Ilaria Capua Io, trafficante di virus Una storia di scienza e amara giustizia Con Daniele Mont D’Arpizio Proprietà letteraria riservata © 2017 Rizzoli Libri S.p.A. / Rizzoli, Milano ISBN 978-88-17-09387-3 Prima edizione: marzo 2017 Realizzazione editoriale: studio pym / Milano Io, trafficante di virus Per Mia «Avete voi mai conosciuto un Paese dove la calunnia sia così potente e così avida, dove in così breve tempo si sia lacerato un ugual numero di riputazioni onorate? Si grida per tutto che ci vogliono uomini nuovi, perché gli uomini vecchi sono già consumati; ma non appena si vedono i segni d’un qualche giovane di vero ingegno che sorge, un mal volere, direi quasi, un odio infinito s’accumula contro di lui e lo circonda.» PASQUALE VILLARI, Di chi è la colpa? (1868) 1 «Ladies and gentlemen, we are now about to land in Orlando, Florida.» La voce metallica mi risveglia dalla trance di dieci ore di volo. Fuori, dice il comandante, il cielo è terso con una temperatura di ventotto gradi: tempo splendido, cosa aspettarsi dal Sunshine State? Guardo l’orologio e penso che mancano venti minuti buoni per scendere; che faccio, do un’altra occhiata all’articolo sul virus Zika? In Florida ci sono tante zanzare, quasi come in Veneto. È un problema serio. Sarà una delle prime cose di cui dovrò occuparmi. Zika è soltanto l’ultima delle virosi emergenti, si è manifestata da circa sei mesi in Brasile con un’impennata di casi di microcefalia nei neonati. Di questo virus si sa poco: che è trasmesso dalle zanzare, che nell’adulto provoca una forma febbrile passeggera e benigna, ma nella donna incinta può portare a danni irreversibili al nascituro. Come se in Brasile avessero bisogno anche di questa emergenza. No, l’articolo può aspettare. Sono venticinque anni che giro per il mondo come una disperata, e sul treno o sull’aereo ormai sono abituata a fare di tutto. Non oggi: questo è un viaggio un po’ diverso; non sto andando a un convegno o a una conferenza: oggi, 16 giugno 2016, negli Usa 6/16/2016, inizio una nuova vita. E svolte co9 Ilaria Capua me questa hanno bisogno di un po’ di spazio interiore e di silenzio per sedimentarsi. Allora chiudo gli occhi e mi rilasso contro lo schienale. Niente da fare, la mente non sta ferma, non si libera. Mai dormito in viaggio, figurarsi oggi, e forse in vita mia avrò visto solo un film durante un volo. Di solito lavoro: siamo io e i paper, io e il computer, la carlinga che mi isola dalle nuvole e dalle distrazioni come una bolla di concentrazione. Perché il tempo è importante: è l’unica risorsa su cui abbiamo pieno potere, e non si deve buttare. Mai. Ah, ecco, la lista delle cose da fare: primo, telefonare a Rich sfruttando l’attesa dei bagagli. Secondo: ritirare l’auto, quindi prendere la Florida’s Turnpike fino all’immissione nella Interstate Highway 75. Direzione Gainesville, la mia nuova città. Dopo Roma, Perugia, Teramo, Padova. E tutte le altre che sono state parte della mia vita: Londra, Edimburgo, Atlanta, Washington, Amsterdam, Parigi. Ma anche Istanbul, Tokyo, il Cairo. Guardo il mio anello azzurro. Che bello, sembra fatto di acqua. L’aereo atterra con un sobbalzo e una frenata brusca. Punto in avanti le gambe come al solito, mi fa sempre un po’ paura l’attimo in cui si tocca terra… Mi alzo, i piedi gonfi, mi gira leggermente la testa, tiro giù il trolley dalla cappelliera, e subito arriva fedele la fitta alla spalla. Ah, che male, è sempre una coltellata. «Cosa credi di fare?» mi domanda come una compagna antipatica e onnipresente. «Hai cinquant’anni!» Ha ragione, li ho compiuti meno di due mesi fa. Proprio una bella età per cambiare Paese, lingua, abitudini. Per lasciare gli amici, le persone e le cose che ami. Ma che devo fare? Crescere significa pure questo, mettersi in gioco, essere 10 Io, trafficante di virus pronti ogni volta a iniziare da capo: lo ripetevo sempre ai miei collaboratori, no? Del resto, qual è l’alternativa: nascere, vivere e morire sempre nello stesso posto? Non ce la posso fare, ho bisogno di ossigeno. Sono partita stamattina alle 10 da Venezia; mi ha accompagnato mamma, forte come sempre, non lascia trasparire la sua amarezza. Mamma è così, una roccia, quando ce n’è bisogno. Scalo a Francoforte e poi, mannaggia, l’aereo ha un’ora e più di ritardo, quindi alle 13,40 di nuovo a bordo. Controllo l’orologio: qui in Florida sono le 18,40, ma in Italia è quasi l’una di notte. Quattordici ore di viaggio, di cui dieci di volo ininterrotto, sono faticose. Ma a pesare non sono gli anni, sono i chilometri, diceva il vecchio Indiana Jones. Guardo il trolley, l’altro fedele compagno di vita, il guscio che mi porto appresso. Dentro, i documenti, il lavoro, il portatile e la pashmina fucsia, regalo degli amici di Ancona per i miei cinquanta. L’aria condizionata in aereo è terribile ma io ormai conosco il nemico. Dentro il trolley nero ci sono anche i gioielli: la spilla di nonna Rosaria, il bracciale di nonna Anna. Le perle che mi ha regalato mamma. L’anello di fidanzamento, l’anello azzurro invece ce l’ho al dito. Mi alzo e mi metto in fila per scendere, saluto veloce hostess e steward; scendo e, con il mio passo deciso, mi incammino nel tunnel che porta direttamente al terminal. Quando entro in quel tubo di congiungimento fra cielo e terra, mi gira sempre la testa, sempre. A Venezia siamo arrivati in pullman sulla pista, qui c’è un’apoteosi di vetro e acciaio, tutto grida modernità, efficienza, soldi, denaro e potere. È l’America, bellezza, land of opportunity. Me ne vado ripercorrendo la scaletta delle cose da fare 11 Ilaria Capua quando mi sento chiamare. «Ehm, excuse me…» Fermo la mia marcia e mi giro, il mio sguardo interrogativo si incrocia con quello, imbarazzato, del copilota. Porca miseria, la gatta! La gabbietta che alza con la mano è la risposta a tutte le mie domande. «Ops» sibilo imbarazzata mentre risalgo la corrente dei passeggeri in uscita. Mi guardano severi, manco avessi lasciato sull’aereo un neonato urlante. Che figura. Mi faccio sempre riconoscere, e pensare che sono pure veterinario. L’amica degli animali… sì, proprio. «Scusa, Potti, non avrai pensato…» Il suo sguardo, mezzo tramortito da tutte le ore di viaggio e di immobilità, è a dir poco interdetto. Quindi adesso arranco verso i nastri dei bagagli trascinandomi anche la gabbietta. Ho giusto il tempo di prendere un carrello per caricare le due grosse, enormi valigie da venti chili l’una. Dentro, tutta la mia vita, o quasi. La spalla destra mi fa malissimo, per fortuna c’è la sinistra. Evito di sistemare sul carrello la gabbietta e quindi me la trascino con il trolley che cerco di tenere come una polpessa con otto tentacoli. Potti pesa molto più del previsto (eppure non mi pareva obesa) e non la posso impilare sulle valigie: se dovesse scivolare e farsi male mia figlia mi strozzerebbe. «Ciao, Rich, sono appena scesa dall’aereo. Tutto bene… No, ovviamente non sono riuscita a chiudere occhio. Come sempre.» Mia dorme. Se penso che è giugno e lì di giorno non ci sono nemmeno venti gradi, ho subito la percezione della confusione in cui è stata gettata la mia vita. Ma ce la posso fare, ce la possiamo fare. Perché tutto è risolvibile, se gestito con calma. Il mio motto è: «Ora faccio tutto, una cosa alla volta». Adesso tocca all’ufficio immigrazione. Il colloquio per il visto l’ho già fatto a Roma, all’ambasciata, quindi l’operazione scorre abbastan12 Io, trafficante di virus za liscia. L’addetto scarica un timbro sul mio passaporto e sui documenti di Potti. È un ragazzo lentigginoso ma abbronzato, capelli a spazzola e tempie lucide, sorriso regolare e accecante. «Welcome to the United States, professor Capua.» Ci siamo, inizia il nostro sogno americano. Mentre esco, ho un attimo di smarrimento. Ripenso ai tanti che mi hanno preceduto in questo stesso percorso. Negli anni, milioni e milioni. Certo, io non arrivo in una cabina di terza classe con le valigie di cartone, ma con un volo in business e un contratto con un’università importante. Dirigerò un centro di ricerca che mira a diventare in qualche anno leader internazionale: una nuova sfida, avvincente ed esaltante. Eppure sento dentro qualcosa di strano, come se una mano mi afferrasse le viscere e me le torcesse. Chiamatelo magone, o anticipo di nostalgia. Amarezza. Un sentimento che nelle ultime settimane ho cercato di seppellire da qualche parte dentro di me. Che ci faccio qui? Probabilmente la maggior parte delle persone sarebbe contenta di cominciare un’avventura come questa… Io no. Non l’ho scelta io, non sono io ad aver voluto abbandonare l’Italia; sono stata costretta. Per una volta ho dovuto arrendermi, ritirarmi nel mio guscio. Ecco come mi sento: arresa, retratta per sopravvivere. Florida: qui le palme sono dappertutto, pure dentro l’aeroporto. Nel grande atrio del terminal, coperto da vetrate, i megaschermi proiettano le immagini della visita del presidente Obama, in corso proprio oggi e proprio in questa città, teatro di un’orribile strage. Che tragedia la carneficina nel locale Pulse di Orlando. E io sto andando a un’ora e mezzo di strada dal luogo del massacro. Ho paura? Sì. 13