POETI EUROPEI XIII EDIZIONE ’900 DEL DA UN PROGETTO DI GIOVANNI RABONI LA SCENA DELLA POESIA a cura di Martin Rueff coordinamento Italo Gregori Teatro Studio gennaio - giugno 2006 in collaborazione con …per quanto ignominioso sia il presente io mai rinuncerei, potendo scegliere, a starci, magari di sghembo e rattrappito d’amarezza, dentro Giovanni Raboni Teatro d’Europa è il secondo nome, il “cognome” del Piccolo, la sua famiglia di appartenenza: il mondo. È l’Europa vissuta come uno sguardo che si compromette nel mondo. Con questi convincimenti, il ciclo di incontri dedicato ai “Poeti Europei del ’900”, nato dalla passione e dal lavoro di Giovanni Raboni, ora continua naturalmente nel suo solco e vuole offrire al pubblico milanese una nuova occasione per conoscere, attraverso la parola, attraverso la poesia, il racconto di sogni e identità a confronto. Nei suoi programmi, autori divenuti ormai “classici” si alternano a giovani poeti del nostro presente, così come la critica letteraria si sposa alla spettacolarità, grazie alla partecipazione di attori italiani che si fanno interpreti delle poesie proposte al pubblico. Ma ci preme anche sottolineare come gli appuntamenti al Teatro Studio siano anche una preziosa occasione di collaborazione tra il Piccolo e altre istituzioni: gli Istituti di Cultura Europei presenti a Milano, riuniti nell’AICEM (e sottolineiamo quest’anno il ruolo fondamentale del Centre Culturel Français quale coordinatore di tutta l’iniziativa), importante associazione nata espressamente allo scopo di incoraggiare la realizzazione di iniziative come la nostra, e per la prima volta, quest’anno, la rivista internazionale “Poésie Contemporaine”. Non solo, quindi, conferenze e letture, ma una rete di contatti, la creazione di legami, la condivisione di un progetto culturale comune. E allora, insieme ancora una volta, viaggiamo nelle lingue e nelle parole senza il timore per la loro apparente debolezza, sapendo che sono la forza vera per trovare nuovi legami, nuove sintonie in un mondo che soffre sempre più di un profondo disorientamento. Teatro e Poesia, le parole contro la banalità. Sergio Escobar Direttore Piccolo Teatro di Milano Teatro d’Europa Finché uomini respireranno o occhi vedranno, fin tanto vivrà questa poesia, e questa darà vita a te William Shakespeare Come affrontare la scomparsa di colui che ha ispirato questi incontri di poesia contemporanea al Piccolo Teatro? Questo era il dilemma che dovevamo risolvere, ben consci che era vano tentare di sostituire l’illustre Giovanni Raboni il cui prezioso lavoro ha lasciato una così forte impronta in ciascuna edizione dei “Poeti europei del ’900”. Con Sergio Escobar e Italo Gregori, abbiamo quindi pensato di “europeizzare” la rassegna affidando - ogni anno a rotazione - la direzione e la coordinazione artistica degli incontri a una rivista di poesia di uno dei paesi membri dell’AICEM; abbiamo inoltre pensato di inaugurare ogni rassegna con una riflessione collettiva sullo stato della poesia oggi. Dovendo quindi iniziare da qualche parte, è stato deciso che sarebbe stata la Francia, paese che detiene attualmente la presidenza della nostra associazione, a incaricarsi dell’edizione 2006. Martin Rueff, membro della redazione della rivista “Poésie”, che qui ringraziamo calorosamente, ha voluto, in un periodo in cui il testo trascura la scena a beneficio di altre discipline artistiche, reintrodurre le parole, riportare la poesia sulla scena del teatro. Non avrebbe potuto avere idea migliore, in questa stagione 2005-2006, in cui il Piccolo, più Teatro d’Europa che mai, programma Shakespeare, Brecht e Beckett. Jean-Paul Ollivier Presidente dell’AICEM Associazione Istituti di Cultura Europei a Milano La scena della poesia Tre domande di Martin Rueff ai poeti che partecipano alla rassegna Shakespeare, Brecht, Beckett… La stagione del Piccolo Teatro di Milano propone quest’anno le opere di alcuni grandi geni del teatro che furono anche poeti grandissimi. I Sonetti di Shakespeare segnano uno dei momenti più alti del lirismo europeo e, come all’altro capo di un arco di cerchio???, Le Mirlitonnades di Beckett uno sforzo disperato per non chiudere, per non farla finita; tra i due estremi, la poesia di Brecht, lotta spietata con la modernità. Teatro e poesia? Il palcoscenico della poesia piuttosto. Abbiamo ritenuto che, in un momento in cui il teatro cerca con vitalità e con determinazione polemica, anche, di ridefinire la propria essenza tra la società dello spettacolo e l’invasione delle immagini, fosse opportuno portare sei poeti sulla scena e chiedere loro di prendere la parola. Si tratta quindi di proseguire l’opera e il pensiero di Giovanni Raboni, al di là del dolore e del lutto. Citando le parole di Marina Cvetaeva a proposito di Rilke, possiamo dire che: “Il ruolo di Raboni è mutato in questo: finché fu vivo collaborò direttamente con le forze superiori e, oggi, è entrato a farne parte egli stesso”. Martin Rueff Martin Rueff si divide tra Parigi e Bologna, dove insegna in entrambe letteratura e filosofia. È membro della redazione della rivista Poésie, per la quale ha diretto i due numeri 119 -110??? dedicati a 30 ans de poésie italienne (Parigi, Belin, 2004, 557 pp.). Dirige la collezione italiana Terra d’Altri presso le edizioni Verdier. Traduttore e critico, è autore di Lapidaire adolescent (edizioni Comp’Act, 2001). Tra breve saranno pubblicate due sue nuove raccolte. 1 1) Sembra che una particolare tendenza del teatro moderno destini il palcoscenico al puro spettacolo vivo, all’evento dei corpi e allo scatenarsi delle immagini. Il teatro avrebbe così chiuso con il testo. Questa polemica, lo sappiamo, ha attraversato l’ultimo festival di Avignone. Nel commentare il divenire del teatro, Olivier Py non ha esitato a sostenere che tocca ormai alla poesia veicolare la letteratura, il testo e la voce. Al palcoscenico, lo spettacolo; alla poesia, il testo. Lei condivide questa visione? La poesia è per lei l’ultimo rifugio del testo contro la società dello spettacolo? 2 Ma come concepire allora il rapporto tra poesia e scena? Dobbiamo forse difendere la visione di Mallarmé? Lo ricordiamo: egli rifiutava che il palcoscenico della poesia fosse altro se non la pagina. Riprendiamo le sue parole: “Ora il Libro tenterà di bastare, per socchiudere il palcoscenico interiore e sussurrarne gli echi. Un insieme versificato invita a una rappresentazione ideale”. Ancora: “Un libro nelle nostre mani, se è portatore di un’idea augusta, supplisce a tutti i teatri”. E infine : “Con due pagine e con i loro versi, poi con tutto me stesso, io sopperisco al mondo! Oppure vi percepisco, discreto, il dramma. Una tendenza moderna sottratta a ogni contingenza della rappresentazione, grossolana o anche eccellente fino ad ora, l’opera per eccellenza, o la poesia”. Questo ripiegamento trionfale verso l’interiorità, Le sembra sia la soluzione per la poesia oggi? 3 Ma non bisognerebbe forse risalire più in alto? Verso la contrapposizione tra immagine e poesia? Tra esteriorità e interiorità? Dopotutto il palcoscenico interiore della poesia non è forse attraversato dalle immagini che esso stesso crea? Immagini, intense immagini dei poeti, voi attraversate le nostre vite e non le lasciate più. Che ruolo attribuisce nella Sua opera, al lavoro dell’immagine? lunedì 30 gennaio 2006 ore 17.30 Valère Novarina Risposte alle domande di Martin Rueff (cfr. pagina 7) 1 Ciò che tramonta oggi, ciò che andrà scomparendo, non è soltanto “il testo”, è l’arte dell’attore. L’attore è colui che dà, colui che scaglia, colui che sacrifica il testo. È ciò che vogliamo vedere sul palco: non un personaggio ma l’offerta di una lingua che apre l’uomo. Dopo questo gesto, l’uomo appare per quello che è: un senza fondo. Il pubblico non si è mai veramente interessato né alla psicologia dei personaggi né alla fiaba. L’unica gioia dello spettatore è quella di andare a teatro per vedere l’animale parlare. 2 L’attore procede a lanciare i dadi del linguaggio: le parole sono rebus a sei facce che cadono l’una sopra l’altra. Le frasi sono enigmi che l’attore non risolve in alcun modo; tiene in mano parole irrisolte in fasci d’equazioni aperte. Rimane senza intenzione alcuna, senza opinione alcuna: minerale, animale, materiale. Scende sempre più nel profondo della materia dove trova l’intelligenza di tutto e sente. 3 Il teatro è il recinto della logoscopia. La scena è un luogo ottico in cui verificare la fisica sovrannaturale, in cui intravedere il nostro linguaggio in faccia per la prima volta; è un corpo esterno che ci sta di fronte: la nostra stessa materia soffiata visibile dinanzi, in volume e in perpetuo movimento. Il linguaggio appare qui agli occhi di tutti per ciò che è: la materia spirituale del corpo umano. L’emozione ha appena visto lo spazio QUI aprirsi - e l’uomo vi si iscrive, dentro, per la prima volta - come ai dadi, nella figura del cinque, il punto Uno, prigioniero in mezzo allo spazio quattro. con la partecipazione di Maddalena Crippa Valère Novarina trascorre l’infanzia e l’adolescenza sulle rive del lago Lemano e tra le montagne svizzere. A Parigi, dove studia letteratura e filosofia, incontra Roger Blin, Marcel Maréchal, Jean-Noël Vuarnet; vuole diventare attore ma vi rinuncia rapidamente. Inizia a scrivere dal 1958 ma pubblicherà soltanto a partire dal 1978. Quando, nel 1986, mette in scena i suoi primi testi per il teatro, intraprende a poco a poco anche un’attività grafica e poi pittorica: disegni di personaggi e pitture per scenografie. Tra le sue opere, vi sono testi strettamente teatrali (come L’Atelier volant, Vous qui habitez le temps, L’Opérette imaginaire) o di “teatro utopico”, romanzi “sopra-dialogati”, monologhi a più voci, poesie in atti, quali Le Drame de la vie, Le Discours aux animaux, La Chair de l’homme. È autore di opere “teoriche” che esplorano il corpo dell’attore, “in cui lo spazio e la parola s’incrociano laddove si genera il respiro”: Pour Louis de Funès, Pendant la matière, Devant la parole. Inafferrabile e attivo, il linguaggio vi appare come una figura della materia. Alcune delle sue opere sono state tradotte in italiano, tra cui L’atelier volante, All’attore, il teatro delle parole, Lo spazio furioso, Per Louis de Funès e La scena. lunedì 13 marzo 2006 ore 17.30 Kate Clanchy Risposte alle domande di Martin Rueff (cfr. pagina 7) 1 Ho lavorato per un certo periodo come critico teatrale a Londra e a Edimburgo e ho assistito a straordinari spettacoli di teatro visuale: le opere di Robert Lepage, per esempio. Ma mi è sempre sembrato che il testo fosse vivo e pregnante. David Hare, Mark Ravenhill, Sarah Kane sono degli autori che si affidano alla parola. L’ultimo lavoro di Sarah Kane, in particolare, si concentra quasi esclusivamente sul testo e sulla sua portata poetica nel senso migliore. Dunque, no. Io penso che ci siano moltissimi luoghi dove il testo possa esprimersi e affermarsi. 2 In Inghilterra sta fiorendo e affermandosi il teatro di poesia. Il genere comprende il rap, lo slam e il teatro di improvvisazione e non sembra che questo tipo di teatro incontri difficoltà nel trovare le proprie vie di espressione. Ci sono molti autori, e io sono tra questi, che scrivono in prima istanza per la pagina, e benché si discuta accanitamente, io penso che si troverà una strada per andare avanti. A me piace che la mia poesia abbia un pubblico, ma non penso che questo sia una componente essenziale del mio lavoro. Se le mie poesie hanno una qualche validità troveranno molte voci per esprimersi e io mi auguro che la mia sia soltanto una tra le tante. 3 Penso che lo stile di un poeta si definisca attraverso la sua capacità di creare immagini nette e originali. Le mie prime idee di poesia nascono dalle immagini e dai suoni piuttosto che da un tema specifico. con la partecipazione di Massimo De Francovich Nata a Glasgow (Scozia) nel 1965, Kate Clanchy ha studiato a Edimburgo e a Oxford. Per diversi anni ha vissuto nell’East End di Londra prima di trasferirsi a Oxford dove attualmente lavora come insegnante, giornalista e scrittrice. Collabora regolarmente con “The Guardian” e insegna scrittura creativa alla Arvon Foundation. È autrice di due premiate raccolte di poesia: Slattern (1995), alla quale sono stati assegnati il Forward Poetry Prize (Miglior raccolta poetica di esordio) e il premio Somerset Maughan, e Samarkand (1999), selezionata per il Forward Poetry Prize (Miglior raccolta poetica dell’anno) e vincitrice dello Scottish Arts Council Book Award. Le poesie di Kate Clanchy sono state trasmesse dalla BBC Radio e pubblicate in molti quotidiani e riviste. Ha scritto anche 6 radiocommedie per la BBC alle cui trasmissioni collabora diffusamente. La sua ultima raccolta, Newborn (2004), tratta il tema della maternità, della nascita e della cura del bambino. È stata selezionata per il premio Forward. Albert © Isolde Ohlbaum lunedì 27 marzo 2006 ore 17.30 Ostermaier Risposte alle domande di Martin Rueff (cfr. pagina 7) 1 Il testo non deve essere considerato un volatile minacciato dall’estinzione, al quale vada assegnata una riserva protetta e imposto il divieto di sorvolare l’Italia. Il testo parla da sé, non ha bisogno di un portavoce. Se ha profondità, precisione, consistenza e qualità, riuscirà a farsi strada e ad opporsi ad ogni tentativo di assorbimento e semplificazione. La qualità del teatro consiste nell’avere molte facce e molte voci, nella mancanza di dogmi. Inoltre il teatro dovrebbe confrontarsi sempre con tutti i nuovi sviluppi estetici e le nuove tecniche e renderle costruttive per se stesso, utilizzandole creativamente. Anche come confronto e riflessione critica. Ci sono messinscene in cui la concentrazione sulla parola è tale da togliere il fiato ed altre in cui regna la totale anarchia nei confronti della parola: anche questa anarchia può lasciare senza fiato. Don’t cry, work. Nella poesia mi interessa la forma drammatica e nella drammaturgia la poesia, amo tracciare dei confini per poi cancellarli. Inoltre è davvero un evento il fatto che il teatro sia “live” e non preconfezionato, che nell’attore trovi un corpo e una parola che suda, respira, urla, sussurra. 2 Ogni testo deve innanzitutto essere a sé stante, isolato, nella sua solitudine. Con ogni lettore si sviluppa un acuirsi drammatico, le parole incontrano un nuovo sguardo, un punto focale diverso. Il lettore mette in scena il testo nella sua testa, sul palcoscenico della sua fantasia. In questo senso un foglio di carta può diventare la messinscena più avvincente senza che si oda una parola, tranne che nel pensiero e nella testa. La poesia non deve aver bisogno di un interprete per sviluppare tutta la sua forza esplosiva o la sua capacità di sconvolgere l’ascoltatore. Ma che meraviglia quando un attore la legge e la fa sua, quando rende visibili i diversi piani della poesia con i suoi gesti, la sua voce, i sottintesi! Certo, gli attori possono farci vedere il paesaggio tra le righe, per un attimo, un respiro. Il linguaggio richiede l’attore, il corpo, perché vuole essere afferrabile e tangibile, e vuole anche colpire. L’interiorità è esteriorità, perché è sempre rivolta verso l’esterno quando afferma l’interiore. Nell’interiorità possiamo sempre cambiare facilmente il mondo; sarebbe più necessario farlo all’esterno. 3 Si può essere informati e disinformati, ci si può immaginare qualcosa dal nulla oppure cercare di ricostruire l’immagine di qualcosa di cui non si riesce a farsi un’immagine. Il linguaggio è per me un’immagine e le immagini per me hanno un loro linguaggio. Li amo entrambi, quando si muovono, quando scrivo, quando leggo, davanti agli occhi. E ha ragione Goethe: crea artista, non parlare! con la partecipazione di Giorgio Sangati e Saam Schlamminger “Plugged Poetry”, così Albert Ostermaier, star della nuova lirica tedesca, definisce lo stile dei suoi versi: parole, suoni, ritmi perfettamente mixati e di forte espressività linguistica, in cui il duro slang delle metropoli si stempera nella suggestiva musicalità di un linguaggio poetico che non ha rime, ma cadenze, assonanze, reiterazioni. New York o Los Angeles, Calcutta, il Mississippi, o l’Afghanistan: le poesie di Albert Ostermaier sono polaroid del presente globalizzato; il banale e il meraviglioso si incontrano e si scontrano a ogni passo, sempre uguali, sempre diversi, e il lettore è coinvolto in una ricerca inquieta, in un rapporto di tensione fra il sound crudele delle metropoli e la malinconica solitudine di paesaggi infiniti. Nato a Monaco di Baviera nel 1967, Albert Ostermaier ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti (fra i quali il prestigioso Premio Kleist), per i suoi volumi di poesia (Heartcore, 1999; Autokino, 2001; Solarplexus, 2003), e l’attività di drammaturgo. Le sue letture pubbliche, vere e proprie performance, spesso accompagnate da prestigiosi musicisti, come il percussionista Saam Schlamminger, riscuotono sempre un notevole successo di pubblico e di critica. lunedì 5 giugno 2006 ore 17.30 Luis Muñoz Risposte alle domande di Martin Rueff (cfr. pagina 7) 1 Bene, la poesia non prescinde dal testo perché è testo. Però anche oggi il testo è o può trovarsi in altre manifestazioni artistiche. Non sono un esperto del teatro recente, ma ho l’impressione che l’utilizzo del testo, se si è allontanato dal teatro più moderno, possa cambiare in qualsiasi delle sue forme possibili, in qualsiasi momento. D’altra parte, la poesia è un genere che, per sua tradizione, più che testuale è orale; in questo senso credo sia consustanziale alla poesia il vincolo della letteratura, testo e voce alla quale si allude. 2 Io non noto l’incompatibilità tra la scena, diciamo, di una sala e la scena della pagina. Credo che la poesia sia un genere anfibio che può vivere sia nella sala sia nel libro. È vero che ci sono casi di poeti o poemi concreti nei quali la componente visuale o orale sembri più importante. Nel caso della poesia scritta in spagnolo esistono poeti nei quali si percepisce l’intenzione orale molto chiara, lo stimolo che i loro poemi saranno ascoltati, come succede in alcuni poemi di Rafael Alberti o Pablo Neruda, che in quello si riallacciavano a una tradizione di poesia orale che risale in spagnolo ai canzonieri o romanzieri medioevali. E inoltre, ci sono autori nei quali, per la disposizione tipografica o il disegno dei versi, lo spazio della pagina è più importante, come in Francisco Pino per esempio. Però penso che un poema debba essere capace di reggere le due prove, quella del silenzio della pagina e dell’ascolto. 3 Io penso che un poeta possieda, come una delle proprie responsabilità, quella di fornire un’immagine esterna che possa essere la proiezione di un’immagine interiore. Ritengo che parte della poesia si trovi in quel transito, verso la ricerca di immagini verbali che siano capaci di accogliere o di riassumere un’inquietudine interiore, una complessità profonda. Per spiegare come lo intendo, mi permetto di ricorrere a un’immagine. Per me, scrivere è un’immersione nella più assoluta solitudine, come un subacqueo che si inabissa da solo nelle profondità dell’oceano, ma che quando esce condivide le scoperte di quell’immersione. Entrambi gli estremi credo siano necessari: la solitudine più violenta quando ci si immerge nelle profondità e il desiderio di condividere quello che si è visto, quello che si è ascoltato. con la partecipazione di Fausto Cabra Luis Muñoz nasce a Granada nel 1966 e si laurea in Filologia Spagnola e Filologia Romanza. Attualmente lavora come assessore della Residencia de Estudiantes e come professore di poesia a Madrid per il programma della New York University. Ha pubblicato le raccolte Septiembre (Hiperión, 1991), Manzanas amarillas (Hiperión, 1995), El apetito (Pre-Textos, 1998) e Correspondencias (Visor, 2001), per cui ha ottenuto il Premio Generación del 27 e il Premio Ojo Crítico. Nel 1994 ha curato la raccolta collettiva El lugar de la poesía e ha tradotto, tra gli altri, autori come Giuseppe Ungaretti (El cuaderno del viejo, Pre-Textos, 2000) e poeti britannici della “New Generation” (“Hélice” n. 13, 1999, rivista da lui diretta e attualmente non più pubblicata). Le sue opere sono raccolte in alcune delle attuali più importanti antologie della poesia spagnola. lunedì 8 maggio 2006 ore 17.30 Pierre Lepori Risposte alle domande di Martin Rueff (cfr. pagina 7) 1 Non vedo la necessità di categorie e transenne, né un così stretto legame tra teatrale e spettacolare (in senso contemporaneo). La poesia è corpo, la lingua è pelle (Anzieu), una membrana che ci sforziamo di rendere al contempo aderente, elastica e trasparente (onesta). Il discrimine tra la danza delle immagini che ne vien fuori e la mano che si cala nell’humus di noi e del mondo non è facile da tracciare. Il teatro avrebbe chiuso con il testo? Ma cos’è un testo (per Grotowski, per il Living, per la Commedia dell’Arte)? E cos’è un corpo (per Testori, per Ingeborg Bachmann, per Dante)? Basta leggere una pièce di Py (o entrare in una sua rapinosa regia) per sapere che la distinzione non regge. 2 Che la pagina sia ancora un richiamo della foresta per il singolo, che vi s’immerge a tu per tu, è certo un buon controcampo all’isteria della visibilità spettacolare. Ma anche la poesia, come il teatro, nasce volatile (cantata) e sconsacrata e il poeta ha un dovere di condivisione, di socialità profonda, che è poi umanesimo. Adorno ci mette in guardia: ogni idea, nel comunicarsi, si snatura; per questo la poesia evita di voler “comunicare”, come un corpo sulla scena, un irrisolvibile aforisma incarnato. Ma la poesia è sorella dell’azione (Saint-John Perse) e deve “cantare dal basso”, per evitare tentazioni prometeiche (exit l’ideale augusteo, nell’oggi del cinismo abbiamo carenza di umanità). 3 Non c’è legame ontologico tra immagine e esteriorità: anzi, proprio in poesia troviamo immagini come tuffo nel profondo; quando il linguaggio esplicativo non serve più, è l’immagine ad aprire la porta, a sfondare i codici della comunicazione quotidiana a farsi corpo-voce del naked thinking heart. Secondo René Daumal, la gestazione poetica ha tre fasi: il germe luminoso, la vestizione d’immagini, l’espressione verbale. Per quanto mi riguarda, spesso le immagini permettono di focalizzare un sentimento indistinto, di verbalizzarlo senza tradirlo con le parole (melodrammaticamente), anche se occorre evitare (per quanto possibile) il facile effetto o quelle immagini che chiudono l’orizzonte dei possibili; e, viceversa, la troppo facile indeterminatezza di una “chanson grise”. È un equilibrio difficile, quello tra onestà e comunicazione, tra umiltà e grido. con la partecipazione di Giovanni Crippa Pierre Lepori è nato a Lugano nel 1968, si è laureato in Lettere Moderne a Siena (con una tesi su Luchino Visconti e il melodramma) e ha conseguito un dottorato in Theaterwissenschaft all’Università di Berna. Ha diretto la redazione italiana del Dizionario Teatrale Svizzero (Zurigo, Chronos Verlag, 2005). Vive a Losanna, dove è corrispondente per i programmi culturali della Radio Svizzera; è redattore della rivista on-line www.culturactif.ch e dell’annuario di letteratura “Feuxcroisés”. Traduttore dal francese (Anne-Lou Steininger, Monique Laederach, Gustave Roud), ha pubblicato le sillogi Canto oscuro e politico (Settimo Quaderno di poesia italiana, Marcos y Marcos, 2001) e Vento (Faloppio, Lietocolle, 2004). Per Qualunque sia il nome (Bellinzona, Casagrande, 2003) ha ricevuto il Prix Schiller 2004. © maria ziegelboeck lunedì 29 maggio 2006 ore 17.30 Franzobel Risposte alle domande di Martin Rueff (cfr. pagina 7) 1 Non è ingenuo credere che la poesia possa chiudersi alla società dello spettacolo? Non sanno sia i poeti sia i lettori e gli ascoltatori dell’esistenza di questa società dell’evento che, tutto penetrando e imbevendo, influenza anche le abitudini dell’ascolto e della lettura, anzi le ubriaca? Io credo che la poesia debba essere essa stessa spettacolo. E precisamente un tale spettacolo di amore e morte, di sentimenti grandi e piccoli che, se solo ci si lascia andare a lei, gli altri spettacoli mediali, della cultura del momento, a paragone appaiono pallidi e miseri. La poesia è una grandiosa ebbrezza, un’incomparabile sbronza dell’esistenziale, che non si può nascondere. La poesia deve sfidare. Il poeta deve prendere posizione, intervenire. 2 Ma assolutamente no. Il posto della poesia è la scena, la poesia va recitata, i teatri devono occuparsene. Io credo anche che l’autore svolga una funzione importante in teatro perché egli sta al di fuori dello spettacolo e dell’enfasi. Il lavoro dell’autore è molto solitario – soprattutto nei romanzi e nelle poesie –, così il dialogo con un teatro può essere fruttuoso per ambedue le parti. Io credo che i teatri non possano sottrarsi al confronto con gli autori contemporanei. E, viceversa, neanche gli autori possono rifiutarsi. In ogni caso, considero il rifiuto una posa, una reazione offesa. Per un autore è una gran fortuna venir rappresentato. 3 Sono una persona molto sensibile alle impressioni ottiche e la mia visione fondamentale, ciò che immagino come poesia perfetta, è molto simile a un flusso di immagini, una cattedrale gotica di impressioni visive, dove tutto è collegato a tutto, un’unica allucinazione linguistica. Uso dei cliché, i fumetti e i film muti come Stanlio e Ollio e anche i film da “strapaese”. Per me i caratteri hanno un ruolo importante, per quanto, in fondo, nessuno sia quello per cui lo si prende all’inizio – lo stesso vale forse per le immagini. Cambiano, si capovolgono, ruotano. Talora mi prendo anche la libertà di rappresentare coloro che altrimenti sono muti, il cosiddetto popolino. Non sono affatto un poeta visibilmente politico, ciononostante i testi si fanno palesemente più politici - e più religiosi nel senso di una poetizzazione del mondo. con la partecipazione di Massimo Popolizio Franzobel, nato nel 1967 a Vöcklabruck, vive a Vienna, Pichlwang e talora anche a Buenos Aires. Inizia la sua attività artistica in qualità di artista figurativo (espone, tra l’altro, all’ArtStart di Vienna, 1990, e al Kunsthalle Ritter di Klagenfurt, 1996), in seguito, dal 1991, si dedica prevalentemente alla scrittura, non rinunciando a sperimentazioni in altri ambiti artistici e coltivando molteplici interessi (coming up; arte giovane dall’Austria nel Museo del XX secolo, 1996; De Valigia 1998; apparizioni con “The Naked Lunch”???; giocatore di calcio a tempo perso; ciclista…). I suoi testi rivelano un maestro fastoso e divertente dell’inventiva lessicale e un affabulatore barocco le cui metafore e immagini poetiche creano audaci formazioni linguistiche. Ha all’attivo numerose raccolte poetiche, testi drammaturgici allestiti nei principali teatri austriaci e radiodrammi. Tra i più recenti riconoscimenti ottenuti, vi sono la Medaglia Brecht (2000), la Borsa di studio della Città di Vienna Elias Canetti (2001), il Pemio Arthur Schnitzler (2002) e il Premio Nestry (2005). lunedì 5 giugno 2006 ore 17.30 Mariangela Gualtieri Risposte alle domande di Martin Rueff (cfr. pagina 7) 1 Non si tratta di veicolare la letteratura quanto piuttosto di scassarla, “distruggere la letteratura ed espandere lo spirito”. In questo compito nulla è più dinamitardo e fecondo del teatro e della poesia messi insieme e dunque del verso pronunciato in scena. Ma è vero, verissimo, che questa eventualità è molto rara, forse perché molto particolari sono le condizioni che portano all’accensione della miccia. Ne segnalo solo alcune: un regista e un poeta che coincidano nella stessa figura o che siano stretti da un sodalizio simpatetico, un regista che formi i propri attori e li guidi alla scoperta delle loro energie profonde (prima che la tecnica, da sola, faccia un grumo imperforabile), un poeta disposto a rischiare la faccia in una scrittura al presente, disposto cioè ad entrare nel capogiro delle forze della scena. Concordo con Deleuze: “In arte… non si tratta di riprodurre o inventare forme, bensì di captare delle forze ”. A questo fine, che cosa c’è di meglio della parola magica della poesia? 3 Lavoro in teatro col regista che prediligo e le sue immagini sono spesso ciò che scatena la mia scrittura. Quelle immagini non nascono tanto da un elaborato gioco scenografico, quanto piuttosto da una sapienza energetica, da una perseguita nudità, in una luce netta che ha al centro i corpi gloriosi degli attori: qualcosa da quei corpi si espone, vibra, svetta, pare nascere in quel momento. La scrittura arriva sulla scena già ingravidata da quelle immagini e agisce su di esse modificandole e modificandosi. Ci sono poi le sanguinolente immagini del mondo, ora così esibite, che si depositano sul mio fondo e fanno peso. E poi la bellezza, “cioè la natura ”, e poi le facce care, e poi i musi, i becchi, le ali, e poi tutta l’infanzia, posseduta ora più di allora: tutto pare starsene impilato in me da qualche parte, e poi precipitare nel verso. Questo accumulo e il suo spargimento è forse Poesia, “…o Amore-i due vengono insieme-/ li proviamo entrambi o nessuno-/…”. con la partecipazione di Laura Curino © Guido Guidi 2 Penso esattamente il contrario. La poesia deve infuocarsi in un corpo, ed essere celebrata in un rito corale e festivo. La sua parola deve attraversare il respiro, farsi voce, canto, entrare in noi dall’orecchio, che è fra i nostri canali d’entrata quello che conduce più in profondità. La ritmica e la melodia della parola poetica invocano, mi pare, una coralità d’ascolto, quasi vi fosse un ballo interiore che meglio rimbalza in un pulsare comune. È forse proprio l’intimità col libro, la rinuncia alla parola pronunciata, cantata, che ha distolto la poesia dalla misteriosa sapienza del corpo e che spesso la ha resa troppo cerebrale. È forse questo che ha allontanato la poesia dalle vite comuni e dal proprio compito che è quello di farci bene, subito, ora. Mariangela Gualtieri è nata a Cesena, in Romagna. Si è laureata in architettura all’IUAV di Venezia. Nel 1983 ha fondato, insieme a Cesare Ronconi, il Teatro Valdoca, di cui è drammaturga. Fra i testi pubblicati: Antenata (ed. Crocetti, Milano 1992), Fuoco Centrale (ed. I Quaderni del Battello Ebbro, Bologna 1995), Sue Dimore (ed. Palazzo dell’Esposizioni di Roma, Roma 1996), Nei Leoni e nei Lupi (ed. I Quaderni del Battello Ebbro, Bologna 1996), Parsifal (ed. Teatro Valdoca, Cesena 2000), Chioma (ed. Teatro Valdoca, Cesena 2000), FUOCO CENTRALE e altre poesie per il teatro (Giulio Einaudi ed. Torino 2003), Donna che non impara (Galleria Emilio Mazzoli, Modena 2003). In preparazione, sempre per Einaudi, la raccolta dei versi inediti. “Poeti Europei del ‘900”: tutte le edizioni 1993/94 I nuovi Maestri P. Villoresi legge Mario Luzi presentazione di S. Agosti F. Nuti legge Vittorio Sereni presentazione di G. Raboni A. Jonasson legge Sandro Penna presentazione di C. Garboli F. Graziosi legge Giorgio Caproni presentazione di G. Agamben G. Lazzarini legge Attilio Bertolucci presentazione di E. Siciliano 1994/95 I Pionieri P. Villoresi legge Aldo Palazzeschi F. Nuti legge Clemente Rebora G. Strehler legge Dino Campana F. Graziosi legge Camillo Sbarbaro G. Lazzarini legge Guido Gozzano 1995/96 Dialetti e altre eresie G. Dettori legge Giacomo Noventa G. Lazzarini e L. Puggelli leggono Delio Tessa R. De Carmine legge Franco Fortini G. Strehler e U. Ceriani leggono Giovanni Testori F. Nuti legge Carlo Betocchi 1996/97 Giorgio Orelli presentazione di G. Raboni Peter Porter presentazione di N. Gardini Antonio Colinas presentazione di G. Caravaggi Giovanni Giudici presentazione di A. Bertoni Bernard Noël presentazione di F. Scotto Günter Kunert presentazione di L. Forte Hans Karl Artmann presentazione di M. E. D’Agostini 1997/1998 R. De Carmine legge Dylan Thomas G. Dettori legge Antonio Machado O. Piccolo legge Andri Peer F. Nuti legge Gottfried Benn G. Lazzarini legge Giuseppe Ungaretti F. Graziosi legge René Char A. Jonasson legge Rainer Maria Rilke 1998/1999 L. Marinoni legge Marguerite Yourcenar A. Jonasson legge Ingeborg Bachmann F. Nuti legge Amelia Rosselli Milva legge Else Lasker-Schüler I. Danieli legge Gloria Fuertes O. Piccolo legge Corinna Bille G. Lazzarini legge Sylvia Plath 1999/2000 Scrittura d’artista M. Popolizio legge Paul Klee L. De Filippo legge Alberto Giacometti G. Lazzarini legge David Herbert Lawrence A. Jonasson legge Oscar Kokoschka G. Dettori legge Henri Michaux R. Herlitzka legge Toti Scialoja S. Lombardi legge Salvador Dalì 2000/2001 I poeti dei poeti. Le grandi traduzioni del secolo L. Marinoni legge William Shakespeare tradotto da G. Ungaretti M. Popolizio legge Hugo von Hofmannsthal tradotto da L. Traverso G. Ranzi legge Pedro Salinas tradotto da V. Bodini F. Nuti legge Philippe Jaccottet tradotto da F. Pusterla Milva legge Bertolt Brecht tradotto da F. Fortini O. Piccolo legge T.S. Eliot tradotto da E. Montale, A. Bertolucci, G. Giudici e R. Sanesi G. Dettori legge Guillaume Apollinaire tradotto da V. Sereni 2001/2002 Tra futuro e passato. I poeti di oggi e i maestri della modernità Fabjan Hafner G. Ranzi legge Rainer Maria Rilke Juan Vicente Piqueras P. Villoresi legge Fernando Pessoa Tony Harrison M. De Francovich legge Wilfred Owen Durs Grünbein M. Popolizio legge Eugenio Montale Leopoldo Lonati F. Nuti legge Giorgio Caproni François Boddaert G. Dettori legge André Frénaud Riccardo Held G. Lazzarini legge Gottfried Benn 2002/2003 Europa+Europa. Sette poeti alla scoperta del continente Jolanda Insana G. Dettori legge Attila József Sylviane Dupuis L. Marinoni legge Osip Mandel’stam Eliane Feinstein G. Ranzi legge Marina Cvetaeva Liliane Giraudon G. Crippa legge Vladimír Holan Hans Raimund M. Popolizio legge Ghiannis Ritsos José Maria Alvarez S. Santospago legge Constantinos Kavafis Thomas Kling G. Lazzarini legge Gunnar Ekelöf 2003/2004 La lingua dell’ospitalità. Sette incontri per l’altrove e il futuro Vénus Khoury-Ghata Warner Bentivegna legge Yves Bonnefoy Doron Rabinovici Massimo Popolizio legge Robert Schindel Gëzim Hajdari Massimo Popolizio legge Dino Campana Dubravko Pusek Warner Bentivegna legge Tommaso Landolfi Fabio Morábito Antonio Zanoletti legge Octavio Paz Moniza Alvi Serra Yilmaz legge Stevie Smith Renan Demirkan Fausto Russo Alesi legge Erich Fried L’ospitalità linguistica. Traduzione come luogo dell’incontro Intervengono Nadir M. Aziza, Gianfranco de Bosio e Giovanni Raboni 2004/2005 La lingua dell’ospitalità. Salah Stétié Gian Carlo Dettori legge Pierre-Jean Jouve Zehra Cirak Massimo De Francovich legge Hilde Domin Chantal Maillard in occasione della “Giornata Mondiale della Poesia” Lluís Pasqual legge Federico García Lorca Mimi Khalvati Umberto Ceriani legge William Wordsworth Diamant Abrashi Franco Graziosi legge Giuseppe Ungaretti Serafettin Yildiz Giulia Lazzarini legge Nazim Hikmet Omaggio a Giovanni Raboni a cura di Patrizia Valduga con la partecipazione di Franca Nuti 30 gennaio 2006, ore 17.30 Francia Valère Novarina con la partecipazione di Maddalena Crippa 13 marzo 2006, ore 17.30 Inghilterra Kate Clanchy con la partecipazione di Massimo De Francovich 27 marzo 2006, ore 17.30 Germania Albert Ostermaier con la partecipazione di Giorgio Sangati e Saam Schlamminger 3 aprile 2006, ore 17.30 Spagna Luis Muñoz con la partecipazione di Fausto Cabra 8 maggio 2006, ore 17.30 Svizzera Pierre Lepori con la partecipazione di Giovanni Crippa 29 maggio 2006, ore 17.30 Austria Franzobel con la partecipazione di Massimo Popolizio 5 giugno 2006, ore 17.30 Mariangela Gualtieri con la partecipazione di Laura Curino Ingresso libero fino a esaurimento posti Italia