Le api
2
Le api
La favola delle api, scritta da Bernard de Mandeville all’inizio del Settecento,
racconta di una società in cui avidità ed egoismo sono l’ingrediente necessario per la prosperità economica; quando le api, prese dal disgusto per la
propria miseria esistenziale, decidono di diventare oneste e sociali, la società
si impoverisce e si disgrega.
La morale della favola, che aveva come sottotitolo Vizi privati e pubbliche
virtù, ha attraversato i secoli fino a divenire, tramite la metafora della ‘mano
invisibile’, l’idea portante della teoria economica per la quale i meccanismi
del mercato avrebbero la proprietà di risolvere l’egoismo individuale nella
pubblica prosperità. L’esperienza più recente ci mostra invece che un’economia basata sul perseguimento dell’interesse privato a scapito del benessere
collettivo impoverisce e disgrega la società, e che la cooperazione è un ingrediente essenziale per il progresso economico, oltre che scientifico e civile.
I volumi proposti in questa collana seguono un’impostazione di ricerca
orientata a mostrare che oggi, per salvaguardare e ampliare le nostre conquiste materiali, è necessaria una visione dell’economia e dei rapporti sociali
che, superando l’antropologia dell’uomo economico, porti ‘le api’ verso l’idea
di un benessere che abbia come fondamento la naturale socialità umana.
E
Economia
e luoghi comuni
Convenzione, retorica e riti
a cura di
Amedeo Di Maio
Ugo Marani
Si ringraziano il Dipartimento di Scienze Umane
e Sociali dell’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”
e il Dipartimento di Scienze Giuridiche, Storiche, Economiche
e Sociali dell’Università di Catanzaro “Magna Graecia”
per il contributo e la collaborazione al volume.
© 2015 L’Asino d’oro edizioni s.r.l.
Via Ludovico di Savoia 2b, 00185 Roma
www.lasinodoroedizioni.it
e-mail: [email protected]
ISBN 978-88-6443-338-7
ISBN ePub 978-88-6443-339-4
ISBN pdf 978-88-6443-340-0
Indice
Introduzione di Amedeo Di Maio e Ugo Marani
xi
Lo spreco della parsimonia di Aldo Barba e Giancarlo De Vivo
1.
2.
3.
4.
Pasticci di lepre
Consapevolezza keynesiana e astinenza dei ricchi
Parsimonia privata e prodigalità pubblica
La parsimonia delle nazioni
3
6
8
11
I compiti a casa. I riferimenti teorici della disciplina fiscale in Europa
di Amedeo Di Maio
1.Premessa
2. Democrazia ed economia, la nobile motivazione
del bilancio in pareggio
3. Il Leviatano rovesciato e l’impotenza
4. ‘Guasto è il mondo’
15
17
26
31
L’austerità espansiva. Breve storia di un mito economico
di Vittorio Daniele
1.Introduzione
2. Presupposti teorici: l’equivalenza ricardiana
39
41
3. Austerità espansiva
4. L’austerità alla prova dei fatti
5. Conclusione: il Dr. Johnson e l’economia come scienza
45
53
61
Trasparenza fiscale e democrazia: l’illusione della governabilità
di Elina De Simone
1.Introduzione
2. Il ruolo della trasparenza nella gestione
delle finanze pubbliche
3. Trasparenza e democrazia
4.Conclusioni
69
72
84
88
Tagli al bilancio strutturale e sostenibilità della finanza pubblica
di Mariangela Bonasia e Rosaria Rita Canale
1.Introduzione
2. I fondamenti teorici dei programmi di restrizione fiscale
di successo
3. Aggiustamenti strutturali e dinamica dei conti pubblici
nell’eurozona: un primo sguardo
4. Aggiustamenti strutturali e dinamica dei conti pubblici
nell’eurozona: l’analisi empirica
5.Conclusioni
Appendice. Analisi di cointegrazione preliminare
all’analisi Panel dinamica
95
100
103
111
116
121
Il mito della spesa pubblica come spreco: il caso italiano
di Guglielmo Forges Davanzati e Gabriella Paulì
1.Introduzione
2. La categoria dello spreco
3. La spesa pubblica e le specificità della crisi italiana
4. Sulle cause e gli effetti del sottofinanziamento
della ricerca scientifica
5. Considerazioni conclusive
123
129
138
147
152
Indipendenza e neutralità della Banca centrale: «The times they are
a-changin’» di Ugo Marani
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
«The times they are a-changin’»
157
Neutralità e indipendenza alla fine del Novecento
160
Il guscio analitico dell’ortodossia
162
L’indipendenza genera credibilità?
165
Tecnocrazia e cospirazione
167
L’avanzata della Bce
169
Crisi finanziaria e autocrazia
173
Verso uno european central bank-led capitalism?175
«Things have changed»
178
Le liberalizzazioni delle banche: dalle illusioni alle delusioni
di Antonio Lopes
1.Premessa
2. La banca come istituzione nell’ambito
del controllo pubblico
3. La banca come impresa privata di fronte al mercato
4. Le criticità del rapporto tra banca e impresa
prima della crisi
5. Le banche e la crisi finanziaria dell’eurozona
6. Il ripristino dei canali di finanziamento delle imprese
e la necessità di una policy europea
183
184
186
195
198
203
Mezzogiorno (e Italia): Sud d’Europa
di Adriano Giannola e Carmelo Petraglia
1.
2.
3.
Mezzogiorno: da leva per la crescita nazionale
a zavorra d’Italia
Crisi e sospensione delle politiche regionali
Mezzogiorno e asimmetrie nella periferia dell’Unione
Gli autori
211
214
219
231
Introduzione
Amedeo Di Maio, Ugo Marani
Ci è capitato di assistere, in uno dei più noti talk show televisivi
italiani, a una situazione alquanto indicativa dello svogliato comune sentire riguardante gli attuali problemi della finanza pubblica. Non ricordiamo esattamente di quale delle tante trasmissioni
clonate si trattasse, se di Ballarò o DiMartedì. Osservammo che
uno degli ospiti aveva un’aria alquanto distratta, forse catturato
dai suoi pensieri, invogliato dal noioso andamento della trasmissione. Accadde che venisse colto di sorpresa dalla domanda del
conduttore: Cosa si può fare per risolvere il problema? Pur ignorando
quale fosse il problema, l’ospite non si scoraggiò e con spavalda
sicurezza rispose: Occorre ridurre le tasse e tagliare la spesa pubblica! Il reverente conduttore tradì un istante di perplessità ma
poi proseguì accettando comunque per possibile e forse anche
giusta quella risposta. Il problema che si stava discutendo riguardava l’Italicum! Quella risposta è un mantra, una formula magica
ormai proprietaria del pensiero di molti. La ragione sta nella sua
continua recita tanto in televisione quanto sui giornali. Per esempio, i soli economisti che vengono ospitati sulla prima pagina del
“Corriere della Sera” scrivono, senza alcuna preoccupazione per
la democrazia, che occorre un «coraggioso piano economico, farlo
approvare a colpi di voti di fiducia e poi approdare a Bruxelles» (2
agosto 2014), deferenti come i viceré del Seicento italiano quando
si recavano a Madrid. In un successivo articolo, sempre in prima
– XI ­
– XI –­
Economia e luoghi comuni
pagina, si legge che «per evitare che la riduzione delle tasse si
traduca in un aumento del debito, essa va accompagnata da un
impegno formale a ridurre di altrettanto la spesa» (24 novembre
2014). Affinché il messaggio non appaia ambiguo, insistono: «Insomma, è solo tagliando la spesa che le tasse potranno scendere
stimolando la ripresa» (22 marzo 2015). Il mantra prosegue in un
successivo articolo: «Il peso del nostro debito pubblico impone
che questi tagli alle tasse possano realizzarsi soltanto se accompagnati da corrispondenti e congrue riduzioni della spesa» (12
aprile 2015). Nessun dubbio negli articolisti-economisti sulla reale
efficacia di queste manovre e nessuna riflessione circa gli effetti su variabili sociali ed economiche diverse dal rapporto debito/
Pil. Occorre anche osservare che la posizione espressa nelle frasi
che abbiamo riportato costituisce una positiva evoluzione nel loro pensiero economico, poiché inizialmente gli stessi editorialisti
ritenevano possibile la crescita economica attraverso riduzione
della spesa e aumento delle entrate (austerità espansiva). Non bisogna allora meravigliarsi che il libro maggiormente presentato in
quei talk show nel 2014 sia stato Ammazziamo il gattopardo (2014)1,
scritto dal giornalista americano che ha ‘trovato l’America’ in Italia
e che ha un cognome possente nell’araldica economica. Privo del
senso del ridicolo, Alan Friedman ci recita il mantra con la passione dell’apostolo e l’accento identico a quello del doppiaggio
italiano dei film in cui Oliver recita insieme a Stan. Il libro è di
una superficialità impensabile, imbevuto di pressapochismo e di
comodi stereotipi e, ciononostante, o forse per questo, è stato ampliamente pubblicizzato e venduto (160.000 copie contro le 42.000
del vincitore del premio Strega dello stesso anno). Abbiamo qui
portato solo due esempi riguardanti l’informazione economica
in Italia, il primo tratto dal giornalismo il secondo dall’editoria.
Avremmo potuto farne molti altri, ma non avrebbero aggiunto
nulla di diverso se non confermare quanto siano purtroppo dif1
A. Friedman, Ammazziamo il gattopardo, Rizzoli, Milano 2014.
– XII ­–
Introduzione
fusi e al riparo da qualsiasi contraddittorio. Cerchiamo allora di
capire quali sono le regole che costituiscono questi messaggi, sia
pure nel ridotto spazio di una introduzione, e rinviando quindi per
eventuali approfondimenti a una letteratura più specifica2.
L’elemento base è la crescita di domanda di informazione dei
fatti e delle teorie economiche in conseguenza della generale
e profonda crisi, e affinché il messaggio mediatico citato negli
esempi sia efficace deve obbedire a precise regole. Una prima regola è la partecipazione a una ‘convenzione’ (primo termine del
sottotitolo di questo libro). Come è noto ‘convenzione’ significa
un insieme di regole pattuite, e quindi occorre che si individui
l’esistenza di questo insieme cui aderire e la cui autorevolezza
è fornita dalle istituzioni che lo hanno definito o, a parità di autorevolezza, la frequenza dell’adesione all’insieme: vale a dire,
il cosiddetto mainstream. Una volta individuata la convenzione
cui aderire, occorre definire anche il modo in cui trasmettere i
suoi contenuti, la cosiddetta ‘retorica’ (il secondo termine del nostro sottotitolo). Come è noto al termine retorica si annettono
più significati. Vi è quello proprio della filosofia, ovvero la ‘tecnica
del discorso’ teorizzata fin da Aristotele e volta alla persuasione
dell’interlocutore attraverso molteplici, precisi e rigorosi canoni
epistemologici, e vi è quella più frequente e negativa che consiste
nell’uso di messaggi ampollosi, spesso poveri di contenuti e pervicacemente ripetuti seguendo precisi riti. Il ‘rito’ (terzo termine
del sottotitolo) è una azione, o insieme di azioni, che viene eseguita secondo regole codificate e quindi immutabili. Il rito rende
immediatamente riconoscibile l’appartenenza (o la non appartenenza) e il contenuto. A quest’ultimo non occorre aderire, se non
Per tutti, rinviamo al recente C. Carboni, L’implosione delle élite. Leader contro
in Italia ed Europa, Rubbettino, Soveria Mannelli 2015. In esso si sostiene che in
questo XXI secolo si sia formata una ‘net élite’, una classe di manager di elevato
livello che operano nell’economia e nella finanza, un nucleo duro di autorevoli
tecnocrati che insieme a una schiera di opinion makers agiscono abilmente nell’orchestrare l’intera batteria degli strumenti massmediatici.
2
– XIII ­–
Economia e luoghi comuni
nella prima partecipazione al rito, perché sarà sempre lo stesso,
fino anche a perdersi e diventare un contenitore vuoto, o pieno
di luoghi comuni; poiché il ‘luogo comune’ (secondo termine del
titolo) è una opinione ritenuta ovvia e riconoscibile solo per via
della sua diffusione e familiarità.
Tutti questi aspetti ci sembrano esser presenti sia nei discorsi
accademici, sia, a maggior ragione, nei documenti politici e, come abbiamo accennato, negli strumenti della comunicazione di
massa.
La convenzione dell’economia accademica attuale ha come
principale riferimento il dato quantitativo. Anzi, il dato ricercato
senza la guida di modelli teorici prestabiliti sembra essere il criterio oggi maggiormente apprezzato, se, ad esempio, si considera
l’elevato successo del famoso libro di Thomas Piketty (2014)3. La
retorica è rappresentata dal linguaggio econometrico, ovvero del
raffinato presunto conforto empirico alle interpretazioni proposte,
e seguendo Deirdre McCloskey quasi mai vi è la consapevolezza
che «non tutte le analisi di regressione sono più persuasive di tutti
gli argomenti morali, non tutti gli esperimenti controllati sono più
persuasivi di tutte le intuizioni»4. Il rito consiste nella ossessiva
ripetizione e diffusione di parole chiave trasmesse dai sacerdoti
che celebrano sugli altari di istituzioni internazionali, come il Fmi,
le banche centrali o l’Ocse, società private (di rating) profumatamente pagate per individuare o celare Stati santi e peccatori, o più
modestamente dai giornali e dalle televisioni nazionali. Come da
prassi, il rito è celebrato sempre dagli stessi sacerdoti (corsivisti,
ospiti) e gli ‘osanna’ sono rivolti ai luoghi comuni. Questi assurgono quindi a miti, ovvero a convinzioni che ci imprigionano, tesi
semplici e comode che non creano dubbi e quindi agevolano il
giudizio e tranquillizzano le coscienze fino al sonno della ragione.
T. Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano 2014.
D. McCloskey, The Rhetoric of Economics, University of Wisconsin Press, Madison 1985, p. 43, trad. nostra.
3
4
– XIV ­–
Introduzione
I luoghi comuni, almeno in economia, hanno origine spesso
antica. Se temporaneamente abbandonati, riemergono dal passato quando si vivono tempi particolarmente incerti. D’altro canto,
se ha ragione Keynes quando osserva che le idee economiche
che vengono accettate in un certo tempo sono quelle redatte da
qualche economista almeno mezzo secolo prima, poiché è azzardato immaginare che i luoghi comuni abbiano contenuti se non
rivoluzionari almeno riformisti, allora essi non possono che farsi
risalire a tempi ancor più remoti.
Nella convenzione mainstream domina il luogo comune di un
mercato guidato dalla ‘mano invisibile’, anche se si evita di citarla,
fuori dall’accademia, considerandola implicita nel significato di
‘liberismo’ o ‘libero mercato’. In ambito accademico e nei documenti di politica economica il riferimento è ai modelli di equilibrio economico generale e alle ‘leggi naturali’ che ne costituiscono il principale contenuto. Questa visione è stata molte volte
contestata e anche in tempi ormai lontani. Ci siamo imbattuti in
uno scritto del 1878, di un economista italiano preso dal fervore
del dibattito scientifico del tempo, in cui si legge che «l’economia
politica quale è stata fatta dai pensatori [neoclassici] è [costruita]
su base erronea. Questa base è la credenza in leggi naturali e universali»5. Ma ci impressiona molto di più e ci sconforta osservare
in un libro del 2013 che l’autore avverte l’esigenza di dichiarare:
«Il modello dominante in economia [...] opera come se le norme
sociali, la cultura e le convinzioni collettive non avessero importanza [...] le norme sociali e la cultura non solo contano, ma in
molte situazioni sono più importanti delle variabili economiche
tradizionali»6. Parole scritte oggi da un critico del pensiero economico dominante, dopo anni di convinta adesione. Ci impressiona
G. Boccardo, Del metodo e dei limiti dell’economia politica, prefazione a Biblioteca dell’economista, III s., vol. IV, Utet, Torino 1878, in I. Magnani, Dibattito tra
economisti italiani di fine Ottocento, Franco Angeli, Milano 2003, p. 22.
6
K. Basu, Oltre la mano invisibile, Laterza, Roma-Bari 2013.
5
– XV ­–
Economia e luoghi comuni
e sconforta il secolare ‘gioco dell’oca’ nella scienza economica, il
ritornare spesso al punto di partenza.
Questa impressione è la principale motivazione, di lungo periodo, che ha generato il desiderio di curare questo libro, anche se
da sola non apparirebbe sufficiente poiché non sono pochi i testi,
anche di autorevoli studiosi di fama mondiale, che denunciano la
debolezza epistemologica della teoria economica denominata neoclassica. L’altra ragione, di breve periodo, consiste nel tentativo
di arginare, contrastare la valanga di libri, trasmissioni televisive,
pagine web e così via che propagandano i luoghi comuni facendoli passare per saggezza di una scienza politicamente neutrale.
Non manca la propaganda governativa che in una sua pagina
web ostenta le virtù di possibili declini del rapporto debito/Pil,
per via dell’attesa crescita del Pil nel 2016, e il primato nazionale,
tra i paesi dell’Ue, in termini di avanzi primari del proprio bilancio7. Questi aspetti conducono alla ulteriore motivazione della
creazione di questo libro: la considerazione della valenza politica
di queste convenzioni, retoriche e riti. I luoghi comuni che ne
discendono hanno un duplice significato politico. Da un lato rendono effettivamente disinformato l’elettore medio, e forse anche
mediano, che al contrario vive nella ‘illusione’ di essere cittadino
consapevole dei problemi economici e della necessità di politiche
economiche che mettano ‘in sicurezza’ i conti pubblici, proprio per
il bombardamento continuo di notizie profuso da una molteplicità sempre più varia di mezzi di comunicazione. Dall’altro questi luoghi comuni finiscono con il convincere che il rispetto delle
regole di finanza pubblica e politica monetaria debba costituire
vincoli per l’attività politica che si svolge all’interno delle istituzioni democratiche (parlamenti, governi). Da ciò può conseguire
una trasformazione degli assetti istituzionali volta a ridurre la discrezionalità delle assemblee elette, per agevolare gli automatismi
inseriti nei vincoli. È il caso, ad esempio, del vincolo costituzionale
7
Cfr. http://www.mef.gov.it/focus/article_0001.html.
– XVI ­–
Introduzione
del pareggio del bilancio, indicato nel Patto di stabilità e crescita
dell’Ue. Ma se la politica economica deve divenire innanzitutto
rispetto di regole, allora è preferibile che si redistribuisca il potere
legislativo a favore del governo, e soprattutto del ministro dell’Economia e delle Finanze, in quanto ‘guardiano’ e ‘garante’ del rispetto di quelle regole. Impostazioni di questo genere giustificano
l’idea di governi ‘tecnici’ e sviliscono la funzione democratica di
parlamenti e partiti. Il primo ministro e/o quello dell’Economia e
delle Finanze, si riduce a ‘ministro contabile’ anche inconsapevole
che «non si potrà mai equilibrare il bilancio attraverso misure che
riducono il reddito nazionale. Il ministro dell’Economia e delle
Finanze non farebbe altro che inseguire la sua stessa coda»8.
In questo libro non trattiamo, salvo brevi richiami, il luogo comune della ‘mano invisibile’, tuttavia è agevole dimostrare che
domina tutti gli altri perché da lì sostanzialmente discendono.
Il primo luogo comune, che viene affrontato da Aldo Barba
e Giancarlo De Vivo, è quello della virtù della parsimonia. Il risparmio come virtù è idea antica: ci è sufficiente ricordare che è
una delle tesi base del pensiero economico smithiano, in Italia
autorevolmente e ripetutamente sostenuta da Luigi Einaudi, sia
nei suoi testi scientifici9, sia negli articoli di fondo pubblicati sul
“Corriere della Sera”, sia, ancora, in quelli dello Scrittoio del Presidente10. Parsimonia antica, quella di Einaudi, che trova le sue
radici nel mondo rurale e che adegua al mondo industriale sulla
scorta anche del pensiero liberista anglosassone. Un’idea di parsimonia, risparmio, non adattabile a quella più recente elaborata da Latouche11, poiché nella decrescita felice la privazione del
8
J.M. Keynes, A Treatise on Money, Macmillan, London 1930; Id., L’assurdità dei
sacrifici, Manifestolibri, Roma 1995. Il testo è tratto dalla famosa conversazione
radiofonica tra Keynes e Sir Josiah Stamp, trasmessa dalla Bbc il 4 gennaio 1933.
9
Per esempio, L. Einaudi, Saggi sul risparmio e l’imposta, Einaudi, Torino 1958.
10
L. Einaudi, Lo scrittoio del Presidente (1948-1955), Einaudi, Torino 1956.
11
S. Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, Torino
2008.
– XVII ­–
Economia e luoghi comuni
consumo non si trasforma in risparmio ma in non ben definita
‘generosità’. Tuttavia, sia la parsimonia einaudiana, sia quella bucolica di Latouche hanno in comune il riferimento alla vita dei
singoli e il luogo comune consiste proprio nel ritenere che anche
la parsimonia collettiva sia una virtù. Non è facile convincere
della insensatezza della virtù collettiva della parsimonia, far capire che è meglio la prodigalità perché funziona come l’«orcio
della vedova» citato sia da Keynes12 sia da Kalecki13. Barba e De
Vivo, utilizzando molto l’efficace retorica di Keynes, illustrano e
convincono dei tanti motivi che conducono alla insensatezza di
questo luogo comune, oggi spinto fino a considerare la parsimonia delle nazioni una virtù da perseguire, e quindi farla divenire
obiettivo politico.
Quando si pensa al rapporto tra politica ed economia, il luogo
comune è che la prima produce «lacci e lacciuoli» per la seconda.
Questa espressione, coniata dal filosofo Tommaso Campanella14,
venne utilizzata e resa famosa da Guido Carli nelle Considerazioni finali del 197315, colto governatore della Banca d’Italia, per
poi essere frequentemente utilizzata, perché di efficace sintesi,
sui giornali e in televisione. Carli l’aveva utilizzata per denunciare un’economia con prevalenza di rentiers che si annidavano soprattutto nella pubblica amministrazione e per augurarsi
‘keynesianamente’ la loro eutanasia. Ora si adopera soprattutto per indicare l’insensatezza della burocrazia, le sue pastoie, e
le leggi intralcio disegnate dalla politica. Quindi la politica soverchia l’economia, agisce da superiore gerarchico, e come Leviatano impedisce il laissez faire e conseguentemente le libertà
individuali. L’Unione europea da un lato contribuisce a creare
J.M. Keynes, A Treatise on Money cit.
M. Kalecki, Essays in the Theory of Economic Fluctuation, Allen and Unwin,
London 1939.
14
T. Campanella, Aforismi politici [1601], Guida, Napoli 1997.
15
G. Carli, Considerazioni finali della Banca d’Italia, a cura di P. Savona, Treves
Editore, Roma 2011.
12
13
– XVIII ­–
Introduzione
lacci e lacciuoli, con le sue infinite delibere che si occupano di
aspetti economici specifici (dalla grandezza delle maglie di una
rete da pesca alla corretta denominazione di prodotti locali), ma
dall’altro, secondo alcuni16, ha realizzato un sistema istituzionale
‘leggero’ che tende al rispetto delle libertà economiche. Amedeo
Di Maio racconta l’origine e l’evoluzione dell’ordoliberalismo e
come esso conduca a un rapporto politica-economia, dove è la
seconda a dominare la prima. Precise regole di finanza pubblica
si trasformano in vincoli per la politica; anzi, i princìpi economici ispiratori dell’ordoliberalismo divengono la guida politica. Si
dimostra poi come le istituzioni europee (Commissione, Banca
centrale, Parlamento) siano state disegnate (statuti) nel rispetto
dei princìpi di questa dottrina economica, giuridica e politica,
nata nella Germania degli anni Trenta e ivi cresciuta solo nel secondo dopoguerra.
Non indipendente dai due luoghi comuni che abbiamo or ora
citato, vi è quello che è possibile formulare come un ossimoro:
l’austerità espansiva. Se ne occupa Vittorio Daniele. È probabilmente il luogo comune più frequentemente richiamato dai mass
media. Non c’è giorno che sui giornali non sia possibile leggere
della necessità della riduzione della spesa pubblica e non c’è talk
show dove non si declama che tale riduzione, insieme al taglio
delle tasse costituisce l’unico rimedio per uscire dalla crisi. Siamo
alle solite: non vi è parsimonia (perché c’è troppa spesa pubblica) e la politica soffoca con le tasse qualsiasi efficiente iniziativa
economica privata. L’idea comoda e accattivante è che il finanziamento della spesa pubblica spiazza l’investimento privato. Non
è sufficiente ridurre le tasse perché, a parità di spesa pubblica,
aumenterebbe il debito pubblico. Perché ciò non accada occorre
quindi che la finanza pubblica attivi politiche di riduzione della
spesa. Daniele ripercorre la storia di questo ossimoro e agevolmente dimostra come si basi su ipotesi azzardate, contenute in
Per esempio, J. Habermas, Nella spirale tecnocratica, Laterza, Roma-Bari 2014.
16
– XIX ­–
Economia e luoghi comuni
parte nel richiamo di Barro alla ‘equivalenza ricardiana’17. Si arriva
a ritenere che possa risultare espansivo anche solo un aumento
della tassazione. Ciò perché, con i tagli dei disavanzi, dovuti a
tagli delle sole spese o solo a maggiori entrate fiscali, l’agente razionale considera l’effetto futuro (aspettativa) di queste manovre:
oggi i governi salassano, deprimono – egli pensa –, ma domani,
risanati così i conti, non ne avranno più ragione, e tra l’altro si
garantisce un radioso futuro ai nostri figli. Una sorta di illusoria
attesa del ‘sol dell’avvenire’ fiscale.
Occorre tuttavia, nel presente, cercare di rendere meno incerto quell’effetto desiderato del risanamento dei conti. È opinione
diffusa che l’incertezza si riduce, e forse si annulla, quanto più si
provvede a rendere trasparenti le procedure delle scelte pubbliche. Del luogo comune della ‘trasparenza’ scrive Elina De Simone.
L’idea base della ‘trasparenza fiscale’ è che essa, rendendo difficile l’occultamento e l’alterazione dei bilanci pubblici, ostacola il
comportamento solitamente irresponsabile dei politici e ciò aiuta
a rifondare un rapporto di fiducia tra cittadini e istituzioni. Non è
difficile osservare come questo luogo comune abbia rappresentato il principio guida, una sorta di ideologia, per nuovi o rinnovati
movimenti politici, che addirittura contempla la figura del cittadino-controllore. Si tratta di un luogo comune perché si fonda
su una doppia «illusione» – per usare il termine probabilmente
più appropriato utilizzato da uno studioso italiano18 agli inizi del
secolo scorso. Infatti la trasparenza richiede osservanza di vincoli
che tramite essa dovrebbe essere facilmente controllata, e il medesimo rispetto dei vincoli dovrebbe agevolare la sintonia tra le
preferenze allocative e distributive della collettività e quelle del
policy maker. Tuttavia nulla garantisce che l’osservanza dei vincoli
conduca a stabilità macroeconomica, e nemmeno che quella sta R.J. Barro, Are Government Bonds Net Wealth?, in “Journal of Political Economy”, 82, 6, 1974, pp. 1095-1117.
18
A. Puviani, Teoria della illusione finanziaria [1903], Isedi, Milano 1976.
17
– XX ­–
Introduzione
bilità sia compatibile con l’efficienza allocativa e con le preferenze
sull’eguaglianza.
Alla trasparenza ci si appella soprattutto per l’avvertita necessità di controllo dei tagli dei disavanzi pubblici, assumendo che
essi rendano sostenibile la finanza pubblica: Rosaria Rita Canale
illustra questo specifico aspetto. Ipotizziamo pure che la trasparenza funzioni; il luogo comune asserisce che i conti in ordine
garantiscono la fiducia dei mercati e quindi la tanto attesa consequenziale crescita in un più lungo periodo. La crescita, infine,
consente la stabilizzazione automatica dei conti pubblici, salvo
che i politici non ricomincino con lo sperpero, causa prima della crisi. Si tratta di un evidente e tuttavia diffuso luogo comune
poiché è possibile dimostrare che politiche fiscali restrittive producono situazioni che, paradossalmente, rendono maggiormente
instabili i bilanci degli Stati.
Comunque, questo luogo comune, come abbiamo già ricordato, privilegia la politica di riduzione della spesa pubblica, tra
tutte le altre possibili manovre della finanza pubblica. La ragione
principale di questa scelta discende dalla convinzione che la spesa
pubblica costituisca di per sé uno spreco. Di questo luogo comune
scrivono Guglielmo Forges Davanzati e Gabriella Paulì e rilevano
come la sua particolare persuasione discenda dal proprio immediato richiamo morale che – osserviamo noi – consente lo sfogo
manzoniano della caccia all’untore. I due autori si soffermano sulla diffusione di questo luogo comune in Italia, evitando tuttavia
di far pensare che si tratti di un aspetto solo locale. Gli effetti di
questo luogo comune son ben visibili, ad esempio, nel settore
della ricerca scientifica, sempre più sottofinanziato ma anche altrettanto presente negli slogan politici come quello necessario per
la crescita economica del paese.
Gli aspetti che abbiamo fin qui considerato riguardano tutti
la finanza pubblica e quindi hanno come riferimento i governi
nazionali. Questi governi dovranno tener conto della politica monetaria svolta dalla relativa autorità indipendente, ma, si ritiene,
– XXI ­–