Mediazione penale e mediazione civile a confronto: dalla giustizia riparativa alla giustizia ragionevole 1. Le origini e le ragioni della mediazione: la patologia del rapporto interpersonale L'osservazione dell'esperienza quotidiana insegna che alle origini del processo si situa sempre la patologia di un rapporto. Infatti, la pratica giudiziaria che popola i tribunali postula, di per sé, delle condotte antigiuridiche: il diritto e la legge, in altre parole, sono da sempre stati intesi culturalmente come dei rimedi posti a fronte di ingiustizie che, vere o presunte, sono vantate da singoli consociati nei confronti di altri. In conseguenza di ciò, la cultura giuridica occidentale ha comportato l'adozione del principio secondo il quale le parti hanno bisogno di rivolgersi ad un terzo, il giudice, per domandare salvezza da uno stato di cose da loro ritenuto ingiusto 1, in quanto espressione di un'asimmetria intollerabile. La patologia del rapporto fra consociati viene risolta così alla luce del processo, provocando come paradosso un conflitto ulteriormente esacerbato, che viene semplicemente traslato dal regno dei fatti a quello del diritto 2. In tal senso, si può indubbiamente ritenere vera l'espressione di Carl Schmitt secondo la quale la guerra unisce, mentre il diritto divide3: infatti, quando lo Stato assume il monopolio della decisione sul conflitto4 automaticamente legittima il conflitto stesso, assicurando ai difensori il monopolio della lite. Tuttavia, l'esito di quest'interpretazione predominante ed orograficamente sedimentata nella nostra cultura, secondo cui l'ordinamento diviene un sistema di rimedi a fronte di ingiustizie, è degenerato di recente in forme che nemmeno l'Occidente ha saputo prevedere, non immaginando ad esempio la trasformazione del diritto stesso in sistema autopoietico e autoreferenziale5, macchinoso e burocratico. Il destino del diritto occidentale, detto altrimenti, è consistito in un radicale allontanamento dall'uomo e della sua dimensione relazionale: infatti, spesso, la giuridicità è intesa non come forma di avvicinamento ad alterum, ma è invece interpretata secondo la logica del contra alterum. Di qui la necessità del giudizio che, distinguendo e separando, riconosca torti e ragioni. La domanda che ci si deve porre criticamente a questo punto è se questa logica della decisione del conflitto sia l'unica ad essere ad avere diritto di cittadinanza, a livello culturale, nel nostro ordinamento o se sia possibile praticare altre vie6. In realtà, la risoluzione del conflitto rimessa alla decisione di un terzo di per sé presuppone una delega a quest'ultimo, il quale decide sulla questione promossa delle parti in causa. Se lo si vuole cogliere nella sua essenza, il problema del processo è dunque una modalità 1 S. COTTA, Il diritto nell'esistenza.. Linee di ontofenomenologia giuridica, Giuffré, Milano, 1985 e F. D'AGOSTINO, Filosofia del diritto, Giappichelli, Torino, 2000. 2 In effetti quelle che M. TARUFFO, La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Laterza, Roma-Bari, 2009 definisce narrazioni processuali sono solo angolazioni prospettiche del thema decidendum che spesso non sono tese alla ricerca della verità, ma solo alla vittoria della causa. 3 C. SCHMITT, Terra e mare, trad. it., Adelphi, Milano, 2002. 4 Sullo Stato come monopolista della decisione, cfr. E. RESTA, Il diritto fraterno, Laterza, Roma-Bari, 2002, p. 71. 5 Così, ad esempio, sostiene G. TEUBNER, Il diritto come sistema autopoietico, trad. it., Giuffré, Milano, 1996. 6 È questo l'augurio che esprime chiaramente A. LOVEJOY, La grande catena dell'essere, trad. it., Feltrinelli, Milano, 1966 quando afferma: “i moduli di pensiero dominanti nell'età nostra, che alcuni di noi sono inclini a considerare chiari e coerenti, saldamente fondati e definiti, difficilmente agli occhi delle prossime generazioni potranno sembrare tali”. di risoluzione della patologia del rapporto che de-responsabilizza le parti in causa. Queste ultime, infatti, assegnano la decisione del caso al giudice, frapponendolo nella loro relazione interpersonale., volendo che il terzo decida presupponendo la validità di spettanze vantate dalle parti confliggenti, ma non gestite da queste ultime. La mediazione, in questo senso, costituisce una rielaborazione critica della dimensione processuale sia in ambito civile che in quello penale, poiché evidenzia in primo luogo una riappropriazione del problema relazionale da parte di coloro che lo hanno posto. È evidente, peraltro, che l'istituto della mediazione si declini in modo qualitativamente diverso a seconda che si tratti di area civile o penale, data l'eterogeneità delle due prospettive. In ogni caso, è necessario esaminare quali siano i punti di differenza fra l'una e l'altra modalità di risoluzione alternativa delle controversie, tenendo presente che entrambe rappresentano i principali strumenti ermeneutici per una riflessione critica sulla realtà del processo e sulla sua interpretazione culturale da parte dei consociati. 2. La radici della mediazione penale: la teoria retributiva Il diritto penale ha conosciuto la mediazione solo in un periodo di tempo relativamente recente7, essendo delimitata peraltro solo a determinati settori: le resistenze che ne hanno determinato l'avvento, in effetti, dipendono essenzialmente da una concezione del diritto penale improntato sulla teoria retributiva, secondo la quale l'alterazione dell'ordine giuridico prodotta dal reo può essere ripristinata solo infliggendo a quest'ultimo una pena adeguata al fatto illecito commesso8. Indipendentemente dal tipo di sistemi processuali, che possono essere di stampo inquisitorio o accusatorio, l'idea della pena in ogni caso permea di sé l'intera dottrina penalistica 9. Gli spazi per la mediazione, in questo senso, sono molto circoscritti, se non del tutto assenti o screditati10, anche perché essa potrebbe operare solo prima che il reato venga commesso, secondo i principi della teoria general-preventiva e special-preventiva. Secondo quest'interpretazione, l'autore dell'illecito penale può essere inibito nel commettere il reato grazie alle agenzie di socializzazione (famiglia e scuola, principalmente) che, appunto, mediano in senso preventivo fra il soggetto che può diventare reo e la società che potrebbe essere lesa dall'illecito. La mediazione però in questo modo non assumerebbe il suo significato forte di riparazione di un danno prodotto dal singolo nei confronti della società, ma si limiterebbe ad operare nei confronti di soggetti virtuali (il potenziale reo e la potenziale società lesa). In realtà, come sopra accennato, l'esperienza italiana ha conosciuto l'ingresso della mediazione penale in alcuni settori ben specifici, come il processo 7 Le prime esperienze di mediazione penale sono state avviate a Torino nel 1995, interessando poi altre sedi come Milano, Bari e Trento, dando attuazione alla Raccomandazione 87/20 emanata dal Consiglio d'Europa il 17 settembre 1987, che aveva previsto per i minorenni l'opportunità di uscire dal circuito giudiziario e la ricomposizione del conflitto attraverso forme di mediation. 8 Per una riflessione critica sulla teoria retributiva, cfr. F. D'AGOSTINO, La sanzione nell'esperienza giuridica, Giappichelli, Torino, 2005. 9 In questo senso, cfr. il classico della teoria retributiva F. MANTOVANI, Diritto penale, Cedam, Padova, 1992. Per un'efficace critica della concezione retributiva della pena, cfr. I MARCHETTI-C. MAZZUCATO, La pena “in castigo”. Un'analisi critica su regole e sanzioni, Vita e Pensiero, Milano, 2006. 10 C'è chi, come E. WIESNET, Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita, trad. it., Giuffré, Milano, 1987, addirittura sostiene che la teoria retributiva, dominante nella cultura occidentale, sia un tradimento rispetto alla dimensione di una giustizia intesa come riconciliazione, appartenente di fatto alla dimensione della cultura ebraicocristiana. penale minorile ed i reati bagatellari dinanzi al Giudice di Pace. Si è assistito, detto altrimenti, ad un superamento della concezione puramente retributiva del diritto penale senza interpretare, tuttavia, la mediazione in senso special-preventivo e general-preventivo. 3. Gli ambiti della mediazione penale come forma di giustizia riparativa Inizialmente proprio il processo penale minorile, inteso come teatro per il recupero educativo dei giovani rei, si è prestato nella prassi ad essere l'istituto-chiave entro il quale veniva promossa la mediazione penale. La struttura del processo minorile, infatti, si riconnette al principio enunciato all'art. 27 della Costituzione, secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione del condannato: si assiste, così, alla responsabilizzazione e alla crescita del minore autore del reato, interpretato come soggetto con una personalità in fieri, che deve cogliere dell'esperienza processuale oltre che il carattere retributivo anche l'aspetto educativo. L'incontro con la vittima da parte dell'autore del reato, sotto questo profilo, è pedagogicamente importante anche perché fa scoprire, come sostiene Wright, che non si risponde solo di qualcosa, ma si risponde anche a qualcuno 11. Non è un caso, dunque, che la mediazione penale sia sorta alle origini proprio nell'alveo del processo minorile, il cui organo giudicante è composito perfino a livello strutturale, essendo orientato a comprendere le ragioni del gesto del reo non solo nel suo significato giuridico, ma anche sotto il profilo psicologico, sociologico e pedagogico. A livello procedurale la mediazione penale, in quanto assolutamente volontaria, viene attivata solo su impulso della vittima e del reo: in questo senso il ruolo del mediatore non consiste solo nel comporre una lesione del tessuto sociale, ma anche – come si vedrà – nel valutare se esistano le condizioni perché ciò avvenga12. La mediazione penale prende avvio da parte dell'autorità giudiziaria che relaziona sul caso che costituisce oggetto di questa forma di giustizia riparativa. Le ipotesi statisticamente più frequenti sono quelle inerenti il delitto di lesioni denunciate alla Procura della Repubblica territorialmente competente, per cui si procede alla sospensione del procedimento penale e all'invio del caso ad un centro di mediazione secondo un duplice criterio: il particolare impatto emotivo, da un lato, e la natura relazionale del caso, dall'altro. Gli uffici di mediazione sono composti da vari soggetti che si contraddistinguono per differenziate professionalità: infatti, all'interno di questi contesti lavora un'équipe composta da giuristi, sociologi e pedagoghi. Non appena l'ufficio di mediazione affida il caso ad un mediatore, questi invia delle lettere alle parti in cui si propone un incontro preliminare individuale, dove si illustra la dinamica e la funzione dell'istituto. Al termine di questa fase, il mediatore intraprende dei 11 M. WRIGHT, Justice for Victims and Offender, Waterside Press, Winchester, 1996. 12 Ciò differenzia, in modo essenziale, la mediazione penale da quella civile, introdotta dal D.lgs. 28/2010 per due ordini di ragioni: in primo luogo, perché la mediazione civile è anche obbligatoria e non solo volontaria e, in seconda battuta, perché il ruolo del mediatore non è valutativo in modo così penetrante come nel caso della mediazione penale. Infatti, il mediatore civile si limita a verificare in presenza delle parti se sia possibile proseguire o meno il componimento bonario della vertenza, senza che a questo spetti una decisione sulla prosecuzione della conciliazione. In altre parole, ogni valutazione sulla capacità a mediare, presente nella mediazione penale, è invece totalmente assente nel caso della mediazione civile. Data la minore gravità delle lesioni, che interessa le vertenze in sede civile rispetto a quelle penali, infatti il legislatore ha imposto la mediazione obbligatoria, postulando di per sé una responsabilità delle parti a mediare, non delegando al mediatore tale scelta, ma anzi esortando le parti stesse alla ricerca di soluzioni alternative al giudizio. contatti telefonici con il reo e con la vittima per organizzare il colloquio preliminare: qualora le parti accettino di avviare la mediazione penale, il mediatore incontra separatamente l'autore del reato e la vittima. Il colloquio preliminare in ogni caso avviene alla presenza di due mediatori, il case manager e un altro mediatore, ed è proprio quest'ultimo a gestire il primo colloquio, la cui funzione è duplice: infatti, da un canto viene illustrata cosa sia la mediazione penale e, dall'altro, si assiste alla narrazione unilaterale dei fatti. Da ultimo, proprio durante colloquio preliminare le parti si possono rendere disponibili ad una sessione congiunta. Se c'è l'accordo, si fissa l'incontro di mediazione, che avviene alla presenza di tre mediatori se le parti sono due; talvolta, tuttavia, è possibile che il numero dei mediatori sia di cinque quando si collabora con baby gang o con due vittime. In ogni caso, gli unici momenti programmati nella mediazione penale sono quello dell'accoglienza, dove si chiede alle parti di esporre i fatti uno alla volta, e quello in cui il mediatore sintetizza le narrazioni delle parti. Proprio nella sintesi si trapassa dal livello fattuale della mediazione a quello psicologico e simbolico: e qui scaturisce la fase della crisi in cui la lesione del tessuto sociale si esprime in massimo grado. In particolare, la crisi – assente nella maggior parte dei casi di mediazione o, se esistente, comunque molto attenuata – è consustanziale all'esistenza stessa della mediazione penale: infatti è il momento in cui la vittima grida e in cui si attende un riconoscimento di responsabilità da parte del reo. Per stemperare il clima di tensione prodotto da questa fase il mediatore poi pone delle domande fuori del problema posto dalle parti, che riguardano gli altri contesti esistenziali della persona: in questo modo si consente l'uscita dai ruoli da parte del reo e della vittima, attingendo entrambe le parti ai medesimi territori simbolici (calcio, musica, etc...). Se si fuoriesce dalla crisi, dunque, si supera il conflitto mediante la fase del riconoscimento e, finalmente, della riparazione materiale o simbolica. In caso contrario, l'esito della mediazione penale sarà negativo o incerto e di ciò il mediatore si premura di dare comunicazione all'autorità giudiziaria. Oltre alla mediazione penale in ambito minorile, con l'ingresso dell'art. 29 del D.lgs 274/2000 il legislatore ha esteso l'istituto in questione anche ai reati bagatellari, ossia a quelle particolari fattispecie penali che impongono, nella loro particolare tenuità anche sotto il profilo sanzionatorio 13, una semplificazione del rito ed un ampio spazio alla conciliazione. Il giudice di pace, durante il corso di tutto il procedimento, deve favorire per quanto possibile la conciliazione fra le parti. I reati, infatti, sono in questo caso un sintomo della microconflittualità fra privati e spesso non coinvolgono interessi collettivi. Proprio per queste ragioni, inerenti in particolare la tenuità della lesione, i reati attribuiti alla competenza del giudice di pace sono procedibili a querela della persona offesa dal reato e ciò giustifica, qualora si attivi il meccanismo della mediazione penale, che la soluzione del conflitto avvenga mediante la remissione della querela stessa. Talvolta, invece, si impone al reo di intraprendere delle condotte riparatorie, a fronte delle quali si definisce il rito con una sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato. 4. La mediazione civile come forma di giustizia ragionevole: analogie e differenze con la mediazione penale 13 Le fattispecie penali coinvolte sono quelle di competenza del giudice di pace, come sopra detto, e dunque riguardando principalmente ingiurie, diffamazione, minacce, percosse, lesioni personali lievissime. Alla luce di quanto sopra esposto in ordine alla mediazione penale, si deve stabilire se il D.lgs. 28/2010, che ha introdotto un'articolata normativa in materia di mediazione civile, abbia recepito i caratteri propri dell'istituto applicato nell'ambito del diritto minorile e dei reati di competenza del giudice di pace ovvero se la mediazione civile abbia delle peculiarità distinte ed indipendenti. In realtà, prima ancora di rispondere a tale quesito, è opportuno individuare – come già è stato fatto relativamente alla mediazione penale – la ratio che sostiene la disciplina introdotta con la novella legislativa sopra citata. La mediazione civile postula in se stessa un problema contingente, ma anche culturale: infatti essa non si pone, come la mediazione penale, quale forma di giustizia riparativa, poiché non presuppone una drammatica e, talvolta, tragica patologia del rapporto interpersonale. Piuttosto la mediazione civile funziona in senso preventivo e migliorativo rispetto ad un rapporto già deteriorato, al fine di evitare, appunto, ulteriori peggioramenti nella relazione interpersonale: detto altrimenti, il fondamento della riforma legislativa dipende dal dato statistico dell'alto tasso di litigiosità in Italia 14, nonché dalla macchinosità del sistema giuridico inteso nel suo complesso15. La rivoluzione copernicana introdotta con il D.lgs. 28/2010, in questa prospettiva, si basa su un assioma, ossia che l'uomo non sia rappresentato solo dal diritto e dalla legittimità delle pretese esso porta con sé 16, ma anche dal dialogo e, soprattutto, dalla ragionevolezza. Mentre nella cultura giuridica dell'Occidente fino ad ora si riteneva che fosse la ragione a dirimere le controversie, poiché il giudice con le sue argomentazioni razionali sostanzialmente decideva chi aveva ragione e chi aveva torto, con la mediazione civile invece si fa un passo ulteriore sulla base del principio di ragionevolezza. Come nella mediazione penale il fine era la riparazione di un danno causato dal reo17, al contrario in sede civile la mediazione diviene essenzialmente una forma di tutela delle parti dal diritto. Molto spesso, infatti, le patologie interpersonali di questo tipo sorgono per l' apparente inconciliabilità fra interessi e motivi fra di loro contrapposti, prima ancora che per dei diritti pretesi dalle singole parti. Ancor più di frequente, inoltre, emerge che la contrapposizione fra interessi e motivi dipende da una comunicazione interpersonale cattiva, carente o ambigua, che si presta all'equivoco e al malinteso18. Tutto ciò genera irrigidimenti psicologici nelle parti che si traducono, di conseguenza, in spettanze giuridiche. Il paradosso ultimo è, per utilizzare 14 Così ritiene A.M. BERNINI BOVICELLI, Le A.D.R.: strumento per risolvere la crisi della giustizia? in D. MARINELLI (a cura di), Temi di mediazione, arbitrato e risoluzione alternativa delle controversie (A.D.R.), Università degli Studi E-Campus, Novedrate, 2010, pp. 17 ss. 15 Su questo aspetto del diritto, interpretato come macchina e meccanismo, insiste in particolare N. IRTI, Nichilismo giuridico, Laterza, Roma-Bari, 2004. Proprio alla luce dell'ermeneutica di Irti è possibile, pertanto, inquadrare un aspetto della mediazione fondamentale, sia essa civile o penale: infatti, è solo con essa che le parti si liberano della dimensione macchinosa del processo e delle procedure per recuperare una sana antropologia nel rapporto interpersonale. 16 Di questo, invece, è solidamente convinto F. GAZZONI, Introduzione in Manuale di diritto privato, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2000, p. XXV, quando afferma: “il diritto privato è veramente vario, vivo, umano. Esso è il diritto dell'uomo, anzi: è l'uomo. E nella ricostruzione del sistema ognuno può rispecchiarsi ed esprimersi”. 17 L'essenza della mediazione penale, in questo senso, consiste non tanto nell'evitare al reo il giudizio e il carcere, ma piuttosto la ricucitura di una ferita sociale: la narrazione del crimine, in altre parole, esprime non tanto che sia stata infranta una regola giuridica, ma evidenzia piuttosto un'esistenza lesa, quella della vittima. 18 Sul malinteso come dimensione che, pur sincronizzando i soliloqui, è destinata ad esplodere, cfr. V. JANKÉLÉVITCH, La menzogna e il malinteso, trad. it., Raffaello Cortina, Milano, 2000. un'espressione icastica, la nascita del diritto dalla psicologia. In questo senso, la mediazione funge da meccanismo preventivo rispetto al diritto e, in particolare, rispetto al diritto processuale, capace di sanare le patologie prima di tutto comunicative del rapporto interpersonale. Le parti di un contratto che, infatti, conoscono i limiti rispettivi degli interessi che rappresentano e si aprono in senso comunicativo l'una verso l'altra, certamente non hanno bisogno di difenderli in sede giudiziaria. La ragionevolezza su cui la mediazione civile si fonda è, dunque, quella di evitare il giudizio, ossia il diritto come pretesa. Il discorso che si legge fra le righe del D.lgs. 28/2010, infatti, è improntato alla ragionevolezza sotto vari punti di vista. In primo luogo, emerge chiaramente un esplicito invito rivolto alle parti relativamente al contenimento dei costi derivanti dall'attività giurisdizionale, che non sono solo economici, ma anche temporali. Inoltre, sempre il legislatore ritiene che i soggetti che vogliono addivenire ad una risoluzione della lite possono riuscirci anche autonomamente e responsabilmente, senza l'intervento di un terzo neutro e imparziale che sia munito di poteri decisori. Ciò non significa che le parti non abbiano bisogno di un terzo tout court: il mediatore è per eccellenza colui che incarna il principio di ragionevolezza, in quanto sostiene le parti nel raggiungimento di un accordo. Se in sede penale, la figura del mediatore penale aveva un ruolo idoneo a garantire una giustizia riparativa, al contrario il mediatore civile esprime l'apertura ad una nuova dialettica del concreto19 che non divida le parti l'una dall'altra mediante il diritto processuale e sostanziale, ma che le faccia convergere verso un nuovo accordo. L'ordinamento che le parti creano è, dunque, di carattere contrattuale ma coinvolge anche aspetti meta-giuridici: testimone di quanto affermato è la deformalizzazione dell'istituto indicato nel D.lgs. 28/2010 in materia di mediazione civile. Dopo che ci si addentra nell'oscura dimensione dei motivi e degli interessi, che hanno generato la patologia del rapporto interpersonale, si risale verso un nuovo accordo, distinto e diverso rispetto a quello originario, che giuridicamente può essere una novazione del contratto o una transazione. Taluni, tuttavia, non condividono questo modello proprio sulla base del dettato testuale del D.lgs. 28/2010, che all'art. 5 prevede l'istituto della mediazione civile obbligatoria. Secondo Resta, infatti, il carattere obbligatorio della mediazione genererebbe un paradosso, che consiste nel comandare alle parti un atteggiamento spontaneo, come quello appunto di addivenire ad una conciliazione. La mediazione civile obbligatoria, in altre parole, si basa sul fatto che il legislatore comandi inequivocabilmente alle parti di accordarsi per la risoluzione della lite, imponendo qualcosa di estraneo a quel che le parti stesse hanno prodotto, ossia il deterioramento del rapporto interpersonale. In verità, il legislatore con l'obbligatorietà dell'istituto in questione esorta le parti ad essere ragionevoli per le materie da egli stesso definite, perfino nella fase del giudizio, quando il rapporto diventa ancor più esacerbato. La normativa per cui il giudice sospende il processo e invita le parti ad esperire la mediazione, in questo senso, va inteso come un rimedio tecnico con cui le parti comunque devono fare appello alla ragionevolezza, travalicando l'angusta e prospettica visione della pretesa di avere ragione. Infatti, le parti superano con 19 S. SATTA-C. PUNZI, Diritto processuale civile, Cedam, Padova, 2000. la mediazione la patologia del rapporto originario, fondato essenzialmente su pretese di ragione, giungendo ad un nuovo accordo, basato stavolta su prospettive ragionevoli. Si giunge così a quello che dallo stesso Resta è definito diritto fraterno20, ossia una dimensione giuridica che sappia superare gli egoismi dei singoli per giungere ad un'autentica riconciliazione sociale. Peraltro, il suggerimento legislativo sulla ragionevolezza può prendere come termine di paragone proprio l'esperienza della mediazione penale: se, infatti, in fattispecie gravissime, seppure circoscritte a determinate aree predefinite, è possibile la riconciliazione fra vittima e reo, sarebbe assurdo non consentire esiti analoghi di componimento bonario della lite in ipotesi certamente meno gravi come quelle che si presentano in sede civile21. Ciò posto, si deve stabilire se la mediazione civile abbia delle analogie rispetto a quella penale o se i due istituti, pur corrispondendo alla stessa istanza di alternatività rispetto al giudizio, siano autonome l'una rispetto all'altra. In realtà, caratteristiche similari si possono rinvenire nella riservatezza degli incontri e nel ruolo del mediatore come garante delle regole di interazione verbale e comunicativa. Tuttavia, sotto quest'ultimo profilo, il mediatore civile ha – diversamente da quello penale – un ruolo non solo facilitativo, ma anche valutativo: infatti egli può anche formulare una proposta conciliativa che sarà sottoposta all'attenzione delle parti. Ciò, invece, è totalmente assente nella mediazione penale, dove la delicatezza degli interessi in gioco è talmente incisiva da condizionare un ruolo molto più neutrale del mediatore. La mediazione valutativa in sede civile, invece, attesta ancora una volta l'esistenza del principio di ragionevolezza che informa l'intera materia trattata dal D.lgs. 28/2010: il significato di questo quid pluris rispetto alla “classica” mediazione facilitativa, dove le parti giungono autonomamente ad un accordo, evidenzia infatti un ruolo attivo del mediatore, che viene premiato anche con degli incentivi descritti nel D.M. 180/2010. Nella mediazione penale sarebbe impossibile praticare questa soluzione, anche perché la ragionevolezza deve sempre confrontarsi con una lesione del tessuto sociale provocata da un reato, ossia da un illecito che ha attentato o compromesso definitivamente un bene giuridico protetto dall'ordinamento. Gli interessi e motivi che animano reo e vittima, in tal senso, sono trascesi da questa dimensione oggettiva ed ineludibile. Questo è anche il motivo per cui nella mediazione penale la ragionevolezza, se accolta dalle parti, è destinata a tradursi in giustizia riparativa. Viceversa un aspetto ripreso dalla mediazione penale e sussunto nei canoni della mediazione civile è, in particolare, il profilo dell'uscita dai ruoli, grazie al quale le parti superano la perversa dialettica costituita dall'endiadi torto/ragione: tuttavia anche in questa direzione esiste un profilo di differenziazione fra l'uno e l'altro istituto. Mentre nella mediazione penale, infatti, l'uscita dai ruoli consente la possibilità del colloquio fra vittima e reo in un territorio a loro comune, nonostante l'inaggirabile presenza del fatto20 E. RESTA, op. cit., 2005. 21 Molto probabilmente l'unica eccezione a quanto appena enunciato in ordine alla minore gravità delle materia del contendere in sede civile consiste nella responsabilità professionale, per la quale è prevista la mediazione obbligatoria. Tuttavia anche in questa delicata materia, l'invito del legislatore riguarda coinvolge la responsabilità delle parti coinvolte ad essere ragionevoli e a dirimere la questione in forma alternative rispetto a quelle culturalmente dominanti. reato, al contrario nella mediazione civile la stessa uscita dei ruoli è interpretata come una precisazione ulteriore dei principi di correttezza e buona fede. Il creditore, ad esempio, deve salvaguardare – secondo il consolidato orientamento ermeneutico della giurisprudenza di legittimità – non solo i propri interessi, ma anche quelli del debitore, in ossequio ai doveri di solidarietà economica e sociale contenuti nell'art. 2 della Costituzione. In questo senso intraprendere una mediazione, fuoriuscendo dal ruolo assegnato dal diritto, significa essenzialmente percorrere una strada che vada incontro alla controparte ancora una volta secondo una logica di ragionevolezza, capace di superare quegli ostacoli che comporta un'interpretazione “unilaterale” della giuridicità. 5. Conclusioni In conclusione, valutando criticamente il raffronto comparativo fra mediazione penale e mediazione civile, si può affermare che i due istituti, benché siano orientati al componimento della lite alternativo al giudizio, sostanzialmente siano autonomi e distinti l'uno dall'altro. Mentre la mediazione penale, infatti, è una forma di giustizia riparativa, capace di ricucire un rapporto interpersonale compromesso, al contrario la mediazione civile rappresenta un rimedio sia “pre-giuridico” che giuridico di composizione della lite, anche se il diritto rileva in modo eminente nella fase conclusiva della mediazione, quando cioè si raggiunge l'accordo e la conciliazione. In entrambi i casi, tuttavia , la mediazione inaugura una nuova età del diritto, inteso non più come strumento di difesa dei propri interessi particolari, ma come realtà capace di rendere responsabili e saggi i soggetti che dal suo uso intendono trarre dei benefici. BIBLIOGRAFIA S. COTTA, Il diritto nell'esistenza. Linee di ontofenomenologia giuridica, Giuffré, Milano, 1985 F. D'AGOSTINO, Filosofia del diritto, Giappichelli, Torino, 2000 F. D'AGOSTINO, La sanzione nell'esperienza giuridica, Giappichelli, Torino, 2005 F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2000 N. IRTI, Nichilismo giuridico, Laterza, Roma-Bari, 2004 V. JANKÉLÉVITCH, La menzogna e il malinteso, trad. it., Raffaello Cortina, Milano, 2000 A. LOVEJOY, La grande catena dell'essere, trad. it., Feltrinelli, Milano, 1966 F. MANTOVANI, Diritto penale, Cedam, Padova, 1992 I. MARCHETTI-C. MAZZUCATO, La pena “in castigo”. Un'analisi critica su regole e sanzioni, Vita e Pensiero, Milano, 2006 D. MARINELLI (a cura di), Temi di mediazione, arbitrato e risoluzione alternativa delle controversie (A.D.R.), Università degli Studi E-Campus, Novedrate, 2010 E. RESTA, Il diritto fraterno, Laterza, Roma-Bari, 2002 S. SATTA-C. PUNZI, Diritto processuale civile, Cedam, Padova, 2000 C. SCHMITT, Terra e mare, trad. it., Adelphi, Milano, 2002 M. TARUFFO, La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Laterza, Roma-Bari, 2009 G. TEUBNER, Il diritto come sistema autopoietico, trad. it., Giuffré, Milano, 1996 E. WIESNET, Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita, trad. it., Giuffré, Milano, 1987 M. WRIGHT, Justice for Victims and Offender, Waterside Press, Winchester, 1996