ELETTROSTATICA
– La legge di Coulomb e le sue caratteristiche. Confronto con la forza di gravità
Tra le quattro interazioni fondamentali del nostro Universo un posto di rilievo è occupato da
quella elettromagnetica, così chiamata da quando (verso la metà dell’800) Michael Faraday ed
altri studiosi compresero il carattere unitario dei fenomeni magnetici e di quelli elettrici.
In queste note ci occuperemo solamente di elettricità, e in particolare di quella statica, cioè
configurazioni di cariche elettriche in condizioni di equilibrio.
Il primo concetto fondamentale è quello di carica elettrica, una proprietà fondamentale delle
particelle. La carica non si crea e non si distrugge, e in questo senso essa costituisce una grandezza
invariante (cioè che non cambia). Neppure la massa – a prima vista qualcosa di molto più solido e
concreto – ha proprietà di invarianza paragonabili a quelle della carica.
Ci tornerà utile considerare le cariche come oggetti puntiformi, cioè prive di qualsiasi dimensione;
tale concetto, similmente a quello di punto materiale per la massa, costituisce un’idealizzazione
tanto errata quanto conveniente, poiché semplifica molto i conti pur giungendo quasi sempre a
risultati validi. È però necessario sottolineare che l’ipotesi di una carica puntiforme conduce ad
assurdità che solo la moderna teoria dell’elettrodinamica quantistica ha risolto in maniera
soddisfacente.
Punto di partenza della nostra discussione è la legge di Coulomb (1784), che esprime in modo
quantitativo la forza che si esercita fra due cariche puntiformi, di valore q e Q, poste a distanza R:
1 qQ ˆ
F=
R
4πε 0 R 2
Il primo fattore è una costante: 0 è detta costante dielettrica
del vuoto e il suo valore è 8,85410-12 C2/Nm2. Un semplice
calcolo mostra che il rapporto 1/40 vale 9109. Rˆ è un
vettore che ha la stessa direzione e lo stesso verso di R , ma il
suo modulo è pari a 1: vettori di questo tipo si dicono versori. Essi servono come indicatori di
verso e direzione.
L’unità di misura di una carica è detta Coulomb (con simbolo C). È facile calcolare che due
cariche di 1 C, poste alla distanza di 1 m, interagiscono con una forza pari a 9109 N, assai intensa
(i lettori sono invitati a verificare il calcolo); il Coulomb è infatti un’unità di carica molto grande.
Il contenuto fisico della legge è racchiuso in due concetti: a) La forza elettrostatica è
direttamente proporzionale al prodotto delle cariche interagenti e b) è direttamente proporzionale
all’inverso del quadrato della loro distanza. Questo suggerisce un’immediata analogia con la forza
gravitazionale tra due masse m e M, che è espressa dalla legge di gravitazione universale (Newton,
1687):
mM
F = - G 2 Rˆ
R
La costante G vale 6,67310-11 m3 /kgs2: è quindi molto più piccola di quella che compare nella
legge di Coulomb. Come conseguenza l’interazione gravitazionale è molto più debole di quella
elettrostatica: in cifre, si trova che è circa 1040 volte più debole! Un’altra differenza sostanziale tra
gravità ed elettrostatica sta nell’impossibilità di avere masse negative; nel nostro Universo la
gravità è sempre attrattiva (alla faccia degli scrittori di science fiction).
Va notato che il concetto stesso di forza implica l’esistenza di almeno due oggetti tra loro
interagenti: uno solo corpo non basterebbe. L’interazione dipende quindi da entrambi i corpi, il
che è un inconveniente, perché vorremmo definire quantità riferite a una sola carica. Questo è
possibile se si definisce il vettore campo elettrico della carica Q dividendo la forza di Coulomb
per l’altra carica q:
F
q
Il campo elettrico viene così a dipendere solo da Q. Il
campo dell’altra carica q si può invece trovare dividendo la
forza per Q. Le dimensioni di E sono N/C (Newton/Coulomb) e
il fatto che si tratti di una quantità vettoriale permette di
sovrapporre campi di più cariche elettriche sommando
semplicemente i rispettivi vettori. Allora in ogni punto dello
spazio resterà definito un vettore campo elettrico con modulo,
direzione e verso: questo rende possibile individuare le linee di
campo, ovvero quelle curve che hanno E come vettore tangente.
Osserviamo infine che, se una carica fosse veramente
puntiforme, il suo campo elettrico avrebbe una divergenza nel punto r = 0, cioè il suo modulo
tenderebbe all’infinito avvicinandosi sempre più alla carica. Ora, l’infinito non può realizzarsi
nella pratica: i paradossi che ne risulterebbero sono impossibili da risolvere per la fisica, perché le
contraddizioni sarebbero insanabili. In elettrostatica il problema si aggira facendo osservare che le
cariche reali sono protoni ed elettroni, che non sono veramente puntiformi e quindi non danno
divergenze; sperare di cavarsela in questo modo,
tuttavia, è una pia illusione. Se infatti un elettrone non
è puntiforme bisogna immaginarlo come una sferetta
minuscola caricata negativamente: ma cariche dello
stesso segno non vogliono stare insieme in uno spazio
ristretto, e si riesce a tenercele solo se non hanno altro
posto dove andare (come nel caso di una sfera
conduttrice immersa nell’aria senza possibilità di
scaricarsi nel terreno). Però, come vedremo in seguito,
la quantità di carica che può stare su una sfera è
limitata dalle sue dimensioni e gli esperimenti ci
dicono che un elettrone, se non è puntiforme, deve
avere un raggio inferiore a 10–18 metri (cento milioni
di volte più piccolo di un atomo). Si può dimostrare
che la carica dell’elettrone (e = 1,6·10–19 C), è troppa
per una sferetta così piccola e farebbe “esplodere”
quasi istantaneamente la configurazione, rendendo impossibile l’esistenza di elettroni stabili.
Dunque il modello a pallina non funziona e il nostro problema rimane aperto: vedremo che
effettivamente esso non si riesce a risolvere nell’ambito della fisica classica e ha trovato una
soluzione soddisfacente solo nel 1947, con l’avvento l’elettrodinamica quantistica (Feynman,
Schwinger, Tomonaga).
E=
- Flusso del campo attraverso una superficie. Il teorema di Gauss
Richiamiamo prima di tutto la nozione matematica di prodotto scalare tra due vettori a e b :
a  b = a b cos 
 è l’angolo formato dai due vettori (le “code” vengono fatte
coincidere), mentre a e b rappresentano i rispettivi moduli. Con
questa definizione è facile vedere che due vettori perpendicolari
hanno prodotto scalare sempre nullo (cos 90° = 0), mentre esso è
massimo quando i vettori sono paralleli e hanno lo stesso verso
(cos 0° = 1). Se i vettori hanno versi opposti il prodotto è minimo (= - ab).
Per i nostri scopi abbiamo ora bisogno di ridefinire le superfici come dei vettori. Per fortuna è
abbastanza semplice: per cominciare, consideriamo una superficie S piana (come una mattonella).
Prenderemo come direzione del nostro vettore superficie S quella perpendicolare alla superficie
stessa; il modulo di S sarà invece dato dall’area della superficie. Per una mattonella piana il verso
può essere scelto a piacere: è però importante ricordare che per le superfici chiuse (per esempio,
un palloncino) il verso positivo è quello che guarda all’esterno, quello negativo all’interno.
Il discorso si può generalizzare ad una superficie non piana, dividendola in parti abbastanza
piccole da poterle considerare piane (v. figura) e applicare poi la
definizione precedente. Il vettore superficie risultante sarà allora la
somma vettoriale di tutti i contributi di ciascuna parte.
Possiamo ora definire il flusso  di un vettore V attraverso una
superficie S mediante l’espressione:
 = V S
In particolare, ci interessa il flusso del vettore campo
elettrico attraverso una superficie. Si scrive allora:
 E (S) = E  S
Tutte le definizioni che abbiamo dato servono ad enunciare
il cosiddetto teorema di Gauss:
“Il flusso del campo E attraverso una superficie chiusa S è uguale alla carica totale racchiusa
all’interno di S diviso la costante dielettrica del vuoto 0“.
In formule scriveremo:
 E (S) =
q(S )
ε0
Non daremo la dimostrazione del teorema, limitandoci a considerarne alcuni casi particolari. In
questa sede ci basti sapere che esso è diretta conseguenza della legge dell’inverso del quadrato cui
obbedisce la forza elettrostatica (e infatti vale un teorema di Gauss pure nel caso della forza di
gravità, anch’essa proporzionale all’inverso del quadrato della distanza). Si può addirittura
dimostrare che legge di Coulomb e teorema di Gauss sono equivalenti, nel senso che è possibile
costruire formalmente la teoria elettrostatica partendo dal teorema di Gauss come assioma e
deducendo come teorema la legge di Coulomb.
Una cosa importante: la superficie S menzionata nel teorema non deve per forza corrispondere
ad un oggetto fisico, né ad alcunché di concreto: essa può essere scelta in modo del tutto
arbitrario, e proprio qui sta il vantaggio del suo uso.
Nelle nostre applicazioni il teorema di Gauss non serve a calcolare il flusso : il teorema viene
sfruttato piuttosto per determinare il campo elettrico del
sistema, in maniera più semplice del metodo diretto che
richiederebbe la somma dei campi di ogni singola carica
puntiforme che compone la configurazione elettrostatica.
Combinando i risultati del teorema con i principi di
simmetria si possono ottenere i campi elettrici di alcune
configurazioni fondamentali di cariche.
Esempio 1 . Consideriamo un guscio sferico caricato solo
alla superficie, di raggio R. Si tratta di un caso interessante
perché nella realtà viene realizzato da una sfera
conduttrice carica (cava o “piena”, non fa alcuna
differenza). La carica totale, uniformemente distribuita
sulla superficie della sfera, è Q,e la supponiamo per
comodità positiva.
Il problema di calcolare il campo può essere risolto combinando il teorema di Gauss con la
simmetria della configurazione. Quest’ultima ci permette di ottenere due informazioni importanti
sul campo elettrico:
a) Considerando dapprima un punto P esterno, il campo del guscio in
quel punto deve essere radiale, cioè giacere sulla semiretta che dal centro
della sfera passa per P: se infatti, per assurdo, il campo avesse un’altra
direzione, potremmo far ruotare il guscio intorno all’asse individuato
dalla semiretta e di conseguenza far ruotare il vettore campo elettrico.
Ma la carica è per ipotesi distribuita uniformemente sul guscio e dunque
la rotazione lascia la configurazione invariata: allora è impossibile che il
campo elettrico cambi. L’unica maniera per mantenere E fisso è quella
di supporre che si trovi sulla semiretta.
b) Tutti i punti dello spazio che si trovano alla stessa distanza dal centro
della sfera devono avere il campo identico in modulo (non in direzione, essendo campi radiali). Se
i moduli di due campi in P e P’ fossero diversi si potrebbe ruotare il guscio di un angolo α in
modo da sovrapporre P a P’. Ma il campo non può cambiare, perché la rotazione ha lasciato la
configurazione di carica esattamente come era all’inizio. Dunque il modulo del campo in P deve
essere uguale a quello in P’.
A questo punto si può applicare il teorema di Gauss usando la superficie S, di raggio r, che
contiene all’interno tutto il guscio ed è concentrica ad esso. In
questo modo il vettore campo e il vettore superficie sono paralleli,
perciò il teorema permette di scrivere:
Q
E(r)  S =
ε0
Essendo la superficie di una sfera S = 4 r2 otteniamo subito:
Q
E(r)=
4πr 2ε0
Si noti che questo campo è identico a quello di una carica
puntiforme Q, come definito all’inizio del capitolo. Il campo
elettrostatico all’ESTERNO di un guscio sferico carico omogeneo
è perfettamente equivalente a quello di una carica puntiforme. Un
risultato del genere fu ottenuto per la prima volta da Newton intorno al 1670 per il campo
gravitazionale.
Resta da calcolare il campo all’interno del
guscio. Non è difficile convincersi che si possono
ripetere tutte le cose già dette per la simmetria del
campo (anche si potrebbero avere incertezze sul verso
del campo interno) e concludere come in precedenza
che E è radiale e ha lo stesso modulo in punti
equidistanti dal centro. Ma al momento di applicare il
teorema di Gauss c’è una differenza importante: nella
superficie virtuale S non ci saranno cariche, poiché il
guscio si trova all’esterno! Se ne deduce che il campo
è nullo in tutti i punti interni al guscio. I risultati ottenuti si possono riassumere riportando in un
grafico l’andamento del modulo di E in funzione della distanza r dal centro del guscio. Si può
osservare una discontinuità in corrispondenza del raggio R della configurazione elettrostatica.
Esempio 2 . Altro caso importante è quello di una coppia di conduttori affacciati, formati da due
lastre parallele (quadrate, rettangolari o rotonde non ha importanza, non influenza il risultato) sulle
quali si trovano cariche di segno opposto +Q e –Q.
La figura mostra l’andamento del campo della configurazione che abbiamo scelto, come si può
ricavare da misure effettuate in laboratorio. Un dispositivo del genere è detto condensatore: la sua
importanza sta nel fatto che esso può immagazzinare energia elettrica restituendola al momento
opportuno. Tutti gli apparecchi elettrici che usiamo hanno al loro interno un buon numero di
condensatori.
Senza addentrarci direttamente nel calcolo, possiamo usare simmetria e teorema di Gauss e si
dimostra che il campo elettrico E dell’armatura positiva è
E=
Q
,
2 S 
dove Q è la carica sulla piastra, S la sua area e 0 la costante dielettrica del vuoto.
Il campo della lastra negativa è del tutto simile a quello che abbiamo appena calcolato, con il
verso che però risulta opposto (perché il campo è sempre diretto verso le cariche negative);
mettendo allora le due lastre l’una accanto all’altra è facile convincersi che il campo tra le lastre
raddoppia, mentre all’esterno del condensatore i campi sono opposti e si annullano a vicenda
(nella realtà l’annullamento non è perfetto, come mostra la figura di inizio pagina). Concludiamo
che il campo del condensatore, almeno lontano dai bordi, è Q/S ε0 all’interno delle armature e zero
all’esterno.
È ora il caso di definire qualche nuova grandezza fisica utile in elettrostatica (e non solo).
- Potenziale e differenza di potenziale. Lavoro ed energia potenziale elettrostatica
Supponiamo di conoscere il campo
elettrico E in una certa zona di
spazio, dove è presente una carica q
(che supponiamo non sia una
sorgente del campo) posta in un
punto A. Il campo elettrico agirà su q
con una forza F = q E . Supponiamo
che la carica si sposti fino ad un
punto B, ad una distanza d da A.
Durante lo spostamento da A a B il
valore del campo elettrico non resterà
sempre costante; possiamo allora
dividere la distanza d in un numero N
di trattini  x1 ,  x2 ,  x3 ,...,  xN ,
sufficientemente piccoli da poterli
considerare rettilinei e da poter assumere che il campo elettrico sia costante su ognuno di essi (v.
figura). Si definisce allora differenza di potenziale (elettrostatico) (spesso abbreviata come d.d.p.)
la somma dei prodotti scalari
VAB = VB  VA = E1   x1 + E2   x2 + E3   x3 + ...+ E N   x N =
N
En   xn

n=1
Osserviamo che la definizione precedente specifica una differenza di potenziale, non un potenziale
assoluto: come nel caso del potenziale dovuto alla gravità, tale indeterminatezza è intrinseca al
problema, nel senso che le uniche grandezze che hanno significato fisico sono proprio le
differenze di potenziale. Tuttavia è spesso comodo parlare di potenziale di una qualche
configurazione in senso assoluto, e per far ciò sarà necessario definire (in modo del tutto
arbitrario) un punto dello spazio che si trovi a potenziale nullo. Per esempio, nel calcolo delle
configurazioni di cariche il potenziale nullo quasi sempre si suppone all’infinito, mentre nella
risoluzione dei circuiti elettrici è la terra che viene convenzionalmente posta a potenziale zero.
La differenza di potenziale può anche essere definita a partire da un altro concetto fisico, quello di
lavoro, già visto nel modulo relativo alla meccanica. La forza dovuta al campo elettrico compie
sulla nostra carica q un lavoro pari al prodotto scalare della forza stessa per lo spostamento, cioè si
avrà:
L = F1   x1 + F2   x2 + ...+ FN   x N =
N
 Fn   xn
n=1
dove si ha Fi = q Ei per ogni i = 1, 2, ..., N. Sostituendo nell’equazione precedente si ottiene
L = q E1   x1 + q E2   x2 + ...+ q E N   x N = q 
N
 E n   xn
n=1
e quindi lavoro e d.d.p. sono legate dalla relazione L = q V.
Le dimensioni della d.d.p. sono joule/coulomb, un’unità abbastanza importante da essere definita
con un nuovo nome: il volt. Si può dunque definire la d.d.p. come il lavoro necessario per
trasportare una carica unitaria dal punto A al punto B. A questo punto, però, c’è
un’osservazione da fare: per andare da A a B esistono infiniti percorsi, per ciascuno dei quali
sembra possibile ottenere una d.d.p. diversa. Qui enunciamo un risultato di importanza
fondamentale: la differenza di potenziale (e quindi anche il lavoro) tra i due punti non dipende
dal percorso che si sceglie, ma assume sempre lo stesso valore. Questa proprietà è valida anche
per il campo gravitazionale (non però per campi elettrici dinamici o per i campi magnetici, come
vedremo) e si esprime dicendo che il campo elettrostatico è conservativo. L’esistenza stessa e
l’utilità del concetto di potenziale dipendono da questa proprietà.
- Capacità di uno o più conduttori. Condensatori in serie e parallelo e capacità
equivalente
Per un qualsiasi conduttore si definisce capacità il rapporto C = Q/V, dove Q è la carica e V il
potenziale del conduttore (si suppone di aver già scelto lo zero da qualche parte: di solito si pone
VTerra = 0). Una coppia di conduttori prende il nome di condensatore (o capacitore), la cui
grandezza caratteristica è proprio la capacità. I condensatori possono assumere qualsiasi forma,
anche la più irregolare: tuttavia quelli più usati sono quelli composti da due lastre conduttrici
(armature) poste parallelamente l’una di fronte all’altra (condensatori piani).
È ora semplice per noi calcolare la capacità di un condensatore piano. Ricordando che con una
Q
carica +Q e –Q su ciascuna armatura la d.d.p. risulta E  d 
d , basta dividere Q per questa
S 0
quantità ottenendo
S
C  0
d
un risultato che mostra come la capacità sia direttamente proporzionale alla superficie delle
armature e inversamente proporzionale alla loro distanza. La formula subisce pochi cambiamenti
nel caso in cui i conduttori non siano piani.
L’espressione trovata per la capacità può essere generalizzata al caso in cui, per incrementarla,
si interpone un isolante (dielettrico) tra le armature. Si trova che la C del sistema risulta aumentata
di un fattore εR che è sempre maggiore di 1, spesso anche di parecchie volte (es. 33 per il
metanolo, 80 per l’acqua distillata). La ragione di questo fatto è che il campo elettrico polarizza il
dielettrico, cioè riesce a distorcere leggermente le sue molecole in modo che le rispettive
distribuzioni di carica positiva e negativa risultano decentrate. Il risultato è che sulla superficie del
materiale isolante compaiono delle cariche di segno opposto rispetto a quelle delle armature:
quindi la carica “vista” dal condensatore è minore di quella originale Q e il campo elettrico risulta
diminuito proprio di un fattore εR, il che di conseguenza diminuisce il suo potenziale e quindi
aumenta C (la carica del condensatore in realtà rimane sempre Q! Quella del dielettrico non va
considerata nel calcolo della capacità). In formule scriveremo:
C  R
S
d
L’incremento della capacità è il motivo per cui un condensatore reale risulta sempre riempito di
materiale isolante. Ma perché è tanto desiderabile aumentare la C di un sistema? Perché l’energia
che può essere immagazzinata da un condensatore è direttamente proporzionale alla sua capacità.
Di solito i condensatori non si trovano mai da soli, ma sono collegati in un circuito, che
normalmente comprende anche altri elementi quali le resistenze, le induttanze, diodi, transistor,
eccetera. I due modi più semplici (ma non gli unici!) per collegare due condensatori sono la
disposizione in serie e quella in parallelo, rappresentate nella figura qui sotto:
La differenza principale consiste in questo: due condensatori in serie hanno la stessa carica
sulle armature, mentre due condensatori in parallelo hanno la stessa d.d.p.. Quel che ci
proponiamo ora è determinare la capacità equivalente dei due sistemi, cioè la capacità che avrebbe
un condensatore che fosse sostituito alle coppie rappresentate e ne riproducesse esattamente le
caratteristiche.
Cominciamo con la serie. La capacità del primo condensatore è C1 = Q1/ΔV1, quella del
secondo C2 = Q2/ΔV2; il condensatore equivalente (che possiamo immaginare ottenuto eliminando
le armature di mezzo) avrebbe la stessa carica Q dei condensatori iniziali e d.d.p. ΔV = ΔV1 + ΔV2.
Pertanto si ottiene:
Q
C
V1  V2
ed è facile vedere che risulta
1 1
1
,
 
C C1 C2
una relazione generalizzabile a qualunque numero di condensatori. Ripetendo per N condensatori
collegati in serie il ragionamento appena visto troviamo infatti:
1 1
1
1
1
 
 .... 

C C1 C2
CN 1 CN
È facile verificare che la capacità risultante C di due o più condensatori collegati in serie è
sempre minore della più piccola delle capacità iniziali.
Passiamo alla disposizione in parallelo. In questo caso è la d.d.p. a essere identica, mentre il
condensatore equivalente (che si può pensare ottenuto affiancando tra loro i due condensatori di
partenza) ha carica totale Q che è la somma delle singole cariche Q1 e Q2. Se ne ricava allora:
C
Q1  Q2 Q1 Q2


 C1  C2 ,
V
V V
anche questa una relazione generalizzabile a qualunque numero di condensatori. Osserviamo che
stavolta la capacità equivalente è la somma di tutte le singole capacità di partenza ed è pertanto
maggiore di ciascuna di esse.
Per riassumere, abbiamo dimostrato le seguenti formule:
1 1
1
1
1
 
 .... 

C C1 C2
CN 1 CN
C = C1 + C2 + .... + CN–1 +CN
(condensatori in serie)
(condensatori in parallelo)
L’importanza dei condensatori sta nel fatto che essi sono degli immagazzinatori di energia, che
viene accumulata separando le cariche positive e negative e “segregandole” sulle opposte
armature. Tale energia può essere recuperata e impiegata semplicemente collegando tra loro le
piastre e consentendo alle cariche di mescolarsi tra loro ripristinando la situazione iniziale.
L’energia immagazzinata da un condensatore è proprio il lavoro compiuto per separare le cariche
di seno opposto:
Q2
1
, o anche L  CV 2 .
L
2C
2