Natale Gucci
NORME E SICUREZZA DEGLI EDIFICI
Qualche considerazione
Il processo originario della conoscenza è basato sull’osservazione
diretta e sulla meditazione di quanto osservato. Questo è un
processo mentale che non può essere direttamente trasmesso a
menti diverse, se non attraverso rappresentazioni che lo
approssimano, sempre con inevitabili imperfezioni distorcenti.
Si possono trasmettere, quindi, solo rappresentazioni.
La facilità, la tempestività e il basso costo delle comunicazioni che il
progresso oggi consente ha enfatizzato troppo spesso l’importanza
della rappresentazione delle realtà, soffocando il processo originario
sopraccennato fino alla sostituzione delle rappresentazioni alle
realtà stesse.
Ne sono prove correnti: scambiare l’”aver la patente” con il saper
guidare l’auto, ritenere un contratto una scrittura su carta bollata
(anziché un accordo fra due soggetti), far coincidere la relazione di
calcolo con la sicurezza della costruzione (ne è solo una
rappresentazione) o il disegno con l’opera architettonica (esso
tradisce sempre o l’autore se è più brutto dell’opera o, più
frequentemente, l’opera se è più bello).
Il dilagare delle comunicazioni anziché implementare il processo
della conoscenza ampliando gli orizzonti delle osservazioni e
favorendo le meditazioni, sembra che abbia l’effetto di inibire le
menti opprimendo l’indipendenza di pensiero (forse è proprio
questo il fine dei più abili comunicatori).
Specializzando queste elementari considerazioni, si può osservare
che le regole sono rappresentazioni dei principi.
Sempre più si preferisce seguire le regole piuttosto che coltivare i
principi dai quali queste dovrebbero discendere: è più comodo, più
facile, basta sapere senza bisogno di pensare, non ci si accollano
responsabilità ecc. Sembra che l’unico vero principio in auge sia
quello di nascondere i principi dietro alle regole per poi, non di
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rado, ritorcerle contro, vanificando gli effetti che le regole volevano
ottenere rappresentando i principi.
E’ per questo che tutti chiedono regole precise e cogenti alle quali
acriticamente attenersi, facendo così coincidere, nel nostro campo,
una costruzione perfetta con una “a norma”.
I tentativi di norme prestazionali, avanzati fin dalla direttiva
europea del 1985, hanno vita grama da noi; quello che esce dalla
porta finisce sempre per rientrare dalla finestra.
A questo proposito, si può osservare:
- se la norma è cogente prescrivendo dettagliatamente metodi e
procedure, non si può essere responsabili di insuccessi se la
prescrizione è stata seguita alla lettera, seppur acriticamente;
d’altra parte chi redige le norme non può essere chiamato a
rispondere della loro applicazione, egli vi versa lo stato dell’arte che
continuamente si evolve (i cambiamenti delle norme sono stati
addirittura programmati per legge): si trova così il modo di rendere
astratte le responsabilità;
- i principi sono qui il sinonimo di conoscenze tecniche approfondite
e meditate, cioè di professionalità derivante da un approccio serio
basato non solo sulle conoscenze, ma anche sulla cultura per
applicarle, consistente nel non scindere mai le regole dai principi
che le hanno generate.
La prima osservazione indirizza verso una maggiore attenzione nella
scelta dei concetti informatori delle norme, che, a onor del vero,
oggi è perseguita, ma che, a mio avviso è inefficace se non si
analizza la connessione con la seconda osservazione, cioè il
rapporto norma-cultura tecnica.
Infatti il giovane professionista di oggi è educato fin dalla scuola a
seguire regole invece di essere indirizzato a osservare e meditare le
leggi naturali, per poterle poi usare nel realizzare opere di
ingegneria e nel ben comprendere le tecniche per farlo, regole
comprese.
I tratti del DNA che caratterizzano l’ingegnere, sempre necessari,
sono così soffocati anziché stimolati.
La scuola , università in primis, è la maggiore responsabile. Quei
neo professionisti che qualche tempo fa venivano dai loro docenti a
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chiedere l’interpretazione “legale” delle norme prescrittive e cogenti
(allora da poco introdotte), oggi non vengono più rimproverati di
non privilegiare il fatto tecnico, perché è quello che conta, ma presi
sul serio: purtroppo, anche la maggior parte dei docenti è dei loro.
Per meglio spiegare il fenomeno riflettiamo che l’università è una
sorta di “fabbrica integrale” che non solo genera un prodotto (il
laureato), ma anche gli strumenti per farlo (i docenti). La qualità del
prodotto dipende in modo praticamente totale dalla qualità degli
strumenti: docenti di qualità faranno sempre laureati di qualità, in
modo quasi indipendente dai piani di studio. Un docente insegna
sempre quello che sa e trasmette il suo modo di adoprarlo, ciò è
anche garantito dalla libertà di insegnamento.
Ne consegue che la qualità (e quindi anche la sicurezza) delle
costruzioni dipende più dalla qualità dei docenti che dalle norme.
D’altra parte, le costruzioni civili non costituiscono un eccezione,
analoghe considerazioni possono farsi, ad esempio, per la sicurezza
sul lavoro, ove è palese che la preparazione professionale è il
fattore determinante. Infatti al perfezionamento delle leggi e alla
loro severità ha fatto sempre seguito un aumento degli incidenti
anziché una loro riduzione perché, anche in questi campi, si vuol
surrogare con le regole alla mancanza di capacità professionali.
Messo in evidenza che il corpo docente universitario è quello che
determina il dna di una nazione perché è il nucleo di partenza per la
formazione degli operatori professionali e degli insegnanti delle
altre scuole (fino dalle elementari), si avanza qualche osservazione
sulla formazione dei docenti, nell’ingegneria civile.
Si osservi che quando si studia siamo sempre rivolti indietro: si
studia infatti ciò che è e che è stato, ma che, al momento di
adoperare il prodotto dello studio, è necessario girarsi in avanti per
applicare ai problemi da risolvere le conoscenze acquisite,
elaborandole e perfezionandole con spirito innovativo e con
inventiva.
Uno “studente a vita” non sarà mai un buon ingegnere e ancor
meno un buon docente di ingegneria perché è sempre voltato
indietro.
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Ma girarsi in avanti significa immergersi nel mondo del lavoro,
confrontarsi con problemi reali da risolvere effettivamente con tutte
le grandezze che vi intervengono e non soltanto sulla carta con
ipotesi semplificative che consentano la soluzione.
La formazione della docenza si fa con la ricerca, cioè con lo studio e
con la sua applicazione, ma perché sia di qualità occorrono
problemi reali con tutta la loro multidisciplinarietà e non
esercitazioni enigmistiche astratte, seppur di alto livello.
Il docente universitario dovrebbe essere pertanto anche un
operatore professionale rivolto a temi complessi e all’innovazione.
In un lontano passato lo è stato generando molto spesso docenza
di alta qualità, in altre realtà straniere lo è tuttora e ne costituisce la
forza. Poi è stato inventato il “tempo pieno”, cioè la proibizione di
immergersi nel mondo delle costruzioni, salvo il pagamento allo
stato di una sorta di tangente pari a circa la metà dello stipendio.
Solo eccezioni vengono autorizzate dagli atenei, ma con ritrosia: a
Pisa addirittura non si ammette la partita IVA perché suona di
“professione”.
E’ chiaro che, in tal modo, si formano docenti “di clausura”, non
avvezzi a quel processo di osservazione e meditazione del mondo
tecnico esterno, indispensabile per una produttiva trasmissione del
sapere nell’ambito di una formazione professionale.
La cultura delle regole, degli inquadramenti teorici e dogmatici, di
un astratto rigorismo logico trovano, in siffatto clima, il loro terreno
più favorevole ingessando le menti o inibendo le facoltà di inventiva
e di innovazione, facendo cioè dei professionisti ingegneri una
classe di tifosi invece che di giocatori.
Stando così le cose, soluzioni a breve termine non se ne vedono:
siamo di fronte a un problema di indirizzo culturale e di dimensioni
generazionali. Si può solo cercare di sfruttare le regole per
innescare fenomeni lenti che favoriscano una svolta verso la
rivalutazione dei principi.
Il settore degli iter di progettazione appare quello più suscettibile di
proposte, se ne avanzano alcune.
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Un progetto è una concezione verificata con un processo interattivo
fra le diverse prerogative che l’opera deve possedere e iterativo fra
ideazione e sua verifica: ciò vale anche per gli edifici e costituisce
un elemento distintivo di ciascuno di essi perché non si tratta di
manufatti di serie.
In passato, prima dell’affermazione delle tecniche di previsione dei
risultati con approcci analitici, il processo di progettazione non
comprendeva necessariamente la fase iterativa, cioè il vai e vieni
fra ideazione e conferma della sua validità, perché il
soddisfacimento delle prerogative tecniche era compreso nelle
“buone regole dell’arte”, cioè nella sintesi delle esperienze
precedenti, tradotta in regole empiriche riportate in manuali che
costituivano il nucleo dell’”Architettura Tecnica”.
In tale contesto l’architetto era una sorta di “sarto” che vestiva
corpi già conformati tagliando abiti, caratterizzati dalla loro diversa
funzione, ai quali conferiva una foggia, dipendente dalle scelte sue,
della committenza e dalle mode. Le attenzioni del progettista erano
quindi rivolte prevalentemente agli aspetti estetici e a quelli
distributivi, riservando al costruttore il soddisfacimento automatico
delle caratteristiche tecniche. Ciò fin da quando le due figure hanno
cessato di coincidere.
Il Regio Decreto del 1865 raccoglie concetti che rispecchiano tale
cultura ed è anche per questo che ha avuto vita lunga e produttiva,
fino al novembre del 1971, quando, con la legge 1086, si sancì una
separazione fra aspetti diversi di una stessa costruzione,
introducendo progettisti rivolti esclusivamente alle caratteristiche
statiche e di sismoresistenza.
In tal modo si alterò radicalmente il concetto di progetto sopra
definito: il progetto perse la sua unitarietà per diventare una
somma di “progetti con aggettivo” (architettonico, statico, degli
impianti ecc.). Questo conseguì al progresso delle tecniche delle
costruzioni che consente la previsione a tavolino delle diverse
prerogative della costruzione, ma ne costituì una pessima
utilizzazione. Gli specialisti furono stimolati, addirittura per legge, ad
operare separatamente e in sequenza anziché in sinergia; non si
cercò più una conoscenza panoramica della costruzione,
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indispensabile per una buona ideazione sulla quale applicare le
proprie conoscenze, ma ciascuno approfondì sempre di più la
propria disciplina allontanandosi dalle altre. Ciò fino a dare origine a
casi di conflitto fra i diversi operatori (i progettisti con aggettivo)
per l’ignoranza dell’uno dei problemi dell’altro.
L’italiana “legge Merloni” separa il progetto in tre fasi: preliminare,
definitiva ed esecutiva. Queste fasi sono correlate in modo da
impedire di fatto ritorni alla fase precedente, viene cioè inibito il
processo iterativo fra ideazione e sua verifica che, come già messo
in evidenza, è alla base di una corretta progettazione moderna ove
sono utilizzate previsioni analitiche del soddisfacimento delle diverse
prerogative che la costruzione deve avere. In particolare non vi è
possibilità di correggere ideazioni che in fase di sviluppo del
progetto si dimostrino inadeguate perché sono state già decise in
modo irreversibile nella fase progettuale precedente.
In questo quadro i singoli “progettisti con aggettivo” debbono
considerare l’opera già eseguita anziché soltanto progettata.
La cosa è ormai così radicata nella prassi professionale che, ad
esempio, il progettista “strutturista” si ritiene (ed è ritenuto) tanto
più bravo quanto più riesce a far rientrare nelle norme le concezioni
statiche strampalate.
Quando poi il sisma fa giustizia di questi casi, anziché rendersi
conto che il problema sta nella impostazione culturale, nella
preparazione professionale e nei conseguenti modi di utilizzarla, si
cambia la norma aggiungendovi prescrizioni e procedure.
Per questo, per il continuo affinarsi delle diverse discipline e con il
prevalere dei docenti di clausura chiamati a far norme insieme a
navigati esponenti del mondo produttivo, le norme hanno raggiunto
complessità operative generalmente sproporzionate ai fini
normalmente da raggiungere e tutt’altro che fonte di sicurezza.
Infatti, anche per le costruzioni più semplici e ordinarie, sono
sempre necessari voluminosi calcoli che possono esser fatti solo da
elaboratori elettronici programmati con software sempre più
complessi ed ermetici, capaci di mettere in atto la normativa in
modo automatico. Ne conseguono volumi cartacei prodotti dalla
stampante che nessuno legge: né il progettista, né l’esecutore né il
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collaudatore e disegni la cui validità può essere oggi ancora valutata
da vecchi professionisti educati alla progettazione ragionata, ma
non da giovani che non hanno alcun altro riferimento.
Rimanendo nell’ambito delle regole e in tema di sicurezza statica e
di sismoresistenza, si può tentare un recupero della qualità degli
edifici in due maniere.
La prima è rivolta a riottenere il corretto iter di progettazione pur
rimanendo nell’ambito delle leggi attuali, la seconda a riassegnare
al ruolo dell’architetto (indipendentemente dal titolo di studio) la
caratteristica di sarto più sopra messa in evidenza.
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L’Italia è quasi interamente zona sismica, pertanto la sicurezza al
crollo delle costruzioni non consegue soltanto alle azioni statiche
verticali dovute alla gravità, ma anche a quelle, orizzontali e
dinamiche, prodotte dai terremoti.
Mentre delle prime ne abbiamo tutti una percezione diretta, gli
effetti degli scuotimenti sismici sono difficilmente percepibili da non
addetti ai lavori: per riuscirci occorre una preparazione di base
corroborata dallo studio degli effetti dei sismi sui diversi tipi di
edifici.
La ricerca della sismoresistenza delle costruzioni porta a conclusioni
che coinvolgono la conformazione dell’edificio (in termini di
distribuzione delle masse, delle rigidezze e delle resistenze),
insieme alla scelta del sistema costruttivo, dei materiali e dei
proporzionamenti. Ne consegue che la sismoresistenza di un edificio
dipende innanzitutto da scelte di natura prettamente architettonica
che riguardano le fasi di progettazione (secondo la legge Merloni)
precedenti quella “esecutiva”.
Oggi è soltanto in quest’ultima fase che intervengono gli operatori
ad hoc (strutturisti) che applicano le “norme sismiche” le quali
prescrivono, fra l’altro, anche “regolarità strutturali”, cioè indirizzi
sulla conformazione geometrica dell’edificio.
Ciò premesso, si possono esporre due osservazioni:
- le norme danno prescrizioni geometriche relative a forme
elementari che sono sicuramente favorevoli alla buona
sismoresistenza della costruzione, ma che non sono le uniche. Si
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intralciano così inutilmente le scelte progettuali; infatti altre
conformazioni possono essere adatte anche se più elaborate dal
punto di vista architettonico, purché frutto di una concezione
conscia del comportamento della costruzione in fase di
scuotimento;
- l’iter di progettazione costituito da fasi stagne, come sopra
ricordato, inibendo l’iterazione fra concezione e verifica, di fatto
vanifica le prescrizioni normative riguardanti la conformazione degli
edifici perché queste indicazioni intervengono tardivamente.
Rinunciando ad una rivoluzione nei processi di progettazione,
salutare, ma utopistica nel clima culturale attuale, si può avanzare
la proposta di una prescrizione che imponga la completezza degli
staff di progettazione fin dal primo suo stadio in modo da
coinvolgere, già nell’atto di ideazione e non in sequenza, tutte le
prerogative che la costruzione deve avere, evitando così grossi
errori concettuali e rendendo la concezione suscettibile di
affinamenti nelle fasi successive, senza bisogno di impossibili ritorni
alla fase iniziale.
Una tale prescrizione sarebbe possibile nel quadro normativo
attuale senza scomodare le leggi, ma intervenendo soltanto su
normative di pertinenza ministeriale.
Rimane il problema culturale dei professionisti, questi sarebbero
stimolati verso una maggiore multidisciplinarietà: i vari “progettisti
con aggettivo” sarebbero spinti almeno a capirsi fra loro e
cementati da una comune responsabilità nei riguardi del progetto.
Credo che questo secondo aspetto costituisca il maggior ostacolo
per un simile provvedimento a causa della routine professionale
oggi consueta e della preparazione che ciascuno ha avuto: ecco
ancora l’importanza della scuola, più che della norma, sulla
sicurezza degli edifici.
La scuola si è purtroppo adeguata alla parcellizzazione del sapere e
produce professionisti generalmente incapaci di affrontare da soli in
modo completo un’opera compiuta, anche se semplice: si è perso
completamente il patrimonio culturale tramandato fin dal
rinascimento con l’artigianato. Occorrerebbe recuperarlo rivolgendo
le specializzazioni verso opere compiute, seppur circoscritte,
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anziché, in modo trasversale, verso aspetti comuni a più
costruzioni.
D’altra parte uno staff completo di professionisti per progettare un
normalissimo piccolo edificio appare sproporzionato, come
esagerata appare la procedura che la normativa impone anche per
le prerogative di sismoresistenza delle piccole costruzioni, che
costituiscono la maggioranza del nuovo anche oggi.
Per superare quest’ultima anomalia si può suggerire la
realizzazione di strutture ottenute per composizione di corpi di
fabbrica estratti da un esteso catalogo di progetti già approntati.
Detti corpi di fabbrica potrebbero essere tenuti insieme da giunti
capaci di connettere in esercizio, ma di frantumarsi in fase di
scuotimento sismico, in modo da consentire ai singoli corpi di
fabbrica di esplicare la sismoresistenza per cui sono ottimizzati,
quando la conformazione dell’intero edificio non fosse opportuna.
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