Note di sala

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Glosas
Se non poniamo la musica, sia nello studio sia nell’interpretazione, nel più ampio contesto della
storia dell’arte, avremo una percezione parziale di ciò che suoniamo e ascoltiamo, limitandone di
molto la comprensione. Nel caso poi di epoche particolari quali furono il Rinascimento e il Barocco
(un periodo che va dagli anni ottanta del Quattrocento fino alla seconda metà del secolo XVII) la
stretta parentela tra le Arti (Arti sorelle) è tanto chiara e importante quanto da noi musicisti
ignorata.
Se consideriamo l’architettura e ci soffermiamo a pensare a cosa ci affascina e ci stupisce degli
edifici storici – monumentali e non - che costituiscono il paesaggio urbano dei borghi e delle città,
notiamo che si tratta, oltre che della proporzione,1 degli ornamenti: porte, finestre e muri esterni
sono in realtà superfici piatte con buchi di accesso e aperture. Un edificio è universalmente una
struttura coperta divisa in piani e suddivisa in vani collegati da varchi, dotata di aperture per
accedervi e forata per fare entrare all’interno dei vani l’aria e la luce. Gli edifici sono quindi tutti
uguali, eppure li distinguiamo tra loro per gli stili con cui i varchi e i fori di queste strutture sono
adornati, per i materiali utilizzati, per le forme date ai buchi nel muro che chiamiamo finestre, per le
decorazioni fantasiose e per le pitture che ricoprono i muri.
Ecco che l’ornamento diventa non solo decorazione ma linguaggio vero e proprio, il soggetto che ci
parla attraverso i suoi segni e significati, sopravanzando la struttura base che è l’edificio senza i cui
ornamenti tornerebbe ad essere un contenitore senza identità. L’ornamento (l’Ornatus), è parte
fondamentale della Retorica, della Poesia, della Pittura, della Scultura, dell’Architettura e della
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Prima dell’entrata in uso del metro come unità di misura universale l’architettura si basava su un sistema
proporzionale adattato alle diverse unità di misura, un sistema di proporzioni simile a quello musicale.
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Musica. In musica anche soltanto il modo in cui una nota viene sostenuta o rilasciata, troncata o
gonfiata, accentuata o sospirata è già l’ornamento di un suono misurato aritmeticamente che inizia
qui e finisce lì e che senza il necessario trattamento non ha alcun significato. Nel Cinquecento,
limitando un discorso immenso dalle infinite ramificazioni al programma di questo concerto, nasce
la Seconda Pratica che ha aperto le porte alla modernità in musica. Ma cos’è questa Seconda
Pratica e, soprattutto, qual’è la Prima Pratica? Si tratta del concepire la linea melodica come una
forma o un disegno, o come una linea che, tracciata, illustri il significato della parola. Tracciando la
linea musicale questa diventa figura; e lo è sia sulla carta, visibilmente, sia nella sua evocazione
sonora. La musica quindi non solo si piega al senso della parola che descrive ma ne suggerisce il
movimento, l’andamento, la direzione e la velocità dinamica. Il volo di un agile uccellino; il
galoppo di un cavallo in battaglia; le fiamme; la caduta; l’ascesa e la discesa; il movimento regolare
e il movimento irregolare. E poi le forme dei sentimenti che soltanto la musica può rappresentare
attraverso i suoni e i toni tanto quanto può la pittura attraverso le luci, i colori e le espressioni
parlanti: l’amore, la sofferenza, il languore, la sensualità, il riso, il pianto, la superbia, l’umiltà.
Jacques Arcadelt, Cipriano De Rore, Adrian Willaert e i molti musici della loro generazione sono
gli artefici di questa rivoluzione nella scienza musicale: la rappresentazione dei sentimenti
attraverso figure musicali, attraverso un nuovo canto chiamato canto figurato. E la Prima Pratica?
La Prima Pratica, anche qui riassumendo un concetto troppo ampio, è architettura. L’architettura
musicale è una costruzione che si forma sopra o intorno a delle fondamenta solidissime che sono
quei suoni aritmeticamente misurati che si chiamano cantus firmus (o tenor), spina dorsale della
composizione musicale. L’edificio che si costruisce sui canti fermi per mezzo dei contrappunti ne è
il soggetto; la struttura architettonica della musica è l’oggetto, la costruzione finale su cui venivano
poste le parole, sillaba per sillaba, asservite alla sovrastante architettura più che al loro autentico
significato. Nella musica sacra questo è evidente per i testi sempre uguali, legati alle immutabili
liturgie, mentre nella musica profana il diaframma che separa la prima dalla seconda pratica è più
difficile da definire. Nella musica non sacra, che parla in lingua volgare di amore e di sentimenti,
fin dal Quattrocento la preponderante architettura del contrappunto tende a piegarsi al senso delle
parole, anche perché queste erano pronunciate, cantando, da poche voci o anche da una sola. Un
accento inespressivo contrastava coi concetti espressi dal testo. E’ rivelatore il testo di una lettera
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che fu spedita a Firenze da Roma (probabilmente) nella quale viene commentata una esecuzione
canora, che recita:
Non appena ci sedemmo a mensa [Fabio], comandato a cantare insieme a qualche altro esperto alcuni
di quei canti che son messi per iscritto con quei tali segnucci della musica, subito si insinuò in siffatto
modo nelle nostre orecchie, anzi nel nostro petto, con una sua suavissima voce, che (degli altri non so)
me tolse quasi a me stesso, e senza dubbio mi toccò la sensazione tacita di una voluttà affatto divina.
Eseguì poi un canto eroico che egli stesso aveva appena composto in lode del nostro Piero dei Medici
[...] Fu la voce non del tutto di uno che leggesse e non del tutto di uno che cantasse, ma avresti potuto
sentirvi l'uno e l'altro e pure non distinguere l'uno dall'altro; era tuttavia o piana o modulata, mutando
come lo richiedesse il passaggio, ora variata ed ora sostenuta, ora esaltata ed ora moderata, ora sedata
ed ora veemente, ora rallentata ed ora accelerata, sempre precisa, sempre chiara e sempre gradevole; e
il gesto era né indifferente né torpido, ma nemmeno smorfioso e affettato. Avresti detto che un Roscio
adolescente desse spettacolo sulla scena.2
Ebbene, questa lettera non risale alla fine del Cinquecento, al tempo della Camerata del conte Bardi:
essa è scritta intorno al 1488 da Angelo Poliziano e destinata a Pico della Mirandola: un secolo
prima! Credo che si tratti della prima testimonianza di un genere già figurato (quei tali segnucci
della musica) in cui il sentimento del testo e la voluttà del canto sono, unitamente alla composizione
stessa, congiunti in una sola espressione. Riassunta quindi in queste poche note sta la differenza tra
la Prima e la Seconda Pratica, nella difficoltà in così poco spazio di definire un concetto ampio
come quello di Prima Pratica, che è musica allo stato puro. Basti per questo considerare l’Offerta
Musicale e l’Arte della Fuga di Johann Sebastian Bach chiedendoci da quali radici abbiano tratto
nutrimento. Del resto sappiamo fin troppo bene come dalla scoperta del piacere dei sensi non si
possa più tornare indietro, a meno di compiere un’operazione di censura degna di un asceta. Così è
stato nella musica di Seconda Pratica (Perfettione della moderna musica) fino alla grande
esplosione del Barocco che in Monteverdi ha visto raggiungere l’apice della modernità.
Anche per quanto riguarda la musica strumentale la prima metà del Cinquecento ha segnato un
momento di grande innovazione e vede la comparsa del virtuosismo. La viuola o viola da arco, o
più genericamente (termine mutuato dalla lingua parlata) il violone, divenne strumento privilegiato.
Tra il 1535 e il 1543 furono pubblicati a Venezia tre trattati di strumento fondamentali: la Opera
intitulata Fontegara (trattato per il flauto), la Regola Rubertina e la Lettione Seconda (trattati di
viola d’archo tastada, rispettivamente del 1542 e del 1543), opere di Silvestro Ganassi. Con questi
trattati appare in tutta evidenza che non siamo agli albori o ai primordi della tecnica strumentale, ma
che il flauto e la viola (in questo caso) hanno già raggiunto un vertice nell’esplorazione e nella
impostazione delle risorse virtuosistiche. Nel 1553 vede invece la luce a Roma il Trattado de
Glosas, opera di Diego Ortiz toledano, compositore e virtuoso attivo nel Regno di Napoli. Come i
trattati precedenti e successivi il trattato non è affatto (a dispetto del termine) un testo teorico, o una
trattazione, anzi è totalmente pratico. In esso è contenuta una enorme quantità di musica sotto forma
di frasi, figure, cadenze ornate e soggetti che vengono applicati, nella seconda parte del libro, in
composizioni esemplari scritte dall’autore. Normalmente le composizioni esemplari che
arricchiscono i trattati – e che altro non sono che uno specchio di esempi applicati, perché il musico
impari a comporne da sé col materiale contenuto nel libro – sono considerate (non a torto)
repertorio violistico, ma fermandoci a questo solo dato noi perdiamo di vista il senso della
pubblicazione, che è quello di fornirci, per mezzo di un catalogo se non di un vero e proprio
campionario musicale, gli strumenti per comporre noi stessi molti ricercari su madrigali e chançon.
Ora, il libro di Ortiz al di là del contenuto esemplare è assai interessante perché ricorda certi libri di
architettura, illustrati con diversi fregi esemplari, capitelli, architravi, davanzali, cordoli e
decorazioni. Infatti tutti gli esempi che Ortiz stampa sono ornamenti per soggetti tipici: un
intervallo di terza e vari modi di abbellirlo; un intervallo di quarta e così fino all’ottava; varie
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Lettera citata in Nino Pirrotta, Li due Orfei (Einaudi, 1973 pag. 36)
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clausole tipiche che si ritrovano in ogni composizione vocale polifonica del tempo, che sono quindi
dei soggetti (ovvero degli elementi dell’architettura musicale) che attendono di venire ornati e
abbelliti dai necessari passaggi. Ecco dunque che nella musica, così come nell’architettura, un testo
musicale “piano” (ovvero inteso così come sta scritto) appare come una struttura su cui intervenire
per conferirgli movimento, oppure grazia, oppure per scherzare contrappunteggiando con uno
strumento che con le sue diminuzioni passeggia su e giù per la composizione originale per il diletto
e del musico e dell’uditorio.
E come nell’architettura l’ornamento prevarica sulla composizione fino a diventarne padrone, a
diventare esso stesso soggetto lasciando la composizione originaria come base: i fori nei muri che
diventano finestre rinascimentali o barocche; i varchi che diventano portoni decorati nei modi più
capricciosi, fin nelle serrature metalliche che ora stanno esposte nei musei come le opere d’arte di
cesello e di incisione che sono. E così come le serrature ornate chiudono a scatto i portoni
(bellissime quelle esposte al museo civico di Sansepolcro), le cadenze (o clausole) chiudono le frasi
musicali con vari ceselli fatti di note e con lo scatto finale del groppo (dalla lingua parlata, che
significa nodo, laccio). Ornamento come espressione, quindi, e non interpretato come meri giri e
rigiri di note rapide; come soggetto musicale espressivo e non come arida diminuzione matematica
di un soggetto irriconoscibile, anzi amplificazione della composizione originale.
In questo contesto Diego Ortiz presenta, applicandoli in musiche pubblicate nel suo libro ed
eseguite in questo concerto, i tre generi nei quali veniva suonata la viola da gamba (il violone):
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La prima maniera, chiamata Fantasia, non si può spiegare, essendo affidata all’estro e alla fantasia
del suonatore che “di sua testa e di suo studio” la dovrebbe improvvisare. L’interesse delle quattro
Ricercate-Fantasia per viola sola non risiede soltanto nella bellezza dei brani bensì nel modo in cui
Ortiz risolve di spiegarne il concetto: senza parole, in quanto impossibile da descrivere, ma
direttamente in musica. Molto più eloquente di qualsiasi discorso. Questa constatazione dovrebbe
far molto riflettere sul nostro approccio alle fonti storiche, quando cerchiamo inutilmente nei trattati
ciò che i maestri ci hanno invece messo davanti agli occhi sotto forma di musica. Quando poi la
musica è la spiegazione di un concetto o di una estetica ecco che il trattato assume la forma di una
lezione viva, impartita direttamente sullo strumento dalla voce di un maestro di quattro secoli fa. E’
inoltre stimolante per capire che l’improvvisazione è un’arte che richiede una cultura e che non si
può esercitarla a caso.
La seconda (con la premessa che tutte queste diverse maniere di suonare la viola sottintendono che
l’esecutore professionale del suo tempo le improvvisasse) richiede una perizia particolare e una più
che buona conoscenza del contrappunto. Si tratta infatti di fantasie in contrappunto fiorito sopra un
canto fermo, come si usava nella Prima Pratica: questo (che non di rado è una melodia popolare)
viene suonato a note ferme, di uguale valore, e su quelle la viola tesse una fantasia di passaggi
variati e di tessitura estesa, secondo le regole del contrappunto nonché della bella proporzione che
rendano il ricercare vago e dilettevole.
La terza maniera, la più conosciuta e popolare oggi, si applica a composizioni polifoniche esistenti:
madrigali, chançon francesi o mottetti. Usando le parole di Ortiz “si deve prendere il madrigale o
mottetto, o qualsiasi composizione che si voglia suonare, intavolandola al cembalo3 come si usa
fare” e la viola diminuisce in modi diversi la composizione intavolata. Ortiz per ognuna delle due
composizioni che ha scelto (O felici occhi miei di Jacques Arcadelt e Doulce memoire di Pierre
Sandrin) scrive una prima e una seconda Recercada in cui vengono diminuite rispettivamente la
linea del basso e quella del canto, seguendo l’espressione e il carattere della composizione originale
e del suo testo poetico. A queste segue una terza Recercada nella quale la viola eccede l’estensione
della sola parte del basso toccando le altre voci della composizione (e che richiede sueltura de
manos, ovvero scioltezza di mani) discostandosi dall’affetto del testo originale che diventa il
canovaccio su cui la viola esegue i passaggi più fantasiosi e brillanti. La quarta Recercada di
entrambe le composizioni è concepita come una quinta voce che si insinua tra le quattro esistenti.
Ortiz, non senza un certo senso dell’umorismo (rivelato nel fregio del frontespizio, in basso destra,
particolare che a molti sfugge ma che deve essere osservato con precisione per essere colto) scrive
che non obbliga nessuno a questa pratica dell’improvvisazione della quinta voce poiché presuppone
nell’esecutore una certa abilità di composizione, e non soltanto di esecuzione.
Il secondo genere di composizione a cui Ortiz (testimone della sua epoca e della pratica corrente
della professione dei suonatori di viola da gamba) applica la terza maniera è da lui definito “su canti
fermi che in Italia si chiamano Tenori”. Argomento questo davvero troppo complesso perché sia
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Al clavicembalo si suona la composizione polifonica ridotta a spartito
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trattato in questa sede: posso riassumerlo e semplificarlo in modo però pertinente ed esatto dicendo
che si tratta delle Arie più conosciute e alla moda. L’Aria, che Ortiz chiama Tenore, è una breve e
semplice strofa che viene ripetuta tante volte quante bisogna, o quante si vuole, e sulla quale lo
strumentista improvvisa. Si può usare il termine di Basso ostinato ma, anche se giusto
genericamente e riconoscibile all’ascolto come tale, non è veramente appropriato. Ortiz non indica i
Tenores col loro nome. Alcuni di essi però sono conosciuti a chi pratica usualmente il repertorio
cinquecentesco (Romanesca, Pass’e mezzo, etc.) poiché ne esistono moltissime versioni4 ed è facile
nominarle, come ho fatto nel programma. A certe tuttavia non sono riuscito a risalire ma possono
essere anche varianti di quelle più celebri. Le stesse Arie poi portavano nomi diversi a seconda del
luogo: ad esempio “La gamba” in Italia è “Guardame las vacas” in Spagna, probabilmente a causa
di un testo popolare che si cantava sulla metrica dell’Aria e che mi è sconosciuto.
La Recercata scritta sulla bella Aria di Ruggero (un’aria “per cantar ottave” sulla quale si
intonavano i versi dell’Ariosto) ripropone la tecnica della Quinta Pars, ovvero la quinta voce
aggiunta alle quattro indicate da Ortiz che si vedono nell’immagine qui sopra.
Ciò che il Trattado de Glosas evidenzia è comunque la nostra incapacità di improvvisare nel
repertorio del passato. Noi musicisti specializzati nella musica antica spesso ci lanciamo in
improvvisazioni di stile indefinito, che si può chiamare a vanvera, cercando di imitare ciò che gli
eredi delle vere tecniche improvvisative continuano a fare bene e con proprietà stilistica, tecnica e
di linguaggio. Il risultato, a fianco di questi attuali musicisti, è sempre deludente, e comunque
perdente, perché non abbiamo mai provato a seguire con serietà e rigore, e con autentica dedizione,
gli insegnamenti delle fonti. Eppure non sarebbe difficile, anzi sarebbe auspicabile, giungere alla
capacità di un’improvvisazione storica autentica, e quindi attualissima e viva. Ma dovremmo (ed è
l’ostacolo difficile da superare) mettere da parte le velleità che ci fanno preferire delle scorciatoie
tanto comode quanto deleterie, indulgendo in contaminazioni insignificanti che non sono nulla se
non il frutto delle nostre lacune culturali, e studiare molto.
Questo è l’insegnamento di un tañedor, un suonatore quale fu Diego Ortiz, nonché la chiave per
poter intraprendere l’ascolto di un intero trattato eseguito in concerto come è il programma proposto
questa sera.
Roberto Gini
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L’aria strofica è un genere che non conosce tramonto e che viene sfruttato anche oggi nella musica pop, pur con
pratiche differenti e risultati assai diversi
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