Le api 2 Le api La favola delle api, scritta da Bernard de Mandeville all’inizio del Settecento, racconta di una società in cui avidità ed egoismo sono l’ingrediente necessario per la prosperità economica; quando le api, prese dal disgusto per la propria miseria esistenziale, decidono di diventare oneste e sociali, la società si impoverisce e si disgrega. La morale della favola, che aveva come sottotitolo Vizi privati e pubbliche virtù, ha attraversato i secoli fino a divenire, tramite la metafora della ‘mano invisibile’, l’idea portante della teoria economica per la quale i meccanismi del mercato avrebbero la proprietà di risolvere l’egoismo individuale nella pubblica prosperità. L’esperienza più recente ci mostra invece che un’economia basata sul perseguimento dell’interesse privato a scapito del benessere collettivo impoverisce e disgrega la società, e che la cooperazione è un ingrediente essenziale per il progresso economico, oltre che scientifico e civile. I volumi proposti in questa collana seguono un’impostazione di ricerca orientata a mostrare che oggi, per salvaguardare e ampliare le nostre conquiste materiali, è necessaria una visione dell’economia e dei rapporti sociali che, superando l’antropologia dell’uomo economico, porti ‘le api’ verso l’idea di un benessere che abbia come fondamento la naturale socialità umana. E Economia e luoghi comuni Convenzione, retorica e riti a cura di Amedeo Di Maio Ugo Marani Si ringraziano il Dipartimento di Scienze Umane e Sociali dell’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” e il Dipartimento di Scienze Giuridiche, Storiche, Economiche e Sociali dell’Università di Catanzaro “Magna Graecia” per il contributo e la collaborazione al volume. © 2015 L’Asino d’oro edizioni s.r.l. Via Ludovico di Savoia 2b, 00185 Roma www.lasinodoroedizioni.it e-mail: [email protected] ISBN 978-88-6443-338-7 ISBN ePub 978-88-6443-339-4 ISBN pdf 978-88-6443-340-0 Indice Introduzione di Amedeo Di Maio e Ugo Marani xi Lo spreco della parsimonia di Aldo Barba e Giancarlo De Vivo 1. 2. 3. 4. Pasticci di lepre Consapevolezza keynesiana e astinenza dei ricchi Parsimonia privata e prodigalità pubblica La parsimonia delle nazioni 3 6 8 11 I compiti a casa. I riferimenti teorici della disciplina fiscale in Europa di Amedeo Di Maio 1.Premessa 2. Democrazia ed economia, la nobile motivazione del bilancio in pareggio 3. Il Leviatano rovesciato e l’impotenza 4. ‘Guasto è il mondo’ 15 17 26 31 L’austerità espansiva. Breve storia di un mito economico di Vittorio Daniele 1.Introduzione 2. Presupposti teorici: l’equivalenza ricardiana 39 41 3. Austerità espansiva 4. L’austerità alla prova dei fatti 5. Conclusione: il Dr. Johnson e l’economia come scienza 45 53 61 Trasparenza fiscale e democrazia: l’illusione della governabilità di Elina De Simone 1.Introduzione 2. Il ruolo della trasparenza nella gestione delle finanze pubbliche 3. Trasparenza e democrazia 4.Conclusioni 69 72 84 88 Tagli al bilancio strutturale e sostenibilità della finanza pubblica di Mariangela Bonasia e Rosaria Rita Canale 1.Introduzione 2. I fondamenti teorici dei programmi di restrizione fiscale di successo 3. Aggiustamenti strutturali e dinamica dei conti pubblici nell’eurozona: un primo sguardo 4. Aggiustamenti strutturali e dinamica dei conti pubblici nell’eurozona: l’analisi empirica 5.Conclusioni Appendice. Analisi di cointegrazione preliminare all’analisi Panel dinamica 95 100 103 111 116 121 Il mito della spesa pubblica come spreco: il caso italiano di Guglielmo Forges Davanzati e Gabriella Paulì 1.Introduzione 2. La categoria dello spreco 3. La spesa pubblica e le specificità della crisi italiana 4. Sulle cause e gli effetti del sottofinanziamento della ricerca scientifica 5. Considerazioni conclusive 123 129 138 147 152 Indipendenza e neutralità della Banca centrale: «The times they are a-changin’» di Ugo Marani 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. «The times they are a-changin’» 157 Neutralità e indipendenza alla fine del Novecento 160 Il guscio analitico dell’ortodossia 162 L’indipendenza genera credibilità? 165 Tecnocrazia e cospirazione 167 L’avanzata della Bce 169 Crisi finanziaria e autocrazia 173 Verso uno european central bank-led capitalism?175 «Things have changed» 178 Le liberalizzazioni delle banche: dalle illusioni alle delusioni di Antonio Lopes 1.Premessa 2. La banca come istituzione nell’ambito del controllo pubblico 3. La banca come impresa privata di fronte al mercato 4. Le criticità del rapporto tra banca e impresa prima della crisi 5. Le banche e la crisi finanziaria dell’eurozona 6. Il ripristino dei canali di finanziamento delle imprese e la necessità di una policy europea 183 184 186 195 198 203 Mezzogiorno (e Italia): Sud d’Europa di Adriano Giannola e Carmelo Petraglia 1. 2. 3. Mezzogiorno: da leva per la crescita nazionale a zavorra d’Italia Crisi e sospensione delle politiche regionali Mezzogiorno e asimmetrie nella periferia dell’Unione Gli autori 211 214 219 231 Introduzione Amedeo Di Maio, Ugo Marani Ci è capitato di assistere, in uno dei più noti talk show televisivi italiani, a una situazione alquanto indicativa dello svogliato comune sentire riguardante gli attuali problemi della finanza pubblica. Non ricordiamo esattamente di quale delle tante trasmissioni clonate si trattasse, se di Ballarò o DiMartedì. Osservammo che uno degli ospiti aveva un’aria alquanto distratta, forse catturato dai suoi pensieri, invogliato dal noioso andamento della trasmissione. Accadde che venisse colto di sorpresa dalla domanda del conduttore: Cosa si può fare per risolvere il problema? Pur ignorando quale fosse il problema, l’ospite non si scoraggiò e con spavalda sicurezza rispose: Occorre ridurre le tasse e tagliare la spesa pubblica! Il reverente conduttore tradì un istante di perplessità ma poi proseguì accettando comunque per possibile e forse anche giusta quella risposta. Il problema che si stava discutendo riguardava l’Italicum! Quella risposta è un mantra, una formula magica ormai proprietaria del pensiero di molti. La ragione sta nella sua continua recita tanto in televisione quanto sui giornali. Per esempio, i soli economisti che vengono ospitati sulla prima pagina del “Corriere della Sera” scrivono, senza alcuna preoccupazione per la democrazia, che occorre un «coraggioso piano economico, farlo approvare a colpi di voti di fiducia e poi approdare a Bruxelles» (2 agosto 2014), deferenti come i viceré del Seicento italiano quando si recavano a Madrid. In un successivo articolo, sempre in prima – XI ­ – XI –­ Economia e luoghi comuni pagina, si legge che «per evitare che la riduzione delle tasse si traduca in un aumento del debito, essa va accompagnata da un impegno formale a ridurre di altrettanto la spesa» (24 novembre 2014). Affinché il messaggio non appaia ambiguo, insistono: «Insomma, è solo tagliando la spesa che le tasse potranno scendere stimolando la ripresa» (22 marzo 2015). Il mantra prosegue in un successivo articolo: «Il peso del nostro debito pubblico impone che questi tagli alle tasse possano realizzarsi soltanto se accompagnati da corrispondenti e congrue riduzioni della spesa» (12 aprile 2015). Nessun dubbio negli articolisti-economisti sulla reale efficacia di queste manovre e nessuna riflessione circa gli effetti su variabili sociali ed economiche diverse dal rapporto debito/ Pil. Occorre anche osservare che la posizione espressa nelle frasi che abbiamo riportato costituisce una positiva evoluzione nel loro pensiero economico, poiché inizialmente gli stessi editorialisti ritenevano possibile la crescita economica attraverso riduzione della spesa e aumento delle entrate (austerità espansiva). Non bisogna allora meravigliarsi che il libro maggiormente presentato in quei talk show nel 2014 sia stato Ammazziamo il gattopardo (2014)1, scritto dal giornalista americano che ha ‘trovato l’America’ in Italia e che ha un cognome possente nell’araldica economica. Privo del senso del ridicolo, Alan Friedman ci recita il mantra con la passione dell’apostolo e l’accento identico a quello del doppiaggio italiano dei film in cui Oliver recita insieme a Stan. Il libro è di una superficialità impensabile, imbevuto di pressapochismo e di comodi stereotipi e, ciononostante, o forse per questo, è stato ampliamente pubblicizzato e venduto (160.000 copie contro le 42.000 del vincitore del premio Strega dello stesso anno). Abbiamo qui portato solo due esempi riguardanti l’informazione economica in Italia, il primo tratto dal giornalismo il secondo dall’editoria. Avremmo potuto farne molti altri, ma non avrebbero aggiunto nulla di diverso se non confermare quanto siano purtroppo dif1 A. Friedman, Ammazziamo il gattopardo, Rizzoli, Milano 2014. – XII ­– Introduzione fusi e al riparo da qualsiasi contraddittorio. Cerchiamo allora di capire quali sono le regole che costituiscono questi messaggi, sia pure nel ridotto spazio di una introduzione, e rinviando quindi per eventuali approfondimenti a una letteratura più specifica2. L’elemento base è la crescita di domanda di informazione dei fatti e delle teorie economiche in conseguenza della generale e profonda crisi, e affinché il messaggio mediatico citato negli esempi sia efficace deve obbedire a precise regole. Una prima regola è la partecipazione a una ‘convenzione’ (primo termine del sottotitolo di questo libro). Come è noto ‘convenzione’ significa un insieme di regole pattuite, e quindi occorre che si individui l’esistenza di questo insieme cui aderire e la cui autorevolezza è fornita dalle istituzioni che lo hanno definito o, a parità di autorevolezza, la frequenza dell’adesione all’insieme: vale a dire, il cosiddetto mainstream. Una volta individuata la convenzione cui aderire, occorre definire anche il modo in cui trasmettere i suoi contenuti, la cosiddetta ‘retorica’ (il secondo termine del nostro sottotitolo). Come è noto al termine retorica si annettono più significati. Vi è quello proprio della filosofia, ovvero la ‘tecnica del discorso’ teorizzata fin da Aristotele e volta alla persuasione dell’interlocutore attraverso molteplici, precisi e rigorosi canoni epistemologici, e vi è quella più frequente e negativa che consiste nell’uso di messaggi ampollosi, spesso poveri di contenuti e pervicacemente ripetuti seguendo precisi riti. Il ‘rito’ (terzo termine del sottotitolo) è una azione, o insieme di azioni, che viene eseguita secondo regole codificate e quindi immutabili. Il rito rende immediatamente riconoscibile l’appartenenza (o la non appartenenza) e il contenuto. A quest’ultimo non occorre aderire, se non Per tutti, rinviamo al recente C. Carboni, L’implosione delle élite. Leader contro in Italia ed Europa, Rubbettino, Soveria Mannelli 2015. In esso si sostiene che in questo XXI secolo si sia formata una ‘net élite’, una classe di manager di elevato livello che operano nell’economia e nella finanza, un nucleo duro di autorevoli tecnocrati che insieme a una schiera di opinion makers agiscono abilmente nell’orchestrare l’intera batteria degli strumenti massmediatici. 2 – XIII ­– Economia e luoghi comuni nella prima partecipazione al rito, perché sarà sempre lo stesso, fino anche a perdersi e diventare un contenitore vuoto, o pieno di luoghi comuni; poiché il ‘luogo comune’ (secondo termine del titolo) è una opinione ritenuta ovvia e riconoscibile solo per via della sua diffusione e familiarità. Tutti questi aspetti ci sembrano esser presenti sia nei discorsi accademici, sia, a maggior ragione, nei documenti politici e, come abbiamo accennato, negli strumenti della comunicazione di massa. La convenzione dell’economia accademica attuale ha come principale riferimento il dato quantitativo. Anzi, il dato ricercato senza la guida di modelli teorici prestabiliti sembra essere il criterio oggi maggiormente apprezzato, se, ad esempio, si considera l’elevato successo del famoso libro di Thomas Piketty (2014)3. La retorica è rappresentata dal linguaggio econometrico, ovvero del raffinato presunto conforto empirico alle interpretazioni proposte, e seguendo Deirdre McCloskey quasi mai vi è la consapevolezza che «non tutte le analisi di regressione sono più persuasive di tutti gli argomenti morali, non tutti gli esperimenti controllati sono più persuasivi di tutte le intuizioni»4. Il rito consiste nella ossessiva ripetizione e diffusione di parole chiave trasmesse dai sacerdoti che celebrano sugli altari di istituzioni internazionali, come il Fmi, le banche centrali o l’Ocse, società private (di rating) profumatamente pagate per individuare o celare Stati santi e peccatori, o più modestamente dai giornali e dalle televisioni nazionali. Come da prassi, il rito è celebrato sempre dagli stessi sacerdoti (corsivisti, ospiti) e gli ‘osanna’ sono rivolti ai luoghi comuni. Questi assurgono quindi a miti, ovvero a convinzioni che ci imprigionano, tesi semplici e comode che non creano dubbi e quindi agevolano il giudizio e tranquillizzano le coscienze fino al sonno della ragione. T. Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano 2014. D. McCloskey, The Rhetoric of Economics, University of Wisconsin Press, Madison 1985, p. 43, trad. nostra. 3 4 – XIV ­– Introduzione I luoghi comuni, almeno in economia, hanno origine spesso antica. Se temporaneamente abbandonati, riemergono dal passato quando si vivono tempi particolarmente incerti. D’altro canto, se ha ragione Keynes quando osserva che le idee economiche che vengono accettate in un certo tempo sono quelle redatte da qualche economista almeno mezzo secolo prima, poiché è azzardato immaginare che i luoghi comuni abbiano contenuti se non rivoluzionari almeno riformisti, allora essi non possono che farsi risalire a tempi ancor più remoti. Nella convenzione mainstream domina il luogo comune di un mercato guidato dalla ‘mano invisibile’, anche se si evita di citarla, fuori dall’accademia, considerandola implicita nel significato di ‘liberismo’ o ‘libero mercato’. In ambito accademico e nei documenti di politica economica il riferimento è ai modelli di equilibrio economico generale e alle ‘leggi naturali’ che ne costituiscono il principale contenuto. Questa visione è stata molte volte contestata e anche in tempi ormai lontani. Ci siamo imbattuti in uno scritto del 1878, di un economista italiano preso dal fervore del dibattito scientifico del tempo, in cui si legge che «l’economia politica quale è stata fatta dai pensatori [neoclassici] è [costruita] su base erronea. Questa base è la credenza in leggi naturali e universali»5. Ma ci impressiona molto di più e ci sconforta osservare in un libro del 2013 che l’autore avverte l’esigenza di dichiarare: «Il modello dominante in economia [...] opera come se le norme sociali, la cultura e le convinzioni collettive non avessero importanza [...] le norme sociali e la cultura non solo contano, ma in molte situazioni sono più importanti delle variabili economiche tradizionali»6. Parole scritte oggi da un critico del pensiero economico dominante, dopo anni di convinta adesione. Ci impressiona G. Boccardo, Del metodo e dei limiti dell’economia politica, prefazione a Biblioteca dell’economista, III s., vol. IV, Utet, Torino 1878, in I. Magnani, Dibattito tra economisti italiani di fine Ottocento, Franco Angeli, Milano 2003, p. 22. 6 K. Basu, Oltre la mano invisibile, Laterza, Roma-Bari 2013. 5 – XV ­– Economia e luoghi comuni e sconforta il secolare ‘gioco dell’oca’ nella scienza economica, il ritornare spesso al punto di partenza. Questa impressione è la principale motivazione, di lungo periodo, che ha generato il desiderio di curare questo libro, anche se da sola non apparirebbe sufficiente poiché non sono pochi i testi, anche di autorevoli studiosi di fama mondiale, che denunciano la debolezza epistemologica della teoria economica denominata neoclassica. L’altra ragione, di breve periodo, consiste nel tentativo di arginare, contrastare la valanga di libri, trasmissioni televisive, pagine web e così via che propagandano i luoghi comuni facendoli passare per saggezza di una scienza politicamente neutrale. Non manca la propaganda governativa che in una sua pagina web ostenta le virtù di possibili declini del rapporto debito/Pil, per via dell’attesa crescita del Pil nel 2016, e il primato nazionale, tra i paesi dell’Ue, in termini di avanzi primari del proprio bilancio7. Questi aspetti conducono alla ulteriore motivazione della creazione di questo libro: la considerazione della valenza politica di queste convenzioni, retoriche e riti. I luoghi comuni che ne discendono hanno un duplice significato politico. Da un lato rendono effettivamente disinformato l’elettore medio, e forse anche mediano, che al contrario vive nella ‘illusione’ di essere cittadino consapevole dei problemi economici e della necessità di politiche economiche che mettano ‘in sicurezza’ i conti pubblici, proprio per il bombardamento continuo di notizie profuso da una molteplicità sempre più varia di mezzi di comunicazione. Dall’altro questi luoghi comuni finiscono con il convincere che il rispetto delle regole di finanza pubblica e politica monetaria debba costituire vincoli per l’attività politica che si svolge all’interno delle istituzioni democratiche (parlamenti, governi). Da ciò può conseguire una trasformazione degli assetti istituzionali volta a ridurre la discrezionalità delle assemblee elette, per agevolare gli automatismi inseriti nei vincoli. È il caso, ad esempio, del vincolo costituzionale 7 Cfr. http://www.mef.gov.it/focus/article_0001.html. – XVI ­– Introduzione del pareggio del bilancio, indicato nel Patto di stabilità e crescita dell’Ue. Ma se la politica economica deve divenire innanzitutto rispetto di regole, allora è preferibile che si redistribuisca il potere legislativo a favore del governo, e soprattutto del ministro dell’Economia e delle Finanze, in quanto ‘guardiano’ e ‘garante’ del rispetto di quelle regole. Impostazioni di questo genere giustificano l’idea di governi ‘tecnici’ e sviliscono la funzione democratica di parlamenti e partiti. Il primo ministro e/o quello dell’Economia e delle Finanze, si riduce a ‘ministro contabile’ anche inconsapevole che «non si potrà mai equilibrare il bilancio attraverso misure che riducono il reddito nazionale. Il ministro dell’Economia e delle Finanze non farebbe altro che inseguire la sua stessa coda»8. In questo libro non trattiamo, salvo brevi richiami, il luogo comune della ‘mano invisibile’, tuttavia è agevole dimostrare che domina tutti gli altri perché da lì sostanzialmente discendono. Il primo luogo comune, che viene affrontato da Aldo Barba e Giancarlo De Vivo, è quello della virtù della parsimonia. Il risparmio come virtù è idea antica: ci è sufficiente ricordare che è una delle tesi base del pensiero economico smithiano, in Italia autorevolmente e ripetutamente sostenuta da Luigi Einaudi, sia nei suoi testi scientifici9, sia negli articoli di fondo pubblicati sul “Corriere della Sera”, sia, ancora, in quelli dello Scrittoio del Presidente10. Parsimonia antica, quella di Einaudi, che trova le sue radici nel mondo rurale e che adegua al mondo industriale sulla scorta anche del pensiero liberista anglosassone. Un’idea di parsimonia, risparmio, non adattabile a quella più recente elaborata da Latouche11, poiché nella decrescita felice la privazione del 8 J.M. Keynes, A Treatise on Money, Macmillan, London 1930; Id., L’assurdità dei sacrifici, Manifestolibri, Roma 1995. Il testo è tratto dalla famosa conversazione radiofonica tra Keynes e Sir Josiah Stamp, trasmessa dalla Bbc il 4 gennaio 1933. 9 Per esempio, L. Einaudi, Saggi sul risparmio e l’imposta, Einaudi, Torino 1958. 10 L. Einaudi, Lo scrittoio del Presidente (1948-1955), Einaudi, Torino 1956. 11 S. Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, Torino 2008. – XVII ­– Economia e luoghi comuni consumo non si trasforma in risparmio ma in non ben definita ‘generosità’. Tuttavia, sia la parsimonia einaudiana, sia quella bucolica di Latouche hanno in comune il riferimento alla vita dei singoli e il luogo comune consiste proprio nel ritenere che anche la parsimonia collettiva sia una virtù. Non è facile convincere della insensatezza della virtù collettiva della parsimonia, far capire che è meglio la prodigalità perché funziona come l’«orcio della vedova» citato sia da Keynes12 sia da Kalecki13. Barba e De Vivo, utilizzando molto l’efficace retorica di Keynes, illustrano e convincono dei tanti motivi che conducono alla insensatezza di questo luogo comune, oggi spinto fino a considerare la parsimonia delle nazioni una virtù da perseguire, e quindi farla divenire obiettivo politico. Quando si pensa al rapporto tra politica ed economia, il luogo comune è che la prima produce «lacci e lacciuoli» per la seconda. Questa espressione, coniata dal filosofo Tommaso Campanella14, venne utilizzata e resa famosa da Guido Carli nelle Considerazioni finali del 197315, colto governatore della Banca d’Italia, per poi essere frequentemente utilizzata, perché di efficace sintesi, sui giornali e in televisione. Carli l’aveva utilizzata per denunciare un’economia con prevalenza di rentiers che si annidavano soprattutto nella pubblica amministrazione e per augurarsi ‘keynesianamente’ la loro eutanasia. Ora si adopera soprattutto per indicare l’insensatezza della burocrazia, le sue pastoie, e le leggi intralcio disegnate dalla politica. Quindi la politica soverchia l’economia, agisce da superiore gerarchico, e come Leviatano impedisce il laissez faire e conseguentemente le libertà individuali. L’Unione europea da un lato contribuisce a creare J.M. Keynes, A Treatise on Money cit. M. Kalecki, Essays in the Theory of Economic Fluctuation, Allen and Unwin, London 1939. 14 T. Campanella, Aforismi politici [1601], Guida, Napoli 1997. 15 G. Carli, Considerazioni finali della Banca d’Italia, a cura di P. Savona, Treves Editore, Roma 2011. 12 13 – XVIII ­– Introduzione lacci e lacciuoli, con le sue infinite delibere che si occupano di aspetti economici specifici (dalla grandezza delle maglie di una rete da pesca alla corretta denominazione di prodotti locali), ma dall’altro, secondo alcuni16, ha realizzato un sistema istituzionale ‘leggero’ che tende al rispetto delle libertà economiche. Amedeo Di Maio racconta l’origine e l’evoluzione dell’ordoliberalismo e come esso conduca a un rapporto politica-economia, dove è la seconda a dominare la prima. Precise regole di finanza pubblica si trasformano in vincoli per la politica; anzi, i princìpi economici ispiratori dell’ordoliberalismo divengono la guida politica. Si dimostra poi come le istituzioni europee (Commissione, Banca centrale, Parlamento) siano state disegnate (statuti) nel rispetto dei princìpi di questa dottrina economica, giuridica e politica, nata nella Germania degli anni Trenta e ivi cresciuta solo nel secondo dopoguerra. Non indipendente dai due luoghi comuni che abbiamo or ora citato, vi è quello che è possibile formulare come un ossimoro: l’austerità espansiva. Se ne occupa Vittorio Daniele. È probabilmente il luogo comune più frequentemente richiamato dai mass media. Non c’è giorno che sui giornali non sia possibile leggere della necessità della riduzione della spesa pubblica e non c’è talk show dove non si declama che tale riduzione, insieme al taglio delle tasse costituisce l’unico rimedio per uscire dalla crisi. Siamo alle solite: non vi è parsimonia (perché c’è troppa spesa pubblica) e la politica soffoca con le tasse qualsiasi efficiente iniziativa economica privata. L’idea comoda e accattivante è che il finanziamento della spesa pubblica spiazza l’investimento privato. Non è sufficiente ridurre le tasse perché, a parità di spesa pubblica, aumenterebbe il debito pubblico. Perché ciò non accada occorre quindi che la finanza pubblica attivi politiche di riduzione della spesa. Daniele ripercorre la storia di questo ossimoro e agevolmente dimostra come si basi su ipotesi azzardate, contenute in Per esempio, J. Habermas, Nella spirale tecnocratica, Laterza, Roma-Bari 2014. 16 – XIX ­– Economia e luoghi comuni parte nel richiamo di Barro alla ‘equivalenza ricardiana’17. Si arriva a ritenere che possa risultare espansivo anche solo un aumento della tassazione. Ciò perché, con i tagli dei disavanzi, dovuti a tagli delle sole spese o solo a maggiori entrate fiscali, l’agente razionale considera l’effetto futuro (aspettativa) di queste manovre: oggi i governi salassano, deprimono – egli pensa –, ma domani, risanati così i conti, non ne avranno più ragione, e tra l’altro si garantisce un radioso futuro ai nostri figli. Una sorta di illusoria attesa del ‘sol dell’avvenire’ fiscale. Occorre tuttavia, nel presente, cercare di rendere meno incerto quell’effetto desiderato del risanamento dei conti. È opinione diffusa che l’incertezza si riduce, e forse si annulla, quanto più si provvede a rendere trasparenti le procedure delle scelte pubbliche. Del luogo comune della ‘trasparenza’ scrive Elina De Simone. L’idea base della ‘trasparenza fiscale’ è che essa, rendendo difficile l’occultamento e l’alterazione dei bilanci pubblici, ostacola il comportamento solitamente irresponsabile dei politici e ciò aiuta a rifondare un rapporto di fiducia tra cittadini e istituzioni. Non è difficile osservare come questo luogo comune abbia rappresentato il principio guida, una sorta di ideologia, per nuovi o rinnovati movimenti politici, che addirittura contempla la figura del cittadino-controllore. Si tratta di un luogo comune perché si fonda su una doppia «illusione» – per usare il termine probabilmente più appropriato utilizzato da uno studioso italiano18 agli inizi del secolo scorso. Infatti la trasparenza richiede osservanza di vincoli che tramite essa dovrebbe essere facilmente controllata, e il medesimo rispetto dei vincoli dovrebbe agevolare la sintonia tra le preferenze allocative e distributive della collettività e quelle del policy maker. Tuttavia nulla garantisce che l’osservanza dei vincoli conduca a stabilità macroeconomica, e nemmeno che quella sta R.J. Barro, Are Government Bonds Net Wealth?, in “Journal of Political Economy”, 82, 6, 1974, pp. 1095-1117. 18 A. Puviani, Teoria della illusione finanziaria [1903], Isedi, Milano 1976. 17 – XX ­– Introduzione bilità sia compatibile con l’efficienza allocativa e con le preferenze sull’eguaglianza. Alla trasparenza ci si appella soprattutto per l’avvertita necessità di controllo dei tagli dei disavanzi pubblici, assumendo che essi rendano sostenibile la finanza pubblica: Rosaria Rita Canale illustra questo specifico aspetto. Ipotizziamo pure che la trasparenza funzioni; il luogo comune asserisce che i conti in ordine garantiscono la fiducia dei mercati e quindi la tanto attesa consequenziale crescita in un più lungo periodo. La crescita, infine, consente la stabilizzazione automatica dei conti pubblici, salvo che i politici non ricomincino con lo sperpero, causa prima della crisi. Si tratta di un evidente e tuttavia diffuso luogo comune poiché è possibile dimostrare che politiche fiscali restrittive producono situazioni che, paradossalmente, rendono maggiormente instabili i bilanci degli Stati. Comunque, questo luogo comune, come abbiamo già ricordato, privilegia la politica di riduzione della spesa pubblica, tra tutte le altre possibili manovre della finanza pubblica. La ragione principale di questa scelta discende dalla convinzione che la spesa pubblica costituisca di per sé uno spreco. Di questo luogo comune scrivono Guglielmo Forges Davanzati e Gabriella Paulì e rilevano come la sua particolare persuasione discenda dal proprio immediato richiamo morale che – osserviamo noi – consente lo sfogo manzoniano della caccia all’untore. I due autori si soffermano sulla diffusione di questo luogo comune in Italia, evitando tuttavia di far pensare che si tratti di un aspetto solo locale. Gli effetti di questo luogo comune son ben visibili, ad esempio, nel settore della ricerca scientifica, sempre più sottofinanziato ma anche altrettanto presente negli slogan politici come quello necessario per la crescita economica del paese. Gli aspetti che abbiamo fin qui considerato riguardano tutti la finanza pubblica e quindi hanno come riferimento i governi nazionali. Questi governi dovranno tener conto della politica monetaria svolta dalla relativa autorità indipendente, ma, si ritiene, – XXI ­–