POETI
EUROPEI
XIII EDIZIONE
’900
DEL
DA UN PROGETTO DI GIOVANNI RABONI
LA SCENA
DELLA POESIA
a cura di Martin Rueff
coordinamento Italo Gregori
Teatro Studio
gennaio - giugno 2006
in collaborazione con
…per quanto
ignominioso sia il presente io mai
rinuncerei, potendo scegliere,
a starci, magari di sghembo
e rattrappito d’amarezza, dentro
Giovanni Raboni
Teatro d’Europa è il secondo nome, il “cognome” del
Piccolo, la sua famiglia di appartenenza: il mondo.
È l’Europa vissuta come uno sguardo che si compromette
nel mondo. Con questi convincimenti, il ciclo di incontri
dedicato ai “Poeti Europei del ’900”, nato dalla passione e
dal lavoro di Giovanni Raboni, ora continua naturalmente
nel suo solco e vuole offrire al pubblico milanese una
nuova occasione per conoscere, attraverso la parola,
attraverso la poesia, il racconto di sogni e identità a
confronto.
Nei suoi programmi, autori divenuti ormai “classici” si
alternano a giovani poeti del nostro presente, così come la
critica letteraria si sposa alla spettacolarità, grazie alla
partecipazione di attori italiani che si fanno interpreti delle
poesie proposte al pubblico.
Ma ci preme anche sottolineare come gli appuntamenti al
Teatro Studio siano anche una preziosa occasione di
collaborazione tra il Piccolo e altre istituzioni: gli Istituti di
Cultura Europei presenti a Milano, riuniti nell’AICEM (e
sottolineiamo quest’anno il ruolo fondamentale del Centre
Culturel Français quale coordinatore di tutta l’iniziativa),
importante associazione nata espressamente allo scopo
di incoraggiare la realizzazione di iniziative come la nostra,
e per la prima volta, quest’anno, la rivista internazionale
“Poésie Contemporaine”. Non solo, quindi, conferenze
e letture, ma una rete di contatti, la creazione di legami,
la condivisione di un progetto culturale comune.
E allora, insieme ancora una volta, viaggiamo nelle lingue
e nelle parole senza il timore per la loro apparente
debolezza, sapendo che sono la forza vera per trovare
nuovi legami, nuove sintonie in un mondo che soffre
sempre più di un profondo disorientamento. Teatro e
Poesia, le parole contro la banalità.
Sergio Escobar
Direttore Piccolo Teatro di Milano
Teatro d’Europa
Finché uomini respireranno o occhi vedranno,
fin tanto vivrà questa poesia, e questa darà vita a te
William Shakespeare
Come affrontare la scomparsa di colui che ha ispirato
questi incontri di poesia contemporanea al Piccolo Teatro?
Questo era il dilemma che dovevamo risolvere, ben consci
che era vano tentare di sostituire l’illustre Giovanni Raboni
il cui prezioso lavoro ha lasciato una così forte impronta in
ciascuna edizione dei “Poeti europei del ’900”.
Con Sergio Escobar e Italo Gregori, abbiamo quindi
pensato di “europeizzare” la rassegna affidando - ogni
anno a rotazione - la direzione e la coordinazione artistica
degli incontri a una rivista di poesia di uno dei paesi
membri dell’AICEM; abbiamo inoltre pensato di inaugurare
ogni rassegna con una riflessione collettiva sullo stato
della poesia oggi.
Dovendo quindi iniziare da qualche parte, è stato deciso
che sarebbe stata la Francia, paese che detiene
attualmente la presidenza della nostra associazione,
a incaricarsi dell’edizione 2006. Martin Rueff, membro
della redazione della rivista “Poésie”, che qui ringraziamo
calorosamente, ha voluto, in un periodo in cui il testo
trascura la scena a beneficio di altre discipline artistiche,
reintrodurre le parole, riportare la poesia sulla scena del
teatro.
Non avrebbe potuto avere idea migliore, in questa stagione
2005-2006, in cui il Piccolo, più Teatro d’Europa che mai,
programma Shakespeare, Brecht e Beckett.
Jean-Paul Ollivier
Presidente dell’AICEM
Associazione Istituti di Cultura
Europei a Milano
La scena della poesia
Tre domande di Martin Rueff
ai poeti che partecipano alla rassegna
Shakespeare, Brecht, Beckett… La stagione del Piccolo
Teatro di Milano propone quest’anno le opere di alcuni
grandi geni del teatro che furono anche poeti grandissimi.
I Sonetti di Shakespeare segnano uno dei momenti più alti
del lirismo europeo e, come all’altro capo di un arco di
cerchio???, Le Mirlitonnades di Beckett uno sforzo
disperato per non chiudere, per non farla finita; tra i due
estremi, la poesia di Brecht, lotta spietata con la modernità.
Teatro e poesia? Il palcoscenico della poesia piuttosto.
Abbiamo ritenuto che, in un momento in cui il teatro cerca
con vitalità e con determinazione polemica, anche, di
ridefinire la propria essenza tra la società dello spettacolo
e l’invasione delle immagini, fosse opportuno portare sei
poeti sulla scena e chiedere loro di prendere la parola.
Si tratta quindi di proseguire l’opera e il pensiero di
Giovanni Raboni, al di là del dolore e del lutto.
Citando le parole di Marina Cvetaeva a proposito di Rilke,
possiamo dire che: “Il ruolo di Raboni è mutato in questo:
finché fu vivo collaborò direttamente con le forze superiori
e, oggi, è entrato a farne parte egli stesso”.
Martin Rueff
Martin Rueff si divide tra Parigi e Bologna, dove insegna in
entrambe letteratura e filosofia. È membro della redazione della
rivista Poésie, per la quale ha diretto i due numeri 119 -110???
dedicati a 30 ans de poésie italienne (Parigi, Belin, 2004, 557 pp.).
Dirige la collezione italiana Terra d’Altri presso le edizioni Verdier.
Traduttore e critico, è autore di Lapidaire adolescent (edizioni
Comp’Act, 2001). Tra breve saranno pubblicate due sue nuove
raccolte.
1
1) Sembra che una particolare tendenza del teatro moderno
destini il palcoscenico al puro spettacolo vivo, all’evento dei
corpi e allo scatenarsi delle immagini. Il teatro avrebbe così
chiuso con il testo. Questa polemica, lo sappiamo, ha
attraversato l’ultimo festival di Avignone.
Nel commentare il divenire del teatro, Olivier Py non ha
esitato a sostenere che tocca ormai alla poesia veicolare la
letteratura, il testo e la voce.
Al palcoscenico, lo spettacolo; alla poesia, il testo.
Lei condivide questa visione? La poesia è per lei l’ultimo
rifugio del testo contro la società dello spettacolo?
2
Ma come concepire allora il rapporto tra poesia e scena?
Dobbiamo forse difendere la visione di Mallarmé? Lo
ricordiamo: egli rifiutava che il palcoscenico della poesia
fosse altro se non la pagina. Riprendiamo le sue parole:
“Ora il Libro tenterà di bastare, per socchiudere il
palcoscenico interiore e sussurrarne gli echi. Un insieme
versificato invita a una rappresentazione ideale”. Ancora:
“Un libro nelle nostre mani, se è portatore di un’idea
augusta, supplisce a tutti i teatri”. E infine : “Con due
pagine e con i loro versi, poi con tutto me stesso, io
sopperisco al mondo! Oppure vi percepisco, discreto, il
dramma. Una tendenza moderna sottratta a ogni
contingenza della rappresentazione, grossolana o anche
eccellente fino ad ora, l’opera per eccellenza, o la poesia”.
Questo ripiegamento trionfale verso l’interiorità, Le sembra
sia la soluzione per la poesia oggi?
3
Ma non bisognerebbe forse risalire più in alto? Verso la
contrapposizione tra immagine e poesia? Tra esteriorità e
interiorità? Dopotutto il palcoscenico interiore della poesia
non è forse attraversato dalle immagini che esso stesso
crea? Immagini, intense immagini dei poeti, voi attraversate
le nostre vite e non le lasciate più. Che ruolo attribuisce
nella Sua opera, al lavoro dell’immagine?
lunedì 30 gennaio 2006
ore 17.30
Valère
Novarina
Risposte alle domande di Martin Rueff
(cfr. pagina 7)
1
Ciò che tramonta oggi, ciò che andrà scomparendo, non è soltanto
“il testo”, è l’arte dell’attore. L’attore è colui che dà, colui che
scaglia, colui che sacrifica il testo. È ciò che vogliamo vedere sul palco:
non un personaggio ma l’offerta di una lingua che apre l’uomo. Dopo
questo gesto, l’uomo appare per quello che è: un senza fondo.
Il pubblico non si è mai veramente interessato né alla psicologia dei
personaggi né alla fiaba. L’unica gioia dello spettatore è quella di andare a
teatro per vedere l’animale parlare.
2
L’attore procede a lanciare i dadi del linguaggio: le parole sono rebus a sei
facce che cadono l’una sopra l’altra. Le frasi sono enigmi che l’attore non
risolve in alcun modo; tiene in mano parole irrisolte in fasci d’equazioni
aperte. Rimane senza intenzione alcuna, senza opinione alcuna: minerale,
animale, materiale. Scende sempre più nel profondo della materia dove
trova l’intelligenza di tutto e sente.
3
Il teatro è il recinto della logoscopia. La scena è un luogo ottico in cui
verificare la fisica sovrannaturale, in cui intravedere il nostro linguaggio in
faccia per la prima volta; è un corpo esterno che ci sta di fronte: la nostra
stessa materia soffiata visibile dinanzi, in volume e in perpetuo
movimento. Il linguaggio appare qui agli occhi di tutti per ciò che è: la
materia spirituale del corpo umano. L’emozione ha appena visto lo spazio
QUI aprirsi - e l’uomo vi si iscrive, dentro, per la prima volta - come ai dadi,
nella figura del cinque, il punto Uno, prigioniero in mezzo
allo spazio quattro.
con la partecipazione di
Maddalena Crippa
Valère Novarina trascorre l’infanzia e l’adolescenza sulle rive del
lago Lemano e tra le montagne svizzere. A Parigi, dove studia
letteratura e filosofia, incontra Roger Blin, Marcel Maréchal, Jean-Noël
Vuarnet; vuole diventare attore ma vi rinuncia rapidamente.
Inizia a scrivere dal 1958 ma pubblicherà soltanto a partire dal 1978.
Quando, nel 1986, mette in scena i suoi primi testi per il teatro,
intraprende a poco a poco anche un’attività grafica e poi pittorica:
disegni di personaggi e pitture per scenografie.
Tra le sue opere, vi sono testi strettamente teatrali (come L’Atelier
volant, Vous qui habitez le temps, L’Opérette imaginaire) o di “teatro
utopico”, romanzi “sopra-dialogati”, monologhi a più voci, poesie in
atti, quali Le Drame de la vie, Le Discours aux animaux, La Chair de
l’homme. È autore di opere “teoriche” che esplorano il corpo
dell’attore, “in cui lo spazio e la parola s’incrociano laddove si genera
il respiro”: Pour Louis de Funès, Pendant la matière, Devant la
parole. Inafferrabile e attivo, il linguaggio vi appare come una figura
della materia. Alcune delle sue opere sono state tradotte in italiano,
tra cui L’atelier volante, All’attore, il teatro delle parole, Lo spazio
furioso, Per Louis de Funès e La scena.
lunedì 13 marzo 2006
ore 17.30
Kate
Clanchy
Risposte alle domande di Martin Rueff
(cfr. pagina 7)
1
Ho lavorato per un certo periodo come critico teatrale a Londra e a
Edimburgo e ho assistito a straordinari spettacoli di teatro visuale: le opere
di Robert Lepage, per esempio. Ma mi è sempre sembrato che il testo
fosse vivo e pregnante. David Hare, Mark Ravenhill, Sarah Kane sono degli
autori che si affidano alla parola. L’ultimo lavoro di Sarah Kane, in
particolare, si concentra quasi esclusivamente sul testo e sulla sua
portata poetica nel senso migliore. Dunque, no. Io penso che ci siano
moltissimi luoghi dove il testo possa esprimersi e affermarsi.
2
In Inghilterra sta fiorendo e affermandosi il teatro di poesia. Il genere
comprende il rap, lo slam e il teatro di improvvisazione e non sembra che
questo tipo di teatro incontri difficoltà nel trovare le proprie vie di
espressione. Ci sono molti autori, e io sono tra questi, che scrivono in
prima istanza per la pagina, e benché si discuta accanitamente, io penso
che si troverà una strada per andare avanti. A me piace che la mia poesia
abbia un pubblico, ma non penso che questo sia una componente
essenziale del mio lavoro. Se le mie poesie hanno una qualche validità
troveranno molte voci per esprimersi e io mi auguro che la mia sia soltanto
una tra le tante.
3
Penso che lo stile di un poeta si definisca attraverso la sua capacità di
creare immagini nette e originali. Le mie prime idee di poesia nascono
dalle immagini e dai suoni piuttosto che da un tema specifico.
con la partecipazione di
Massimo De Francovich
Nata a Glasgow (Scozia) nel 1965, Kate Clanchy ha studiato a
Edimburgo e a Oxford. Per diversi anni ha vissuto nell’East End di
Londra prima di trasferirsi a Oxford dove attualmente lavora come
insegnante, giornalista e scrittrice. Collabora regolarmente con “The
Guardian” e insegna scrittura creativa alla Arvon Foundation.
È autrice di due premiate raccolte di poesia: Slattern (1995), alla
quale sono stati assegnati il Forward Poetry Prize (Miglior raccolta
poetica di esordio) e il premio Somerset Maughan, e Samarkand
(1999), selezionata per il Forward Poetry Prize (Miglior raccolta
poetica dell’anno) e vincitrice dello Scottish Arts Council Book Award.
Le poesie di Kate Clanchy sono state trasmesse dalla BBC Radio e
pubblicate in molti quotidiani e riviste. Ha scritto anche 6 radiocommedie per la BBC alle cui trasmissioni collabora diffusamente.
La sua ultima raccolta, Newborn (2004), tratta il tema della
maternità, della nascita e della cura del bambino. È stata selezionata
per il premio Forward.
Albert
© Isolde Ohlbaum
lunedì 27 marzo 2006
ore 17.30
Ostermaier
Risposte alle domande di Martin Rueff
(cfr. pagina 7)
1
Il testo non deve essere considerato un volatile minacciato dall’estinzione,
al quale vada assegnata una riserva protetta e imposto il divieto di
sorvolare l’Italia. Il testo parla da sé, non ha bisogno di un portavoce.
Se ha profondità, precisione, consistenza e qualità, riuscirà a farsi strada
e ad opporsi ad ogni tentativo di assorbimento e semplificazione.
La qualità del teatro consiste nell’avere molte facce e molte voci, nella
mancanza di dogmi. Inoltre il teatro dovrebbe confrontarsi sempre con tutti
i nuovi sviluppi estetici e le nuove tecniche e renderle costruttive per se
stesso, utilizzandole creativamente. Anche come confronto e riflessione
critica. Ci sono messinscene in cui la concentrazione sulla parola è tale da
togliere il fiato ed altre in cui regna la totale anarchia nei confronti della
parola: anche questa anarchia può lasciare senza fiato. Don’t cry, work.
Nella poesia mi interessa la forma drammatica e nella drammaturgia la
poesia, amo tracciare dei confini per poi cancellarli. Inoltre è davvero un
evento il fatto che il teatro sia “live” e non preconfezionato, che nell’attore
trovi un corpo e una parola che suda, respira, urla, sussurra.
2
Ogni testo deve innanzitutto essere a sé stante, isolato, nella sua
solitudine. Con ogni lettore si sviluppa un acuirsi drammatico, le parole
incontrano un nuovo sguardo, un punto focale diverso. Il lettore mette in
scena il testo nella sua testa, sul palcoscenico della sua fantasia.
In questo senso un foglio di carta può diventare la messinscena più
avvincente senza che si oda una parola, tranne che nel pensiero e nella
testa. La poesia non deve aver bisogno di un interprete per sviluppare tutta
la sua forza esplosiva o la sua capacità di sconvolgere l’ascoltatore.
Ma che meraviglia quando un attore la legge e la fa sua, quando rende
visibili i diversi piani della poesia con i suoi gesti, la sua voce, i sottintesi!
Certo, gli attori possono farci vedere il paesaggio tra le righe, per un
attimo, un respiro. Il linguaggio richiede l’attore, il corpo, perché vuole
essere afferrabile e tangibile, e vuole anche colpire. L’interiorità è
esteriorità, perché è sempre rivolta verso l’esterno quando afferma
l’interiore. Nell’interiorità possiamo sempre cambiare facilmente il mondo;
sarebbe più necessario farlo all’esterno.
3
Si può essere informati e disinformati, ci si può immaginare qualcosa dal
nulla oppure cercare di ricostruire l’immagine di qualcosa di cui non si
riesce a farsi un’immagine. Il linguaggio è per me un’immagine e le
immagini per me hanno un loro linguaggio. Li amo entrambi, quando si
muovono, quando scrivo, quando leggo, davanti agli occhi.
E ha ragione Goethe: crea artista, non parlare!
con la partecipazione di
Giorgio Sangati
e Saam Schlamminger
“Plugged Poetry”, così Albert Ostermaier, star della nuova lirica
tedesca, definisce lo stile dei suoi versi: parole, suoni, ritmi
perfettamente mixati e di forte espressività linguistica, in cui il duro
slang delle metropoli si stempera nella suggestiva musicalità di un
linguaggio poetico che non ha rime, ma cadenze, assonanze,
reiterazioni. New York o Los Angeles, Calcutta, il Mississippi, o
l’Afghanistan: le poesie di Albert Ostermaier sono polaroid del
presente globalizzato; il banale e il meraviglioso si incontrano e si
scontrano a ogni passo, sempre uguali, sempre diversi, e il lettore è
coinvolto in una ricerca inquieta, in un rapporto di tensione fra il
sound crudele delle metropoli e la malinconica solitudine di paesaggi
infiniti. Nato a Monaco di Baviera nel 1967, Albert Ostermaier ha
ricevuto numerosi premi e riconoscimenti (fra i quali il prestigioso
Premio Kleist), per i suoi volumi di poesia (Heartcore, 1999;
Autokino, 2001; Solarplexus, 2003), e l’attività di drammaturgo.
Le sue letture pubbliche, vere e proprie performance, spesso
accompagnate da prestigiosi musicisti, come il percussionista Saam
Schlamminger, riscuotono sempre un notevole successo di pubblico e
di critica.
lunedì 5 giugno 2006
ore 17.30
Luis
Muñoz
Risposte alle domande di Martin Rueff
(cfr. pagina 7)
1
Bene, la poesia non prescinde dal testo perché è testo. Però anche oggi il
testo è o può trovarsi in altre manifestazioni artistiche. Non sono un
esperto del teatro recente, ma ho l’impressione che l’utilizzo del testo, se
si è allontanato dal teatro più moderno, possa cambiare in qualsiasi delle
sue forme possibili, in qualsiasi momento.
D’altra parte, la poesia è un genere che, per sua tradizione, più che
testuale è orale; in questo senso credo sia consustanziale alla poesia il
vincolo della letteratura, testo e voce alla quale si allude.
2
Io non noto l’incompatibilità tra la scena, diciamo, di una sala e la scena
della pagina.
Credo che la poesia sia un genere anfibio che può vivere sia nella sala sia
nel libro. È vero che ci sono casi di poeti o poemi concreti nei quali la
componente visuale o orale sembri più importante. Nel caso della poesia
scritta in spagnolo esistono poeti nei quali si percepisce l’intenzione orale
molto chiara, lo stimolo che i loro poemi saranno ascoltati, come succede
in alcuni poemi di Rafael Alberti o Pablo Neruda, che in quello si
riallacciavano a una tradizione di poesia orale che risale in spagnolo ai
canzonieri o romanzieri medioevali. E inoltre, ci sono autori nei quali, per la
disposizione tipografica o il disegno dei versi, lo spazio della pagina è più
importante, come in Francisco Pino per esempio. Però penso che un
poema debba essere capace di reggere le due prove, quella del silenzio
della pagina e dell’ascolto.
3
Io penso che un poeta possieda, come una delle proprie responsabilità,
quella di fornire un’immagine esterna che possa essere la proiezione di
un’immagine interiore. Ritengo che parte della poesia si trovi in quel
transito, verso la ricerca di immagini verbali che siano capaci di accogliere
o di riassumere un’inquietudine interiore, una complessità profonda.
Per spiegare come lo intendo, mi permetto di ricorrere a un’immagine.
Per me, scrivere è un’immersione nella più assoluta solitudine, come un
subacqueo che si inabissa da solo nelle profondità dell’oceano, ma che
quando esce condivide le scoperte di quell’immersione. Entrambi gli
estremi credo siano necessari: la solitudine più violenta quando ci si
immerge nelle profondità e il desiderio di condividere quello che si è visto,
quello che si è ascoltato.
con la partecipazione di
Fausto Cabra
Luis Muñoz nasce a Granada nel 1966 e si laurea in Filologia
Spagnola e Filologia Romanza. Attualmente lavora come assessore
della Residencia de Estudiantes e come professore di poesia a Madrid
per il programma della New York University. Ha pubblicato le raccolte
Septiembre (Hiperión, 1991), Manzanas amarillas (Hiperión, 1995),
El apetito (Pre-Textos, 1998) e Correspondencias (Visor, 2001), per cui
ha ottenuto il Premio Generación del 27 e il Premio Ojo Crítico.
Nel 1994 ha curato la raccolta collettiva El lugar de la poesía e ha
tradotto, tra gli altri, autori come Giuseppe Ungaretti (El cuaderno del
viejo, Pre-Textos, 2000) e poeti britannici della “New Generation”
(“Hélice” n. 13, 1999, rivista da lui diretta e attualmente non più
pubblicata). Le sue opere sono raccolte in alcune delle attuali più
importanti antologie della poesia spagnola.
lunedì 8 maggio 2006
ore 17.30
Pierre
Lepori
Risposte alle domande di Martin Rueff
(cfr. pagina 7)
1
Non vedo la necessità di categorie e transenne, né un così stretto legame
tra teatrale e spettacolare (in senso contemporaneo). La poesia è corpo, la
lingua è pelle (Anzieu), una membrana che ci sforziamo di rendere al
contempo aderente, elastica e trasparente (onesta). Il discrimine tra la
danza delle immagini che ne vien fuori e la mano che si cala nell’humus di
noi e del mondo non è facile da tracciare. Il teatro avrebbe chiuso con il
testo? Ma cos’è un testo (per Grotowski, per il Living, per la Commedia
dell’Arte)? E cos’è un corpo (per Testori, per Ingeborg Bachmann, per
Dante)? Basta leggere una pièce di Py (o entrare in una sua rapinosa regia)
per sapere che la distinzione non regge.
2
Che la pagina sia ancora un richiamo della foresta per il singolo, che vi
s’immerge a tu per tu, è certo un buon controcampo all’isteria della
visibilità spettacolare. Ma anche la poesia, come il teatro, nasce volatile
(cantata) e sconsacrata e il poeta ha un dovere di condivisione, di socialità
profonda, che è poi umanesimo. Adorno ci mette in guardia: ogni idea, nel
comunicarsi, si snatura; per questo la poesia evita di voler “comunicare”,
come un corpo sulla scena, un irrisolvibile aforisma incarnato. Ma la
poesia è sorella dell’azione (Saint-John Perse) e deve “cantare dal basso”,
per evitare tentazioni prometeiche (exit l’ideale augusteo, nell’oggi del
cinismo abbiamo carenza di umanità).
3
Non c’è legame ontologico tra immagine e esteriorità: anzi, proprio in
poesia troviamo immagini come tuffo nel profondo; quando il linguaggio
esplicativo non serve più, è l’immagine ad aprire la porta, a sfondare i
codici della comunicazione quotidiana a farsi corpo-voce del naked thinking
heart. Secondo René Daumal, la gestazione poetica ha tre fasi: il germe
luminoso, la vestizione d’immagini, l’espressione verbale. Per quanto mi
riguarda, spesso le immagini permettono di focalizzare un sentimento
indistinto, di verbalizzarlo senza tradirlo con le parole (melodrammaticamente),
anche se occorre evitare (per quanto possibile) il facile effetto o quelle
immagini che chiudono l’orizzonte dei possibili; e, viceversa, la troppo
facile indeterminatezza di una “chanson grise”. È un equilibrio difficile,
quello tra onestà e comunicazione, tra umiltà e grido.
con la partecipazione di
Giovanni Crippa
Pierre Lepori è nato a Lugano nel 1968, si è laureato in Lettere
Moderne a Siena (con una tesi su Luchino Visconti e il melodramma)
e ha conseguito un dottorato in Theaterwissenschaft all’Università di
Berna. Ha diretto la redazione italiana del Dizionario Teatrale Svizzero
(Zurigo, Chronos Verlag, 2005). Vive a Losanna, dove è
corrispondente per i programmi culturali della Radio Svizzera; è
redattore della rivista on-line www.culturactif.ch e dell’annuario di
letteratura “Feuxcroisés”. Traduttore dal francese (Anne-Lou
Steininger, Monique Laederach, Gustave Roud), ha pubblicato le
sillogi Canto oscuro e politico (Settimo Quaderno di poesia italiana,
Marcos y Marcos, 2001) e Vento (Faloppio, Lietocolle, 2004).
Per Qualunque sia il nome (Bellinzona, Casagrande, 2003) ha
ricevuto il Prix Schiller 2004.
© maria ziegelboeck
lunedì 29 maggio 2006
ore 17.30
Franzobel
Risposte alle domande di Martin Rueff
(cfr. pagina 7)
1
Non è ingenuo credere che la poesia possa chiudersi alla società dello
spettacolo? Non sanno sia i poeti sia i lettori e gli ascoltatori dell’esistenza
di questa società dell’evento che, tutto penetrando e imbevendo, influenza
anche le abitudini dell’ascolto e della lettura, anzi le ubriaca? Io credo che
la poesia debba essere essa stessa spettacolo.
E precisamente un tale spettacolo di amore e morte, di sentimenti grandi
e piccoli che, se solo ci si lascia andare a lei, gli altri spettacoli mediali,
della cultura del momento, a paragone appaiono pallidi e miseri. La poesia
è una grandiosa ebbrezza, un’incomparabile sbronza dell’esistenziale, che
non si può nascondere. La poesia deve sfidare. Il poeta deve prendere
posizione, intervenire.
2
Ma assolutamente no. Il posto della poesia è la scena, la poesia va
recitata, i teatri devono occuparsene. Io credo anche che l’autore svolga
una funzione importante in teatro perché egli sta al di fuori dello spettacolo
e dell’enfasi. Il lavoro dell’autore è molto solitario – soprattutto nei romanzi
e nelle poesie –, così il dialogo con un teatro può essere fruttuoso per
ambedue le parti. Io credo che i teatri non possano sottrarsi al confronto
con gli autori contemporanei. E, viceversa, neanche gli autori possono
rifiutarsi. In ogni caso, considero il rifiuto una posa, una reazione offesa.
Per un autore è una gran fortuna venir rappresentato.
3
Sono una persona molto sensibile alle impressioni ottiche e la mia visione
fondamentale, ciò che immagino come poesia perfetta, è molto simile a un
flusso di immagini, una cattedrale gotica di impressioni visive, dove tutto è
collegato a tutto, un’unica allucinazione linguistica. Uso dei cliché, i fumetti
e i film muti come Stanlio e Ollio e anche i film da “strapaese”.
Per me i caratteri hanno un ruolo importante, per quanto, in fondo,
nessuno sia quello per cui lo si prende all’inizio – lo stesso vale forse per
le immagini. Cambiano, si capovolgono, ruotano. Talora mi prendo anche la
libertà di rappresentare coloro che altrimenti sono muti, il cosiddetto
popolino. Non sono affatto un poeta visibilmente politico, ciononostante i
testi si fanno palesemente più politici - e più religiosi nel senso di una
poetizzazione del mondo.
con la partecipazione di
Massimo Popolizio
Franzobel, nato nel 1967 a Vöcklabruck, vive a Vienna, Pichlwang e
talora anche a Buenos Aires. Inizia la sua attività artistica in qualità
di artista figurativo (espone, tra l’altro, all’ArtStart di Vienna, 1990, e
al Kunsthalle Ritter di Klagenfurt, 1996), in seguito, dal 1991, si
dedica prevalentemente alla scrittura, non rinunciando a
sperimentazioni in altri ambiti artistici e coltivando molteplici interessi
(coming up; arte giovane dall’Austria nel Museo del XX secolo, 1996;
De Valigia 1998; apparizioni con “The Naked Lunch”???; giocatore di
calcio a tempo perso; ciclista…). I suoi testi rivelano un maestro
fastoso e divertente dell’inventiva lessicale e un affabulatore barocco
le cui metafore e immagini poetiche creano audaci formazioni
linguistiche. Ha all’attivo numerose raccolte poetiche, testi
drammaturgici allestiti nei principali teatri austriaci e radiodrammi.
Tra i più recenti riconoscimenti ottenuti, vi sono la Medaglia Brecht
(2000), la Borsa di studio della Città di Vienna Elias Canetti (2001), il
Pemio Arthur Schnitzler (2002) e il Premio Nestry (2005).
lunedì 5 giugno 2006
ore 17.30
Mariangela
Gualtieri
Risposte alle domande di Martin Rueff
(cfr. pagina 7)
1
Non si tratta di veicolare la letteratura quanto piuttosto di scassarla,
“distruggere la letteratura ed espandere lo spirito”. In questo compito nulla
è più dinamitardo e fecondo del teatro e della poesia messi insieme e
dunque del verso pronunciato in scena. Ma è vero, verissimo, che questa
eventualità è molto rara, forse perché molto particolari sono le condizioni
che portano all’accensione della miccia. Ne segnalo solo alcune:
un regista e un poeta che coincidano nella stessa figura o che siano stretti
da un sodalizio simpatetico, un regista che formi i propri attori e li guidi alla
scoperta delle loro energie profonde (prima che la tecnica, da sola, faccia
un grumo imperforabile), un poeta disposto a rischiare la faccia in una
scrittura al presente, disposto cioè ad entrare nel capogiro delle forze della
scena. Concordo con Deleuze: “In arte… non si tratta di riprodurre o
inventare forme, bensì di captare delle forze ”. A questo fine, che cosa c’è
di meglio della parola magica della poesia?
3
Lavoro in teatro col regista che prediligo e le sue immagini sono spesso
ciò che scatena la mia scrittura. Quelle immagini non nascono tanto da un
elaborato gioco scenografico, quanto piuttosto da una sapienza energetica,
da una perseguita nudità, in una luce netta che ha al centro i corpi gloriosi
degli attori: qualcosa da quei corpi si espone, vibra, svetta, pare nascere in
quel momento. La scrittura arriva sulla scena già ingravidata da quelle
immagini e agisce su di esse modificandole e modificandosi. Ci sono poi le
sanguinolente immagini del mondo, ora così esibite, che si depositano sul
mio fondo e fanno peso. E poi la bellezza, “cioè la natura ”, e poi le facce
care, e poi i musi, i becchi, le ali, e poi tutta l’infanzia, posseduta ora più
di allora: tutto pare starsene impilato in me da qualche parte, e poi
precipitare nel verso. Questo accumulo e il suo spargimento è forse
Poesia, “…o Amore-i due vengono insieme-/ li proviamo entrambi o
nessuno-/…”.
con la partecipazione di
Laura Curino
© Guido Guidi
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Penso esattamente il contrario. La poesia deve infuocarsi in un corpo, ed
essere celebrata in un rito corale e festivo. La sua parola deve attraversare
il respiro, farsi voce, canto, entrare in noi dall’orecchio, che è fra i nostri
canali d’entrata quello che conduce più in profondità. La ritmica e la
melodia della parola poetica invocano, mi pare, una coralità d’ascolto,
quasi vi fosse un ballo interiore che meglio rimbalza in un pulsare comune.
È forse proprio l’intimità col libro, la rinuncia alla parola pronunciata,
cantata, che ha distolto la poesia dalla misteriosa sapienza del corpo e
che spesso la ha resa troppo cerebrale. È forse questo che ha allontanato
la poesia dalle vite comuni e dal proprio compito che è quello di farci bene,
subito, ora.
Mariangela Gualtieri è nata a Cesena, in Romagna. Si è laureata in
architettura all’IUAV di Venezia. Nel 1983 ha fondato, insieme a
Cesare Ronconi, il Teatro Valdoca, di cui è drammaturga.
Fra i testi pubblicati: Antenata (ed. Crocetti, Milano 1992), Fuoco
Centrale (ed. I Quaderni del Battello Ebbro, Bologna 1995), Sue
Dimore (ed. Palazzo dell’Esposizioni di Roma, Roma 1996), Nei Leoni
e nei Lupi (ed. I Quaderni del Battello Ebbro, Bologna 1996), Parsifal
(ed. Teatro Valdoca, Cesena 2000), Chioma (ed. Teatro Valdoca,
Cesena 2000), FUOCO CENTRALE e altre poesie per il teatro (Giulio
Einaudi ed. Torino 2003), Donna che non impara (Galleria Emilio
Mazzoli, Modena 2003). In preparazione, sempre per Einaudi, la
raccolta dei versi inediti.
“Poeti Europei del ‘900”: tutte le edizioni
1993/94
I nuovi Maestri
P. Villoresi legge Mario Luzi
presentazione di S. Agosti
F. Nuti legge Vittorio Sereni
presentazione di G. Raboni
A. Jonasson legge Sandro Penna
presentazione di C. Garboli
F. Graziosi legge Giorgio Caproni
presentazione di G. Agamben
G. Lazzarini legge
Attilio Bertolucci
presentazione di E. Siciliano
1994/95
I Pionieri
P. Villoresi legge
Aldo Palazzeschi
F. Nuti legge
Clemente Rebora
G. Strehler legge
Dino Campana
F. Graziosi legge
Camillo Sbarbaro
G. Lazzarini legge
Guido Gozzano
1995/96
Dialetti e altre eresie
G. Dettori legge
Giacomo Noventa
G. Lazzarini e L. Puggelli leggono
Delio Tessa
R. De Carmine legge
Franco Fortini
G. Strehler e U. Ceriani leggono
Giovanni Testori
F. Nuti legge Carlo Betocchi
1996/97
Giorgio Orelli
presentazione di G. Raboni
Peter Porter
presentazione di N. Gardini
Antonio Colinas
presentazione di G. Caravaggi
Giovanni Giudici
presentazione di A. Bertoni
Bernard Noël
presentazione di F. Scotto
Günter Kunert
presentazione di L. Forte
Hans Karl Artmann
presentazione di M. E. D’Agostini
1997/1998
R. De Carmine legge
Dylan Thomas
G. Dettori legge
Antonio Machado
O. Piccolo legge Andri Peer
F. Nuti legge Gottfried Benn
G. Lazzarini legge
Giuseppe Ungaretti
F. Graziosi legge René Char
A. Jonasson legge
Rainer Maria Rilke
1998/1999
L. Marinoni legge
Marguerite Yourcenar
A. Jonasson legge
Ingeborg Bachmann
F. Nuti legge Amelia Rosselli
Milva legge
Else Lasker-Schüler
I. Danieli legge Gloria Fuertes
O. Piccolo legge Corinna Bille
G. Lazzarini legge Sylvia Plath
1999/2000
Scrittura d’artista
M. Popolizio legge Paul Klee
L. De Filippo legge
Alberto Giacometti
G. Lazzarini legge
David Herbert Lawrence
A. Jonasson legge
Oscar Kokoschka
G. Dettori legge Henri Michaux
R. Herlitzka legge Toti Scialoja
S. Lombardi legge
Salvador Dalì
2000/2001
I poeti dei poeti.
Le grandi traduzioni del secolo
L. Marinoni legge
William Shakespeare
tradotto da G. Ungaretti
M. Popolizio legge
Hugo von Hofmannsthal
tradotto da L. Traverso
G. Ranzi legge Pedro Salinas
tradotto da V. Bodini
F. Nuti legge
Philippe Jaccottet
tradotto da F. Pusterla
Milva legge Bertolt Brecht
tradotto da F. Fortini
O. Piccolo legge T.S. Eliot
tradotto da E. Montale,
A. Bertolucci, G. Giudici
e R. Sanesi
G. Dettori legge
Guillaume Apollinaire
tradotto da V. Sereni
2001/2002
Tra futuro e passato.
I poeti di oggi e i maestri
della modernità
Fabjan Hafner
G. Ranzi legge
Rainer Maria Rilke
Juan Vicente Piqueras
P. Villoresi legge
Fernando Pessoa
Tony Harrison
M. De Francovich legge
Wilfred Owen
Durs Grünbein
M. Popolizio legge
Eugenio Montale
Leopoldo Lonati
F. Nuti legge Giorgio Caproni
François Boddaert
G. Dettori legge André Frénaud
Riccardo Held
G. Lazzarini legge
Gottfried Benn
2002/2003
Europa+Europa. Sette poeti
alla scoperta del continente
Jolanda Insana
G. Dettori legge Attila József
Sylviane Dupuis
L. Marinoni legge
Osip Mandel’stam
Eliane Feinstein
G. Ranzi legge Marina Cvetaeva
Liliane Giraudon
G. Crippa legge Vladimír Holan
Hans Raimund
M. Popolizio legge
Ghiannis Ritsos
José Maria Alvarez
S. Santospago legge
Constantinos Kavafis
Thomas Kling
G. Lazzarini legge
Gunnar Ekelöf
2003/2004
La lingua dell’ospitalità.
Sette incontri per l’altrove
e il futuro
Vénus Khoury-Ghata
Warner Bentivegna legge
Yves Bonnefoy
Doron Rabinovici
Massimo Popolizio legge
Robert Schindel
Gëzim Hajdari
Massimo Popolizio legge
Dino Campana
Dubravko Pusek
Warner Bentivegna legge
Tommaso Landolfi
Fabio Morábito
Antonio Zanoletti legge
Octavio Paz
Moniza Alvi
Serra Yilmaz legge Stevie Smith
Renan Demirkan
Fausto Russo Alesi legge
Erich Fried
L’ospitalità linguistica.
Traduzione come luogo
dell’incontro
Intervengono Nadir M. Aziza,
Gianfranco de Bosio e
Giovanni Raboni
2004/2005
La lingua dell’ospitalità.
Salah Stétié
Gian Carlo Dettori legge
Pierre-Jean Jouve
Zehra Cirak
Massimo De Francovich legge
Hilde Domin
Chantal Maillard
in occasione della
“Giornata Mondiale della Poesia”
Lluís Pasqual legge
Federico García Lorca
Mimi Khalvati
Umberto Ceriani legge
William Wordsworth
Diamant Abrashi
Franco Graziosi legge
Giuseppe Ungaretti
Serafettin Yildiz
Giulia Lazzarini legge
Nazim Hikmet
Omaggio a
Giovanni Raboni
a cura di Patrizia Valduga
con la partecipazione di
Franca Nuti
30 gennaio 2006, ore 17.30
Francia
Valère Novarina
con la partecipazione di
Maddalena Crippa
13 marzo 2006, ore 17.30
Inghilterra
Kate Clanchy
con la partecipazione di
Massimo De Francovich
27 marzo 2006, ore 17.30
Germania
Albert Ostermaier
con la partecipazione di
Giorgio Sangati
e Saam Schlamminger
3 aprile 2006, ore 17.30
Spagna
Luis Muñoz
con la partecipazione di
Fausto Cabra
8 maggio 2006, ore 17.30
Svizzera
Pierre Lepori
con la partecipazione di
Giovanni Crippa
29 maggio 2006, ore 17.30
Austria
Franzobel
con la partecipazione di
Massimo Popolizio
5 giugno 2006, ore 17.30
Mariangela Gualtieri
con la partecipazione di
Laura Curino
Ingresso libero fino a esaurimento posti
Italia