Silvia Rodeschini - Governare la Paura

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JOHANNA BOURKE, PAURA. UNA STORIA CULTURALE,
TRADUZIONE DI BARBARA BAGLIANO, ROMA, EINAUDI
2007
Silvia Rodeschini
Università di Bologna, Dipartimento di Filosofia, [email protected]
Il titolo di questo saggio è estremamente ambizioso e se dovessimo
valutarne la riuscita in base alle aspettative che esso suscita nel lettore
certo bisognerebbe dire che il suo risultato è estremamente modesto.
Quest’opera, infatti, non restituisce né una storia della paura tout court né
sostanziali elementi di definizione della cultura nell’ambito della quale
questo stato d’animo viene preso in esame. Ma non avrebbe senso
giudicare l’intero lavoro in base agli eccessi altisonanti evocati dal titolo.
Al contrario, una volta operate alcune restrizioni del campo di indagine
questo saggio fornisce interessanti elementi analitici per chi desidera
sviluppare ricerche su particolari paure o sulla relazione che le fobie
intrattengono con la sfera sociale e politica. La prima restrizione è
cronologica: l’autrice evoca, ricostruisce e, in molti casi, racconta vicende
che hanno avuto luogo tra la metà dell’Ottocento e l’età contemporanea
e fa ruotare i grandi mutamenti cui la paura e la sua percezione vanno
incontro intorno alle svolte rappresentate dai conflitti mondiali del
Novecento. La seconda è, invece, geografica: l’ampio novero delle teorie
e dei fatti esposti dall’autrice è collocato tra Inghilterra e Stati Uniti e non
contempla, perciò, analisi di fenomeni di vasta portata quali l’uso politico
del terrore nei regimi politici fascisti e nazisti, né un’analisi comparata di
eventi simili che hanno riguardato culture tra loro diverse. Il taglio dato
alla ricerca non produce, tuttavia, affatto un effetto di appiattimento
dell’oggetto ma al contrario consente all’autrice di redigere excursus su
Governare la paura – 2008, maggio
Silvia Rodeschini
differenti paure che mettono vieppiù in risalto la natura poliedrica di
questo stato d’animo, delle sue manifestazioni e delle teorie di volta in
volta destinate a contenerla e governarla.
Il libro si articola così in undici capitoli, raggruppati in cinque parti,
che non rispondono nel loro ordine ad una particolare scansione
cronologica, che tuttavia costituiscono – se presi ciascuno per sé – ad
attente ricostruzioni di peculiari oggetti sui quali il timore si concentra o
su teorie e risposte elaborate per fronteggialo. Si va perciò dalla peculiare
fisionomia della paura della morte nell’800 e dal ruolo della paura, per
noi scomparsa, della sepoltura prematura, alle analisi sviluppate nelle
politiche pubbliche per disciplinare il movimento degli individui in
contesti di grave minaccia1 (parte I, Mondi di sventura, pp. 23-76). La
ricerca si addentra poi nella storia della psichiatria e della psicologia
sociale illustrando gli studi sullo sviluppo delle paure infantili, sulle
pratiche del loro contenimento e disciplinamento affidate di volta in
volta a madri e bambinaie, sulle differenti interpretazioni del fenomeno
degli incubi e sui trattamenti clinici cui venivano sottoposte le pazienti–
giacché si trattava in larga parte di donne– ritenute «fobiche» con
particolare attenzione all’imporsi della lobotomia come forma di cura
(parte II, Sfere di incertezza, pp. 79-163). Il libro prosegue la sua carrellata
su due particolari eventi della storia della cultura contemporanea che
sono stati particolarmente rivelatori dei processi di diffusione della paura
a livello sociale e del mutato contesto definito dalla diffusione dei mezzi
di comunicazione di massa: l’autrice, infatti, mette a fuoco il problema
del ruolo dei media nella costruzione delle percezioni sociali delle paure
affrontando le tanto inusitate quanto impreviste reazioni del pubblico
L’esempio ampiamente descritto riguarda il comportamento degli spettatori durante
l’incendio all’Iroquois Theatre di Chicago il 30 novembre 1903 e quello che divampò il
16 giugno 1883 al Victoria Hall di Sunderland in Inghilterra
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alla trasmissione di Ronald Knox Broadcasting from the Barricades2 (andata in
onda sulla BBC il 16 gennaio 1926) e La guerra dei mondi di Orson Wells
(andata in onda il 30 ottobre 1938 su CBS). Particolare rilevo viene in
questo contesto dato alla correlazione tra le circostanze di incertezza in
cui la società inglese e quella americana si trovavano in quel periodo e il
sorprendente credito che viene tributato a queste opere di fantasia:
l’autrice, infatti, tende qui come nella restituzione di altri episodi a
sottolineare la natura imprevedibile dello scatenamento delle fobie
collettive, di cui restituisce tanto il lato drammatico quanto quello
comico. Ed è proprio sulla natura dell’imprevedibilità dei fenomeni che
scatenano paure collettive che l’autrice lavora nel restituire il dibattito
sulla paura durante il secondo conflitto mondiale e in coincidenza delle
trasformazioni del modo di condurre gli affari bellici nel Dopoguerra
(messo a punto nella parte III, Zone di confronto). In questo contesto,
infatti, Bourke attraverso l’analisi tanto della letteratura prodotta dalla
medicina militare quanto di quella che doveva indicare il giusto
atteggiamento delle autorità nei confronti della popolazione civile in
occasione di bombardamenti sui centri urbani, mostra come buona parte
delle predizioni formulate durante e dopo il primo conflitto mondiale
siano state largamente disattese: mentre negli anni ’20 si riteneva che un
conflitto che coinvolgesse le popolazioni civili avrebbe dato vita ad
episodi di panico tanto forte da risultare incontrollabili per l’autorità, in
realtà la popolazione civile di Londra proprio negli anni dei
bombardamenti a tappeto da parte della Luftwaffe più che temere la morte
mostrava di temere i black out o la possibilità di perdere i propri
congiunti. La popolazione civile si mostrò, perciò, particolarmente salda
nel mantenere la sua routine isolando gli episodi dell’attività bellica in cui
era coinvolta anziché porli al centro della propria visione del mondo (in
La trasmissione di Knox metteva in scena una rivolta che conduceva all’impiccagione
di un ministro del regno ad opera di una folla inferocita guidata da un personaggio che
era indicato come il capo del movimento per l’abolizione delle code a teatro.
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particolare il cap. VIII Civili sotto attacco). Parimenti i militari mostravano
di temere molto di più armi che percepivano come sorprendenti, come le
granate, anziché quelle che gli lasciavano meno chance di sopravvivere,
qual è il caso delle mitragliatrici (cap. VII Combattimento).
Nell’ottica dell’autrice e nell’analisi delle fonti documentarie che scegli
di considerare, questo atteggiamento cambia radicalmente con l’inizio
dell’epoca della cosiddetta guerra fredda: la paura della morte per
contaminazione radioattiva e dell’inizio di un nuovo conflitto in cui
venissero impiegati armamenti nucleari hanno segnato la seconda parte
del Novecento e hanno espressamente lavorato ad una costruzione
dell’immagine di un nemico onnipresente ed insidioso, che certo ha
contribuito a legittimare alcune politiche pubbliche di ambo le parti (cap.
IX Minacce nucleari). Il libro contiene inoltre due capitoli, che
costituiscono l’ultima parte del libro, in cui vengono messe a tema la
paura del cancro (cap. X Corpo) e quella della criminalità (a sfondo
sessuale e non) (cap. XI Gli estranei) che cercano di discutere due delle
importanti paure diffuse nella società odierna, insieme all’ultima, e
attualissima, paura del terrorismo, cui è dedicata la conclusione
(Conclusione, Terrore).
L’andamento della ricostruzione non fa emergere un particolare
leitmotiv nell’analisi ma è soprattutto teso a cogliere i modi, i luoghi e i
termini nei quali la paura viene raccontata come paura vissuta, viene
studiata dalle scienze che di volta in volta se ne occupano e a sondare gli
assunti impliciti che i diversi ordini del discorso contengono. Non c’è
quindi una teoria della paura, o una linea esplicativa univoca che metta in
ordine le differenti forme di quello che di volta in volta si chiama panico,
timore, angoscia, terrore, paura. Tuttavia il libro contiene interessanti
piste di analisi, soprattutto nelle parti che legano i differenti capitoli:
ciascuna delle parti di cui si è detto è, infatti, corredata da una postfazione che fa il punto sulle questioni più generali che le singole analisi
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rilevano, ed è proprio qui che si trovano le osservazioni più interessanti
sul piano teorico. Esse tendono a mettere a fuoco la natura ambigua della
paura, che emerge come la principale difficoltà che si riscontra nel
tentativo di interpretarla esaustivamente.
La prima ambiguità risiede nell’oscillante posizione che le definizioni
assumono nell’alternativa natura-cultura. Per un verso, infatti, la paura è
unanimemente intesa come uno stato d’animo che contiene un elemento
di naturalità e risponde ad un’esperienza che tutti gli uomini fanno, per
altro verso, però, è anche costruita, poiché tanto il modo in cui viene
vissuta quanto quello in cui viene espressa sono filtrati da discorsi e
discipline prodotti dalla cultura (pp. 73-76; pp. 290-293).
La seconda ambiguità emerge nel tentativo di circoscrivere la nozione
di paura e di differenziarla da quelle che nella storia culturale le sono
contigue (angoscia, terrore, fobia etc.). Il tentativo che l’autrice
attribuisce a Freud,3 ma che probabilmente è molto precedente,4 di
distinguere la paura dall’angoscia presumendo che la prima indichi «una
minaccia immediata, oggettiva», mentre la seconda si riferisce a «una
minaccia attesa, soggettiva» mostra la corda quando questi concetti
vengono trasposti sul piano storico: secondo l’autrice, infatti, la
possibilità di ridurre l’angoscia a paura dipende direttamente dalle
capacità di cui si dispone di calcolare i rischi ed, eventualmente, di
fuggire, possibilità questa che è legata, non da ultimo, alla posizione che
si occupa nelle relazioni di potere all’interno delle comunità storiche (p.
192; pp. 359-360).
S. Freud, Introduzione alla psicanalisi, Torino, Borighieri 1976, pp. 547-548.
Questo genere di distinzione si riscontra, per esempio, anche nella differenza tra crainte
e peur nelle voci curate da Jaucourt per l’Encycopédie di Diderot e d’Alembert v.
l’Encycopédie ou Doctionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, ar une société de Gens
de Lettres. Mis en ordre et public par M. Didertot […] et quant à la partie
mathématique par M. d’Alembert […], Paris, Briasson, David, le Breton, Durand;
Neuchâtel, S. Faulche, 1751-1765; su questo tema v. L. Delia, Polisemia della nozione di
Paura nell’Encycopédie, «Governare la paura», in preparazione.
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La terza di queste caratteristiche da giano bifronte della paura
riguarda, infine, il ruolo che essa gioca nei processi di costituzione
dell’identità: nonostante, infatti, essa abbia non di rado dato vita a
fenomeni di stigmatizzazione di gruppi o particolari individui, secondo la
nota dinamica del «capro espiatorio» – tesa ad imbastire soluzioni fittizie
in mancanza di soluzioni adeguate – e nonostante il fatto che nella
seconda metà del ‘900 dalla diffusione dell’incertezza sia scaturita una
forma di individualismo che rasenta la misantropia, la paura – come tutte
le emozioni – svolge un ruolo fondamentale nella negoziazione dei
«confini tra il sé e l’altro o tra una comunità e un’altra» (p. 358). Essa è,
dunque, un’emozione adattiva che contribuisce a formare l’identità
individuale e a collocare ciascuno entro l’ordine sociale. Non è, quindi,
solo il risultato di rapporti di potere ma anche un elemento determinante
per la loro fisionomia. In quest’ottica la paura appare come un’emozione
che «anima le relazioni tra individuo e gruppo sociale» (p. 360) e tende,
per questa sua natura creativa, a sfuggire in ultima istanza a categorie che
pretendono di conferirle una forma cristallizzata come quelle di genere,
classe o etnia.
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