SOCIOLOGIA ECONOMICA II. Temi e percorsi

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SOCIOLOGIA ECONOMICA
II. Temi e percorsi contemporanei (Carlo Trigilia)
CAPITOLO 1
L’EREDITA’ DEI CLASSICI E I NUOVI CONFINI TRA ECONOMIA E SOCIOLOGIA
Nel volume primo di Sociologia economica abbiamo ricostruito gli sviluppi della sociologia
economica nel periodo che va dal 1890 al 1940. Questa prospettiva di analisi guarda
all’interdipendenza tra fenomeni economici e sociali e cerca di collocare l’economia nell’ambito
della società e delle sue trasformazioni. In questo capitolo ricostruiremo anzitutto, sinteticamente,
gli aspetti essenziali dell’eredità dei classici (Sombart, Weber, Schumpeter, Durkheim, Veblen,
Polanyi) per la definizione dello spazio analitico della sociologia economica. Che cosa distingue la
sociologia economica dall’economia? E quali sono i contributi specifici di questo approccio allo
studio dei fenomeni economici?
Nella seconda parte del capitolo, affronteremo la questione dei confini tra economia e sociologia
che si definiscono nel secondo dopoguerra, e prenderemo in considerazione i fattori di natura
teorica e storica che hanno influito sui rapporti tra le due discipline e sull’evoluzione della
sociologia economica.
1. LA PROSPETTIVA METODOLOGICA
Quando l’economia si era affermata come disciplina, in particolare con la “grande sintesi” di Adam
Smith, lo studio dei fenomeni economici non era isolato dal contesto sociale. Sappiamo che negli
sviluppi successivi l’economia si liberò progressivamente dai riferimenti a aspetti culturali e
istituzionali, nel tentativo di avvicinarsi agli standard di rigore e generalizzazione propri delle
scienze naturali. Questo percorso raggiunse il suo culmine con la “rivoluzione marginalista” degli
anni 1870. È a quel punto che lo studio dei fenomeni economici si separa programmaticamente dal
contesto culturale e istituzionale e si concentra sullo studio delle “leggi” del mercato, isolato
analiticamente dal contesto sociale.
Prende così forma un nuovo paradigma dell’economia
caratterizzato da una serie di elementi chiaramente delineati:
1) la concezione dell’economia: l’attività economica è considerata come un processo di
allocazione razionale di risorse scarse, impiegabili per finalità alternative, da parte di soggetti
che cercano di ottenere il massimo dai mezzi di cui dispongono (lavoro, reddito) per soddisfare i
loro obiettivi, sia di lavoro che di consumo, cioè le loro utilità (attività economica =
economizzare);
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2) l’azione economica: l’azione è motivata dal perseguimento razionale dell’interesse individuale.
Nella sfera della produzione, i soggetti cercano di massimizzare il guadagno; nella sfera del
consumo cercano di massimizzare il soddisfacimento delle loro preferenze di consumo,
concepite secondo un ordine di priorità stabile e coerente, impiegando le risorse di reddito di cui
dispongono. Ne discende dunque che l’azione economica è condizionata da motivazioni
utilitaristiche. Vi è anche una visione atomistica dell’azione economica (cioè le preferenze di
lavoro e di consumo dei soggetti si formano indipendentemente dall’influenza di altri soggetti).
La formazione dei fini è considerata come un aspetto esogeno rispetto all’indagine economica,
che non deve occuparsene;
3) le regole: l’azione è influenzata da un nucleo limitato di regole (esistenza di mercati di tipo
concorrenziale; elevato numero di acquirenti e di venditori; libero scambio dei fattori produttivi;
piena informazione ai soggetti sulle offerte dei mercati per poter calcolare razionalmente). Si
studiano anche i casi in cui ci si allontana da queste regole (es. mercati monopolistici,
oligopolistici). Si tiene conto anche di istituzioni non economiche, come lo stato, ma si
considera che la sua esistenza non deve intralciare il mercato con le sue regolamentazioni ma
deve soltanto tutelare i contratti tra privati e combattere le frodi (anche lo stato è un dato
esogeno);
4) il metodo di indagine: è analitico-deduttivo e normativo. Si parte dagli assunti prima chiariti
(motivazioni atomistiche e utilitaristiche) e se ne valutano le conseguenze, date certe condizioni
prevalenti nelle regole. Può dar luogo all’applicazione di sofisticate tecniche matematiche per la
dimostrazione degli esiti. Il carattere normativo del metodo si riferisce al fatto che esso fornisce
anche dei criteri guida per l’allocazione razionale delle risorse, date certe condizioni. Menger e
Pareto sottolineano che la validità scientifica dei risultati è garantita dalla dimostrazione logica
degli esiti che discendono da determinate condizioni, a prescindere quindi dalla piena
riscontrabilità sul piano empirico di tali condizioni.
Vediamo come la sociologia economica dei classici abbia sviluppato una prospettiva relativamente
coerente e organica che si distingue da quella prevalente nell’economia dell’epoca:
1) la concezione dell’economia: i sociologi economici sono tutti interessati a guardare
all’economia di mercato come un fenomeno storico caratterizzato da un particolare contesto
istituzionale, e per questo preferiscono in genere parlare di capitalismo. Cercano di distinguere
tra i vari tipi di economia per comprendere come prende forma il capitalismo liberale, perché si
sviluppa in alcuni luoghi e non in altri; insomma la diversità nello spazio e nel tempo è al centro
del loro interesse e non si identifica esclusivamente con le attività regolate dal mercato. Essi
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vogliono studiare come l’economia si organizzi in forme differenti nello spazio e nel tempo,
influenzate dalle istituzioni economiche e non economiche;
2) l’azione economica: l’azione orientata alla ricerca dei mezzi di sussistenza non è
necessariamente costituita dall’allocazione razionale di risorse scarse. I sociologi economici
attaccano l’atomismo dell’economia neoclassica (dove fini dei singoli soggetti si formano
indipendentemente gli uni dagli altri). L’azione economica deve invece essere vista come
azione sociale, influenzata da aspettative relative al comportamento degli altri membri della
società (tali aspettative in Weber prendono la forma di usi, costumi, norme giuridiche). Questo
modo di concepire l’azione economica è sostanzialmente condiviso da tutti i nostri autori, sia
che essi diano maggiore enfasi all’autonomia e alla libertà degli attori rispetto alle regole
istituzionali (come Sombart, Weber, Schumpeter), sia che partano invece dalle istituzioni e ne
sottolineino maggiormente i condizionamenti sui soggetti (come Durkheim, Veblen, e Polanyi).
L’azione degli individui può avere natura non utilitaristica e dipendere, per esempio, da valori
religiosi (Weber), dal grado di marginalità sociale (Sombart), dalle forme della divisione del
lavoro e della disuguaglianza sociale (Durkheim, Weber, Polanyi), dai caratteri della famiglia o
dalle forme di organizzazione dell’impresa (Schumpeter).
Nella realtà concreta l’azione
economica ha dunque di solito una pluralità di motivazioni che possono essere ricostruite solo
per via induttiva, con l’indagine storico-empirica e sempre con difficoltà;
3) le regole: i sociologi economici considerano i fenomeni istituzionali diversi dal mercato in due
direzioni (da un lato vi è il riferimento a istituzioni economiche che si fondano su obbligazioni
sociali condivise, come la reciprocità di Polanyi, lo scambio su base tradizionale di Weber;
dall’altro le istituzioni di regolazione politica dell’economica come la redistribuzione di
Polanyi, l’economia di piano o cooperativa di Sombart, il gruppo regolativo e quello
amministrativo di Weber, oppure i sindacati, la criminalità organizzata, ecc.). Le forme concrete
che assume l’attività economica nello spazio e nel tempo sono dunque influenzata dal modo in
cui queste diverse istituzioni regolano le attività di produzione, distribuzione e consumo, e
condizionano l’azione dei soggetti;
4) il metodo di indagine: mentre in economia si parte da assunti a priori circa le motivazioni
utilitaristiche degli attori e la presenza di determinate condizioni di funzionamento dei mercati, i
sociologi cercano di ricostruire attraverso l’indagine empirica i caratteri specifici dell’azione
economica, vista come possibile espressione di motivazioni non utilitaristiche, o anche come
combinazione tra elementi utilitaristici e altre spinte di natura diversa (tradizionali, affettive o
ideologiche). Gli autori che abbiamo esaminato cercano anche di mettere a fuoco, sempre con
l’indagine storico-empirica, le regole effettivamente presenti in un determinato contesto. Ne
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2. UN SERBATOIO DI IPOTESI
Il carattere storicamente orientato dei modelli di analisi classici fa sì che non si possano ricavare dai
nostri autori generalizzazioni teoriche che vadano al di à di coordinate spaziali e temporali
delimitate; tuttavia, sarebbe sbagliato non cogliere una serie di ipotesi, convergenti e coerenti tra
loro, che emergono dai lavori esaminati in precedenza. Prendiamo in considerazione tre temi: il
mercato, lo sviluppo e il consumo.
2.1 Il mercato
Distinguiamo analiticamente due aspetti che abbiamo visto trattati con enfasi e impegno.
Il processo di costruzione del mercato capitalistico
Nel pensiero economico si ritiene in genere che le relazioni di mercato si diffondano per la loro
efficienza rispetto ad altre modalità di organizzazione economica, cioè per la capacità di soddisfare
le preferenze dei singoli a costi più bassi. Si tratta di una spiegazione che parte dai singoli soggetti
piuttosto che dalle istituzioni che ne condizionano l’azione. Col tempo, i vantaggi del mercato per i
singoli finiscono per far maturare anche quelle motivazioni e quelle istituzioni che sono congruenti
con il buon funzionamento del mercato stesso, e ne accrescono la legittimità.
La legittimità è proprio al centro della spiegazione dei sociologi economici: il mercato, per potersi
affermare come strumento di regolazione dell’economia, deve essere anzitutto socialmente
accettato, ma questo non è un esito scontato. Sombart e Weber, riguardo allo studio sulle origini del
capitalismo in Occidente, si sforzano di mostrare la complessa serie di fattori culturali e istituzionali
che rendono legittimi, incoraggiano e sostengono i rapporti di mercato (religione, stato, diritto,
città, scienza moderna). In altre parti del mondo invece la cultura e le istituzioni si oppongono e
resistono al mercato. Per Durkheim i rapporti di mercato come strumento di organizzazione
dell’economia richiede “certe variazioni dell’ambiente sociale”. Per Polanyi e Marx invece il
processo non è pacifico e può comportare l’uso della forza (enclosures) e del potere politico.
La sociologia economica è più interessata ai problemi dell’equità del mercato reale, mentre
l’economia si concentra su quelli dell’efficienza, dando per scontato che un mercato pienamente
concorrenziale risolverebbe anche problemi di equità (ciascuno avrebbe delle ricompense
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proporzionali al suo contributo). Quindi per i sociologi i benefici no vanno interpretati solo in
termini di maggiori possibilità di accesso materiale ai beni, ma anche come accresciuta libertà di
scelta sia nell’impiego del proprio lavoro che nel consumo (soprattutto Simmel e Weber).
Non c’è dubbio però, per gli economisti come per i sociologi, che il mercato, una volta affermatosi
come meccanismo di regolazione, tenda progressivamente a ridurre lo spazio di altre istituzioni
nella sfera delle attività economiche: dalla famiglia alla parentela e alla comunità locale, dalle
corporazioni allo stato. Ma fino a che punto i mercato può essere libero da regolamentazioni sociali
e politiche senza che ne venga compromesso il suo stesso funzionamento?
Le condizioni del funzionamento del mercato capitalistico
Sappiamo che nella visione dell’economia neoclassica si suppone l’esistenza di individui ben
informati, moralmente affidabili, e capaci di calcolare razionalmente il modo ottimale di soddisfare
le loro preferenze. Essi si muovono in un contesto di regole fatte dalla piena commerciabilità di tutti
i beni e di tutti i fattori produttivi e dalla presenza di molti venditori e molti acquirenti. In questo
quadro, il ruolo di regole sociali (es. reciprocità) o politiche (come forme di redistribuzione legate
allo stato o alle corporazioni) è visto come un potenziale fattore di distorsione dell’allocazione
razionale delle risorse, e quindi dell’efficienza.
La tradizione della sociologia economica ha sviluppato un metodo più legato all’indagine storicoempirica e dunque problematizza gli assunti a priori della teoria economica. Gli individui non sono
normalmente ben informati e capaci di calcolo razionale, e non sono tutti moralmente affidabili; i
mercati non sono sempre pienamente concorrenziali (es. chi offre lavoro può influire sulle
condizioni a proprio vantaggio). Weber, seguendo Marx, parla infatti di lavoro “formalmente
libero” e di “sfruttamento monopolistico della libertà formale di mercato”.
Quindi la realtà storico-empirica ci porta a sostenere che il mercato può funzionare meglio se ci
sono delle istituzioni che vincolano il perseguimento dell’interesse individuale accrescendo la
legittimità (il grado di accettazione sociale dei rapporti di mercato). Ce ne sono di due tipi:
istituzioni che generano fiducia per via di interazioni personali (famiglia, parentela, comunità) o di
interazioni impersonali (sanzioni giuridiche per chi viola i contratti); istituzioni che riequilibrano i
rapporti di potere sul mercato (es. rapporti squilibrati nel mercato del lavoro possono mettere a
rischio le stesse attività produttive abbassando la produttività dei lavoratori; sono dunque importanti
istituzioni di rappresentanza collettiva dei lavoratori, oppure l’intervento regolativo dello stato sulle
condizioni di lavoro, orari, lavoro minorile, salute, sicurezza; interventi regolativi di redistribuzione
del reddito).
Possiamo concludere dicendo che la tradizione sociologica arriva a una posizione contrastante con
quella dell’economia neoclassica. Poiché nella realtà la presenza delle condizioni assunte dagli
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economisti è inevitabilmente poco probabile, per funzionare meglio, in termini di efficienza, i
mercati non devono essere il più possibile isolati da condizionamento sociali e politici, ma devono
viceversa essere ben costruiti socialmente. È anche vero che, come sottolineano Weber e
Schumpeter, se tali vincoli eccedono una certa soglia (non definibile in astratto) lo stesso mercato
può deperire come forma di organizzazione economica. Se il peso delle regolamentazioni genera
aspettative negative in chi detiene il controllo dei mezzi di produzione, possono essere
compromessi gli investimenti necessari alla riproduzione delle attività regolate dal mercato. La
preoccupazione degli economisti non va dunque sottovalutata.
Ma per la sociologia economica il problema non va risolto sul piano teorico bensì su quello
empirico. Le forme di legittimazione del mercato possono variare nello spazio e nel tempo; ci sono
società nelle quali la cultura e le istituzioni prevalenti legittimano, o addirittura esigono,
un’autonomia del mercato maggiore ed accettano quindi le conseguenze sociali che possono
derivarne (disuguaglianza sociale, mobilità territoriale). Weber infatti ha indagato sulle specificità
della società occidentale rispetto a quella orientale; ma anche all’interno del contesto occidentale
possiamo distinguere tra società anglosassoni, dove l’autonomia del mercato è più forte (specie
Stati Uniti) e quelle europee, dove si sente l’esigenza di limitare l’autonomia del mercato per
controllarne meglio le conseguenze e per legittimarlo.
Insomma, non c’è una best way, ma ci sono varie strade, tutte condizionate dal contesto sociale.
Soltanto l’indagine empirica comparata può aiutarci a indentificarle e a valutarne i rispettivi punti
di forza e di debolezza.
2.2 Lo sviluppo economico
Nella tradizione della sociologia economica una più solida accettazione sociale del mercato è una
condizione non solo della stabilità, ma anche della crescita di un’economia che si basi sul mercato.
Per spiegare lo sviluppo economico non è sufficiente che il mercato sia legittimato, ma bisogna
valutare in che misura gli attori economici, che si comportano in modo variabile, usino gli scambi
di mercato per creare nuova ricchezza, uscendo dalla routine dei rapporti tradizionali e consolidati;
insomma, è necessario che alla legittimità si affianchi l’innovazione.
Per i classici la capacità innovativa dipende fondamentalmente dall’imprenditorialità (per dirla con
Schumpeter, dalla capacità di realizzare nuovi prodotti, processi, metodi di organizzazione della
produzione, mercati). Schumpeter sottolinea come l’imprenditore sia caratterizzato da qualità
particolari che permettono meglio di misurarsi con i problemi connessi all’innovazione
(determinazione, capacità di visione, impegno, voglia di affermarsi e di riconoscimento sociale).
Non si tratta di perseguimento razionale dell’interesse individuale.
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In generale, la sociologia economica suggerisce che lo sviluppo dipende, oltre che dal istituzioni
che danno legittimità al mercato, regolando il perseguimento utilitaristico dei mezzi rispetto ai fini,
anche da istituzioni che definiscono i fini stessi dei soggetti.
La religione in Weber e Sombart, l’esclusione dai diritti di cittadinanza in Simmel e Sombart,
l’accesso alle conoscenze tecnologiche in Veblen, sono tutti esempi di questo ruolo costitutivo delle
regole istituzionali, rispetto a quello regolativo delle istituzioni di cui abbiamo prima parlato a
proposito dei problemi di legittimità del mercato, e che riguarda l’uso dei mezzi per il
perseguimento dei fini.
Tuttavia, occorre ricordare che in genere per i classici l’impatto dell’imprenditorialità sulla capacità
di innovazione e quindi sullo sviluppo economico deve essere storicizzato. Essi vedevano, proprio
come conseguenza dello sviluppo del capitalismo, una crescente spersonalizzazione e
burocratizzazione dell’impresa, che spostava dall’imprenditorialità personale alla capacità
organizzativa, la capacità di innovazione.
La tradizione della sociologia economica contribuisce anche a mettere in evidenza un problema
strutturale dell’economia capitalistica: una volta affermatosi, il mercato determina la progressiva
erosione di quelle regole costitutive che inizialmente l’avevano sostenuto (religione, istituzioni o
legami tradizionali, ecc.). Ciò accentua nel tempo i problemi di accettazione sociale delle
conseguenze del mercato e spinge alla crescita di nuove regole regolative (intervento dello stato in
campo economico e sociale, relazione industriali, ecc.). A questo punto si ripresenta quella
possibile contraddizione di cui abbiamo prima parlato: quella tra regolazione istituzionale del
mercato e efficienza; dal punto di vista dinamico, e quindi in termini di sviluppo economico, un
eccesso di regolamentazione può andare a scapito della capacità innovativa. Questa ipotesi, ricavata
dal lavoro dei classici, permette di orientare comparazioni storico-empiriche che affrontano il tema
delle differenze nello spazio e nel tempo dello sviluppo economico.
2.3 Il consumo
Sappiamo che questo fenomeno non era al centro dell’interesse degli economisti classici, la cui
prospettiva era più centrata sulla produzione. Con i neoclassici è invece la domanda dei
consumatori a fondare il valore dei beni attraverso la teoria dell’utilità marginale. Dati i vincoli
costituiti dai prezzi dei beni e dal reddito di cui dispone, il consumatore tenderà a distribuire il suo
potere d’acquisto in modo esattamente proporzionale alle sue preferenze. Assumendo che la
soddisfazione legata a un certo bene diminuisca con il consumo di unità aggiuntive (utilità
marginale), si ipotizza che verrà consumato di più di tale bene fino a quando la soddisfazione
aggiuntiva non uguaglierà quella degli altri beni che si vogliono consumare.
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