Flaminio Squazzoni, Simulazione sociale. Modelli ad

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RECENSIONI
In questa rubrica vengono recensiti libri italiani e stranieri, ad eccezione di quelli i cui
autori fanno parte della direzione di questa rivista.
Flaminio Squazzoni, Simulazione sociale.
Modelli ad agenti nell’analisi sociologica,
Roma, Carocci, 2009, pp. 240.
Gianluca Manzo
CNRS (GEMASS), Paris
Université de Paris-Sorbonne
Con Simulazione sociale, Flaminio
Squazzoni fornisce alla comunità sociologica italiana una rassegna rigorosa
ed accessibile della ricca letteratura
interdisciplinare che si è accumulata
nell’ultimo decennio su un metodo
specifico di simulazione informatica:
i modelli ad agenti.
Il volume si focalizza sugli aspetti
epistemologici e sulle implicazioni
teoriche di questi modelli (ad alcuni
aspetti tecnici si accenna tuttavia in
un’appendice in calce al volume).
Come si evince dall’Introduzione, al
di là dell’intento puramente informativo,
Squazzoni persegue un progetto più ambizioso: rafforzare l’utilizzo dei modelli
ad agenti in sociologia dato che essi
permetterebbero alla nostra disciplina di
procedere in modo più deciso sul versante esplicativo sulla base di modelli formali
rigorosi, trattabili e sufficientemente
ricchi da non essere «just so stories».
Il primo capitolo del volume
presenta i modelli ad agenti in generale. Squazzoni ne dà dapprima una
definizione globale e poi discute la
loro specificità tanto rispetto ad altri
metodi di ricerca quanto ad altri tipi
di modelli informatici.
L’autore approfondisce in seguito
il concetto di spiegazione generativa
ed insiste sulle nuove possibilità che
i modelli ad agenti danno al sociologo
per implementare e testare questo tipo
di spiegazioni.
Squazzoni avverte tuttavia il lettore
che i modelli ad agenti non «nascono»
tutti uguali: taluni sono estremamente
ricchi in dati empirici e volti alla
genesi di target altamente specifici,
altri si indirizzano a classi più vaste
di fenomeni mentre altri ancora, i
più numerosi, nota l’autore, cercano
di studiare i meccanismi fondamentali
di fenomeni estremamente generali per
occorrenza spaziale e temporale.
Dopo aver ricordato al lettore
il percorso idealtipico che conduce
dalla concezione alla presentazione
dei risultati di un modello ad agenti,
Squazzoni conclude questo primo capitolo introducendo uno dei concetti
che più gli stanno a cuore: quello
di «emergenza» (distinguendone tre
tipi, l’«emergenza di primo ordine»,
l’«emergenza di secondo ordine» e
l’«immergenza»).
Alcuni di questi temi saranno
peraltro ripresi ed ampliati nelle
Conclusioni.
Il secondo capitolo incammina il
lettore nei meandri delle numerose
applicazioni dei modelli ad agenti
nelle scienze sociali. Squazzoni vi
presenta in particolare il ricco filone
di studi relativo alla cooperazione ed
alle norme.
RASSEGNA ITALIANA DI SOCIOLOGIA / a. LI, n. 2, aprile-giugno 2010
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Tra quelli che riposano su varianti
più o meno elaborate di «giochi» classici, l’autore presenta i modelli volti
a studiare le condizioni minime della
diffusione di comportamenti cooperativi in popolazioni di attori eterogenei
quanto a grado di disposizione prosociale. I lavori del politologo Robert
Axelrod (e di alcuni dei suoi più stabili
co-autori, quali Riolo e Cohen) sono
ricostruiti nel dettaglio, così come un
modello dei due economisti eterodossi
Bowles e Gintis.
Tra i modelli invece che complessificano l’apparato della teoria dei
giochi o che se ne allontano del tutto,
Squazzoni discute quelli centrati sul
ruolo che fattori quali la fiducia, la
reputazione e diversi gradi di miopia
degli attori hanno sulla genesi di
comportamenti cooperativi e di norme
sociali. L’autore discute in particolare
un modello del sociologo Michael Macy
(co-autorato con Skvoretz) centrato
sui meccanismi di etichettamento, un
modello della psicologa sociale Rosaria
Conte (co-autorato con Paolucci) volto
a comprendere come la reputazione
potrebbe generarsi e sui suoi effetti
sistemici, e due modelli della genesi
delle norme e delle convenzioni, l’uno
proposto dai due economisti neoistituzionalisti Hodgson e Knudsen,
l’altro dall’economista eterodosso
Joshua Epstein.
Entrambi le classi di modelli danno
l’occasione a Squazzoni di mostrare
come i modelli ad agenti possano
trattare questioni complesse quali la
relazione tra configurazioni spaziali
e/o topologie relazionali e dinamiche
aggregate, e come essi siano facilmente
integrabili con altre metodologie computazionali avanzate quali gli algoritmi
genetici. Tutti i modelli illustrano peral-
tro alcune delle caratteristiche salienti
della modellizzazione multi-agente,
quali la possibilità di implementare
attori eterogenei animati da razionalità
limitata ed adattiva.
L’abilità di Squazzoni nell’organizzare una letteratura complessa e nel
presentarla con chiarezza al lettore si
conferma nel terzo capitolo.
L’autore vi presenta dapprima i
modelli «a soglia», quelli cioè in cui
l’attore A tende a fare X solo se un
certo numero di altri attori (con cui
A può essere in contatto) hanno certe
caratteristiche oppure se questi ultimi
hanno compiuto anch’essi X (o sono
suscettibili di compiere X, secondo
A). Sono qui presentati il modello
che Schelling propose a cavallo tra
gli anni ’60 e ’70 per spiegare la
genesi della segregazione residenziale
– così come la ricca letteratura che
esso ha generato (Squazzoni seleziona
le variazioni di Axtell e Epstein, di
Gilbert e di Bruch e Mare, contributo,
quest’ultimo, a sua volta all’origine di
un corposo dibattito su AJS leggermente posteriore alla pubblicazione
del volume) – e il modello dell’azione
collettiva della fine degli anni ’70 di
Mark Granovetter. Squazzoni discute
poi il modello noto come «El Farol»,
sviluppato dall’economista eterodosso
Brian Arthurs, volto a studiare problemi di coordinazione in presenza
di opportunità limitate.
Squazzoni presenta poi, da un
lato, la ricca letteratura sviluppatasi a
partire dalla teoria dell’influenza sociale
di matrice sociopsicologica proposta
da Bibb Latané, la cui traduzione
computazionale ha dato vita ad una
serie di applicazioni volte a studiare
come un dato atteggiamento/opinione
possa diffondersi in una popolazione
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di attori in interazione, e, dall’altro,
un modello proposto da Axelrod per
studiare la persistenza di subculture in
seno ad una popolazione di agenti più
o meno eterogenei. Conclude il capitolo
una dettagliata analisi del modello di
Noah Mark costruito per mostrare
come la differenziazione di un sistema
sociale possa innescarsi solamente a
partire dalla struttura d’interazione
degli attori e dalle loro capacità di
processamento dell’informazione più
o meno limitate.
Il quarto capitolo chiude la rassegna delle applicazioni attraverso la
descrizione di un modello volto allo
studio del fenomeno dei «distretti
industriali» e che Squazzoni stesso
ha costruito e studiato con alcuni
colleghi.
Essi concettualizzano un distretto
come un sistema complesso nel quale
le entità in interazione non sono gli
attori singoli (come era il caso dei
modelli precedenti), ma le imprese.
La simulazione ad agenti è usata per
indagare, da un lato, le dinamiche
macro del sistema – in termini di
performance economica e struttura degli
investimenti – in funzione delle strategie
delle imprese e della configurazione
dei legami che le legano e, dall’altro,
l’impatto su queste dinamiche macro di
architetture cognitive più o meno complesse che gestiscono il comportamento
dell’impresa (attribuendo la cognizione
e la riflessività direttamente all’impresa
invece di concepire queste proprietà
come un prodotto della cognizione
e della riflessività dei singoli agenti
eterogenei che compongono l’agente
impresa, il modello si espone alla critica
di estendere in modo poco accorto i
principi dell’individualismo metodologico ad «attori organizzati»).
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Nella misura in cui, come l’autore
peraltro riconosce, questo modello
era già stato oggetto di svariate pubblicazioni in lingua inglese, il lettore
potrebbe chiedersi perché Squazzoni
non abbia sfruttato quest’ultimo capitolo per presentare alcuni settori
importanti della «simulazione sociale»,
quali, per esempio, i modelli di genesi
e trasformazioni delle reti sociali. Il
capitolo ha tuttavia l’indubbio merito
di fornire un esempio di modello ad
agenti altrimenti più complesso, e
realistico, di quelli presentati nei due
capitoli precedenti.
L’obiettivo informativo di Simulazione sociale è perfettamente raggiunto.
Non vi è dubbio alcuno che il volume
possa diventare rapidamente un’introduzione di riferimento per la comunità
sociologica italiana. Che esso riesca a
convincerla ad utilizzare più intensamente i modelli ad agenti è invece
meno sicuro: la strategia argomentativa
scelta da Squazzoni potrebbe ridurre
piuttosto che aumentare la probabilità
che questo obiettivo si realizzi.
Mentre infatti Squazzoni lascia
intendere che tutto, o quasi, in sociologia dovrebbe essere abbandonato, non
afferma mai con sufficiente chiarezza
ciò che dovrebbe essere modificato
nel campo della simulazione sociale.
Perché, per esempio, Squazzoni non
discute nel dettaglio il problema della
«robustezza» dei modelli presentati al
lettore, considerando, per esempio, la
vasta letteratura critica sui modelli di
cooperazione (cui egli accenna solo in
due note del secondo capitolo) così
come quella sulla «replicazione»? Perché Squazzoni non discute le critiche
al paradigma della socio-fisica e della
econo-fisica, talune provenienti dai
protagonisti stessi di questi approcci,
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quali Steven Durlauf? Una di queste
critiche insiste sulla mancanza di
legame con la realtà della maggior
parte dei modelli ad agenti esistenti:
perché Squazzoni non afferma con
insistenza che la strada da percorrere è
quella delle simulazioni empiricamente
calibrate tanto in entrata quanto in
uscita? Squazzoni sembra peraltro
non considerare la possibilità che la
sola vera innovazione nella letteratura
che presenta sia di natura tecnica. Sul
piano concettuale, come sostenere, per
esempio, che il concetto di «emergenza di primo ordine» sia qualcosa di
diverso dagli effetti non intenzionali
dell’azione al centro di una lunga
tradizione sociologica e che quello di
«emergenza di secondo ordine» non
sia nient’altro che la versione dinamica
del Coleman Boat? Perché Squazzoni
non menziona coloro, come Joshua Epstein, che, giustamente, hanno insistito
sull’inutilità del concetto di emergenza?
Per un libro rivolto ai sociologi, è
infine strano non trovare una serrata
discussione della «sociologia analitica»,
il solo approccio sociologico che stia
seriamente utilizzando i modelli ad
agenti. Perché poi ricondurre a Axtell
e Epstein la formulazione della «spiegazione generativa» allorquando essa fu
chiaramente formulata da R. Boudon
circa trent’anni or sono? Perché non
insistere sul fatto che la sociologia
computazionale è storicamente nata
nell’alveo della sociologia matematica
(nessuna menzione è fatta ai lavori di
Thomas Fararo)? Perché infine non insistere sul fatto che la copiosa letteratura
sociologica quantitativa sulle reti così
come quella d’impronta rational-choice
sulla genesi della norme potrebbe
utilmente nutrire il realismo teorico
ed empirico dei modelli ad agenti?
Lasciar intendere che tutto sia
nuovo nel settore della «simulazione
sociale» mentre la tradizione sociologica non dispone nulla da offrire
ai modelli ad agenti è sicuramente
una convinzione diffusa in una larga
parte della comunità internazionale
di cui Squazzoni è uno dei protagonisti. Questo atteggiamento tuttavia
impedisce piuttosto che agevolare la
realizzazione dell’obiettivo implicito
del bel volume redatto da Squazzoni:
convincere gli scettici che i modelli
ad agenti potrebbero rivoluzionare la
ricerca sociologica.
Angelo Panebianco, L’automa e lo
spirito. Azioni individuali, istituzioni,
imprese collettive, Bologna, Il Mulino,
2009, pp. 264.
Delia Baldassarri
Università di Princeton
Il testo di Angelo Panebianco
L’automa e lo spirito. Azioni individuali,
istituzioni, imprese collettive allarga le
prospettive dell’approccio di sociologia
analitica alla scienza politica, contribuendo così ad ampliare lo spettro
di fenomeni sociali oggetto della
«spiegazione tramite meccanismi». In
generale, ritengo si debba dar valore
a discussioni di teoria sociale nel caso
queste siano accompagnate da un
analogo sforzo orientato a tradurre tali
principi in pratiche di ricerca. Sono
invece piuttosto scettica nei confronti
di coloro che scrivono di metodo senza
porsi la finalità di praticarlo. Non a
caso, i maggiori contributi alla sociologia
analitica sono arrivati da quegli autori,
quali Merton, Coleman, ed Hedström,
che hanno fatto ricerca empirica.
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