L’ATTIMO POETICO TRA LA RIPRESA E LA TESTIMONIANZA A. DE LUCA Solo colui che anche tra ombre levò la lira, può con cuore presago cantare la lode infinita. R.M. Rilke, “Sonetti a Orfeo”, in “Poesie 1907-1926” I. CANTARE AGLI INFERI Solo colui che riesce a recarsi presso la sofferenza indicibile, quella che sembra non aver mai fine, può superare e far oltrepassare il tempo nella lode, in quell’attimo che sembra durare eternamente. Può trasformare i luoghi di sofferenza in luoghi di esistenza. Può offrire speranza e confronto vivo con i limiti dell’esistenza stessa. Si è disposti ed in grado di raggiungere e di saper abbandonare gli inferi in prima persona? Non esistono manuali per la sofferenza, non per poter incontrare la propria e quella altrui. L. Binswanger, nel noto scritto “Sulla psicoterapia” ed in altre occasioni, ha osservato come non vi sia nulla di straordinario nell’incontro psicoterapeutico, nulla di segreto o misterioso. Ha altresì sottolineato (pp. 149-150), allontanandosi dalla concezione freudiana dell’uomo, come sia fondamentale nel corso della psicoterapia infiammare «nell’ammalato la “scintilla divina”, quella scintilla che può essere accesa o ridestata soltanto nell’autentica comunicazione da esistenza a esistenza, e la cui luce e il cui calore sono in fondo le uniche forze in grado di liberare l’uomo dal suo isolamento cieco, dall’idios Kosmos (come dice Eraclito) – cioè da un mero vivere nel proprio corpo, nei propri sogni, nelle proprie inclinazioni private, nel proprio orgoglio e nella propria superbia – rendendolo capace di partecipare al 178 Comprendre 16-17-18, 2006-2007-2008 L’attimo poetico tra la ripresa e la testimonianza koinós Kosmos, alla vita dell’autentica koinonia o della società, rendendolo cioè illuminato e libero». Ciò che aiuta dunque nell’incontro terapeutico non è la preparazione teorica, pur importante ma da mettere possibilmente in parentesi, utilizzando la “radicalissima epochè” su cui discute L. Calvi (1998, p. 43), non è l’appartenenza ad una scuola o ad un’altra teoricamente diversa, anche se politicamente o accademicamente forte, non è l’effetto speciale dato da un tecnicismo inopportuno o da una retorica dell’alterità: ciò che conta è la capacità di accendere nel paziente una “scintilla divina”. Tale capacità non è straordinaria, misteriosa, elitaria, ma umanissima, anche se assai esigente su alcuni versanti. Pretende infatti che si viva l’umiltà di sapere di non sapere, la disponibilità autentica verso l’altro, quella “disponibilità per l’altro” che, per L. Calvi, «è, sempre e comunque, implicitamente fenomenologica, nel senso che la fenomenologia offre i modi per esplorarla e il lessico per dirla» (2000, p. 58). Reclama poi l’essere responsabile verso i vissuti personali e altrui, l’abnegazione verso i pazienti, che si arresta di fronte all’assunzione di responsabilità del paziente stesso, il riuscire a con-vivere con il paziente la sua sofferenza, nella quale non è consentita inautenticità e alterigia. Esige il saper essere autorevoli, che, si sa, non deriva direttamente dall’autorità ricoperta, ma dalla coerenza, dal rispetto verso l’altro, dalla testimonianza. Richiede infine tutto ciò che ogni psicoterapeuta, che lavora con i pazienti, conosce molto bene. Avere studiato un ambito psicoterapeutico specifico o un altro non garantisce di per sé la capacità di saper diventare testimoni credibili e autorevoli nel rapporto con il paziente e sulla vita, anche se è importante conoscere le implicazioni teoriche ed epistemologiche coinvolte. La sofferenza è la condizione umana dove si richiede radicale autenticità. Non esistono altre che ne ricerchino in modo così prioritario e netto l’intervento. Nella sofferenza, per la Zambrano, emerge anche la decisiva presenza della confessione, che avvia anche la conoscenza di se stessi rispetto non solo alle colpe, ma alle responsabilità e alla propria storia. Conoscere se stessi e l’altro è molto difficile. Implica l’aver percorso la strada verso il senso del limite e dei propri limiti; verso le questioni fondamentali dell’esistenza; verso la ricerca continua, insonne, incessante della propria e altrui poesia interiore, della parola intrisa di senso, la cui corporeità è data dalla messa in gioco radicale del terapeuta, e della misura delle cose, spesso raggiunta nel silenzio profondo in cui naufraga la sofferenza del paziente, assai distante da alcune ricerche di potere. A volte si deve scegliere. E forse può non bastare una scuola di psicoterapia, un’analisi o tutta una vita per capire tutto questo. Kafka ne “Il medico di campagna” ha scritto: «Mio nonno soleva dire: “La vita è straordinariamente breve. Ora mi si contrae a tal punto, nel ri179 A. De Luca cordo, che non riesco a comprendere come, per esempio, un giovane possa decidersi a cavalcare sino al villaggio più vicino senza temere che – a parte ogni disgrazia – la durata di una vita normale, che trascorra serenamente, possa non essere affatto sufficiente a compiere un simile tragitto”» (p. 194). Forse una vita intera può non bastare per raggiungere il villaggio vicino, per percorrere quel breve tratto che separa l’autenticità dalla poca considerazione dell’altro, nonostante le autorizzazioni ministeriali. Forse Binswanger si è sbagliato. Può essere straordinario incontrarsi con un paziente, perché straordinario è cantare agli inferi. Semplice è cantare in altri luoghi. Gli inferi sono distanti dall’Olimpo. II. L’ATTIMO POETICO TRA LA SOFFERENZA E LA RIPRESA La psicoterapia non è né una forma di rieducazione dell’altro, né un incontro ingenuo con l’altro, né un incontro intriso di saggezza sulla vita, né un incontro fra amici. Ogni paziente che arriva al colloquio ha già incontrato parenti e amici, che lo avranno fornito di buoni consigli, e persone sagge o ingenue disponibili nei suoi riguardi. La psicoterapia non può neanche diventare un incomprensibile tentativo di giustificare la realtà o le azioni di qualcuno, magari al servizio della cultura dominante. Tragiche conseguenze testimoniano quanto importante sia la dimensione etica nel campo della riabilitazione psichiatrica e, ancor prima, della diagnosi; in realtà storiche avverse si sono create opportune culture di sanità e di malattia mentale (cfr. Borgna, 1991 e 1994). La psicoterapia è la realizzazione di un appuntamento nuovo con l’altro per approdare ad un dialogo nuovo e al senso delle cose nella coscienza. Se comprendere non è giustificare, l’assenza di giudizio e di pregiudizio è fondamentale per intervenire. La realtà da parte del paziente può essere accettata, quando non è possibile cambiarla e, insieme, non giustificata; può essere accolta, ma anche oltrepassata nella coscienza. Occorre così che si realizzi, nella coscienza, un appuntamento nuovo, che deve consentire un dialogo nuovo, con la propria storia e con la propria distruzione, con la memoria e con la speranza, con il senso delle cose e lo scacco, nell’incomprensibilità ed inconciliabilità di avvenimenti che provocano sofferenza. Sono la responsabilità e la testimonianza sulla vita che occorre si animino tra il terapeuta e il paziente. Si giunge così al primo colloquio con la propria autenticità, diretta ad assumersi la responsabilità sulla propria storia. È così che si può creare tra il paziente e il terapeuta un momento particolare. È un attimo, a volte imprevedibile, dato da una situazione in cui si oltrepassa lo stesso finito in cui si vive e qualsiasi setting. È il mo180 L’attimo poetico tra la ripresa e la testimonianza mento della comprensione, della consapevolezza, dell’assunzione di responsabilità, che trascende ogni condizione finita, nel tempo e nello spazio, nella narrazione della storia e nella ineffabilità del sentire. È il momento in cui si riesce a realizzare quell’intimità che raccoglie e supera la storia, senza declinare in complicità o in collusione, mentre sembra piuttosto autorigenerarsi, nel riconoscimento dell’Io e del Tu, nella loro irriducibilità ed appartenenza. È la nascita dell’intimità con se stessi e con l’altro, del dialogo nuovo. Non esito a definire tale momento un “attimo poetico”. L’opera d’arte riesce a raggiungere l’essenza delle cose e a consentire la sua comprensione possibile, a superare la decadenza del tempo, il silenzio della materialità della storia e della realtà, riesce a raccogliere una “scintilla divina” di verità, di bellezza e di trascendenza e ad approdare ad una parola di verità sulla vita. Il terapeuta vive momenti poetici nella psicoterapia quando si anima la comprensione sul vissuto, proprio e dell’altro. Il processo terapeutico lungo il suo sentiero necessita di speranza, quale esito del senso, del saper cogliere il momento opportuno, creativo e poetico, e della possibilità di riconoscere il limite dell’agire. Come in un processo alchemico e ineffabile, la materia destinata ad essere scartata e gettata via, diventa, in un percorso terapeutico, preziosa e decisiva. La materia può assumere un altro senso per E. Stein se sapientemente lavorata. La stessa regola della frustrazione, così importante per gli psicoanalisti, responsabilizza di fatto il paziente e il terapeuta non solo nel prendere consapevolezza, ma anche sull’operare di conseguenza. E la sofferenza che ne deriva si unisce al superamento delle incomprensioni, dei fraintendimenti generati nel corso dell’esistenza. È allora che emergono le rovine – nel senso della Zambrano – dalla distruzione. È allora che il dolore non àncora l’esistenza al finito ma, accettato, assume il senso per la rinascita, la ripresa, come il dolore del parto che diventa funzionale alla nuova nascita. È così che il processo narrativo diventa poetico. La sofferenza quando si manifesta come possibile esito e cifra del nostro amare sembra porsi come definitiva chiusura e perdita della persona e delle cose amate, sembra trascinare con sé anche ogni possibile senso, lasciando alla deriva lo smarrimento e le domande sul perché sia accaduto quel particolare avvenimento e sul perché sia capitato proprio alla persona stessa. Per la ripresa non si modifica la sostanza delle cose. Non è dato cambiare la storia, ciò che un paziente ha vissuto o continua a vivere, in certi casi. È possibile tuttavia oltrepassare la decadenza della storia, come accade per le rovine, che nella loro frammentarietà e nel loro declino superano la distruzione e rendono sacro il terreno dove riposano. Nel luogo delle rovine – per la Zambrano – si realizza il superamento della magnificenza e del disfacimento della storia. È quanto accade nell’arte 181 A. De Luca e nella ripresa dell’accaduto, dove viene recuperato il senso ulteriore e trascendente della materialità delle cose. Di fronte alla sofferenza ciò che occorre è recuperare la ricerca di senso che in ogni uomo è presente e raggiungere con l’altro (anche con lo psicoterapeuta) quella capacità di amare che può affrontare la morte. È l’essere-per-la-trascendenza che consente di confrontarsi con la capacità di amare. Per Scheler un amore può finire per tante ragioni ma non per la morte della persona amata. E per Binswanger il modus amoris supera ogni lontananza, anche se si può approdare alla nostalgia. Tra l’amare e il morire si erge ancora la nostra tragica e silente umanità. E la nostra responsabilità più grande si pone proprio nella possibilità di saper amare, tra la perdita e la ripresa. Per chi e per ciò che si ama, si può essere disposti a tutto. Nella psicoterapia la coscienza raggiunge l’essenza e il senso autentico dopo essersi liberata dai suoi legami che non fanno oltrepassare la decadenza. È in un appuntamento con l’altro carico di novità che è possibile donare senso alla distruzione, alla perdita, al vissuto di abbandono e di isolamento. Il senso delle cose giunge attraverso l’altro. La ripresa non si compì in Edipo, che si accecò. Ancor meno in Giocasta, che decise di suicidarsi. Erano soli nella loro presa di coscienza. La radicalità e la profondità della storia non possono giungere nell’isolamento. Poté invece realizzarsi alla corte di Alcinoo, in Ulisse. Questi, in un nuovo appuntamento, fu accolto ed ascoltato. Narrò la sua storia. Ebbe modo di riflettere, ridefinire, ritrovare il senso del suo viaggio, dei suoi naufragi, della sua distruzione, delle sue perdite. Ritrovò l’essenza al di là della sostanza, non più materialmente modificabile, nel pianto e nella consapevolezza. Si recò presso gli inferi, dove la memoria e la speranza si unirono al destino, ancora da vivere. Riscoprì in un dialogo nuovo se stesso e gli uomini, nella realtà e nella misura delle cose. Riprese infine il suo viaggio, anche se la nave dei Feaci, che cercò di sostituirsi a lui, al suo ritorno, fece naufragio. Se è possibile aiutare qualcuno, non è consentito sostituirsi agli altri, al paziente. È possibile la ripresa nell’accoglimento ed evitare un accecamento o un suicidio, anche se occorre intuire cosa accade, saper assistere ad una discesa agli inferi, saper combattere contro la morte, come fece per Alcesti Eracle, che la riportò in vita dopo aver lottato contro Thanatos, saper percorrere il Labirinto della vita, nella sua incomprensione e durezza, nel quale lo stesso filo di Arianna serve per ritrovare la via d’uscita, non il Minotauro. Occorre consapevolezza sul filo narrativo utilizzato dal terapeuta piuttosto che dal paziente. Se essere uomini, per R. Guardini (p. 54) significa essere responsabili e se il fine della psicoterapia è la ripresa, il fine della ripresa è nel poter aiutare a far vivere, nella poesia interiore e nella responsabilità, la vita e nel riuscire a 182 L’attimo poetico tra la ripresa e la testimonianza far vedere attraverso la visione poetica, così cara a Minkowski, così consapevole e non ingenua, il mondo. Se è difficile, nello iato tra la libertà e il destino e nonostante tutto, vivere nella poesia, che per qualcuno può essere l’ultimo motivo di ripresa per continuare ancora a vivere, e non a sopravvivere, dopo aver perso la propria storia, allora non è semplice diventare psicoterapeuti o semplicemente uomini autenticamente consapevoli, responsabili e testimoni, nella straordinarietà e nella tragicità dell’esistenza. BIBLIOGRAFIA Ales Bello A., De Luca A. 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