S. FERRONE, Introduzione a G. Strehler, Memorie

Siro Ferrone - Le Memorie di Strehler
(Data di pubblicazione su web 28/09/2005)
1. Le letture sceniche dei capolavori di Carlo Goldoni, Anton Čechov e Bertolt
Brecht si intrecciano e si influenzano reciprocamente nel corso della carriera e
della vita di Giorgio Strehler che ha cooptato questi autori nella medesima
missione (Stanislavskij avrebbe parlato di «grande compito»): rappresentare
un'epoca di passaggio, in cui il nuovo non è ancora nato e il vecchio
sta tramontando, secondo una formula che Joseph Losey ha adoperata ad
epigrafe del suo Don Giovanni mozartiano citando Antonio Gramsci.
L'accostamento è stato commentato da Ludovico Zorzi in un saggio magistrale (e
i saggi magistrali sono spesso umilmente nascosti in sillogi minori e in
conferenze periferiche) suggerendo un'interpretazione straordinariamente acuta
della crisi settecentesca di cui Mozart, Da Ponte e, in misura minore, Goldoni
furono testimoni [1]. Una crisi che presenta analogie emozionanti con quella
vissuta dagli artisti e intellettuali d'inizio Novecento (Čechov) e del
pieno Novecento (Brecht, Strehler), alle soglie di rivoluzioni che ci furono o di
rivoluzioni che avrebbero potuto esserci e che invece non ci saranno mai. Con
l'intelligenza dello storico non accademico e indipendente, ma già militante dalla
parte del teatro vivo, Zorzi ha colto in quello scritto tutti i sintomi che stanno alla
base della poetica e della visione storica comune ad altri registi del
tempo: accanto a Strehler è giusto ricordare Luigi Squarzina con cui Zorzi
collaborò per la straordinaria messa in scena di Una delle ultime sere di
Carnovale al Teatro Stabile di Genova (1968).
Prima di tutto veniva il ''fare storia''. La generazione del dopoguerra (a cui
appartennero Strehler come Zorzi come Squarzina) non aveva potuto esimersi,
anche a teatro e attraverso il teatro, dal ''fare storia'' e dal misurare ogni biografia
con il metro della Storia più grande della società, delle sorti più generali dei
popoli e della loro vita materiale. Fu questa una necessità insopprimibile per
gli intellettuali usciti dalla Resistenza e nutriti di storicismo o di idealismo, anche
se i due ''ismi'' si trasfigurarono negli anni seguenti in una storiografia del tutto
rinnovata, sulla scia delle suggestioni metodologiche provenienti dalla scuola
francese delle «Annales». Come scrive Zorzi, «lo studio dei momenti di trapasso
tra una congiuntura e l'altra si mostra di gran lunga più interessante che lo studio
dei movimenti interni alle singole fasi o dei fenomeni stabilizzanti di essi». Con la
convinzione – sono sempre parole di Zorzi – che «al termine della meditazione
del passato-presente che tutti ci trasporta e ci annulla nel tempo, occorre
domandarsi (perché questo è l'unico senso possibile che ci trasmette la perenne
contemporaneità dell'arte) se abbiamo riflettuto sulla fase di ieri o sulla fase
di oggi». Mozart e Da Ponte sono osservati dallo studioso secondo questo punto
di vista, ma anche Goldoni viene evocato nella luce crepuscolare di «una
condizione di eleganza e di grazia che la nostra cultura non aveva mai
conosciuto e che avrebbe rapidamente e per sempre smarrito».
Gli allestimenti di Strehler dedicati alle opere di Goldoni (ma anche quelli dedicati
a Čechov e Brecht) paiono incarnare in corpore vili, e cioè nella pratica materiale
della scena, questa lettura. Impregnati spesso di uno stato di grazia tanto
malinconico quanto formalmente educato, circonfusi di una luce tanto intensa
quanto irreale, sia Goldoni che Čechov sono stati riproposti come testimoni di un
tempo storico in bilico tra una passata felicità irripetibile e un futuro
irraggiungibile. E sempre con una partecipazione decantata (''straniata'') del
regista che, collocato in un passato-presente, pare appunto interrogarsi
brechtianamente sulle analogie dell'ieri e dell'oggi. Significativo delle affinità
''metodologiche'' adottate da Strehler e da Zorzi è uno scritto del regista in cui la
riforma goldoniana e quella di Brecht sono accostate, già nel 1972, sulla base di
un sintomatico riferimento alla crisi più generale della società tra due ''fasi'': «Due
tra i maggiori rivoluzionari della storia del teatro prendono le mosse da
un'adesione al linguaggio preesistente, che nulla lascia prevedere della
rivoluzione successiva. [...] Per ambedue, la cornice è una società colta in un
momento di travaglio: per Goldoni il passaggio ad un ordinamento e un costume
borghesi; per Brecht il momento in cui il liberalismo emerso dall'Ottocento
affronta nel nostro secolo la sua prima violenta crisi» [2].
Ludovico Zorzi, insieme a Tullio Kezich, ebbe un ruolo non secondario nella
prima elaborazione della sceneggiatura televisiva che tanti anni fa, nel pieno
degli anni Sessanta, Strehler volle ricavare dalleMemorie goldoniane [3]. Nel
1993, quando il regista venne a Firenze per incontrare gli studenti in occasione
della tournée nella quale riproponeva le sue storiche Baruffe chiozzotte,
l'Università ricordava il decennale della scomparsa proprio di Ludovico Zorzi;
nella grande aula magna della Facoltà di Lettere e Filosofia era presente anche
Tullio Kezich [4]. Erano dunque in scena le memorie delle memorie delle
memorie: in quell'occasione, le testimonianze vive rammemoravano uno
scomparso, nelle parole di Strehler si reincarnavano – recitate o riassunte – le
parole di Goldoni ma anche quelle di Zorzi. C'erano tutte le presenze di
un'assenza, lo struggimento di un ricordo in cui l'orgogliosa e volontaristica
ricostruzione dell'opera di Goldoni, che Strehler tracciò con razionalissimo
vigore, sembrò già allora rivolgersi, più che ai presenti, ai posteri. E fu una
dichiarazione di principio, senza veli, in una quasi dichiarata identificazione con il
drammaturgo del secolo XVII. Il sottotesto di quel discorso potrebbe essere
recitato così: ''Ho amato Goldoni come me stesso. Nel drammaturgo veneziano
ho cercato e trovato, come in uno specchio, i riflessi già scritti del mio lavoro
teatrale, il preludio della riforma teatrale, le analogie di un medesimo destino, la
forza prepotente di un'identica vocazione fatta di cuore e intelligenza. Tutti e due
siamo vissuti a cavallo di due civiltà, di due culture, di due mondi, sull'orlo della
rivoluzione sociale, con un forte anelito alla trasformazione del mondo, ma con il
freno di una adesione più umana che scientifica all'idea di progresso e
di rivoluzione''.
La lettura dell'autobiografia di Goldoni pare quindi essere per Strehler l'occasione
per una rilettura della propria biografia. La prima stesura del copione desunto
dalle Memorie avvenne infatti durante la crisi dei rapporti del regista con il
Piccolo Teatro di Milano (e con Paolo Grassi) a partire dal 1968 [5]. Una fase
delicata e anche confusa nella pratica quotidiana a cui la meditazione sul
''romanzo di formazione'' goldoniano avrebbe dovuto portare qualche illuminante
conforto. E infatti, nelle parole che accompagnarono quella prima elaborazione,
la vita di Goldoni e il lavoro su di essa diventano l'occasione per oggettivare (e
quindi medicare) recriminazioni, malumori, tormenti, pensieri, conseguenze della
rottura temporanea con il Piccolo Teatro che si ricomporrà nel 1972 dopo la
produzione di tre spettacoli con il Gruppo Teatro e Azione.
2. Alle soglie dei cinquant'anni per Strehler si apre una fase di bilanci. Dopo
quella data si registreranno una sola nuova regia goldoniana (Il campiello del
1975) e molte riprese di spettacoli collaudati anche se spesso completamente
rivisti e trasformati: La trilogia della villeggiatura nella versione tedesca (1974) e
francese (1978),Arlecchino servitore di due padroni, Baruffe chiozzotte (alla cui
terza edizione, realizzata nel 1992 nell'imminenza del secondo centenario della
morte di Goldoni, sarebbe seguita una terza ripresa delCampiello nel 1993).
Dunque lo sguardo del regista si volge all’indietro, soppesando il già fatto,
giudicandolo con quel distacco e quello straniamento che aveva imparato ad
usare negli allestimenti brechtiani culminati nello straordinario Galileo del 1963.
Attraverso la lezione del maestro tedesco (che Strehler ha più volte
esplicitamente rivendicato [6]) la funzione metateatrale acquista una sempre
maggiore presenza: nello spettacolo non sono solo l'autore ed il suo testo ad
essere rappresentati ma lo stesso lavoro teatrale e con esso il suo autore, cioè il
regista. Drammaturgo e regista convivono sulla scena e non si nascondono
dietro la favola; al regista spetta il compito di segnalare queste presenze come
tracce di un lavoro artigiano la cui trama è parallela a quella della finzione. Così,
per
limitarsi
alle
prove
goldoniane,
rispettivamente
nel Campiello e nelleBaruffe le figure del Cavaliere napoletano e del Cogitore,
estranei per origine e stato sociale al coro popolare in azione, diventano i
delegati di Strehler più che i rappresentanti di una realtà storica, costituiscono le
incarnazioni in cui si incontrano e si identificano la figura del drammaturgo e
quella del regista [7].
Le produzioni, anche non goldoniane, successive al 1972 saranno dense di
queste intenzioni metateatrali, ma è certo che il lungo trattamento di oltre 500
pagine, trasformato poi in uno sceneggiato televisivo ed elaborato a partire dal
1968, costituisce il laboratorio di preparazione entro il quale le tensioni
autobiografiche si decantano in un più preciso disegno consuntivo [8]. Leggendo
un frammento, datato intorno al 1970, degli appunti che accompagnarono il
progetto goldoniano, si colgono le tracce di un processo di revisione generale
delle proprie idee teatrali insieme a una identificazione con il poeta ''riformatore'',
tradito dalla storia e dai suoi detrattori. Più che un'analisi dell'opera e della vita di
Goldoni le parole di Strehler contengono uno sfogo che nei momenti più cupi si
trasforma in testamento: «È il momento della presa di coscienza totale della
realtà di un'azione ''anche rivoluzionaria nel teatro'', della sua precarietà, della
sua relatività. Un successo, una somma di successi, anche folgoranti, anche
caldissimi, danno l'impressione (perché il teatro ha questa capacità) di essere
''arrivati'' a un punto fermo, a una conquista permanente. E invece non è vero.
[...] la piccolezza dell'umano nel contesto della vita significa: avere il coraggio di
essereuno, nel coro umano, che ''porta avanti'', invece di ''portare indietro'', con
tutto ciò che di doloroso comporta, senza cambiare quasi niente. Semmai
sperando che servirà per ''altri'', dopo» [9]. Parlando di Goldoni e intendendo se
stesso, Strehler attribuisce allo scrittore del secolo XVIII una malattia insidiosa e
endemica, «una specie di ''nevrosi di persecuzione''», un male che egli sente
come suo e dal quale, anche a parole, cerca di difendersi: «La vita di G. fu
costellata di inimicizie e di cattiverie. Ma il teatro, non è tutto così? E la vita? Cioè
Mondo e Teatro?» [10].
La solitudine successiva alla ''fuga'' dalla ''bottega artigiana'' del Piccolo Teatro
pare a Strehler analoga alla fuga di Goldoni da Venezia, via lontano dai nemici
Gozzi e Chiari, dalle congiure teatrali e dalle vertenze impresariali, dalle ostilità
aristocratiche e dalle incomprensioni del popolo: «Nulla di più realisticamente
straziante della ''estraneità'' in cui egli lascia il Cogitore (cioè se
stesso) nelleBaruffe: ''Noi siamo della razza di quelli che restano a terra''. Il
popolo non lo vuole, il Cogitore: ''sti siori con la perucca, con noialtri pescatori, no
i sta ben''. Ecco la verità» [11]. Goldoni è di nuovo un fraterno alter ego,
incompreso proprio da chi avrebbe dovuto capirlo. Nel 1760 come nel 1968.
Anche gli attori paiono tradirlo: «Tutto gli si mette contro: i suoi attori di prima,
istruiti e bravi, diventano nemici» [12] e «La fuga a Parigi è comunque l'unica
soluzione e l'unico errore possibile. Ma è un atto di disperazione. È l'ultima fuga,
ammantata anche di automenzogne e autodistruzione» [13]. A fronte delle
avversità rimane un progetto quasi prometeico, la fede nel teatro e la
convinzione che la sua è una missione: «Lo sostiene – e questo è l'eroico – una
'incrollabile fede' nel teatro e nella giustezza storica di ciò che ha fatto e che fa e
farà, ma quasi teorica, astratta. Continua e non molla – veramente è eroico –: è
questo il marchio del genio, del predestinato» [14]. Ma questa è più una
dichiarazione di volontarismo che una condizione serena all'altezza di questi anni
inquieti, dal riflusso dei quali emerge una sola amara ammissione: «Alla fine G. si
è sentito solo. Aveva ragione e aveva torto allo stesso tempo» [15].
Negli anni immediatamente successivi al ritorno al Piccolo Teatro la ripresa
dell'attività nella sua storica bottega artigianale sembra produrre una progressiva
depurazione del pensiero di Strehler dalle scorie polemiche più aspre e il dialogo
con il fantasma di Goldoni, quasi un doppio di sé, prosegue con toni più distesi.
In una breve notazione inserita nel programma di sala per la stagione 1977-78
la passione autobiografica, peraltro ben presente, si stempera in una ambizione
storicistica: le Memorie del signor G. – questo il titolo annunciato – «sono una
cosa per fare storia e spettacolo, per raccontare una vita di teatro certo e con
molto rigore storico [...] ma anche per raccontare una storia forse più mia di
quanto io non creda o non voglia e insieme la storia del teatro»; appare qui
il primo accenno al desiderio di rendere pubblico quel lavoro: «Qualche volta ho
pensato di pubblicare questo zibaldone di immagini e sollecitazioni [...] Ma ci ha
pensato ogni volta il teatro a distogliermene, a portarmi su altri cammini» [16].
Qualche anno dopo l'inclinazione autobiografica si rafforza e si decanta in una
più generale riflessione sulla missione teatrale. La storia personale non è più un
motivo aspramente militante ma – brechtianamente – diventa un'avventura
''tipica''. Della vita di Goldoni Strehler propone una lettura «coraggiosamente
personale», convinto che solo «un atto d'amore, arbitrario come è l'amore,
può far diventare anche vita propria» la vita di un altro, ma subito dopo aggiunge
la proiezione di quel particolare affettivo nel cielo razionale dell'universalità: «Il
teatro rinasce dalle sue ceneri sempre uguale e diverso». E tutta la ricerca pare,
in quel frangente, orientarsi a identificare – pur all'interno di una visione
storicistica mai negata ed anzi sovente enfatizzata («nessun artista, qualora lo
sia veramente, può sottrarsi alla storia») – le qualità umane che accomunano
Goldoni ad ogni altro teatrante, e quindi anche a Giorgio Strehler: Goldoni è
dunque «Un uomo che seppe vivere tutto ''dentro'' la realtà del suo secolo, in
quella malinconica dolcezza, non priva di asprezza molto spesso irridente ed
improvvida di un tempo storico che stava per chiudersi per sempre. Un uomo
che avvertì – forse non come coscienza – ma certo come curiosità, come poesia
(anch'essa verità), come intuizione e sensibilità sociale, un nuovo secolo
avventarsi contro». Grazie al lasciapassare poetico, più tenere sfumature paiono
frapporsi tra lo sguardo del regista e il paesaggio del secolo XVIII e,
proseguendo nel gioco delle immedesimazioni, tra Goldoni (ovvero il signor G.) e
la vita: infatti egli (ma verrebbe da chiedersi chi?) «si lasciò incantare da un
senso infantile, rimasto sempre in lui presente, della vita, del miracolo del
quotidiano come ''rappresentazione'' mai vista» [17].
Bisogna aspettare la stagione teatrale 1986-87 per vedere pubblicate alcune
pagine del vecchio progetto, probabilmente rielaborate nel corso di quasi
vent'anni. Le sei puntate vengono riassunte nel programma di sala preparato per
la ripresa dell’Arlecchino servitore di due padroni in quell'anno comico.
L'assunzione consapevole di un punto di vista pienamente consuntivo e la
caduta dell’impeto polemico danno luogo a una narrazione abbandonata ai ritmi
di quel quotidiano poetico che abbiamo sentito enunciare nella citazione riportata
qui sopra. Pare quasi che tutta la narrazione sia tinta dei colori che provengono
dall'ultima puntata, quella dedicata agli anni della vecchiaia. È la verosimiglianza
che richiede questo (le Memoriesono il libro di un vecchio) ma per Strehler qui la
senilità ha soprattutto un valore metaforico, costituisce la base di un ritratto
dell’artista che allude più a una rassegnazione creativa che a una decadenza
fisiologica: «G. diventa un ''vecchio'', affonda nell'età, quasi ''si lascia andare'' a
''contemplare'' e partecipare dal di fuori a ciò che avviene. Egli è, in questo
periodo, al tempo stesso ''uno di fuori che guarda'' il Mondo muoversi e il piccolo
protagonista che annota e vede con inesausta curiosità ma più non sa quasi 'far
diventare teatro' quello che vede e sente».
Nel momento in cui accentua il suo esilio simbolico dal mondo Strehler fa
emergere, in controcanto e sempre più nitida, la figura del suo doppio giovanile,
e così il ritratto dell'artista da giovane, sovrapponendosi al ritratto dell'artista da
vecchio, moltiplica all'infinito come in un gioco di specchi lo sguardo incantato
dell'autore, ora nei panni del memorialista smemorato, ora in
quelli dell'adolescente invecchiato, talvolta compresente nei due ruoli l'uno di
fronte all'altro amato. Nel sesto e ultimo episodio, quello ambientato a Parigi, lo
schema è dichiarato: «si avranno qui due piani di racconto: uno ''soggettivo'' (G.
che vede gli altri e le cose) fatto di attimi, di immagini quasi sovrapposte e senza
ordine né scopo apparente e uno ''oggettivo'' (G. in alcuni momenti capitali della
sua storia umana), fatto di momenti vissuti da protagonista» [18].
Ecco allora la suggestiva immagine del Primo Episodio in cui «il padre, grosso, in
un angolo, su una seggiolina di scena, che guarda, quasi con angoscia
consapevole, il figlio che sta facendosi grande e che senza saperlo corre, corre
verso il suo destino [...]. La meravigliosa favola dell'amicizia del grosso padre
emiliano e del piccolo, incerto e un po' nevrotico figlio» [19]. Ecco, nel secondo
episodio, la regressione dell'uomo Goldoni che scappa dal Mondo per rifugiarsi
nell'utero del Teatro, uomo che torna bambino: «G. fa le fusa quasi, come un
gatto felice. Ma allora, ma allora se la vita è cattiva, dura, piena di morte e di
brutture e di freddo, il teatro è dolce, è caldo, è buono, ''salva'' dalla vita! Sì, il
teatro è bontà, è stare insieme, via dall'infamia! Il teatro è ''un mondo fuori del
mondo'' o è ''mondo fatto per gioco'' per divertire e amare!» [20]. Ed ecco ancora
la confusione dei due piani come in un sogno, in «un'interminabile prova in cui
presente e passato sembreranno mescolarsi, confondersi, in cui il vero e il falso
non avranno quasi più confini ed in cui il protagonista sembrerà sempre più
affondare, dominato e dominatore» [21]. L'amnesia è il tratto dominante del
protagonista («Per i ''veri'' artisti passato e presente sono sempre una cosa sola»
[22]) e di molti comprimari come l'attore Casali che «si sentiva tanto
''personaggio'' da non ricordarsi più chi era veramente» [23]. E l'amnesia è
sinonimo di fuga, dal Mondo come dal Teatro, come confessa Strehler parlando
ancora una volta di G. come di se stesso: «Quando una situazione è al culmine,
G. la tronca con una fuga, rompe tutto. Così è sempre stato nella sua vita e così
sarà anche questa volta. G. distrugge tutto, improvvisamente» [24]. E anche in
questa esplosione di repentine bizze in cui al gioco succede la distruzione del
giocattolo torna lo spirito naïf che è alla base dell'immaginazione strehleriana.
Del resto, come egli stesso scrive, per lui gli attori sono «Grandi Bambini che
però giocano ogni giorno col proprio cuore davanti alla gente» [25].
Successivamente altre occasioni testimoniano che le intenzioni di Strehler di
trasformare la sceneggiatura in copione «teatrabile» diventano rapidamente
azione: dopo un'occasionale lettura pubblica del copione televisivo avvenuta nel
1989, sembra che la versione scenica sia stata terminata poco dopo «con una
rapidità estrema, in venticinque giorni» [26]. Nella conferenza stampa
di presentazione della stagione coincidente con il secondo centenario della
nascita di Goldoni (1992-1993), il regista annunciò le date delle prove dello
spettacolo (a partire dal marzo 1993), del debutto (novembre 1993) e del
successivo approdo al Teatro Studio di Milano dove sarebbe rimasto fino al
marzo 1994 [27]. Non fu così, e nella conferenza tenuta davanti agli studenti
dell'Università di Firenze il 16 marzo 1993 egli dovette ammettere il momentaneo
arresto del progetto, «un grande progetto che per ora è andato in frantumi, ed è
rimasto in sospeso: è scritto, è pronto» [28]. Ma anche il successivo annuncio, in
vista della stagione 1997-98, rimase senza seguito. Strehler morì infatti il giorno
di Natale del 1997.
3. Di quel tormentato e annoso lavoro rimane adesso un lungo testo incompiuto.
Incompiuto come ogni opera teatrale che si fermi allo stato di copione
manoscritto senza aver mai conosciuto la vita della scena, ma incompiuto anche
perché tecnicamente imperfetto. In esso figurano infatti lunghe parti di difficile
attribuzione (non si capisce se si tratta di didascalie destinate alla lettura di
un narratore, se siano appunti di regia oppure notazioni destinate ad essere
sviluppate altrimenti), alcune incongruenze nella sequenza delle azioni e nella
distribuzione
delle
battute,
ridondanze
nel dialogati,
incompiutezze
scenotecniche. Impacci che si fanno più frequenti man mano che si procede
verso la fine del copione e che sarebbero stati eliminati nel corso delle ulteriori
revisioni che la prova del palcoscenico avrebbe imposto. A consuntivo – come
sempre succede nelle regie della tradizione italiana – le varianti in corso d'opera
avrebbero snellito il testo, avrebbero oleato le giunture e lucidato le articolazioni
della macchina. Avremmo avuto un testo tecnicamente perfetto, portato a giusta
maturazione dal rodaggio scenico. Ma avremmo avuto un raccolto molto meno
ricco di quello che adesso possiamo vantare. Alle smaltate e luminose rifiniture
degli spettacoli a cui Strehler ci ha da sempre abituati avrebbe fatto riscontro
un'edizione altrettanto accurata, trascrizione consuntiva del lavoro registico, che
avrebbe nascosto tutto il lavorio di preparazione e correzione, costituito da
necessari errori, impacci, dubbi e revisioni, quale possiamo invece cogliere in
questo manoscritto ancora sospeso tra ideazione e sogno registico. Più che
una pièce uno zibaldone, come lo stesso regista-autore ebbe occasione di
ripetere più volte («Non è una biografia. Non è un saggio critico. Non è una
commedia. È tutto questo insieme» [29]), costituito, oltre che dalla normale
sequenza di battute, da un insieme di folgoranti immaginazioni sceniche, pazienti
note letterarie, appunti autobiografici e florilegi goldoniani. Il luogo principe in cui
molte intenzioni dell’autore si rifugiano sono le didascalie che quasi mai hanno
una mera funzione di servizio, aprendosi spesso a svelte figurazioni o
a parentesi narrative.
Il destino, interrompendo d'improvviso la storia di Giorgio Strehler e il suo
appressamento allo spettacolo delle Memorie, ha consegnato ai critici e agli
spettatori del suo teatro più opere in una, quasi la farcitura delle continue
metamorfosi dell’io onnisciente dell'autore: un ipertesto che alterna narrazione e
note di regia, varianti di allestimento e ricorrenti ossessioni teoriche,
suggerimenti di scenotecnica dettagliati e visioni illuminotecniche, idee spesso
destinate a rimanere virtuali ma preziose come pretesti per soluzioni registiche
ancora in gestazione. Nella trascrizione del manoscritto curata da Stella
Casiraghi si è cercato di distinguere le didascalie contenenti indicazioni
scenotecniche o recitative (riprodotte in corsivo) dagli interventi recitati del
personaggio indicato come GS (con la sigla Strehler intendeva forse segnalare la
sua ''parte in commedia'', ma non è escluso che volesse anche suggerire
l'ambigua responsabilità di un personaggio doppio Goldoni-Strehler), e questo
è stato fatto qualche volta colmando lacune evidenti del manoscritto, altre volte
riconoscendo come didascalie le descrizioni che il copione non assegna con
precisione al narratore. Quel terreno resta tuttavia cedevole e impervio,
sottoposto all'azione delle alte e basse maree determinate dall'impeto dello
scrittore-regista che così infatti ha lasciato scritto: «Insomma non ci sono
didascalie vere e proprie... Sono destinate alla lettura secondo la necessità.
Potranno essere accorciate o allungate, potranno essere lette o non lette durante
l'azione» [30]. Questo tipo di farcitura cresce con il precipitare del copione verso
la seconda metà (segno di una minore revisione, probabilmente rinviata al
momento della verifica scenica) quando, in alcuni casi, la tracimazione del
personaggio GS oltrepassa l'alveo della cornice per dilagare all'interno
delle dramatis personae: ora Strehler «compare in veste di Goldoni» al fianco
dell'attrice Maddalena Marliani finché si sdoppia («Nella platea di ghiaccio, con
ogni cosa riflessa, palco, sala, il pubblico di oggi, lui stesso e io, si svolge una
scena incredibile» [31]), ora pare assumere le vesti e le fattezze di altri (la parte
dell'ambasciatore veneziano a Parigi [32]). Sono alcuni dei segnali espliciti
disseminati dall'autore per enfatizzare un autobiografismo strategico che si infiltra
continuamente nelle fenditure del copione e dentro i diversi strati di note: così se
la vita di Goldoni secondo Strehler conserva o addirittura raddoppia i tratti
pertinenti al romanzo di formazione settecentesco, aggiunge tuttavia a questi una
più insistita volontà testamentaria che a tratti precipita in un abbandono diaristico
di taglio novecentesco quando la narrazione trascolora nella confessione se non
addirittura nel testamento intimo.
Consideriamo però questo copione anche da un altro punto di vista, come il
deposito o lo spartito di una quelle rare letture pubbliche che l'autore-regista
ebbe occasione di fare prima della sua scomparsa, in cui dette fondo a tutte le
sue straordinarie qualità di recitante, obbedendo a una vocazione attoriale a
lungo conculcata o recintata nel perimetro delle lunghe prove, ma poi riemersa
in tarda età, a cominciare dalle riletture del Faust di Goethe [33]. E allora, alla
luce di quelle ''prove'', può essere lecito collocare l'incompiuto memoriale
goldoniano, più che nel catalogo delle regie, nel novero di quel teatro di
narrazione che a partire dagli anni Ottanta ha attratto intorno a se un crescente
numero di spettatori-ascoltatori e reclutato molti attori giovani e non giovani. Mi
riferisco a quel gioco affabulatorio che ha sicuramente in Dario Fo il più grande
maestro: una voce recitante che alterna il racconto in terza persona
all'identificazione del narratore con i diversi personaggi ''narrati'' secondo una
tradizione lunghissima che risale ai secoli arcaici (quando epica e teatro erano
forme limitrofe) e che si prolunga in tutta la storia del teatro, ad esempio nelle
forme dei giullari medievali o dei buffoni e cantastorie rinascimentali. La
riscoperta di questa tecnica negli ultimi anni del secolo scorso ha coinciso con il
radicalizzarsi della crisi del teatro di regia e con il conseguente revanscismo degli
attori, ma soprattutto con il prevalere di un modello drammaturgico, in parte
demagogico e in parte spontaneo, che ha inteso ridare al performer lo statuto di
autore, con risultati ora alti e ora autoreferenziali (tra i campioni alti di questa
drammaturgia, appartenenti a diverse generazioni, conviene ricordare almeno
Marco Paolini, Laura Curino, Davide Enia, Ascanio Celestini [34]).
In questo modo il copione è diventato, nel corso del tempo, tanto
autorappresentativo quanto rappresentativo, destinato per sua natura ad essere
incessantemente riscritto, quasi un diario per interposta persona delle illusioniriflessioni di Strehler sul teatro e sul suo rapporto con la vita (anche e soprattutto
quotidiana), registrate durante una ininterrotta seduta di prove, quel
luogo misterioso e vitale in cui il regista era solito dare fondo a tutte le sue
energie creative, inventando sul posto, correggendo in corso d'opera idee e
immagini, tonalità di luci e parole incessantemente evocate. I salti logici e gli
errori che qua e là compaiono nella versione ultima (ma non definitiva) di
queste Memorie paiono fissare sulla carta le accensioni improvvise di
un'intelligenza che è prima di tutto emotiva, prerazionale, analogica, e quindi
stridente con la gabbia logico-razionale in cui la rinchiudono le procedure della
scrittura letteraria, le norme dell'editing o la buona educazione filologica. Non
queste ultime virtù dovrà perciò cercare il lettore in questo testo ma piuttosto gli
scarti di stile, le incongruenze rivelatrici, i salti temporali, le associazioni non
giudiziose. Non un copione che traccia la corretta storia di Goldoni ma un
copione che traccia il rapporto emozionale di Strehler con Goldoni e, attraverso
Goldoni, con se stesso.
4. Due sono le strutture portanti che sostengono l'edificio incompiuto di
queste Memorie in una continuità che, quasi ossessiva, percorre tutti gli episodi
fino all’epilogo. Prima di tutto l'identificazione Goldoni-Strehler che sta al centro
della drammaturgia e si riflette in una moltiplicazione e stratificazione seriale
d'immagini. Poi, quale conseguenza e costante registica che materializza
questa serialità, l'uso complesso e originale dei sipari multipli con cui il registaautore descrive nel copione la scansione dello spazio scenico e, così facendo,
anche la scomposizione della realtà in immagini raddoppiate e speculari [35].
Al centro di tutta la struttura sta dunque la dualità sintetizzata nelle sigle GS\G,
quasi un unico sintagma che unifica il protagonista come Giorgio Strehler
Goldoni. Nel binomio s'incarna il rapporto, continuamente capovolto, tra un padre
(Goldoni vecchio) e un figlio (Giorgio Strehler), ma anche tra un figlio (il giovane
veneziano non ancora diventato drammaturgo) e un padre (il regista da vecchio).
A seconda delle circostanze, sfruttando il continuo ondeggiare della memoria nel
tempo, l’autore-regista si situa dalla parte dell'uno o dell'altro ruolo, osservando
la storia ora con la venerazione nei confronti del padre della drammaturgia
italiana ora con la paterna e affettuosa simpatia per il debuttante avvocato
scrittore, trattando paternamente il giovane Goldoni oppure guardando con
compassione filiale il Goldoni senile. Questo fin dal Primo Episodio quando il
rapporto è impersonato da un Goldoni figlio, adolescente e inquieto, e da un
Goldoni padre, autorevole e bonario, di professione medico, ma affetto da vera
passione teatrale.
L'ingerenza del punto di vista dell'io narrante è confermata dall'abbondanza di
didascalie che contengono notazioni che non sono squisitamente teatrali (non
danno indicazioni pratiche per l'azione scenica), ma piuttosto narrative.
L'Arlecchino Antonio Sacchi, ad esempio, «parla in spagnolo. Non importa se è
appena tornato dalla Lusitania. Per lui è lo stesso», mentre, subito dopo,
l'apparizione di una «una strega orribile, con cappello da strega e scopa da
strega e gobba da strega» è raccontata con un'enfasi favolistica piuttosto che
con attenzione alla sua funzionalità scenica [36]. Ma anche gli accenni agli stati
d'animo (le intuizioni di Goldoni sulla rivoluzione francese, prima ancora di
partire: «non sa cosa, ma sa») oppure la sottolineatura delle profezie sociali e
politiche («Le parole hanno schioccato come una frusta e qualcosa, per un
attimo, è successo. Come un brivido, un presentimento. I visi sono quasi
allarmati») scoprono continuamente il debordare della soggettività
dell'autore nella sceneggiatura tecnica e di servizio [37].
Il tratto forse più caratteristico di questa sovrapposizione autobiografica è
l'enfatizzazione del ''male di vivere'' goldoniano. La critica si è recentemente
soffermata sui cosiddetti «vapori goldoniani» [38], quelle periodiche crisi, tipiche
degli uomini e delle donne di teatro che talvolta – ma non è il caso di Goldoni –
arrivano a trasformare il loro disagio nei confronti del ''mestiere'' pubblico in vere
e proprie fughe dal palcoscenico, come fu per Eleonora Duse, verso più ritirati e
solitari esili, ai limiti dell'ascesi [39]. Neanche quelle di Strehler furono fughe
verso l'ascetismo, ma certo, nelle forme più contenute di un laico contemptus
mundi, anche lui sentì spesso il bisogno di esiliarsi rispetto al mondo dello
spettacolo. E quando, al momento di lasciare il teatro Sant'Angelo per il San
Luca, sottolinea che Goldoni «è pronto per un'altra fuga, una delle sue tante»
[40], ci pare di sentire risuonare in quella frase un'eco di valutazioni strettamente
personali. Tanto più che il riferimento alla malattia nevrotica, quei citati «vapori»,
non solo appare fin dal Primo Episodio di questo copione quando il personaggio
rievocato da Goldoni e da Strehler è ancora giovane, ma acquista un
rilievo fortemente sottolineato: «Quella volta fui colpito, per la prima volta, da
grave malattia. Soffrii, si può dire, sempre da allora, e fieramente, la malattia dei
vapori neri; effetti ipocondriaci crudeli che mi lasciavano incapace di qualsiasi
azione. Essi arrivavano all'improvviso e se ne andavano così, come erano venuti.
E l'unico rimedio appariva il tempo e la dolcezza di coloro che mi stavano vicino»
[41]. Ritorna quel motivo, quasi raddoppiato e enfatizzato, grazie
all'accostamento dello scrittore ad un altro personaggio nevrotico, Teodora
Medebac, quando, all'inizio del terzo Episodio, i due sono rappresentati come
«due malati di nervi [che] si guardano curiosamente, si studiano con un poco di
amore e un poco di odio», davanti a un palcoscenico sinistramente deserto,
popolato solo da «un ometto con una specie di gabbanella grigia e un tricorno
abbastanza malandato [...]. Ogni tanto butta da un fiasco di paglia, spruzzi
d'acqua su mucchietti di segatura che poi sparge e raccoglie, sparge e raccoglie
con la sua scopa. Immemore del mondo, l’ometto continua il suo lavoro. [...] Pare
quasi una marionetta senza fili». Come lui, più tardi, sempre in quel teatro vuoto,
«nel fondo, Zanetto passa con un campanello. Suona e chiama gli attori da una
quinta all'altra» [42]. La scena, da deserta, si popola di nuovo, in un alternarsi di
pieni e di vuoti che rispecchia felicemente la sequenza di esaltazione e
depressione propria del mestiere comico. Così con un procedimento opposto –
ma sempre rappresentativo della nevrosi teatrale – alla pienezza delle
improvvisazioni acrobatiche e fantasmagoriche dell'Arlecchino Sacchi e dei suoi
bambini succede il mutismo e il nulla: «I comici sono rimasti soli. C'è una specie
di rimpianto nell'aria, G. se ne accorge, perché anche lui è pensieroso,
teneramente pensieroso». Prima, «la scena di prova sempre un poco squallida
[si era illuminata] soltanto per la presenza dell'uomo piccolo, in maschera con la
sua così straordinaria simpatia e vitalità», accompagnato dai suoi sei bambini,
vestiti alla russa, ma mascherati da piccoli Arlecchini: insieme avevano costruito
una pira-mide vivente, avevano fatto acrobazie su un palcoscenico luminoso,
dove «tutto corre, vive, salta, gira sempre più rapidamente», e davanti a «un
fondale con un meraviglioso giardino fiorito, con fontane luccicanti, fontane che
buttano finta acqua dalle quinte, fuochi, girandole multicolori» [43].
Di queste alternanze di passione e depressione, di generosità e paranoia, è fatto
il battito del cuore teatrale, dietro il quale si accampa il basso continuo
dell'esistenza umana, ora tragica e ora soltanto grottesca. A questo secondo
registro appartengono le scene da incubo onirico o da farsa grossolana che
vedono Goldoni combattere contro i suoi nemici teatrali, il conte Carlo Gozzi e
l'abate Pietro Chiari nella seconda parte del Quarto e all'inizio del Quinto
Episodio [44]; al primo registro appartengono la morte della giovane attrice
Bacherini, annunciata nel bel mezzo di una messinscena tragica e in costume,
cui segue una fuga goldoniana nel letto matrimoniale [45]; il compianto funebre
dedicato all'attore Angeleri, «ipocondriaco come lui» e suo «compagno di vapori»
[46]; la rappresentazione della crisi isterica di Teodora Medebac, «tramortita a
terra [...] distesa sulla schiena con un lamento continuo, muovendo la testa in
qua e in là, ormai fuori di sé in preda a uno strazio che la scuote, la fa tremare,
con i pugni chiusi che battono sul legno del palco»; a conclusione di questa crisi
Strehler imbastisce un balletto rituale: «un piccolo corteo composto da un prete e
quattro chierichetti, di passaggio per caso, dopo una ''benedizione natalizia'' da
qualche chiesa vicina. L'assurdo e il tragico della scena, là, nel teatro impuro, il
prete, i chierici bambini, i ceri, i turiboli con l'incenso, l'aspersorio e l'attrice in
preda ad una crisi nervosa»; come scrive Strehler «Tutto è tragico e ridicolo al
tempo stesso» [47]. Decisamente tragico, senza venature comiche, il
commento all'episodio che lo stesso autore aveva tracciato nel trattamento per la
televisione: «L'assurdo atto si svolge sulla scena de La locandiera: gli attori, i
preti che leggono il libro degli esorcisti, Teodora crollata a terra che
improvvisamente a quelle pratiche infami risponde rifugiandosi nella sua
infantilità. E si mette a giocare come una bambina con le croci, l'acquasantiera,
l'incenso, i campanelli dei preti. L'ultima immagine che avremo di Teodora è
questa. Sapremo poi che Teodora è morta a 36 anni, di tisi. Sapremo che
Teodora non fingeva. O fingeva solo un poco» [48]. Solo gli applausi paiono in
grado di guarire, anche se in modo effimero, quella malattia professionale e
privata, e Strehler ce ne offre un vero e proprio ''concerto'' alla fine del Terzo
Episodio, quando i battimani sono moltiplicati dalla caduta e dall'ascesa dei
sipari, per ben sedici volte, tante quante le commedie scritte e rappresentate
nell'anno in cui Goldoni volle sfidare pubblico e detrattori: «E trombette e
stelle filanti e coriandoli e una invisibile piccola orchestra che suona e gli
spettatori tutti in piedi nell'applauso. Insomma la grande festa del Teatro quando
è festa! Il mondo pare che finisca tutto lì. Scende il sipario per l'ultima volta. La
luce si spegne» [49].
L'autore-regista assegna al sipario il compito di cadenzare l'alternanza di
illusione comica e disillusione quotidiana, in altre parole di orchestrare il ritmo e il
montaggio del suo copione e di organizzare l'azione scenica. Sipari distinguono
infatti le diverse zone dello spazio che bisogna probabilmente immaginare
collazionando il copione di Strehler con la pianta del Teatro Studio di Milano. Il
pubblico si dispone sui gradoni e sui ballatoi a forma di U, la scena è dunque in
platea finché non si solleva il primo sipario, il sipario della vita, il diaframma che
chiudendosi esclude dal presente, ora senile e ora quotidiano, l'avventura
liberissima e artificiosa del teatro, o che aprendosi ci trasporta invece in un
palcoscenico dove trionfa l'immaginazione sognata-vissuta-rammemorata. Qui
talvolta l'azione e la vita ''ricreata'' si moltiplicano per gemmazione. Sulla scena
all'italiana cala infatti talvolta un altro sipario, questa volta però bianco e azzurro
(è il velo del sogno), oltre il quale si può traguardare un'altra scena, in fondo alla
quale si situa un altro sipario, ma questa volta visto da dietro, come se noi
spettatori ci trovassimo nel retropalco, e quindi oltre quel sipario – quando si apre
– si intuiscono le luci o le ombre di un'altra platea e di altri palchi. In questo modo
lo spettatore sarebbe stato posto di fronte a una prospettiva speculare (pubblicopalcoscenico-pubblico) in fondo alla quale ci sarebbe stato lui stesso a
sottolineare la struttura di una drammaturgia metateatrale, di volta in volta messa
in moto o accelerata dal ritmo perpetuo di questi sipari, allo stesso tempo
simbolici e funzionali, inseparabile ciascuno dagli effetti illuminotecnici come in
uno dei primi montaggi a ''dissolvenza incrociata'' che troviamo nel Primo
Episodio: «La voce si perde in sussurro di sonno vecchio. La voce si
addormenta. E nel palcoscenico, come per miracolo, le spirali della macchina
''per fare il mare'' cominciano a girare. Prima adagio, poi sempre più
velocemente, sempre più presto. E la barchetta si inclina sempre di più nel vento,
e improvvisamente, dal sottopalco nasce uno spruzzo di coriandoli d'argento che
si apre a ventaglio nell’aria. Di colpo si chiude lieve palpitando un sipario bianco
e azzurro e il Teatro sparisce»; a questo punto la voce di Strehler narratore
accompagna la dissolvenza: «Alta luce, con sole ed aria. Mattina d'aprile. L'Italia
nel sole e nel mare. Al centro della Platea/Vita/Teatro appare rapido l'albero
scuro con una grande vela bianca di una barca immaginaria che si riempie di
vento ed un coro umano di donne e uomini che si muovono in fretta in mezzo
a bauli e ceste e tele dipinte, finti giardini e finte colonne tenute ferme da pesi di
teatro e che stanno per salpare nel vento come aquiloni incredibili» [50]. Talvolta
invece nella stessa platea è il tempo della vita economica e prosaica che si
organizza, lì o in proscenio si muovono gli impresari aristocratici e borghesi (il
conte Prada, il capocomico Imer) con cui Goldoni deve negoziare il suo lavoro,
lì agisce o giace in poltrona il vecchio Goldoni tra un sonnellino e un ricordo, lì si
muove anche il giovane Goldoni immerso nella vita prosaica dell'avvocato
funzionario, mentre sul palcoscenico salgono – oltre il Sipario della Vita – una
scena dopo l’altra, come regìe o sceneggiature suggestive, altri frammenti della
vita rammemorata. In questo modo se la memoria si fa teatro è però il teatro con
le sue risorse materiali e le sue tecniche illusionistiche (soprattutto
l'illuminotecnica) a riorganizzare la struttura della memoria di cui i sipari sono i
motori, quasi le palpebre di uno sguardo continuamente eccitato, il cui aprirsi e
chiudersi fa succedere il giorno alla notte e nel quale si imprimono i sortilegi
grafici e coloristici di una lanterna magica: «il Sipario della Vita. Il primo di tutti.
Neutro, quasi trasparente, di una materia delicata e mobile. Non velo. Stoffa con
carta che può però palpitare un poco. Non rappresenta nulla ma può diventare
un cielo anche con nuvole o una nebbia, un tramonto, una notte, un muro di
interno semplice. È questione di uso e luce» [51]. Luce che è naturalmente
decisiva ad aprire e chiudere ogni parentesi di sogno: «Si apre il Sipario della
Vita e solo il cielo e la luna piena. Una piazza di Verona a notte. Come in un
sogno» [52]; «Appare un palcoscenico vuoto come lo sono tutti i palcoscenici
vuoti del mondo, in una luce di mattina con pochi raggi di sole che penetrano da
qualche finestra malchiusa. [...] Poche sedie qua e là, un piccolo divano, una
cassa da una parte, un pezzo di scena, appena inchiodato e il suo misterioso
disegno geometrico di legni incrociati con sapienza. Sul proscenio, un treppiede
di ferro con una grossa candela accesa, manda poca luce. Polvere che brilla qua
e là, nei raggi del sole» [53].
A questa struttura corrisponde un andamento metateatrale di tutto il copione. Se
il soggetto narrante è sempre Strehler anche quando è Goldoni a raccontare,
l'oggetto del racconto e della messinscena è prevalentemente il teatro stesso
[54] che con la sua durata nel tempo («come sempre sarà, per sempre», dice
Strehler [55]) pare risarcire la finitezza della vita umana. Il copione si apre con la
descrizione delle ''rovine'' di un teatro (quasi la materializzazione della senilità del
protagonista), ma tutto quel che segue è la cronaca descrizione di una
messinscena sognata e celebrata come un culto magico o religioso con
l'applicazione di enfatizzanti maiuscole non solo alla parola Teatro ma a tutta la
sua costellazione semantica (dal Sipario al Velo del Sogno, dal Sipario della Vita
al Teatro alla Vita stessa). La teatralizzazione delle prove è il motivo conduttore
di tutto il testo teatrale. Era quello il tempo e il luogo in cui il regista Strehler
ritrovava spesso, avendo come spettatori i suoi attori, la sua libertà, attore lui
stesso, abbandonato a quell'indole nativa che come regista aveva spesso
soffocato per poter dirigere e guidare al meglio gli altri (non solo gli attori, ma
anche i tecnici, gli attrezzisti, la sartoria, i datori luci, la stessa produzione).
Assistiamo così, nel Secondo Episodio, a divertenti prove di teatro musicale con
castrati e buffi all'italiana, «madri» e ballerini, un tenore tedesco e un Maestro di
musica napoletano: «un bestiario» che – per Strehler – ha «qualcosa di tragico e
di disperato», mentre in tutto il Terzo Episodio lo sguardo si sbizzarrisce a
osservare il processo creativo e il lavoro dell'immaginazione stando ora dietro e
ora di lato al palcoscenico. La messinscena di se stesso come regista-attore nei
panni di Goldoni consente a Strehler di riconciliare le sue funzioni di direttore e di
recitante. Si veda anche l'uso di testi come La casa nova, Il teatro comico, Una
delle ultime sere di Carnovale o I rusteghi che vengono smontati, spezzettati
durante lunghe sedute di prove ''non filata''. Le scene sono talvolta tagliate
abbondantemente, talvolta appena sfoltite e sveltite, talvolta intercalate a dialoghi
che si svolgono in proscenio, a suggerire lo stato immateriale, onirico, o appunto
memoriale di quelle figure, quasi soprassalti nella memoria del vecchio Goldoni
che ora volta le spalle e ora si appiglia a quelle ombre («Quando voltano le
spalle, il gioco continua attenuato, ma rigoroso, lieve, sicuro. Le voci diventano
un sussurro, con esclamazioni: ''Oh! Eh! Ah!''. Qualche risata. Una parola più
forte come se fosse sfuggita. Non è solo un'azione mimica. È la commedia che
passa, ora forte, ora sommessa. Più rapida del normale» [56]). Ma quelle ombre,
a loro volta, contengono altre rievocazioni memoriali (la nostalgia con cui Lucietta
rievoca a Sgualdo le ore, i giorni e le notti passate nella vecchia casa «e se
devertivimo, e se consolevimo un pochetin» [57]; l'autobiografico addio a
Venezia di Anzoletto in Una delle ultime sere di Carnovale), secondo un sistema
di specchi che moltiplica le immagini in una ipertrofia del ricordo: l'abbandono
della casa vecchia per la «casa nova» o la partenza di Anzoletto per Moscovia
alludono alla partenza di Goldoni per Parigi, ma anche ai frequenti volontari
''esili'' di Strehler. E si veda anche il raddoppio delle parti recitate: durante il
monologo di Domenica «noi ci accorgiamo, improvvisamente, che forse,
quell'attrice che recita la parte di Domenica, Domenichetta, Checca, è la stessa
attrice che nello spettacolo sta recitando la parte di Nicoletta Connio Goldoni. La
tenera, la parca Nicoletta con gli occhi che dicono tutto da soli» [58]: e Strehler è
abile nel lasciar scolorare le lacrime teatrali dell'una sulla figura della moglie di
Goldoni e quindi suggerendo – di rinterzo – una sovrapposizione del personaggio
Anzoletto, del personaggio Goldoni (G.) e di se stesso (GS): una ridondanza
drammaturgia che consente di dare un'enfasi speciale al sipario che chiude
l'episodio, con il monologo di Anzoletto che l'autore-regista mette in bocca a
Goldoni, per non dire a se stesso, mentre Anzoletto stesso balla con Domenica
(ma si tratta di Nicoletta) un ballo senza musica («girano, girano immemori del
Mondo e del teatro. E cala il sipario del San Luca per noi e per sempre. Si fa luce
nella platea e nel teatro, dove c'è G. con gli occhi pieni di lacrime») [59].
Il progetto irrealizzato di mettere in scena le replicate memorie sue e di Goldoni
era, per Giorgio Strehler, prima di tutto l'estremizzazione di una poetica
metateatrale, ma era anche la riaffermazione del teatro come luogo della
memoria. Perché il teatro è prima di tutto la rappresentazione di una memoria
che si costituisce a pegno di vita futura. Strehler si è messo nei panni di Goldoni
non per ricostruire in modo filologicamente corretto la vita di Goldoni né per
saggiare, sulla pelle e nella mente di un grande suo alter ego, il punto di vista
dell'artista da vecchio, né per fare un consuntivo delle sue idee intorno a Goldoni.
Aveva ripreso in mano questo romanzo autobiografico per scoprire – attraverso
le testimonianze di un altro grande uomo di teatro – quale rivelazione e
quale immaginazione creativa possano scaturire dalla memoria. Questi ricordi
(suoi? di Goldoni?) sono le tracce della ricerca, per sua natura destinata a
rimanere incompiuta, dei fuochi vitali che l'artista da vecchio ha tentato ancora
una volta di attingere come un Prometeo nell'età senile. Per chi non vide mai i
suoi spettacoli queste memorie possono servire a intravedere un riflesso della
luce di quei fuochi.
NOTE
[1] «Il vecchio sta morendo e il nuovo non può nascere: in questo interregno appaiono in grande varietà dei sintomi
morbosi». Il commento a questa frase, al film, all'opera di Mozart e alla ''fase storica'' che questa rappresenta si trova in L.
Zorzi, Parere tendenzioso sulla fase (Il ''Don Giovanni'' di Mozart come ''Werk der Ende''), in Id., L'attore, la commedia, il
drammaturgo, Torino, Einaudi, 1990, pp. 315-328 (ma il saggio è del 1981). Tutte le frasi di Zorzi sono citazioni tratte da
questo saggio.
[2] Cfr. G. Strehler, Per un teatro umano. Pensieri scritti, parlati e attuati, a cura di S. Kessler, Milano, Feltrinelli, 1974, pp.
94-95.
[3] Sulla cronistoria di questo lavoro rimando a quanto scrive Stella Casiraghi alla densissima nota 1 del Primo Episodio
delle Memorie(cfr. più oltre p. 44). Per le numerose riprese del lavoro di ''sceneggiatura'' e per i commenti al continuo
lavoro di revisione cfr. G. Strehler, Goldoni ''genio della vita''. Idea critica base per la IV puntata televisiva, in Id., Per un
teatro umano, cit., pp. 84-93 (è uno scritto desunto da appunti intorno al 1970), ma anche Id.,Shakespeare Goldoni
Brecht, a cura di G. Soresi, Milano, Piccolo Teatro di Milano-Teatro d'Europa, pp. 67-82 (comprende: La sceneggiatura
dei ''Mémoires'', già pubblicato in «Rivista Piccolo Teatro», a. I, n. 2, dicembre 1977-gennaio 1978, e Goldoni, articolo
apparso in «Corriere della Sera» il 23 marzo 1982).
[4] La documentazione di quell'avvenimento è tuttora affidata ad un nastro registrato conservato presso il Dipartimento di
Storia delle Arti e dello Spettacolo dell’Università degli Studi di Firenze, cfr. Appendice III.
[5] Per la valutazione di questa crisi da parte del regista cfr. almeno G. Strehler, Per un teatro umano, cit., pp. 49-83; ma
cfr. anche Io, Strehler. Una vita per il teatro. Conversazione con U. Ronfani, Milano, Mursia, 1977, pp. 221-224; un altro
cenno a questo passaggio della sua vita Strehler lo ha fatto nel suo ultimo intervento, in Les Quatre Cités du Théâtre
d’art, in Le cités du théâtre d’art de Stanislavski à Strehler, ouvrage collectif sous la direction de G. Banu, Paris, éditions
théâtrales, 2000, p. 14 (in questo stesso volume cfr. anche S. Ferrone, Le Piccolo Teatro di Milano: ''communauté'' et
bottega e G. Banu, ''Le Piccolo, c’est une histoire de théâtre d’art'', pp. 269-284).
[6] Cfr. in particolare lo scritto Incontro con Bertolt Brecht, in G. Strehler, Per un teatro umano, cit., pp. 101-125.
[7] Sull'argomento cfr. anche Appendice II.
[8] Cfr. quanto Strehler dichiara in ''Goldoni sono io'', intervista pubblicata in «La Stampa» del 22 novembre 1991, ora in
G. Strehler,Intorno a Goldoni. Spettacoli e scritti, a cura di F. Foradini, Milano, Mursia, 2004, pp. 236-237.
[9] G. Strehler, Goldoni ''genio della vita'', cit., p. 85.
[10] Ivi, p. 87.
[11] Ivi, p. 92.
[12] Ivi, p. 87.
[13] Ivi, pp. 92-93.
[14] Ibidem.
[15] Ivi, p. 91.
[16] G. Strehler, Intorno a Goldoni, cit., pp. 240-241.
[17] Per tutte le citazioni riportate qui sopra cfr. ivi, pp. 278-279 (l'articolo era apparso sul «Corriere della Sera» il 13
marzo 1982).
[18] Per le due citazioni cfr. ivi, p. 257.
[19] Ivi, p. 242.
[20] Ivi, p. 245.
[21] Ivi, p. 247.
[22] Ivi, p. 248.
[23] Ivi, p. 249.
[24] Ivi, p. 253.
[25] Ivi, p. 286.
[26] Si veda quanto da lui dichiarato nella lezione tenuta all'Università di Firenze il 16 marzo 1993, cfr. Appendice III, p.
279.
[27] Cfr. l'intervista raccolta da «Hystrio», gennaio-marzo 1989, in cui Strehler annuncia la «lettura di qualche pagina di
quel lungo trattamento [...] che ho pensato fosse giusto portare a conoscenza del pubblico» (ivi, p. 238), nonché gli altri
scritti riprodotti ivi, pp. 281-287.
[28] Appendice III, p. 280. Tra le ragioni del rinvio non è secondario ricordare la vicenda giudiziaria che vide Giorgio
Strehler imputato, e poi pienamente assolto, fra il settembre 1992 e il marzo 1995.
[29] Cfr. più avanti nel testo di queste Memorie, Primo Episodio, p. 3.
[30] Da un'annotazione di Giorgio Strehler citata da S. Casiraghi,Nota del curatore, nota 1, p. XXXVI.
[31] Ivi, Quarto Episodio, p. 141 e la nota 4 dello stesso episodio, p. 171.
[32] Cfr. l'Epilogo delle Memorie, pp. 240-243.
[33] Si veda su questo argomento S. Ferrone, Strehler, in «Drammaturgia», n. 5 (1998), pp. 7-15.
[34] Cfr. sull'argomento il recente Dossier. Teatro di narrazione, a cura di C. Cannella, in «Hystrio», n. 1, XVIII (2005), pp.
2-37.
[35] Per una puntuale analisi dei sipari previsti cfr. in questo volume l’Appendice I.
[36] Cfr. Quinto Episodio, pp. 177-178.
[37] Quinto Episodio, p. 193.
[38] Cfr. almeno C. Alberti, L'archivio della malinconia, in Id., La scena veneziana nell'età di Goldoni, Roma, Bulzoni,
1990, pp. 157-195 e S. Ferrone, Il personaggio Goldoni, in «Il Castello di Elsinore», VI (1993), n. 17, pp. 5-12.
[39] Sul tema osservato nel comportamento di attori soprattutto francesi (ma un capitolo è dedicato anche alla Duse) si
veda A. Villiers, Le Cloître et la Scène. Essais sur les conversions d'acteurs, Paris, Nizet, 1961.
[40] Quarto Episodio, p. 141.
[41] Primo Episodio, pp. 37-38.
[42] Rispettivamente Terzo Episodio, pp. 87, 83, 90.
[43] Cfr. Terzo Episodio, pp. 116-120.
[44] Cfr. in particolare Quarto Episodio, pp. 142-152, 160-166 e 177-178.
[45] Cfr. Terzo Episodio, pp. 109-111.
[46] Quarto Episodio, pp. 154-155.
[47] Cfr. Quarto Episodio, rispettivamente pp. 141-144 e p. 142.
[48] Il brano è riportato integralmente nella nota 5, pp. 171-172 del Quarto Episodio.
[49] Terzo Episodio, p. 127.
[50] Primo Episodio, pp. 6-7.
[51] La citazione fa parte di una descrizione della materia e del significato di questi sipari contenuta in appunti dattiloscritti
di Strehler risalenti al 1992 e riportati nella nota 11, p. 46 del Primo Episodio.
[52] Secondo Episodio, p. 72.
[53] Terzo Episodio, p. 83.
[54] Il teatro è guardato meno con lo sguardo lucido dello storico che con quello del militante (riaffiora un'interpretazione
marxista e idealista della drammaturgia goldoniana come fiancheggiatrice delle aspirazioni del popolo borghese, cfr.
Quarto Episodio, pp. 156-157), con qualche venatura populista (Quinto Episodio, p. 193) e con una certa passione
polemica che coinvolge Carlo Gozzi (Quarto Episodio, p. 161), ma anche la scena (Primo Episodio, p. 37) e la storia
contemporanea (a p. 160 del Quarto Episodio gli scappa un anacronistico «fascisti»).
[55] Terzo Episodio, p. 85.
[56] Quinto Episodio, p. 200.
[57] Secondo Episodio, p. 182
[58] Quinto Episodio, p. 203.
[59] Quinto Episodio, p. 214.