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Linee di Ricerca
Massimo Mugnai
LOGICA MODALE E MONDI POSSIBILI
Versione 1.0 - 2006
Linee
di
Ricerca
SWIF - Sito Web Italiano per la Filosofia
Rivista elettronica di filosofia - Registrazione n. ISSN 1126-4780
Linee di Ricerca – SWIF
Coordinamento Editoriale: Gian Maria Greco
Supervisione Tecnica: Fabrizio Martina
Supervisione: Luciano Floridi
Redazione: Eva Franchino, Federica Scali.
AUTORE
Massimo Mugnai [ [email protected]]. Professore ordinario di Storia della Logica alla Scuola Normale dal 2002,
si è laureato in Filosofia all’Università di Firenze. E’ stato borsista DAAD presso il Leibniz Archiv di Hannover e
ricercatore presso il “Lessico intellettuale europeo per i secoli XVII e XVIII” del CNR (Roma). E’ stato inoltre
borsista della Fondazione Alexander von Humboldt (ha lavorato presso la Leibniz-Forschungsstelle di Münster,
contribuendo anche all’edizione critica delle opere di Leibniz) ed ha lavorato in un gruppo di ricerca sulle controversie
filosofiche presso l’Institute for Advanced Studies di Gerusalemme, di cui è fellow. E’ membro della Leibniz
Gesellschaft di Hannover, dell’editorial Board di “History and Philosophy of Logic”, del Comitato scientifico di
“Studia Leibnitiana”, del Comitato scientifico della “Rivista di storia della filosofia” e del comitato scientifico della
“Leibniz Review”. Ha insegnato nelle università di Bari e di Firenze. I suoi interessi di ricerca riguardano la filosofia
di Leibniz, la storia della logica, logica e metafisica. Tra le sue pubblicazioni più significative si ricordano: Leibniz’s
Theory of Relations, Stuttgart, Steiner Verlag, 1993; Introduzione alla filosofia di Leibniz, Milano, Einaudi, 2001;
Traduzione e cura (con E. Pasini) degli Scritti filosofici di G. W. Leibniz presso la Casa editrice UTET (3 volumi),
Torino, 2000.
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di Gian Maria Greco e la supervisione tecnica di Fabrizio Martina.
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autori più influenti, nell'ambito di una specifica area di ricerca della filosofia contemporanea attualmente in discussione e di
notevole importanza. Il fine è quello di fornire al pubblico italiano un'idea generale su quali sono gli argomenti di ricerca di maggior
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AUTORE, Titolo, in L. Floridi (a cura di), Linee di Ricerca, SWIF, 2006, ISSN 1126-4780, p. X, www.swif.it/biblioteca/lr.
SWIF – LINEE DI RICERCA
LOGICA MODALE E MONDI POSSIBILI
MASSIMO MUGNAI
Versione 1.0
PREMESSA
Durante l’antichità e il medioevo e poi ancora fino all’Ottocento, la logica è sempre
stata considerata, nella cultura occidentale, una disciplina riconducibile all’ambito
della filosofia. Nella seconda metà dell’Ottocento, le opere di George Boole (18151864) (The Mathematical Analysis of Logic [1847]) e di Gottlob Frege (1848-1825)
(Begriffsschrift [Ideografia: 1879]), avviano un processo di profonda trasformazione
della logica in una prospettiva che, in pieno Seicento, era stata prefigurata da
Leibniz. Con le opere di Boole e Frege, la logica non solo prende a svilupparsi
ricorrendo a un linguaggio e a strumenti desunti dalla matematica, ma
progressivamente, a partire dai primi anni del Novecento, si propone essa stessa
strumento per l’indagine matematica. La “matematizzazione” della logica induce a
guardare ai rapporti tra logica e filosofia con rinnovato ottimismo: l’indagine
filosofica può finalmente dotarsi di uno strumento rigoroso, dal quale è auspicabile
attendersi la soluzione di antichi problemi. In anni più recenti, lo straordinario
sviluppo della logica matematica e il conseguente, alto grado di specializzazione che
ne ha investito tutti gli aspetti, hanno reso più complesso il rapporto tra logica e
filosofia. Molte delle originarie speranze hanno subito un ridimensionamento:
nondimeno, una buona conoscenza di base della logica continua a esser considerata,
M. Mugnai, Logica e Mondi possibili, in L. Floridi (a cura di), Linee di Ricerca, SWIF, 2003-6, pp. 673-711.
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dalla maggior parte dei filosofi contemporanei, un requisito essenziale per svolgere
seriamente l’attività filosofica. Conoscere la logica permette di dar forma rigorosa
alle argomentazioni, consente di evitare fallacie e, in generale, mette a disposizione
un potente strumento di analisi concettuale. La logica, tuttavia, non ha nei confronti
della filosofia un rapporto, per così dire, puramente propedeutico. Un ampio settore
della logica, caratterizzato ormai col nome di logica filosofica, si applica
all’indagine di tematiche filosofiche più o meno tradizionali. Tra queste figurano: la
ricerca concernente i vari significati dei concetti di necessità e possibilità; il
tentativo di caratterizzare logiche della conoscenza; la ricerca di leggi generali
capaci di dar conto del nostro discorso riguardo al realizzarsi di mutamenti o di
alternative; la costruzione di una logica che tratti con concetti “imprecisi”;
l’indagine volta a individuare logiche temporali, ecc. È bene tener presente, tuttavia,
che il carattere “filosofico” della logica filosofica non consiste nell’uso di strumenti
diversi da quelli della logica matematica “non filosofica”.
Un forte legame con la tradizione logica, a partire almeno da Aristotele, ce
l’hanno le cosiddette logiche modali, delle quali verranno illustrati in quel che segue
la genesi e alcuni caratteri fondamentali.
1. LOGICA MODALE: SIGNIFICATO DELL'ESPRESSIONE. ANTECEDENTI STORICI
Con buona approssimazione, possiamo caratterizzare la logica modale come quella
branca della logica che studia il comportamento di enunciati nei quali sono coinvolte
le espressioni: possibile, impossibile, necessario, contingente e altre ad esse affini.
La qualificazione espressa dal termine “modale” deriva dalla tradizione della logica
scolastica, secondo la quale le espressioni appena richiamate designavano “modi
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d'essere” o di “presentarsi” degli enunciati ai quali si riferiscono (oppure, come
vedremo, modi d'essere delle proprietà che venivano attribuite a un soggetto). I
logici scolastici riconoscevano che le modalità degli enunciati sono molteplici.
“Sapere”, per esempio, riferito a un enunciato (“sapere che p” – dove “p” è un
enunciato qualsiasi) era pensato anch'esso come un “modo d'essere” o una proprietà
dell'enunciato in questione (“esser saputo”, in tal caso). Un chiaro riconoscimento
della pluralità dei modi delle proposizioni si trova nella Summa logicae di Ockham:
Modale è quella proposizione nella quale viene posto il
modo [...] E bisogna sapere che, sebbene tutti i filosofi
siano pressoché concordi sul fatto che soltanto quattro
modi - vale a dire ‘necessario’, ‘impossibile’,
‘contingente’ e ‘possibile’ - rendono modale una
proposizione [...] - parlando in senso più generale, si
può dire che i modi che rendono modali le proposizioni
sono più di questi quattro.
[...][I]nfatti, come una proposizione è necessaria,
un’altra impossibile, un'altra possibile, un’altra ancora
contingente, così una proposizione è vera, un’altra
falsa, un’altra conosciuta, un’altra ignota, un’altra
proferita, un’altra scritta, un’altra ancora concepita,
un’altra creduta, un’altra opinata, un’altra dubitata, e
così via. Perciò, come viene detta modale la
proposizione nella quale è posto il modo ‘possibile’ o
‘necessario’ oppure ‘contingente’ o ‘impossibile’,
oppure un avverbio corrispondente a uno di questi
modi, è altrettanto ragionevole che si possa dire
modale una proposizione nella quale vien posto
qualcuno dei modi predetti1.
In questo brano l'ammissione dell'esistenza di molteplici modalità si accompagna
all'implicito riconoscimento del carattere esemplare delle quattro modalità costituite
da possibile, necessario, contingente e impossibile. In maniera analoga, nell'ambito
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della logica contemporanea, sebbene venga riconosciuta l'esistenza di differenti
tipologie di modalità, quelle definite da possibilità e necessità mantengono sulle
altre una sorta di posizione preminente: sono considerate, in certo senso, le modalità
per antonomasia.
Attualmente, tra i vari tipi di modalità si usano distinguere: modalità
assertorie (le modalità di enunciati che si limitano a descrivere o asserire un mero
stato di cose); modalità aletiche (si tratta di quelle modalità che specificano il modo
di esser vero di un enunciato, vale a dire se è necessariamente, possibilmente o
contingentemente vero); modalità deontiche (relative a ciò che è obbligatorio,
vietato o permesso); modalità epistemiche (come sapere); modalità doxastiche
(come credere). Si parla anche di modalità temporali, in relazione allo sviluppo di
logiche che trattano di enunciati la cui verità è legata al tempo; e di logiche
dinamiche, legate all’esecuzione di programmi in ambito informatico. La
preminenza delle modalità aletiche si spiega col fatto che la cosiddetta semantica a
mondi possibili ha consentito - a partire all'incirca dagli anni cinquanta - una
trattazione di queste modalità che si applica con successo anche al caso di altri tipi di
modalità.
Sebbene la logica modale abbia avuto ampio sviluppo in epoca medievale e,
soprattutto, tardo-medievale, un interesse verso di essa è documentato già nelle
opere logiche di Aristotele. Negli Analitici primi vengono introdotte come segue le
inferenze sillogistiche con premesse che includono modalità:
1
Guillelmi de Ockham, Opera philosophica et theologica. Opera philosophica I, Summa logicae,
New York, St. Bonaventure, 1974, pp. 242-43.
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Poiché sono differenti tra loro l’appartenere,
l’appartenere di necessità e altro ancora l’esser
possibile appartenere (molte cose infatti appartengono,
non però di necessità, mentre altre né appartengono di
necessità…né appartengono affatto, ma è possibile che
appartengano), è chiaro che diverso sarà il sillogismo
in ciascuno di questi casi ... [An Pr. I, 8, 29b 29]
Negli stessi Analitici primi, Aristotele dedica ampio spazio all'analisi dei sillogismi
modali, elaborando una complessa teoria che, sotto molti aspetti, costituirà uno dei
punti di riferimento per le speculazioni modali in epoca scolastica e oltre.
Nel capitolo IX del De interpretatione Aristotele affronta questioni relative
alla contingenza o necessità di certi enunciati; e le analisi contenute in questo
capitolo alimenteranno discussioni e controversie che saranno alla base delle dispute
scolastiche sui futuri contingenti.
In termini piuttosto schematici, la problematica dei futuri contingenti può
esser presentata nel modo seguente. Dato che, secondo la teologia cristiana, Dio è
onnisciente, prevede gli eventi futuri del mondo da lui stesso creato: Dio sa, per
esempio, che Adamo mangerà il frutto proibito. Sotto tale ipotesi, però, com'è
possibile affermare che il fatto di mangiare il frutto da parte di Adamo è contingente,
se condizione per considerare contingente un evento è che, pur verificandosi,
avrebbe potuto non verificarsi? Detto altrimenti: come si concilia la prescienza di
Dio, il quale vede che Adamo agirà in un certo modo, con l'affermazione che Adamo
potrebbe agire nel modo contrario? Non è difficile rendersi conto che, sul piano
teologico, si ha a che fare con una problematica delicata, che investe non soltanto
questioni relative alla concezione delle modalità, ma anche questioni riguardanti la
libertà dell’agire. Le discussioni scolastiche su questo argomento, e su altri di natura
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analoga, determinarono approfondite analisi delle modalità che, unendosi alle
trattazioni della logica modale contenute nei manuali o nelle “dispense” destinate
all'insegnamento della logica, dettero corpo a un dottrina assai raffinata e complessa
- tanto da giustificare il detto “De modalibus non gustabit asinus (Un asino non
potrà accostarsi allo studio delle modalità)”.
Il lungo brano che segue - tratto da un opuscolo attribuito a Tommaso
d'Aquino - può esser considerato esemplare per la capacità di esprimere alcune
acquisizioni centrali della logica modale medievale.
Poiché la proposizione modale è chiamata così dal
modo, per sapere cosa sia una proposizione modale
bisogna sapere innanzitutto cosa sia il modo. Ora, il
modo è una determinazione che accompagna una cosa,
e lo si ha quando un nome aggettivo viene aggiunto a
un sostantivo, così da determinarlo, come quando si
dice: “uomo è bianco”; oppure come quando viene
aggiunto un avverbio che determina il verbo, come
quando si dice: “uomo corre bene”. Bisogna anche
sapere che il modo è triplice: ora infatti determina il
soggetto della proposizione, come in “uomo bianco
corre”; ora determina il predicato, come in: “Socrate è
uomo bianco”, oppure “Socrate corre velocemente”;
ora determina la composizione stessa del predicato col
soggetto, come quando si dice: “che Socrate corra è
impossibile", ed è da questo solo modo che la
proposizione è detta modale. Le altre proposizioni,
invero, che non sono modali, sono dette de inesse. I
modi che determinano la composizione sono sei, vale a
dire: vero, falso, necessario, impossibile, possibile,
contingente. Tuttavia il vero e il falso non aggiungono
niente ai significati delle proposizioni de inesse. Infatti
viene significato lo stesso quando si dice: “Socrate non
corre” e “Socrate corre è falso”; oppure: “Socrate
corre” e “Socrate corre è vero”. Ciò però non accade
con gli altri quattro modi, poiché non viene significato
lo stesso, quando si dice “Socrate corre” e “Socrate
corre è possibile”. Pertanto, lasciati da parte il vero e il
falso, consideriamo gli altri quattro [modi].
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Dal momento che il predicato determina il soggetto
e non viceversa, affinché una proposizione sia modale
è necessario che i quattro modi predetti vengano
predicati e che il verbo che implica la composizione sia
posto in luogo di soggetto: la qual cosa si verifica se al
posto del verbo indicativo della proposizione si pone
l'infinito e al posto del nominativo l'accusativo, e si
chiama il tutto dictum della proposizione. Così il
dictum di questa proposizione: “Socrates currit
[Socrate corre]” è “Socratem currere [che Socrate
corre]”.
[...] Delle modali, alcune sono de dicto, altre de re.
La modale de dicto è quella nella quale tutto il dictum
funge da soggetto e il modo viene predicato, come in
“Socratem currere est possibile [che Socrate corra è
possibile]”. La modale de re è quella nella quale il
modo si interpone al dictum, come in “Socrate è
possibile che corra”. [...] Bisogna anche sapere che una
proposizione modale è detta affermativa o negativa, a
seconda dell'affermazione o negazione del modo e non
del dictum. Per cui, questa: “Socratem non currere est
possibile [che Socrate non corra è possibile]” è
affermativa. Mentre questa: “Socratem currere non est
possibile [che Socrate corra non è possibile]” è
negativa. Bisogna anche notare il fatto che il
necessario ha somiglianza col segno universale
affermativo [“Tutti”, “Ogni”], poiché ciò che è
necessario è sempre; l'impossibile ha somiglianza col
segno universale negativo [“Nessuno”], poiché ciò che
è impossibile non è mai. Il contingente, invero, e il
possibile hanno somiglianza col segno particolare
[“Qualche”], poiché ciò che è contingente e possibile,
talvolta è e talvolta non è [...] [Pseudo-Tommaso, De
propositionibus modalibus [Sulle proposizioni modali],
sec. XIII circa]2.
In questo brano è messa in luce in primo luogo la differenza tra enunciati
assertori, o de inesse, ed enunciati modali; quindi viene introdotta la distinzione,
canonica in epoca medievale, tra modalità de dicto e modalità de re. Secondo tale
distinzione, un enunciato modale è de dicto se il modo che lo qualifica si riferisce al
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dictum intero - vale a dire se “agisce” su tutto l'enunciato al quale viene riferito; è
invece de re se specifica il modo nel quale il predicato inerisce al (o si predica del)
soggetto. Così “Necessariamente (Socrate è saggio)” è de dicto, in quanto afferma
che l'enunciato “Socrate è saggio” è necessario o necessariamente vero; mentre
“Socrate è necessariamente saggio”, oppure “Socrate è saggio necessariamente”
sono de re, in quanto asseriscono che una “cosa” (res in latino: Socrate nel nostro
esempio) ha una certa proprietà necessariamente (asseriscono, cioè, che l'esser
saggio è una qualità necessaria di Socrate). Com'è evidente, il modo in cui è
presentata la distinzione scolastica de dicto/de re presuppone che la struttura
fondamentale di ogni enunciato sia nella forma “soggetto-copula-predicato"; e la
discussione se il modo debba riferirsi alla copula o al predicato continuerà a lungo in
ambito scolastico e tardo-scolastico, fino a tutto il secolo XVII, in particolare tra i
logici di cultura tedesca. La distinzione de dicto/de re si è mantenuta nella logica
modale contemporanea con lo stesso significato, sebbene venga applicata in maniera
diversa a causa del fatto che la struttura di base dell’enunciato non è più concepita
nei termini di soggetto, copula e predicato3.
2
Thomae Aquinatis, Reportationes, in Sancti Thomae Aquinatis Opera Omnia, (Indicis Thomistici
Supplementum), frommann-ho1zboog, Stuttgart, 1980, pp. 579-80.
3
Da Frege in poi, l’analisi logica dell’enunciato, ai fini della costruzione di un efficace linguaggio
artificiale, viene svolta sulla base della distinzione tra funzione e argomento, non più nei termini di
soggetto, copula e predicato. Con un’inversione della concezione tradizionale, la copula viene, per
così dire, assorbita entro il predicato. Mentre nella tradizione i verbi venivano “scomposti” in copula
e participio (“Socrate corre” diventava: “Socrate è corrente”), con l’analisi fregeana è come se
ciascun predicato fosse ricondotto a un verbo. Così, nel linguaggio logico artificiale post-fregeano,
l’enunciato “Socrate è saggio” diventa: “P(s)” – con “P” = esser saggio e “s” = Socrate
(analogamente a f(x), con “f” designante una funzione e “x” un suo argomento). La scomparsa della
copula rende difficile un’immediata trascrizione della distinzione scolastica de dicto - de re
all’interno degli attuali linguaggi formalizzati. In termini contemporanei, un criterio grossolano ma
efficace per stabilire se un enunciato modale è de dicto è quello di vedere se l’operatore modale
precede i quantificatori; è de re, invece, se tra di esso e la formula cui si riferisce non è interposto
alcun quantificatore. Rispetto alla tradizione scolastica, a essere rilevante non è più il rapporto tra
espressione modale da un lato, e soggetto, copula e predicato dall’altro. Così, formule come “ (Pa)”,
∀x (Px), ∀x◊(Qx) sono de re; mentre formule come ∀x(Px), ◊∀x ∃y(Qxy) sono de dicto.
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Un'altra importante precisazione che compare nel brano che stiamo
considerando concerne i rapporti tra negazione ed espressioni modali: l'autore
osserva che, per “p” enunciato qualsiasi, la negazione di “possibile p” è “non
possibile p” e non “possibile non-p”. Lo stesso vale, ovviamente, per le altre
modalità. Infine, si ha una precisazione che appare assai significativa, soprattutto se
la si considera tenendo presenti gli sviluppi a noi più vicini della logica modale:
l'autore coglie una somiglianza [similitudo] tra il necessario e il “segno” di quantità
universale “Tutti” (“Ogni”), da un lato, e il possibile e il segno di quantità
particolare “Alcuni” (“Qualche”), dall'altro. La somiglianza si fonda sul fatto che se
un enunciato è necessario, allora è vero in tutte le circostanze; mentre se è possibile,
allora è vero in qualche circostanza. Per l'esattezza, nel brano che stiamo
esaminando, si dice che “il necessario è sempre”, mentre l'impossibile non è “mai” e
il possibile (col contingente) “talvolta è e talvolta non è”: il necessario sembra
concernere in questo caso tutti i tempi (tutti gli istanti temporali), l'impossibile
nessun tempo (nessun istante); il possibile e il contingente qualche tempo (qualche
istante o periodo di tempo), senza che venga fatto esplicito riferimento al concetto di
“circostanza”. Ciò non toglie che sia comunque notevole l'intuizione dell’esistenza
di un nesso che lega tra loro i quantificatori “Tutti” (“Ogni”) e “Alcuni” (“Qualche”)
con le espressioni modali, rispettivamente, necessario e possibile.
Con la fine del medioevo e la reazione degli umanisti contro i logici
“barbari” della scolastica, l'interesse per la logica modale, nei secoli XV e XVI si
affievolisce. Sebbene la manualistica logica continui a conoscere un certo sviluppo,
lo studio delle modalità decade nettamente, rispetto agli standard raggiunti nei secoli
precedenti. Nel secolo XVII si assiste a un certo fervore di studi intorno alla logica
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modale, soprattutto in Germania e nei paesi nei quali si è affermata la Riforma
protestante. La cultura di osservanza cattolica - principalmente in Spagna e
Portogallo - continua a produrre una manualistica logica di buon livello, nella quale
sovente sono affrontate questioni di logica modale. Nel secolo XVIII, con
l'impoverirsi della trattatistica logica, si assiste a un pressoché definitivo
accantonamento della logica modale. Tra le varie cause che contribuiscono a questo
risultato figurano anche gli espliciti inviti, rivolti dai gesuiti agli insegnanti, a non
soffermarsi sulle modalità per evitare di turbare le coscienze con i problemi
riguardanti la predestinazione e la prescienza divina.
La rinascita della logica e il sorgere della forma matematica di logica, a
partire dalla seconda metà del secolo XIX, con le opere di G. Boole [1847] e G.
Frege [1879] non furono accompagnate da una ripresa di interesse per la logica
modale. Sebbene il logico e matematico Bernard Bolzano (1781-1848) tratti
esplicitamente questioni di logica modale nella sua monumentale Dottrina della
scienza, è soltanto con i contributi di Hugh McColl (1837-1909) che le modalità
ricompaiono in un ambito centrale della logica. McColl, pur muovendosi nell'ambito
della tradizione dell'algebra della logica, solleva il problema dell'interpretazione del
condizionale “se ..., allora ...". Per illustrare questo punto e, soprattutto, per
preparare adeguatamente dal punto di vista storico l'effettiva ripresa della logica
modale nel Novecento, sarà opportuno fare una breve parentesi, tornando alle origini
della speculazione logica occidentale.
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2. CONDIZIONALE FILONIANO E CONDIZIONALE STRETTO
Nell'antichità, accanto alla scuola logica fondata da Aristotele si era affermato
l'insegnamento della cosiddetta scuola “megarico-stoica”. Mentre la logica
aristotelica si fondava prevalentemente sull'analisi dell'inferenza sillogistica e
poneva perciò al centro dei propri interessi il rapporto tra termini (oggi diremmo:
“classi” o insiemi di oggetti), gli stoici erano interessati soprattutto ai nessi reciproci
tra enunciati o proposizioni. In maniera un po' sommaria, ma sostanzialmente fedele,
si può rappresentare il ragionamento sillogistico come un'inferenza che, date tre
classi di oggetti A, B e C, sulla base della conoscenza dei rapporti che intercorrono,
rispettivamente, tra A e C da un lato e tra B e C dall’altro, cerca di determinare la
natura dei rapporti che sussistono tra A e B. Questo schema generale risulta evidente
nel sillogismo di prima figura: “Tutti gli uomini sono mortali; Tutti i Greci sono
uomini; dunque, Tutti i Greci sono mortali” (si ponga “uomini” = “C”, “Greci” =
“A”, “mortali” = “B”).
I megarico-stoici, invece, in quanto hanno maggiore interesse per l'analisi dei
rapporti tra enunciati, rivolgono la propria attenzione al comportamento delle
espressioni linguistiche che legano tra loro, o connettono, gli enunciati stessi. In
conseguenza di ciò, definiranno le regole che governano gli usi logici di espressioni
come (i corrispondenti in greco delle espressioni italiane) “e”, “o”, “se ..., allora ...”,
ecc. Un tipico esempio di argomento (non sillogistico nel senso aristotelico) studiato
dagli stoici è: “Se è giorno, c'è luce; è giorno; dunque c'è luce”, che corrisponde allo
schema (per “p” e “q” enunciati qualsiasi): “Se p, allora q; p; dunque q”. Ora, è
proprio relativamente all'interpretazione del "comportamento" logico del connettivo
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“se..., allora ...” che, nell'ambito della scuola megarico-stoica, si ebbero divergenze
che si fissarono in tre posizioni distinte. Filone di Megara, secondo quanto riporta
Sesto Empirico, aveva proposto le seguenti condizioni di verità per il condizionale:
Filone diceva che la connessione [il condizionale] è
vera quando non accade che cominci col vero e finisca
col falso. Secondo lui ci sono perciò tre modi per
ottenere una connessione vera e uno solo per ottenerne
una falsa. E' vera infatti se comincia col vero e finisce
col vero, come per esempio: “se è giorno, c'è luce”; se
comincia col falso e finisce col falso, come, per
esempio: “se la terra vola, la terra ha le ali”;
analogamente per quella che comincia col falso e
finisce col vero, come, per esempio, “se la terra vola,
la terra esiste”. E' falsa soltanto quando, cominciando
col vero, finisce col falso, come ad esempio: “se è
giorno, allora è notte”. 4
Alle posizioni di Filone si contrapposero quelle di Diodoro Crono e di Crisippo.
Anche se la critica testuale non ha ancora raggiunto sufficiente chiarezza su questo
punto, sembra che Diodoro legasse la verità del condizionale al tempo:
probabilmente riteneva vero un condizionale della forma “Se p, allora q” se, per ogni
istante temporale t, non si dava il caso che p fosse vero a t e q falso a t. Secondo
Crisippo, invece, un condizionale è falso se sussiste un rapporto di incompatibilità
tra antecedente e conseguente. È ancora Sesto a illustrare la concezione di Crisippo:
È vera una connessione nella quale l'opposto del
conseguente è incompatibile con l'antecedente, come
ad esempio: “se è giorno, c'è luce”. Essa è vera perché
“non c'è luce”, opposto del conseguente, è
incompatibile con “è giorno”.5
4
Il testo è tratto da I. M. Bochenski, La logica formale, vol. I, Dai presocratici a Leibniz, Einaudi,
1972, p. 159
5
Ivi, p. 161.
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Secondo l'impostazione filoniana, un condizionale della forma "se p, allora q” (per p
e q enunciati qualsiasi) risulta falso soltanto se l'antecedente (“p”, nel nostro
esempio) è vero e il conseguente (“q”) falso. Perché un condizionale sia vero ci si
limita a richiedere che non si verifichi questa situazione. Diodoro e Crisippo, invece,
chiedono che siano soddisfatte condizioni ulteriori: Diodoro in rapporto al tempo e
Crisippo riguardo alla compatibilità tra antecedente e conseguente. Quasi certamente
a sollevare l'ostilità nei confronti del condizionale filoniano era il fatto che per la sua
verità non si richiede altro rapporto tra antecedente e conseguente, se non quello
determinato dai valori di verità. Così, secondo Filone, un condizionale del tipo “se è
notte, allora 2 + 2 = 4” risulterebbe vero anche se fosse giorno, dal momento che ha
il conseguente vero.
Con ogni probabilità, Crisippo aveva cercato di dare condizioni di verità per
il condizionale che rispecchiassero più da vicino quelle dell'uso “comune”, che
presuppone quasi sempre un nesso di tipo semantico tra antecedente e conseguente.
L'incompatibilità tra antecedente e opposto del conseguente della quale parla
Crisippo va intesa nel senso che un condizionale è falso se è impossibile che
l'antecedente sia vero e il conseguente falso.
Con la fine dell'antichità e l'affermarsi di uno stile eclettico in filosofia,
tendente a mescolare tra loro le varie posizioni filosofiche, diventa sempre meno
chiaro il confine tra logica di impianto aristotelico e logica di ispirazione megaricostoica. Già i manuali di logica del primo o del secondo secolo dopo Cristo
presentano una dottrina ibrida: il più delle volte innestano elementi stoici su una
base prevalentemente sillogistico-aristotelica. Nel passaggio dall'antichità al
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medioevo, si perde così il senso della distinzione tra i differenti tipi di condizionale:
addirittura, il condizionale viene pressoché identificato col cosiddetto sillogismo
ipotetico - il sillogismo aristotelico espresso in forma condizionale. Sarà Boezio
(470 - 525 d. C.), proprio col De syllogismis hypotheticis, a tramandare nella cultura
logica scolastica una quantità considerevole di concetti e spunti tratti dall'ormai
estinta tradizione megarico-stoica.
Durante il medioevo, la logica conosce una progressiva fioritura, che la
porterà a sviluppi straordinari, per certi versi affini a quelli che avrà nel secolo XIX.
Sembra però che i logici medievali debbano riscoprire da soli gran parte della
dottrina logica elaborata nell'antichità, della quale si era perduta quasi
completamente ogni traccia. Nonostante si applichino allo studio dei connettivi
logici (chiamati sincategoremi [syncathegoremata]), non giungono tuttavia a
recuperare con chiarezza e, soprattutto, consapevolezza, il significato della
distinzione tra i vari tipi di condizionale. Il condizionale di tipo “crisippeo” sembra
prevalere negli usi e nelle teorizzazioni dei principali autori scolastici. Difficile è
trovare istanze di condizionale filoniano. Questa difficoltà è aggravata dal fatto che,
in esposizioni informali - prive cioè del riferimento a un apparato simbolico rigoroso
- il linguaggio ordinario si presta ad ambiguità. Così, quando un autore medievale
scrive che un condizionale è vero quando “è impossibile che l'antecedente sia vero e
il conseguente falso”, è difficile stabilire se la locuzione “è impossibile” debba
intendersi come un semplice “se non si dà (di fatto) il caso che...”, oppure se sia
veramente l'espressione di una modalità.
Le stesse difficoltà di determinare in maniera non equivoca la natura del
condizionale si incontrano presso la maggioranza dei logici che operano nel periodo
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che va, all'incirca, dalla fine del medioevo alla seconda metà del secolo XIX. In
molti autori il condizionale viene usato senza che ne venga specificato in modo
chiaro il significato e, in ogni caso, senza che si abbia la percezione chiara delle
differenti interpretazioni messe a fuoco dagli stoici. Sotto questo riguardo, perciò, è
del tutto eccezionale la consapevolezza storica di Charles Sanders Peirce (18391914), il quale afferma:
Filone sosteneva che la proposizione "se lampeggia,
allora tuonerà” è vera se non lampeggia o se tuonerà,
mentre è falsa se lampeggia e non tuona. Diodoro non
era d'accordo: o gli storici dell'antichità non hanno
compreso Diodoro o lui stesso si spiegava male. In
realtà, nessuno è stato in grado di formulare
chiaramente la sua concezione, nonostante siano stati
in molti a provarci. La maggior parte dei logici
migliori sono stati seguaci di Filone, mentre i più
scadenti hanno seguito Diodoro. Per quel che mi
concerne, io sono un seguace di Filone, anche se penso
che non sia mai stata resa giustizia a Diodoro.
[…] è completamente irrilevante quel che
accade nel linguaggio ordinario. L'idea medesima di
logica formale comporta che siano costruite certe
forme canoniche di espressione, i cui significati
vengono governati da regole inesorabili [...] Tali forme
canoniche devono esser definite senza alcun riguardo
all'uso […]6.
Pur essendo consapevole del fatto che nell'antichità venivano attribuiti differenti
significati al condizionale, Peirce dichiara di non riuscire a comprendere il
condizionale diodoreo, e si schiera a favore, nell'ambito della “logica formale”, del
condizionale filoniano. Interessanti sono le motivazioni di questa scelta: lo studio
6
C. S. Peirce, Reasoning and the Logic of Things, Harvard University Press, Harvard, 1992, pp. 125 26.
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scientifico della logica non deve uniformarsi agli usi del linguaggio ordinario. Peirce
ritiene che il condizionale filoniano sia, per certi versi, quello che meglio si adatta
alle esigenze dell'algebra della logica come era stata pensata da Boole.
Tuttavia, si deve proprio a un logico appartenente al filone algebrico la
riscoperta e la valorizzazione, alla fine dell'Ottocento, di un condizionale non
filoniano (analogo a quello di Crisippo). Nel 1880, Hugh McColl (1837-1909)
presenta sulla rivista “Mind” un calcolo logico, nel quale definisce un condizionale
facendo riferimento a nozioni modali; e nel Symbolic Logic del 1903 introduce un
condizionale “p ⇒ q” che:
1) non può esser definito mediante il semplice ricorso ai soli valori di verità; e
2) equivale, da un punto di vista logico, a “è impossibile (p e non-q)”.
È con Clarence Irving Lewis (1883-1964) che si ha l'effettiva ripresa della
logica modale ai primi del Novecento. In un celebre articolo comparso su “Mind”
nel 1912, Lewis contesta la centralità del condizionale filoniano, o “materiale”
(com'era - ed è ancora oggi - chiamato), e propone di elaborare un calcolo logico che
si fonda sull'implicazione stretta. Lewis chiama “implicazione stretta” il
condizionale che risulta vero quando è impossibile che l'antecedente sia vero e il
conseguente falso: sotto questo riguardo, il condizionale filoniano, o materiale, non
stabilisce un nesso stretto tra antecedente e conseguente, dal momento che, per la
sua verità si richiede semplicemente che di fatto non si dia il caso che l'antecedente
sia vero e il conseguente falso. Naturalmente, “impossibile” o “non possibile” sono
espressioni modali; e dire di qualcosa che non è possibile (è impossibile) che non si
verifichi, equivale a sostenere che si verifica necessariamente: il condizionale stretto
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equivale dunque ad asserire la necessità del condizionale - cioè che il condizionale
in questione è necessariamente vero.
Lewis non si limita a sostenere la superiorità del condizionale stretto rispetto
a quello materiale, ma - in opere successive al saggio menzionato - costruisce anche
una serie di calcoli modali, alcuni dei quali rimarranno in seguito "canonici". Nel
capitolo VI del volume intitolato Symbolic Logic (1932), scritto in collaborazione
con Cooper H. Langford, Lewis assume come primitivo l’operatore di possibilità e
sviluppa due sistemi assiomatici che chiama, rispettivamente, “S1” e “S2”; in
appendice al volume accenna quindi ad altri sistemi: S3, S4, S5. I nomi di questi
sistemi rimarranno inalterati fino ad oggi nella letteratura sulla logica modale. I
calcoli di Lewis privilegiano una concezione non-filoniana del condizionale e
vengono concepiti dal loro autore in alternativa ai calcoli dei sistemi formali non
modali come quello dei Principia Mathematica di Whitehead e Russell (1910-13, in
3 volumi).
Nel 1918, il logico polacco Jan Lukasiewicz, in un saggio che diverrà
celebre, in quanto getta le basi per la costruzione di logiche a infiniti valori, propone
di uscire dalle strettoie del determinismo (che ritiene affligga la logica di origine
aristotelica), introducendo, oltre ai due valori vero (= 1) e falso (= 0), anche un terzo
valore di verità (= 1/2). Lukasiewicz caratterizza come "possibile" tale valore di
verità, ma poi, nel sistema logico corrispondente (che esprime appunto la possibilità
mediante 1/2), considera valida l'inferenza da “possibile p e possibile q” a “possibile
(p e q)”: un passaggio questo difficilmente accettabile secondo le più comuni
accezioni di possibile (da “è possibile che Socrate sia in piedi e è possibile che
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Socrate sia seduto” non è legittimo inferire “è possibile che Socrate sia in piedi e che
Socrate sia seduto” – cioè che Socrate sia seduto e in piedi simultaneamente).
Nel 1930 un importante contributo allo sviluppo della logica modale in una
prospettiva vicina a quella di Lewis viene dato dal lavoro di Oskar Becker (18891964), seguito poi da altri saggi dello stesso autore nel 1951 e nel 1952.
In un breve saggio pubblicato nel 1933: Eine Interpretation des
intuitionistischen Aussagenkalküls [Una interpretazione del calcolo enunciativo
intuizionistico], Kurt Gödel mostra come i sistemi di logica modale scoperti da
Lewis possano essere generati estendendo con opportuni assiomi modali una base
del calcolo enunciativo standard (come quello presente nei Principia di Russell e
Whitehead).
Nel 1951 Georg H. von Wright pubblica An Essay on Modal Logic (ed.
North Holland, Amsterdam) e un lavoro dedicato alla logica deontica (Deontic
Logic, in "Mind", 60, pp. 1-15), nei quali la logica modale è concepita come base
per indagare una pluralità di modi o atteggiamenti conoscitivi, quali il credere, il
conoscere, ma anche l'essere obbligato, l'assumere come norma, ecc.
I calcoli di Lewis, e poi gli altri che ad essi seguirono, ponevano però il
problema di trovare una semantica che fosse in grado di render conto delle differenti
concezioni modali che stavano alla loro base. In ciascun sistema modale, poste certe
formule iniziali (assiomi) venivano dedotte mediante regole una serie di
conseguenze o teoremi caratteristici di quel sistema: a fronte di tale sviluppo
sintattico, quel che mancava era un correlato semantico adeguato, un'interpretazione
plausibile dei teoremi ottenuti e delle differenze tra i vari sistemi.
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3. MONDI POSSIBILI
La storia che porta all'elaborazione di una semantica per la logica modale è
abbastanza recente: risale all'incirca alla fine degli anni Cinquanta. Una delle idee
fondamentali sulle quali tale semantica si basa si spinge tuttavia ancora più indietro
nel tempo, almeno fino a Leibniz. Si tratta dell'idea di mondo possibile. Vediamo di
richiamarne per sommi capi l'evoluzione.
Che quello che chiamiamo “mondo attuale”, vale a dire il complesso insieme
di oggetti e situazioni nel quale ci troviamo a vivere, avrebbe potuto essere diverso,
è un'ovvia riflessione che già i filosofi antichi avevano fatto. Tuttavia è soltanto con
l'affermarsi dell'idea di un Dio creatore che si fa strada la concezione di una pluralità
di “mondi possibili” tra i quali Dio sceglie quello da chiamare all'esistenza. I Padri
della Chiesa, prima ancora dei pensatori medievali, paragonano Dio a un saggio
architetto che, per creare il mondo, esamina una serie di modelli ideali dei possibili
candidati tra i quali far cadere la propria scelta. I mondi che non verranno creati
saranno possibili non attuati. I filosofi medievali affronteranno una serie di sottili
questioni riguardo ai mondi possibili: quale sia la loro natura ontologica - se cioè
esistano (in un qualche senso di “esistere”) nella mente divina; fino a che punto
ammettano leggi di natura completamente diverse da quelle che regolano il nostro
mondo, ecc. Naturalmente, l'idea di “mondo possibile” che è implicita in questa
tradizione presuppone che i mondi non attuati dei quali si parla siano, più o meno,
variazioni del “macroscopico ammasso di oggetti” che ci circonda e del quale
facciamo parte. Per tutto il periodo post-medievale e fino alla seconda metà del
Seicento, il riferimento ai “mondi possibili” continua a trovare la propria sede
naturale nelle discussioni di teologia. Durante il secolo XVII un rinnovato interesse
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per questo tema si registra nella cultura teologico-filosofica spagnola; è con Leibniz
tuttavia, che viene affrontato in una luce nuova.
Leibniz ritiene che, se si vuol preservare la libertà divina in relazione alla
scelta di creare il mondo attuale, è indispensabile riconoscere che Dio ha scelto sulla
base non di un solo modello, ma di una molteplicità - addirittura un numero infinito
- di modelli di mondo. Ciascun modello di mondo, specificato nei minimi dettagli, è
un “mondo possibile”. L'insieme dei mondi possibili dà luogo a quello che Leibniz
chiama il paese dei possibili, vale a dire a uno spazio logico “situato” nella mente di
Dio. L'aspetto innovativo della concezione leibniziana consiste nel collegare
esplicitamente la valutazione degli enunciati modali alla metafisica dei mondi
possibili.
Secondo una consolidata tradizione, risalirebbe a Leibniz la definizione di
enunciato necessariamente vero come quell'enunciato che è vero in tutti i mondi
possibili. È stato osservato, tuttavia, che in nessuno scritto leibniziano si troverebbe
tale definizione esattamente negli stessi termini. Questa osservazione è corretta,
perlomeno se consideriamo i testi leibniziani finora editi. Bisogna riconoscere però,
da un lato, che l'accettazione di siffatta definizione segue direttamente dalle
assunzioni teorico-dottrinali del pensiero di Leibniz; dall'altro, che almeno in un
testo Leibniz asserisce che la classe delle verità eterne (necessarie) coincide con la
classe degli enunciati che rimarrebbero veri anche se Dio avesse creato il mondo in
maniera diversa. Il che sembra soltanto un modo alternativo di dire che le verità
necessarie sono enunciati veri di ogni mondo possibile. Resta da sottolineare che
Leibniz non riesce a fare un uso coerente delle proprie intuizioni riguardo alle
modalità. Se può esser considerato il padre della moderna semantica a mondi
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possibili, lo è fondamentalmente per avere avuto l'idea di esprimere le modalità
usando la quantificazione su un dominio di mondi possibili.
Quest'idea viene ripresa nel 1947 da Rudolf Carnap (1891-1970) in Meaning
and Necessity7. In questo stesso periodo tale idea viene arricchita dall'introduzione
di una “relazione di accessibilità” tra mondi che - già prefigurata in alcuni lavori di
Alfred Tarski (1902-1983) (composti in collaborazione, rispettivamente, con J. C.
Mc Kinsey e B. Jonsson) - viene sviluppata da Arthur N. Prior (1914-1969) in
rapporto alle logiche temporali e articolata infine, con diversi gradi di chiarezza, da
Stig Kanger, Jaakko Hintikka e Saul Kripke. E’ ormai consuetudine attribuire
proprio al filosofo e logico americano S. Kripke il merito di aver dato compimento
alla “semantica a mondi possibili” (o, appunto, “semantica kripkeana”) con
l’elaborazione esplicita della nozione di “relazione di accessibilità” tra mondi.
4. CALCOLO DEGLI ENUNCIATI E CALCOLO DEI PREDICATI. SINTASSI E SEMANTICA.
Di solito si distinguono due momenti nella costruzione di un sistema formale: un
momento sintattico e un momento semantico.
Il momento sintattico si incentra essenzialmente nella specificazione di un
apparato simbolico e di regole per manipolare i simboli, senza porre il problema
della loro interpretazione. L’approccio assiomatico allo studio di un certo tipo di
sistema logico presuppone, in primo luogo, che venga individuato un alfabeto sul
7
In realtà Carnap parla di "descrizioni di stato" (state-descriptions) e afferma che «the statedescriptions represent Leibniz' possible worlds or Wittgenstein's possible state of affairs» (R. Carnap,
Meaning and Necessity. A Study in Semantics and Modal Logic, University of Chicago Press,
Chicago and London, 1947, p. 9. Per la definizione di state-description, cfr. ibidem). La connessione
tra mondi possibili e descrizioni di stato è resa esplicita nei termini seguenti (p. 10 della stessa
edizione): «Since our state-descriptions represent the possible worlds, this means that a sentence is
logically true if it holds in all state-descriptions».
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quale si costruisce un linguaggio, fornendo opportune regole di formazione delle
espressioni. Tali regole dicono quali successioni di simboli debbano essere accettate
come espressioni ben formate e quali no. Vengono quindi specificati:
a) un insieme di formule del linguaggio che sono dette assiomi (talvolta date nella
forma di schemi di assiomi8);
b) un insieme di regole che consentono di operare trasformazioni sugli assiomi e
sulle espressioni ben formate ottenute dagli assiomi.
Gli assiomi stessi e le espressioni ben formate che si ottengono dagli assiomi per
applicazione delle regole, sono detti teoremi. Nella considerazione sintattica, la
nozione di “esser teorema” nel senso di “derivare dagli assiomi in base alle regole di
inferenza” svolge un ruolo predominante.
Il momento semantico, invece, coinvolge il significato dei simboli descrittivi
(e quindi delle espressioni) del sistema formale e la nozione di verità: dato il
linguaggio del sistema, si conferisce un significato alle espressioni ammesse, per cui
diventa sensato stabilire se quel che viene affermato da siffatte espressioni è vero o
no.
Oltre alla distinzione appena richiamata tra sintassi e semantica, un’altra
distinzione che si usa fare è quella tra calcolo enunciativo e calcolo dei predicati.
Nel calcolo enunciativo viene affrontato lo studio dei rapporti di connessione
logica tra enunciati qualsiasi: vengono specificate regole per la costruzione di
enunciati complessi a partire da enunciati semplici, e le lettere enunciative che
denotano gli enunciati semplici, o “atomici”, designano tali enunciati senza che sia
8
Uno schema di assiomi è un’espressione che rappresenta un numero infinito di assiomi; per
esempio, la formula α→(β→α) è uno schema di cui p→(q→q), (p & q)→((r → s) → (p & q)) sono
istanze particolari.
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possibile ricostruire le differenze anche strutturali che, per esempio, sussistono tra
enunciati come “piove”, “Tutti gli uomini sono mortali”, “Socrate è un filosofo”,
ecc.
Il calcolo dei predicati, invece, si interessa, per così dire, della “grana fine”
degli enunciati. Mentre infatti nel calcolo enunciativo un’asserzione del tipo: “Se
tutti gli uomini sono mortali e tutti i Greci sono uomini, allora tutti i Greci sono
mortali” viene semplicemente ricondotta alla forma: “((p & q) → r)”, nel calcolo
predicativo si cerca di rendere il carattere specifico delle singole asserzioni
componenti e di dar conto della loro diversità, mettendo a punto un trattamento
rigoroso della quantificazione. Di conseguenza, sia il linguaggio sia la
strumentazione logica del calcolo predicativo risulteranno più ricchi e complessi di
quelli del calcolo degli enunciati.
Momento sintattico e momento semantico fanno parte tanto del calcolo
enunciativo quanto del calcolo predicativo.
Nel caso del calcolo enunciativo il momento semantico consiste nello
specificare il significato dei simboli che denotano i vari enunciati e, a questo
riguardo, si assume che l’unica informazione rilevante concerna il loro esser veri o
falsi. Naturalmente “2 + 2 = 4” e “Tutti gli uomini sono mammiferi” sono due
enunciati con differente “contenuto semantico”; abbiamo visto però che il calcolo
enunciativo non si spinge in profondità nell’analisi, e quindi nella differenziazione,
degli enunciati. Quel che conta è il loro valore di verità. Così si assume, in certo
senso, che allo stesso modo in cui Socrate è il significato del nome “Socrate”, il vero
sia il significato di “2 + 2 = 4” e di “Tutti gli uomini sono mortali”. Si ha a che fare,
in tale circostanza, con una semantica “povera”, ridotta ai minimi termini.
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Nel caso del calcolo predicativo, il momento semantico prevede una
procedura più complessa. Poiché, come si è detto, in esso si cerca di specificare
com’è fatto ogni singolo enunciato, si ha un apparato simbolico più ricco di quello
del calcolo enunciativo: si hanno simboli per designare individui, simboli per
predicati, per funtori e per esprimere la generalità (“Per ogni…”; “Esiste…”).
L’attribuzione di un significato ai simboli descrittivi del linguaggio comporta che
ciascun simbolo descrittivo venga interpretato su un insieme non vuoto di “oggetti”,
che costituiscono le “cose” intorno alle quali verte il discorso.
Sebbene il calcolo enunciativo abbia minor potere espressivo rispetto al
calcolo dei predicati, questo “difetto” è compensato dal fatto che ad esso è
applicabile un metodo effettivo per determinare se una qualsiasi formula è una
formula valida o no (un teorema o no). Una maniera per attuare tale metodo è quella
di far ricorso all’uso delle cosiddette “tavole di verità”.
5. POSSIBILE, NECESSARIO E I CONNETTIVI VERO-FUNZIONALI
Le tavole di verità forniscono un metodo per definire il significato dei connettivi
logici (di espressioni cioè come “non”, “e”, “o”, “se…allora…”, ecc.). Le tavole di
verità, infatti, descrivendo il comportamento dei connettivi, ci informano riguardo a
come debbano essere intesi. Poiché in questo modo il significato dei connettivi è
determinato dall’uso logico che di essi viene fatto, si è soliti parlare di “significato
come uso”. Si consideri, per esempio, il connettivo “non”; se usiamo il simbolo “¬”
per rappresentarlo, e indichiamo con “p” un enunciato qualsiasi, possiamo
descriverne il comportamento mediante la seguente tavola:
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Massimo Mugnai – Logica e Mondi possibili
p
¬p
0
1
1
0
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La tavola mostra che, se un dato enunciato p è vero, qualora gli venga preposta la
particella “non” diventa falso e che, viceversa, “non-p” diventa vero se p è falso. La
verità o falsità dell’enunciato composto “¬ p” dipende dalla verità o falsità
dell’enunciato componente p. Il non è un connettivo unario, in quanto si applica a
un solo enunciato alla volta, ma lo stesso metodo può essere applicato agli altri
connettivi binari corrispondenti a e, o, se…allora…ecc. La tavola di verità della e
(resa col simbolo “&”), per esempio, è la seguente:
p
q
p&q
1
1
1
1
0
0
0
1
0
0
0
0
Anche in questo caso, la verità dell’enunciato complesso dipende dalla verità o
falsità degli enunciati componenti. Lo stesso meccanismo si può applicare ai restanti
connettivi. Vediamo ancora quella del condizionale filoniano o materiale (“se…,
allora…” lo rappresentiamo col segno “→”; per cui lo schema di enunciato
condizionale “se p, allora q”, lo rappresenteremo con “p → q”):
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700
p→q
p
q
1
1
1
1
0
0
0
1
1
0
0
1
Quando si valuta un condizionale non vogliamo che nel passaggio dall’antecedente
al conseguente si abbia una “diminuzione” nel valore di verità; perciò accettiamo i
casi in cui si passa dal vero al vero o dal falso al vero o dal falso al falso, mentre
rifiutiamo quello che ci fa inferire il falso dal vero.
I connettivi il cui comportamento può essere determinato in questo modo,
vale a dire semplicemente tenendo conto delle condizioni di verità degli enunciati ai
quali si applicano, vengon detti “verofunzionali”. Non verofunzionali sono invece
gli operatori modali come necessario, possibile, impossibile, ecc.: per determinarne
il comportamento, cioè, non è sufficiente considerare le condizioni di verità degli
enunciati ai quali si applicano. Poniamo infatti che, al solito, “p” designi un
enunciato qualsiasi, e che “◊” e “ ” significhino, rispettivamente, “possibile” e
“necessario”; affrontiamo quindi il problema di come costruire una tavola di verità
per “possibile p” e “necessario p”:
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p
◊p
1
1
0
?
p
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p
1
?
0
0
Se “p” è vero, allora è certamente possibile (è possibile che sia vero: si rammenti il
detto degli scolastici «ab esse ad posse valet consequentia (è valido il passaggio
dall’essere al possibile)»). Se invece “p” è falso, cosa inferire riguardo al suo essere
possibilmente vero? Dal fatto che è falso che vi sia oggi un unico vaccino efficace
contro ogni forma di tumore non segue che tale vaccino sia impossibile. Se quindi
“p” è falso, da ciò non possiamo concludere che anche “◊ p” lo sia. Possiamo
concludere allora che “◊ p” è vero? Anche in questo caso l’informazione circa la
falsità di “p” non ci è di aiuto: se un enunciato “p” risulta falso del nostro mondo,
non è detto che, sotto certe condizioni, non sia possibile che sia vero; ma non è
neppur detto che non sia impossibile (nell’esempio precedente, l’esistenza di un
vaccino per ogni tipo di tumore potrebbe essere impossibile). Un discorso analogo
ma, per così dire, inverso rispetto a quanto accade col possibile, accade col
necessario. Se “p” è falso, certamente non può essere un enunciato necessario, dal
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momento che un enunciato necessariamente vero è vero in ogni circostanza; ma se
“p” è vero, non è detto lo sia necessariamente (dal fatto che adesso il mio gatto
muove la coda non è legittimo inferire che l’enunciato “il mio gatto muove la coda”
sia necessariamente vero). Certamente, se sappiamo per certo che un determinato
enunciato è necessario, allora sappiamo anche che è vero, ma il viceversa non vale.
Le tavole di verità dunque non bastano, da sole, a valutare gli enunciati
modali: occorre ricorrere a un metodo più complesso. Con buona approssimazione
possiamo pensare siffatto metodo come ottenuto sfruttando tre elementi:
1) l’analogia tra operatori modali (necessario e possibile) e quantificatori (“per ogni
x” e “esiste almeno un x”);
2) il riferimento a un insieme di “oggetti” detti mondi possibili;
3) la relazione di accessibilità tra mondi.
Abbiamo visto sopra che già i logici scolastici si erano accorti dell’esistenza di
un’affinità tra operatori modali e quelli che all’epoca erano chiamati “segni di
quantità” (in italiano: “Tutti/Ogni”, “Alcuni/Qualche”). Lo Pseudo-Tommaso, come
si ricorderà, aveva assimilato il possibile al “vero in qualche istante” e il necessario
al “vero in ogni istante”. Leibniz, in seguito, farà il passo di considerare il necessario
come il “vero in ogni mondo possibile”. In un certo senso possiamo pensare al
ricorso ai mondi possibili come a una strategia che consente di ricondurre il
trattamento di concetti sfuggenti come quelli di necessario e possibile, all’ambito
più familiare della logica quantificata. Così, “è possibile p” e “è necessario p”
vengono interpretati, rispettivamente, come: “esiste un mondo w tale che a tale
mondo p è vero” e “per ogni mondo w, a tale mondo p è vero”. La relazione di
accessibilità ci permette infine di determinare le condizioni sotto le quali da un dato
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mondo si possono avere informazioni riguardo a quel che si verifica in un altro. Il
fatto rilevante è che, mediante la relazione di accessibilità, si è in grado di
specificare opportuni assetti tra mondi che forniscono differenti modelli per i vari
sistemi modali.
Per avere un’idea di cosa si intenda con tale relazione, si pensi, per esempio,
che ciascuno di noi può immaginare un individuo del tutto identico a se stesso che
vive in una situazione (in un mondo) differente da quella nella quale egli attualmente
si trova. È plausibile ritenere che questo alter ego non abbia alcuna consapevolezza
della situazione nella quale si trova colui che fa l’atto di immaginare. Si tratta di un
caso in cui la relazione di accessibilità da un mondo all’altro è asimmetrica: noi
concepiamo il mondo col nostro alter ego, ma il nostro alter ego non ha idea del
mondo nel quale noi ci troviamo. Oppure si pensi a un’innovazione tecnologica che
non può realizzarsi nel nostro mondo, in quanto mancano in esso certe risorse
materiali (poniamo una struttura atomica della materia completamente diversa dalla
nostra). Dal nostro mondo w1, nel quale quell’innovazione non è realizzabile,
possiamo pensare a un mondo w2 con struttura della materia differente dal nostro: da
quel mondo sarebbe senz’altro concepibile una situazione – un mondo w3 - nel quale
l’innovazione viene realizzata. Così, dal nostro mondo w1 abbiamo accesso al
mondo w3, nel quale viene realizzata l’innovazione, “passando” attraverso il mondo
w2: abbiamo a che fare, in tal caso, con una relazione di accessibilità transitiva.
Al fine di dare un correlato intuitivo alla relazione di accessibilità, si è soliti
chiamare in causa l’atto di vedere: un mondo ha accesso a un altro se dal primo si
“vede” quel che si verifica nel secondo. Quindi se, per esempio, da un mondo wi si
“vede” quel che accade in un mondo wk e se da wk si vede wi, tra i due mondi
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sussiste una relazione di accessibilità simmetrica. Sia la nozione di “esser
concepibile” sia quella di “vedere” sono nozioni ausiliarie, da impiegare per dare
un’idea di come funziona la relazione binaria (che vale cioè tra due mondi) di
accessibilità. Il punto importante è che tale relazione gode di proprietà quali, per
esempio, quelle appena menzionate della simmetria e della transitività, che possono
essere specificate in modo matematicamente rigoroso.
Riassumendo, gli strumenti di cui disponiamo, da un punto di vista
strettamente logico, per analizzare gli enunciati modali sono i seguenti:
a) un opportuno linguaggio formale L, nel quale siano stati definiti in modo
rigoroso: un alfabeto di riferimento; cos’è una formula ben formata; quali sono i
connettivi logici impiegati; quali sono le regole ammesse per passare da una o
più formule a un’altra, ecc.;
b) un insieme non vuoto W i cui membri vengono chiamati mondi possibili;
c) una relazione binaria R su W (detta di accessibilità);
d) una funzione v, chiamata valutazione su <W, R>, che associa a ciascuna coppia
costituita da una formula enunciativa pi di L e da un elemento wi di W, un
elemento nell’insieme {0, 1} (0 e 1 è naturale pensarli come equivalenti,
rispettivamente, al falso e al vero). Detto altrimenti: la funzione v determina se
una data formula enunciativa pi di L è vera o falsa sul mondo wi.
6. MODELLI E TELAI. ALCUNI ESEMPI NOTEVOLI
La tripla ordinata <W, R, v> costituisce il modello M; la coppia <W, R> può esser
chiamata “telaio” – termine italiano corrispondente all’espressione inglese frame; di
M si dice che “è basato” sul telaio <W, R>.
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Gli strumenti sommariamente richiamati permettono di definire, per qualsiasi
formula enunciativa pi di L, la relazione di vero rispetto al mondo wi nel modello M.
Questa relazione viene utilizzata a sua volta per determinare in modo naturale cosa
significa che una formula enunciativa pi è necessariamente vera: pi risulta
necessariamente vera rispetto a un mondo wi in un modello M basato sul telaio
<W,R> se e soltanto se pi è vera in ogni mondo wk che appartiene a M e tale che sta
con wi nella relazione R.
Senza entrare in ulteriori dettagli tecnici, che sarebbe inopportuno affrontare
in questa sede, converrà mettere in rilievo alcuni aspetti filosoficamente rilevanti
della trattazione fin qui svolta. In primo luogo emerge l’idea di una sorta di
relativizzazione del concetto di necessario (e quindi di possibile: fin dall’antichità è
noto infatti che necessario e possibile sono inter-definibili (“necessario p” equivale
a “non possibile non-p”; “possibile p” equivale a “non necessario non-p”)). Sebbene
l’intuizione fondamentale rimanga quella di considerare necessariamente vero un
enunciato che è vero in tutti i mondi possibili, il concetto di “vero in tutti i mondi
possibili” viene limitato dalla relazione di accessibilità: un dato enunciato p è
necessario se è vero in tutti i mondi possibili accessibili a un dato mondo (il mondo
dal quale p risulta appunto necessariamente vero).
Per dare un’idea di come funzioni il meccanismo della necessità condizionata
dalla relazione di accessibilità, vediamo alcuni esempi. A tale scopo adotteremo un
modo di argomentazione “semi-formale”, ricorrendo ai simboli introdotti sopra: “ ”
per necessario e “◊” per possibile. In primo luogo bisogna tener presente che, se si
vuol preservare un senso alla logica modale, tra i teoremi dei vari sistemi modali
non deve figurare il seguente enunciato:
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(*) p →
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p, ossia: “se p è vero, allora p è necessariamente vero”.
L’accettazione di questo principio porterebbe infatti a equiparare vero e
necessariamente vero, dando luogo a quello che viene chiamato “collasso delle
modalità”. Bisogna stare attenti perciò a non confondere (*) con il seguente
enunciato che invece è un teorema caratteristico del sistema modale solitamente
contraddistinto con la lettera T:
(1)
p → p: se p è necessario, allora p è vero.
(1) è un teorema – e quindi risulta valido, vale a dire sempre vero – in ogni modello
M basato su un telaio <W, R> in cui R è una relazione riflessiva – tale cioè che per
qualsiasi mondo wi appartenente a M vale: wiR wi . Una maniera per rendersi conto
di ciò è la seguente. (1) ha la forma di un condizionale; ora, un condizionale è vero
se vale uno dei due casi:
a) l’antecedente è falso oppure
b) il conseguente è vero.
Supponiamo che “
p” sia falso a un qualunque mondo wi nel modello M: dal
momento che ciò verifica il caso (a), è ovvio che (1) risulterà vero a wi. Supponiamo
invece che “ p” sia vero al mondo wi nel modello M: per definizione di enunciato
necessario, ciò significa che “p” è vero in tutti i mondi accessibili a wi ; ma poiché R
è una relazione riflessiva (wi è accessibile a se stesso), ciò implica che p è vero a wi ,
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dunque (1) è vero a wi. In ogni caso segue perciò che (1) è sempre vero in un
qualunque mondo wi del modello.
Possiamo aumentare le proprietà della relazione di accessibilità e
considerare, oltre alla proprietà riflessiva, anche la proprietà transitiva: dati tre
mondi wi, wk, wj, se wi R wk e wkRwj , allora wiRwj. In questa situazione, un enunciato
che risulta valido è
(2)
p→
p: se un enunciato p è necessario, allora è necessario che sia
necessario.
Supponiamo di avere, al solito, un modello M basato su un telaio <W, R > in cui R è
riflessiva e transitiva. Facciamo l’ipotesi che (2) sia falso: in tal caso (per la tavola di
verità del condizionale), l’antecedente “ p” deve esser vero e il conseguente “
falso. Poniamo che “ p” sia vero a un mondo qualsiasi wi e che “
p”
p” sia falso a
wi: da questa supposizione segue che in W deve esistere un mondo wk, che si
relaziona a wi secondo R, in cui “
p” è falso. Se però “
p” è falso a wk, ciò
significa che deve esistere un mondo wj accessibile a wk nel quale “p” è falso (per la
definizione di enunciato necessario: poiché un enunciato necessario è vero in tutti i
mondi accessibili a un dato mondo, se è falso che un enunciato è necessario, tale
enunciato deve essere falso a un mondo accessibile a quel mondo). Dunque “ p” è
vero a wi, mentre “p” è falso a wj: la relazione di accessibilità tra wi, wk e wj è però
transitiva e ciò significa che wj è accessibile da wi, il che a sua volta significa che si
ottiene una contraddizione (perché sia vero a wi che p è necessario, bisogna che p sia
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vero in tutti i mondi accessibili da wi; ma wj è uno di tali mondi e in esso p è falso:
ciò contraddice l’assunzione che “ p” sia vero a wi). Siccome la transitività è un
requisito necessario perché sia vero (2), è evidente che in modelli basati su telai in
cui la transitività non vale viene anche meno (2). Il sistema logico modale di cui (2)
è l’assioma caratteristico è solitamente chiamato “S4”.
Oltre alle proprietà riflessiva e transitiva, dotiamo adesso la relazione di
accessibilità anche della simmetria: otteniamo un modello M fondato su un telaio
<W, R>, in cui R si comporta così:
a) per qualunque wi appartenente a W, vale wiRwi;
b) per wi e wk qualsiasi, appartenenti a W, se wiRwk allora wkRwi;
c) per wi ,wk e wj qualsiasi, appartenenti a W, se wiRwk e wkRwj allora wiRwj.
Nel modello basato su questo telaio, risulta valido il principio:
(3) ◊ p → ◊ p.
Non è difficile argomentare a favore della validità di (3) lungo le linee dei
ragionamenti che si sono svolti finora per i princìpi (1) e (2). Affinché “◊ p” risulti
vero a un dato mondo wi bisogna che p sia vero a un mondo wk accessibile a wi; e
siccome wk vede se stesso (proprietà riflessiva di R), anche a wk è vero “◊p”; inoltre,
wi medesimo vede che “◊p” è vero a wi. (sempre per la riflessività). D’altra parte, un
qualunque altro mondo wj correlato a wk vede che “p” è vero a wk (per la simmetria):
dunque “◊p” è vero anche a wj. Per la proprietà transitiva di cui gode R, però, wi
vede quel che accade a wj e qui “◊p” è vero. Dunque, poiché in tutti i mondi
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accessibili da wi “◊p” è vero, vale (per definizione di enunciato necessario) che a wi
“ ◊ p”. Si noti che a wj “p” potrebbe essere falso: in tal caso, per la riflessività, ciò
porterebbe ad affermare che a wj è vero sia “◊p” sia “◊¬p”. Questa situazione
sarebbe tuttavia del tutto compatibile con la conclusione per cui vale “ ◊p”: come si
è osservato sopra, non bisogna confondere “◊¬p” con “¬◊p”. A essere in conflitto
con “ ◊p” è “¬◊p”, non “◊¬p”. Di solito (3) viene indicato come caratteristico del
sistema logico modale S5.
Quelli menzionati finora sono soltanto alcuni tra i sistemi modali più noti e
studiati nell’ambito della logica modale enunciativa. Naturalmente è possibile
sviluppare anche la dimensione predicativa della logica modale, introducendo nel
linguaggio di riferimento variabili individuali (x, y, z…) e quantificatori (i simboli
“∃” (“esiste”) e “∀” (“per ogni”)). La moderna teoria della quantificazione richiede
tuttavia che venga fissato un dominio di oggetti su cui variano, appunto, le variabili.
Per dare un significato a espressioni del tipo “esiste un x tale che gode della
proprietà P” oppure “tutti gli y hanno la proprietà Q”, è opportuno sapere qual è
l’insieme di oggetti x o di oggetti y di cui si sta parlando. Nel caso di una semantica
a mondi possibili sembra naturale che il passaggio alla teoria della quantificazione
(alla logica predicativa) avvenga associando a ciascun mondo un certo dominio di
oggetti. Tale associazione, tuttavia, solleva problemi filosofici non indifferenti. Si
può pensare, per esempio, che i nostri ragionamenti sul possibile coinvolgano
comunque gli individui appartenenti al nostro mondo – che in altri mondi avranno
proprietà differenti da quelle di cui godono nel nostro – senza però tirare in ballo
individui possibili, in aggiunta, per così dire, a quelli del nostro mondo. Oppure si
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può assumere che esistano individui possibili, che costituiscono di volta in volta il
dominio di oggetti che caratterizza un determinato mondo. Non tutti però sono
disposti ad accettare un siffatto dominio di individui possibili. Un problema che
infatti si pone immediatamente, se si accetta un’ontologia di individui possibili, è
come identificarli, e quindi distinguerli gli uni dagli altri.
La logica modale quantificata dà luogo a numerosi problemi filosofici, che
coinvolgono questioni di ontologia (cos’è propriamente un individuo e come lo si
identifica; cosa significa che un medesimo individuo è in due mondi diversi; come
“è fatto” un mondo possibile, ecc.) e di “metafisica” nel senso della tradizione
analitica anglo-sassone. Si tratta per lo più di problemi che, all’interno di un
apparato tecnico completamente nuovo rispetto a quello della tradizione (che si
basava essenzialmente sulla logica aristotelico-scolastica) si ricollegano ad
argomenti classici della filosofia occidentale.
[
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