale59. ragione. Per l’approfondimento di questo tema, rinvio ai miei saggi: DI DONATO, Critica della ragione ‘virtuosa’, cit. supra nota 52, pp. LIX-LXVIII; IDEM, La rinascita dello Stato, cit. supra nota 43, ad indicem e spec. 449-53. 57 A riprova di questa persistenza dell’interpretazione che vede nello Stato monarchico-assoluto un fenomeno politico-istituzionale effettivo e non una mera dottrina della sovranità, si vedano, ad es., alcuni dei contributi inseriti nel vol. curato da L. BARLETTA e G. GALASSO, Lo Stato moderno di ancien régime, «Atti del Convegno di Studi», San Marino 6-8 dicembre 2004, Università degli Studi della Repubblica di San Marino, Scuola Superiore di Studi Storici, Aiep Editore, San Marino 2007; su questo vol. cfr. i rilievi critici formulati da E. ROTELLI, L’insulto del silenzio. Stato moderno come amministrazione, Rubbettino, Soveria Mannelli 2013, pp. 25 e 200; dello stesso A., cfr. anche Lo «Stato moderno» venticinque anni dopo, in IDEM, Amministrazione e costituzione. Storiografie dello Stato, Clueb, Bologna 2007, pp. 119-30. Si veda, inoltre, il quadro tracciato da G. GALASSO, Stato e storiografia nella cultura del secolo XX. Appunti su alcuni aspetti del problema storico, in W. BLOCKMANS e J.-Ph. GENET (a cura di), Visions sur le développement des États européens. Théories et historiographies de l’État moderne, «Actes du colloque organisé par la Fondation européenne de la science et l’École française de Rome», Roma, 18-31 mar. 1990, Éditions de l’École française de Rome, Roma 1993, pp. 95-115. 58 Vale qui, variatis variandis, quanto segnalato supra in nota 55. Gli studi storici più significativi sul tema della monarchia assoluta (si pensi per tutti a Roland Mousnier e ai suoi lavori usciti tra gli anni Cinquanta e Settanta del ’900, alcuni dei quali raccolti a mia cura nel volume La costituzione nello Stato assoluto, cit. supra nota 52) sarebbero usciti solo diversi anni più tardi. È appena il caso di segnalare che il luogo comune secondo il quale la monarchia assoluta sia realmente esistita e che proprio per abbatterla fosse scoppiata la Rivoluzione, è ancora totalmente in auge e si rivela un errore tanto diffuso quanto radicatissimo e duro a morire. Cfr. il vol. (peraltro non eccellente nell’impianto e nella puntualità ricostruttiva, ancorché efficace nell’idea di fondo) di N. HENSHALL, Il mito dell’assolutismo. Mutamento e continuità nelle monarchie europee in età moderna, trad. it. a cura di Carlo Gatti Il Melangolo, Genova 2000. 59 Cfr. MORO, Lezioni di filosofia del diritto, cit. supra nota 7, p. 177: «Intesa alla lettera la formula dello Stato assoluto è l’abdicazione dello Stato ad essere secondo la sua natura; nella sua tipica identificazione dello Stato con la persona che ne dirige gli svolgimenti, con il conseguente riferimento perciò ad una posizione grettamente particolare, esso è propriamente la negazione dell’essenza dello Stato. E tuttavia la prassi politica non ci presenta Stati che siano veramente assoluti [corsivo mio], nei quali cioè lo sviluppo sociale sia condotto del tutto senza razionalità di mete definite nel senso dell’egoismo e dell’interesse di uno solo. In questo senso la storia svela l’assurdo puntuale di quella formula [corsivi di Moro], che non potrebbe essere assolutamente applicata in modo pieno per la reazione immancabile dei valori etici e di libertà, che son troppo veri e troppo forti, per poter perire del tutto, anche se compressi. [Perciò] non c’è Stato in concreto veramente e completamente assoluto, che poi vorrebbe dire Stato alienato dalla sua profonda razionalità, perché la società non può essere piegata fino a perdere, nel suo concreto sviluppo politicamente manovrato, ogni senso di superindividuale, del vero, dell’umano, fuori dei quali non ci sarebbe Stato». Si tratta, come ognun vede, di un passaggio davvero straordinario per profondità intuitiva e chiarezza espositiva, che ancor oggi andrebbe letto e meditato da molti storici modernisti e da tutti gli studiosi di scienze sociali. 6.4. La rivoluzione silente Coerente con questa concezione dello Stato è la teoria della rivoluzione che Moro schizza in pochi ed efficacissimi tratti: per lui la rivoluzione non è che l’«accentuazione particolare di un’unica verità», che consiste nel «perenne divenire della vita sociale»60. In tal senso la più profonda rivoluzione è, per Moro, innanzitutto nel «pacifico ricostruirsi in nuova e più adeguata forma storica della solidarietà sociale normativa ad opera degli stessi organi della legislazione»61. Sembra qui già delineata la futura linea politica che avrebbe ispirato lo statista degli anni Sessanta e Settanta, impegnato a creare le condizioni per una rivoluzione silente, scavata pazientemente all’interno degli equilibri politici e istituzionali dell’incompiuta democrazia italiana, priva di alternanza al governo e sempre più paralizzata dai mille e mille veti incrociati posti dalla miriade di piccoli e grandi potentati attivi. Per Moro «il Paese» non aveva «trovato, evolvendo, un suo assetto definito ed accettabile». E non si trattava «di sovrastrutture, ma di fenomeni di base». E sarebbe perciò stato vano «approntare piccoli rimedi a fronte di cause importanti»62. La lucidità di quest’analisi è, vista retrospettivamente, d’impressionante profondità e di straordinaria chiarezza. Moro indicava uno dei grandi mali italiani nella «sproporzione», nella «disarmonia» e nell’«incoerenza tra società civile, ricca di molteplici espressioni ed articolazioni, e società politica»63. Si tratta, all’evidenza, di un fenomeno che, approfonditosi sempre più negli anni successivi, è oggi esploso in forme patologiche con ogni probabilità irreversibili che hanno corroso i tessuti connettivi della nostra già fragile democrazia, sempre a rischio di essere surclassata dall’anarchia microfeudale e dalle logiche combinatorie, tipiche di un contesto intessuto di egoismi mai stemperati in una sana egoità sociale64. Moro vedeva già allora con lungimiranza il proliferarsi di questa «molteplicità di centri di comando [che] in fatto si sono costituiti con la conseguenza talvolta di paralizzarsi a vicenda e di non riuscire a contenere e incanalare l’incandescente materia sociale»65. Nel «paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili»66, Moro, pur in un sostanziale pessimismo di fondo sulla capacità del sistema italiano di evolversi verso sperimentate forme di democrazia compiuta, continuò a lavorare per Ivi, p. 229. Ivi, p. 230. 62 MORO, Discorso di presentazione alle Camere del governo DC-PRI, 3 dic. 1974, in IDEM, La democrazia incompiuta, cit. supra nota 17, p. 84. 63 Ibid. 64 Su questo importante argomento, cfr., in una letteratura scientifica tanto abbondante quanto pressoché totalmente ignorata e inascoltata, R. AJELLO, Egoità sociale. Alle origini del realismo critico e dello Stato moderno in Europa, «Frontiera d’Europa», n. 2, 1996, pp. 5-150. Si veda anche TULLIO-ALTAN, La nostra Italia, cit. supra nota 19. 65 MORO, Discorso di presentazione, cit. supra nota 62, p. 85. 66 MORO, Discorso all’assemblea dei gruppi parlamentari democristiani, Roma, 28 febbraio 1978, in IDEM, La democrazia incompiuta, cit. supra nota 17, p. 121. 60 61 quello che considerò sempre come il traguardo più importante da raggiungere (l’alternanza al governo in una prospettiva bipolare67), affinando sempre più il suo linguaggio politico. In questa fase della maturità i suoi discorsi si fanno sempre più affilati e precisi, sempre più diretti all’obiettivo che egli si era proposto di realizzare nell’interesse della crescita democratica e della funzionalità politico-istituzionale68. A rileggerli oggi, molti di quei testi appaiono di un’ineguagliabile limpidezza cristallina, soprattutto per la loro straordinaria maestria nel riuscire a descrivere una realtà come quella italiana, caratterizzata quant’altre mai da un elevatissimo livello di contraddittorietà e d’incoerenza. E tali dovettero sembrare anche a coloro che, restringendone il senso ultimo all’ingresso dei comunisti nella compagine governativa, osteggiarono in ogni modo il disegno moroteo69. 7. Conclusione: un paradossale (e sospetto) rovesciamento di senso Questa constatazione riporta d’emblée l’osservatore che intenda tenere insieme storia delle idee e storia dei fenomeni socioculturali a una palmare evidenza, che si può esprimere con una domanda che sappia implicitamente cogliere l’aspetto più paradossale di tutta la questione morotea: come mai il Moro più chiaro, quello della piena maturità, subisce l’amaro (divenuto poi tragico) destino dell’incomprensione, mentre il Moro giovanile è acriticamente elogiato come un assoluto esempio di perspicacia concettuale e di limpidità espositiva? Com’è possibile, in altre parole, che laddove il pensiero moroteo è chiaro esso sia considerato oscuro e involuto, mentre dov’era effettivamente in fieri, quindi maggiormente criptico, macchinoso, polisemico e nebuloso, lo si consideri all’opposto un discorso nitido ed encomiabile? Che senso può avere questo così palese traviamento della realtà testuale? Ciascuno può trovare la sua risposta, ma il puzzle dei fatti fa propendere il giudizio storico-critico verso un’interpretazione tutta politico-ideologica di questa – solo apparentemente strana – interversione. Con il suo originalissimo Va notato che questa convinzione è chiaramente delineata in Moro fin dal suo ingresso alla Costituente e resta poi costante fino ai discorsi degli ultimi anni. Si vedano, come significativi esempi al riguardo: MORO, L’alternarsi al potere delle maggioranze, in «Osservatorio», n. 2 di «Studium», 1947; IDEM, È tipico delle democrazie l’alternarsi delle forze politiche al potere, Intervento al Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana, Roma, 20 luglio 1975, entrambi in MORO, La democrazia incompiuta, cit. supra nota 17, rispettivam. pp. 94-5 e 102-4. 68 L’esplicita preoccupazione di Moro era quella di «costruire un sistema democratico avanzato […] abbastanza nuovo nella storia d’Italia»: MORO, Riflessione, in «Il Giorno», 10 dicembre 1976, ora in IDEM, La democrazia incompiuta, cit. supra nota 17, pp. 110-4: 112 (con il titolo Si parla di una Terza fase della vita politica italiana). 69 Clamoroso fu il diniego da parte del direttore de «Il Giorno», giornale che pure ospitava regolarmente gl’interventi di Moro, di pubblicare un articolo intitolato A noi tocca decidere in piena autonomia, scritto «nel gennaio 1978 e non pubblicato per “motivi di opportunità”»: cfr. MORO, La democrazia incompiuta, cit. supra nota 17, pp. 115-7. Con la stessa determinazione con la quale aveva protetto il governo di centrosinistra dalle pressioni della Chiesa (cfr. supra nota 18), Moro difendeva in quell’articolo l’autodeterminazione dell’Italia a decidere sul proprio destino politico a prescindere dalle influenze estere (specialmente, anche se non solo, americane): «A noi tocca – scrisse – decidere, sulla base della nostra conoscenza, in piena autonomia, ma con grande equilibrio e senso di responsabilità» (ivi, p. 117). Nessuno poté leggerlo. 67 stile comunicativo, Aldo Moro è riuscito in un’impresa unica: esprimere nitidamente l’inestricabile groviglio dell’antropologia politica italiana. I suoi scritti costituiscono un patrimonio d’inestimabile valore per chiunque voglia studiare e comprendere in profondità il nucleo fondamentale della politica – e con essa dell’intera società – italiana. Ed è proprio questo ad averlo reso inaccettabile in un contesto la cui essenza egli aveva portato alla luce del sole per mostrarne le carenze e le incompiutezze, indicando nel contempo le soluzioni e le possibili vie d’uscita. Prende così corpo l’ipotesi che l’indicare nel discorso moroteo la quintessenza dell’astrusità sia stata un’abile e pilotata operazione – largamente condivisa – per screditare la sua proposta politica, semplificandola e banalizzandola come l’azione che «voleva portare i comunisti al potere», sovvertendo così i fondamenti politici del Paese e la sua collocazione internazionale. Si depotenzia in tal modo la grandezza del pensiero moroteo e, non potendo del tutto cancellarla (dato il finto rispetto che in Italia si deve portare ai martiri), si è spostata sull’innocuo Moro giovanile, tutto dedito a difendere le strutture portanti della visione del mondo cristiano-cattolica, e tanto zelante e dovizioso nello stile espositivo quanto del tutto astratto nelle argomentazioni e nei temi trattati. La subcultura – come la chiamerebbe Franco Ferrarotti – italiana ha così compiuto la sua ennesima frode, travisando ad arte la profondità di uno straordinario pensatore e attore politico la cui complessità, capace di cogliere i punti nevralgici dell’identità italiana, è ancora attualissima ed è perciò ben lungi dall’essere profondamente studiata e compresa, men che meno attuata. Come tutti i grandi innovatori, Moro dové lottare contro tutti, a cominciare da se stesso, da quella parte di sé che era più aderente alla cultura del suo tempo, a quella cultura cioè che egli si era assunto il compito, dal suo interno, d’innovare. Mi sembra che possa perciò, in conclusione, perfettamente modellarsi sulla personalità di Moro e del suo rapporto con la cultura italiana ciò che Ida Magli ha scritto a proposito del rapporto tra Gesù di Nazareth e l’ebraismo: «[È] difficile dire se la proposta di Gesù sia inattuabile. Non si può affermare che sia fallita, in quanto non si è nemmeno tentato di metterla in atto. […Che] cosa ha fatto Gesù di Nazareth? È uscito da un modello culturale, proponendone un altro, oppure ha tentato di spostare l’asse della sua cultura, forzandone la direzione? L’interrogativo rimane senza risposta. L’unica cosa certa è che, contrariamente a quello che tutti gli uomini hanno fatto, Gesù non ha vissuto in modo inconsapevole e ovvio i valori su cui si fondava la sua cultura, ma ne ha preso le radici, profondamente nascoste, e le ha capovolte al sole e all’aria, dichiarando che esse erano ormai inutili. Tutti sono stati contro di lui»70. 70 I. MAGLI, Gesù di Nazareth. Tabù e trasgressione, Rizzoli, Milano 1982, pp. 173-4.