Il minore nel processo Sommario: 1. Premessa. – 2. La tutela dei diritti del minore nell’ordinamento giuridico internazionale. Le fonti. – 3. La tutela dei diritti del minore nella Costituzione italiana. – 4. Il minore nel processo. – 5. Il minore è parte in senso sostanziale del processo. – 6. Il minore è parte perché “destinatario degli effetti” del processo. – 7. Segue. … nei procedimenti in materia di status filiationis. – 8. Segue. … nei procedimenti sullo stato di adottabilità. – 10. Segue. … nei procedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale. – 11.Transizione. Punti fermi dell’indagine. – 12. Segue. Il ruolo del minore nei processi di separazione, coniugale o di fatto, e di divorzio. – 13. Segue. Il minore è parte sui generis nei processi di separazione, coniugale o di fatto, e di divorzio. – 14. Il minore non è parte processuale quale “soggetto degli atti” del processo. – 15. Transizione. Il principio del contraddittorio è immanente ad ogni sistema processuale. Modalità e correttivi. – 16. Segue. La rappresentanza legale. – 17. La rappresentanza tecnica. – 18. La competenza. Il riparto. – 19. Segue. La concentrazione delle tutela del minore innanzi al tribunale ordinario. Limiti. – 20. Il processo (rectius i procedimenti) a tutela del minore innanzi al tribunale per i minorenni: il rito camerale. – 21. Le garanzie minime per un giusto processo minorile. – 22. L’attuazione dei provvedimenti resi a tutela del minore. – 23. Prospettive di riforma: il tribunale per la famiglia. 1. - Premessa. Negli ultimi quarant’anni, il nostro paese ha assistito ad un mutamento radicale del ruolo del minore nella società civile. Nei rapporti familiari, il modello autoritario e arcaico della patria potestas, che si identifica con il dominio pressoché assoluto ed incontrollato della figura del marito e del padre nella famiglia, lascia il passo, con la riforma del 1975, ad “una struttura più aperta e comunitaria”, finalizzata, innanzitutto, a garantire la tutela del minore come individuo titolare di diritti e non più soltanto destinatario di sostegno ed assistenza sociali. Dall’impostazione tradizionale fondata sul concetto di interesse del minore, indebitamente coinvolto nella crisi familiare, l’attenzione del giurista volge l’obiettivo verso una sfera sostanziale più complessa, incentrata per lo più sulla categoria dei diritti soggettivi di cui lo stesso minore ne è effettivo titolare. Sennonché, l’innegabile inversione di tendenza che riflette il ruolo del minore nel dissesto familiare secondo gli ordinamenti sovranazionali, sembra non trovare un chiaro riscontro nell’ordinamento italiano. Invero, le riforme degli ultimi dieci anni, pur significative nella evoluzione degli istituti dell’affidamento condiviso della prole, della filiazione, legittima e naturale, e della responsabilità genitoriale, trascurano la necessità di garantire anche al minore una tutela effettiva: come si vedrà, infatti, le garanzie processuali a quest’ultimo assicurate nelle cause che lo riguardano non sempre esauriscono l’esigenza, da più parti avvertita, di salvaguardare, anche per il soggetto minore di età, il diritto di difesa e il principio del contraddittorio. L’indagine che ci accingiamo a fare mira pertanto ad individuare le tecniche volte ad assicurare il principio della effettività della tutela giurisdizionale anche al minore coinvolto nei processi civili di famiglia. 2. - La tutela dei diritti del minore nell’ordinamento giuridico internazionale. Le fonti. Nella comunità internazionale il minore costituisce un polo di obiettivi finalizzati alla protezione e alla salvaguardia dei suoi diritti nella compagine sociale e nel contesto familiare in cui è inserito. La ricognizione delle fonti dell’ordinamento giuridico internazionale prende le mosse con la rassegna delle disposizioni di carattere convenzionale che dedicano al minore un’attenzione peculiare. Capitolo primo La Convenzione di New York del 20 novembre 1989, ratificata dall’Italia con l. 27 maggio 1991, n. 176 (e pertanto operante nel nostro Paese) costituisce, infatti, il manifesto universale dei diritti del minore. Dai principi in esso contenuti, risulta, in particolare, che tali diritti spettano a ciascun soggetto minore di età, senza alcuna distinzione «di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica […] del fanciullo o dei suoi genitori o rappresentanti legali» o derivante dalla «origine nazionale, etnica o sociale», dalla «situazione finanziaria, dalla loro incapacità, dalla loro nascita o da ogni altra circostanza» (art. 2, 1° comma). La Convenzione obbliga, pertanto, gli Stati ad adottare tutti i provvedimenti finalizzati a sostenere una tutela effettiva del minore contro ogni forma di discriminazione … (art. 2, 2° comma). Fra i diritti soggettivi del minore riconosciuti dalla Carta ONU, vale la pena di rammentare il diritto alla vita (art. 6), il diritto al nome, il diritto ad acquisire una cittadinanza, il diritto a conoscere i propri genitori e ad essere allevato da essi (art. 7), a preservare la propria identità e i rapporti con i propri familiari (art. 8), a non essere separato dai propri genitori, il diritto alla bigenitorialità ovvero ad intrattenere regolarmente rapporti personali e contatti diretti con entrambi i genitori (art. 9), salvo che la separazione o l’interruzione (temporanea) dei rapporti non si riveli necessaria nell’interesse preminente del minore, laddove, per esempio, si registrino casi di maltrattamento, di abuso o di abbandono, il diritto all’ascolto ovvero ad esprimere liberamente la propria opinione (art. 12), il proprio pensiero (art. 13), la propria religione (art. 14), il diritto a beneficiare di servizi medici (art. 24), della sicurezza sociale (art. 26), il diritto ad un livello di vita sufficiente per consentire lo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale e sociale (art. 27; il 2° comma afferma che spetta ai genitori o alle persone che ne hanno l’affidamento, la responsabilità di assicurare al minore, entro i limiti delle loro possibilità e dei loro mezzi finanziari, le condizioni di vita necessarie al suo sviluppo), il diritto all’educazione (art. 28), al riposo ed al tempo libero, al gioco ed alle attività ricreative (art. 31). La Convenzione ONU segna, peraltro, un punto fermo nell’ordinamento transfrontaliero perché l’attenzione dedicata alla nomenclatura dei diritti del minore si riflette altresì sulle garanzie poste in capo a quest’ultimo a salvaguardia del principio della effettività della tutela giurisdizionale; garanzie queste riconosciute anche e soprattutto dalla Convenzione Europea del 25 gennaio 1996 (entrata in vigore il 1° luglio 2000 e ratificata dall’Italia con la l. 20 marzo 2003, n. 77): oltre alla specificazione delle modalità di esercizio dei diritti del minore, quest’ultima, infatti, introduce le opportune tecniche di tutela giurisdizionale finalizzate alla loro concreta ed effettiva attuazione. L’art. 1, all’uopo, stabilisce che l’oggetto della disciplina convenzionale è quello di «promuovere, nell’interesse superiore dei minori, i loro diritti, concedere loro diritti azionabili e facilitarne l’esercizio facendo in modo che possano, essi stessi o tramite altre persone od organi, essere informati e autorizzati a partecipare ai procedimenti che li riguardano dinanzi all’autorità giudiziaria», intendendo con l’espressione i «procedimenti che […] riguardano» i minori, anche tutti quei procedimenti tradizionalmente intesi (almeno una buona parte di essi) come processi (soltanto) degli adulti (genitori) sebbene altresì diretti ad incidere sull’esercizio della potestà genitoriale (2° comma). Gli artt. 3 – 15 individuano, per un verso, le forme processuali necessarie per promuovere l’esercizio dei diritti dei minori, per l’altro, l’obbligo da parte dell’autorità giudiziaria di agire prontamente per evitare ogni inutile ritardo, anche con procedure d’ufficio che assicurino una esecuzione rapida dei provvedimenti giurisdizionali. Secondo la Convenzione d’Europa, il minore ha, nei processi che lo riguardano, il diritto: a) di ricevere ogni informazione pertinente; b) di essere ascoltato direttamente dal giudice o da un suo delegato; c) di richiedere la designazione di un rappresentante “speciale” nel caso in cui il diritto interno privi i detentori delle responsabilità genitoriali, allorché si versi in una situazione di conflitto di interessi; d) di essere assistito da una persona, evidentemente diversa dal rappresentante speciale, di sua scelta che l’aiuti ad esprimere la propria opinione sul conflitto in atto; e) di chiedere autonomamente, o tramite altre persone o Il minore nel processo istituzioni, la nomina di un difensore, quale rappresentante tecnico; f) di esercitare, almeno in linea tendenziale, le prerogative proprie della parte. Se particolarmente incline a ritenere preminente la tutela processuale del minore, la Convenzione europea non trascura, peraltro, gli altri soggetti coinvolti nel processo: essa, infatti, nel preambolo, riconosce «il ruolo rilevante dei genitori per la protezione e la promozione dei diritti e degli interessi superiori dei figli» e, pertanto, stabilisce che, nel tutelare l’interesse primario del minore, le decisioni delle autorità giurisdizionali, devono – in ogni caso – salvaguardare il diritto dei genitori e degli altri familiari al rispetto della propria vita privata e familiare. I parametri giuridici diretti alla salvaguardia della giustizia civile minorile sono rinvenibili anche da altre fonti dell’ordinamento internazionale: oltre al regime convenzionale, è bene, infatti, rammentare il preminente impatto sul principio della effettività della tutela giurisdizionale del Trattato di Lisbona, in vigore dal 1° dicembre 2009 – che modifica il trattato sull’Unione europea e il trattato che istituisce la Comunità europea – allorché attribuisce alla Corte di giustizia europea il compito di provvedere sul rispetto e la salvaguardia dei diritti fondamentali del minore. Le Linee Guida del Consiglio d’Europa sono state adottate, a Bruxelles il 17 novembre 2010, per una giustizia a misura di minore – child friendly –: pur prive di valore precettivo, i principi ivi indicati «mirano a contribuire alla individuazione di soluzioni concrete alle carenze esistenti nel diritto e nella pratica» al fine di garantire l’effettiva osservanza dell’ordinamento normativo, universale ed europeo, a tutela dei diritti del minore. Tra le fonti transnazionali giova, ad ogni buon conto, rammentare il regolamento CE n. 2201/2003 del Consiglio dell’Unione Europea del 27 novembre 2003 (che ha abrogato il regolamento CE n. 1347/2000) che, come si vedrà, impartisce le regole comunitarie in tema di competenza, riconoscimento ed esecuzione delle decisioni in materia di responsabilità genitoriale, indipendentemente dalla sussistenza di un procedimento matrimoniale. Nel mosaico delle norme di diritto comunitario, oltre al regolamento CE n. 4/2009, relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento, all’esecuzione delle decisioni e alla cooperazione in relazione al diritto al mantenimento e agli alimenti, costituisce, infine, un passo significativo verso un diritto europeo della famiglia, anche il regolamento CE n. 1259/2010 (cd. Roma tre) allorché, in circostanze che comportano un conflitto di leggi (art. 1), rimette la scelta del rito applicabile ai coniugi di nazionalità differenti. 3. - La tutela dei diritti del minore nella Costituzione italiana. Orbene, se il quadro internazionale di cui si è dato conto sino a questo momento è stato, a più riprese, recepito da numerosi paesi europei attraverso l’emanazione di svariate riforme del diritto minorile, in Italia, l’ordinamento interno stenta ad adeguarsi ai parametri individuati oltrefrontiera. Ed invero, al livello costituzionale, le disposizioni dirette alla tutela del soggetto minore di età, pur significative, forniscono soltanto alcune delle tecniche rinvenibili dal sistema giuridico convenzionale ed europeo. In particolare, non è dato di certo trascurare che l’art. 31, 2° comma, Cost. invita l’ordinamento interno italiano alla protezione della maternità, dell’infanzia e della gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale finalità; che l’art. 29 riconosce i diritti della famiglia, come società fondata sul matrimonio, l’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi; che, nel preciso fine di evitare ogni tipo di discriminazione tra figli legittimi e figli naturali, l’art. 30, 1° comma, sancisce, al contempo, il dovere e il diritto dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli anche se nati fuori dal matrimonio; che, infine, lo Stato italiano si fa, altresì, carico della «incapacità dei genitori» per meglio assicurare, in ogni caso, la tutela dei diritti fondamentali del minore (art. 30, 2° comma). Pur tuttavia, è pressoché indubbio che, sulla scorta di tali disposizioni, ipotizzare di tracciare, attraverso un’opera interpretativa ad ampio spettro, uno speciale statuto del minore anche all’interno dell’ordinamento costituzionale, si rivela un’indagine assai farraginosa. Sennonché, se ciò è vero, non è del tutto arduo immaginare di rinvenire nella stessa carta costituzionale altri spazi di tutela possibile. Capitolo primo A tal proposito, non desta meraviglia constatare l’esistenza di altre categorie di soggetti deboli che, alla stregua del soggetto minore di età, non trovano nella Costituzione uno specifico catalogo di quelle che, almeno sul piano tendenziale, rappresenterebbero le situazioni sostanziali da tutelare. Basti pensare, a mero titolo esemplificativo, ai soggetti anziani non più autosufficienti anche sotto il profilo economico, ovvero ai soggetti privi della cittadinanza italiana, ovvero ancora ai soggetti diversamente abili. Ebbene, per tali categorie di soggetti, l’insussistenza di norme costituzionali specifiche di riferimento non può, di certo, negar loro il diritto a che lo Stato favorisca «occasioni di sviluppo verso un’adeguata compiutezza umana»: e ciò non fosse altro perché i generali principî costituzionali a tutela dei diritti dell’individuo devono poter operare in senso duttile, fermo restando, peraltro, il compito della legislazione ordinaria di tutelare, il più da vicino possibile, l’individuo c.d. “debole”. Ordunque e sul presupposto che il soggetto minore di età è, prima di ogni altra cosa, soggetto – individuo, tutelato vuoi come singolo, vuoi nelle formazioni sociali in cui opera, giova affermare che anche per i diritti del minore, quelli stessi principi volti, in generale, alla tutela dei diritti dell’individuo, si palesino effettivamente cogenti. Pertanto ed in particolare se, secondo l’art. 2 Cost., «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo», il detto principio non può che essere inteso nel senso che tali diritti sono riconosciuti e garantiti a ciascun individuo, anche se minore di età, «sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità», e che, dunque, anche in relazione a quest’ultimo, lo Stato ha il compito di garantire «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Ma vi è di più; al fine di rinvenire una copertura costituzionale effettiva per i soggetti più deboli anche sul piano processuale, giova leggere l’art. 2 Cost. in combinato disposto con l’art. 3 Cost.: nell’ottica di attribuire il diritto soggettivo in funzione specifica del suo titolare e non più soltanto in astratto, si impone la via di una «legislazione commisurata» alle «condizioni soggettive dei destinatari» ovvero l’introduzione di trattamenti diversificati rispetto alla natura e alla rilevanza della situazione soggettiva sostanziale tutelanda. Orbene, affermare il principio di uguaglianza davanti alla legge e, al contempo, attribuire allo Stato il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana, rappresenta la chiave di volta anche per la tutela dei soggetti minori di età; in un contesto in cui l’ordinamento giuridico si impegna a garantire una tutela giurisdizionale differenziata al fine di eliminare ogni discriminazione tra i diritti e gli interessi in gioco, occorre, pertanto, fornire al minore, in quanto soggetto debole, gli strumenti idonei a preservarne – anche nel processo civile – la crescita, il mantenimento e la sana formazione. Ciò premesso, posto che il principio della effettività della tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi diventa immanente al sistema delle garanzie costituzionali funzionali alla tutela del soggetto – individuo, non è, dunque, ardito affermare che anche al soggetto – minore di età debba potersi riconoscere il diritto di azione e di difesa processuale secondo quanto disposto dall’art. 24 Cost. 4. - Il minore nel processo. Il dato riepilogativo dei precedenti paragrafi per cui, secondo il regime giuridico globale, il minore non è più considerato (soltanto) come mero oggetto dell’altrui cura e potestà, rivestendo invece il ruolo di vero e proprio soggetto giuridico autonomo, titolare di diritti nonché del potere di esercitarli, introduce il tema della collocazione dello stesso minore nei processi civili in cui è coinvolto. Orbene, a fronte di un dibattito di dottrina e prassi applicative non ancora sopito, l’indagine che ci si accinge ad affrontare prende le mosse dalla nozione di “parte” intesa in senso sostanziale e processuale in capo al soggetto minore di età. Il minore nel processo Sul solco di alcuni punti fermi che si verranno a tratteggiare nelle pagine che seguono, l’analisi volgerà successivamente l’obiettivo verso la ricognizione delle garanzie processuali rivenienti dall’ordinamento vigente, dirette a salvaguardare, anche in favore del minore, il principio della effettività della tutela giurisdizionale. Sennonché, prima di soffermare l’attenzione su tali profili, giova, sin da ora, segnalare al lettore che l’ambito in cui tali problematiche sussistono non è affatto circoscritto ad un’unica tipologia di controversie: si rivela, infatti, preliminare il dato secondo il quale, nell’articolato sistema di regole vigenti, la nozione di “processo civile minorile” non si identifica in un modello unico di processo a tutela del minore; la formula generica racchiude, come si vedrà, una moltitudine di processi «preordinati alla tutela degli interessi esistenziali del minore, interessi che esigono forme di protezione e di promozione attuate con gli strumenti della giurisdizione»: alcuni di questi, definiti come forme “embrionali” di procedimenti, ove l’intervento giurisdizionale si traduce in un’attività di mero controllo e/o autorizzazione (si pensi al procedimento volto a consentire il compimento di determinate attività per il minore, come ad es. il rilascio del passaporto finalizzato all’espatrio); altri, talvolta, diretti alla tutela di veri e propri status filiationis o di parentela del minore, talvolta, diretti alla tutela di situazioni sostanziali più o meno complesse; altri, incidenti sulla (o sull’esercizio della) responsabilità genitoriale; altri, ancora, finalizzati a tutelare i diritti esclusivamente patrimoniali del minore (artt. 320 e 334 c.c.). 5. Il minore è parte in senso sostanziale del processo. Ora, in via preliminare va rilevato che l’attribuzione al soggetto minore di età della qualità di parte in senso sostanziale non pare destare all’interprete particolari perplessità; ed, infatti, secondo l’ordinamento interno, il concetto di “parte sostanziale” è in collegamento sinallagmatico con l’istituto della capacità giuridica di cui all’art. 1 c.c., nella ferma convinzione che «la soggettività giuridica viene a coincidere puntualmente e senza residui con la capacità giuridica». In tale contesto, non è dato dubitare che il minore, indiscutibilmente parte «contraente» dei negozi giuridici che afferiscono alla sua sfera patrimoniale sostanziale, lo sia anche nei relativi procedimenti. Esemplificando, se il minore è, infatti, parte di un contratto di compravendita o locazione di un immobile di sua proprietà, è parte, in senso sostanziale, anche nell’eventuale processo avente ad oggetto quello stesso immobile; se il minore è beneficiario di un legato o di una donazione (e dunque parte del negozio giuridico stipulato a causa di morte) o, più semplicemente, riveste la qualità di erede, è parte in senso sostanziale nel giudizio di divisione dell’asse ereditario, ferma restando, nei casi ipotizzati, la responsabilità dei genitori, del tutore o del protutore esercitata attraverso l’ausilio della rappresentanza legale. Ciò posto, se le considerazioni dianzi esemplificate si rivelano senz’altro pertinenti riguardo ai diritti a carattere patrimoniale, non pare, in tutta evidenza, ragionevole escludere che alle medesime conclusioni possa pervenirsi anche per la tutela dei diritti di relazione del minore. In generale, corre pertanto la necessità di affermare che il minore è, nel sistema vigente, catalogabile come “soggetto di diritto” “giuridicamente capace”, dotato, in altri termini, della capacità di essere parte in senso sostanziale in tutti i procedimenti giurisdizionali che direttamente lo coinvolgono. Il dato, peraltro, per certi versi sillogistico, non rappresenta affatto una novità sul piano internazionale: la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha, più volte, riconosciuto al minore, in quanto soggetto – individuo – titolare di diritti. 7. Il minore è parte perché “destinatario degli effetti” del processo. Se, come poc’anzi rilevato, l’attribuzione della qualità di parte in senso sostanziale, ovvero di parte come soggetto del rapporto litigioso, in capo al minore si traduce in un’operazione ermeneutica pressoché automatica, non è altrettanto agevole attribuire al minore il ruolo di parte in senso processuale, ogniqualvolta la controversia abbia ad oggetto la crisi della famiglia. Capitolo primo Occorre precisare, peraltro, che l’espressione “parte in senso processuale” può identificare tanto il “soggetto destinatario degli effetti”, tanto il “soggetto degli atti” del processo. Ora, la preliminare verifica se il minore sia (insieme ai genitori) destinatario degli effetti dei provvedimenti resi nei procedimenti in tema di status filiationis, adozione, responsabilità genitoriale ed esercizio della stessa, impone una riflessione di carattere sistematico per ciascun tipo di procedimento. E’ bene, peraltro, sin da ora, anticipare che, all’esito positivo dell’indagine che ci si accinge ad affrontare, farà seguito la necessità di verificare, in sequenza, se il minore sia, nei procedimenti passati in rassegna, altresì “capace” di rivestire la qualità di parte in senso formale, quale “soggetto degli atti” del processo ovvero se, in difetto, l’ordinamento vigente contempli rimedi e forme processuali diretti a garantirne comunque l’effettiva “partecipazione”. 8. Segue. … nei procedimenti in materia di status filiationis. I procedimenti sullo status filiationis rivestono una funzione peculiare diretta a modificare, in un contesto patologico, l’assetto degli stati personali del minore. Tra questi procedimenti giova, innanzitutto, rammentare che vi sono ipotesi preater legem ove il minore è qualificato litisconsorte necessario: si pensi al procedimento volto al disconoscimento della paternità naturale, secondo quanto disposto dall’art. 247, 1° comma, c.c., al procedimento volto a contestare la legittimità del figlio di cui all’art. 248 c.c. nonché al procedimento di reclamo dello stato di figlio di cui all’art. 249 c.c., procedimenti questi ove, appunto, il legislatore dispone espressamente che «il presunto padre, la madre ed il figlio sono litisconsorti necessari». Orbene, per tali fattispecie, risulta agevole affermare che la qualità di parte del soggetto minore di età è in re ipsa. ovvero che: 1) in quanto litisconsorte necessario, il minore deve partecipare ab initio al processo; 2) la disciplina dell’art. 102 c.p.c. a garanzia del diritto di azione opera soltanto nel caso in cui il minore non abbia partecipato al processo. Rilevata la necessità della partecipazione del minore nelle ipotesi praeter legem di litisconsorzio necessario ai fini della “utilità” della sentenza, negli altri procedimenti diretti a costituire, modificare od estinguere uno status filiationis, va peraltro evidenziato che, in assenza di una specifica previsione ex lege, l’attribuzione al minore della qualità di parte del processo non è un risultato ineluttabile, ma richiede qualche passaggio logico ulteriore. All’uopo, giova rammentare il recente intervento del giudice delle leggi (Corte cost. 83/2011), volto a dichiarare l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 250 c.c., nella parte in cui non prevede, per il figlio che non abbia ancora raggiunto i sedici anni di età, «adeguate forme di ‘tutela’ dei suoi preminenti personalissimi diritti, nella specie di autonoma rappresentazione e difesa in giudizio, diritti costituzionalmente garantiti», in riferimento agli art. 2, 3, 24, 30, 31 e 111 Cost., potendo il giudice nominare un curatore speciale del minore – figlio naturale nel giudizio di opposizione al suo riconoscimento. In particolare, la Corte, se, da un canto, ha affermato che l’adempimento relativo all’ascolto ivi previsto «dimostra che il minore infrasedicenne, nella vicenda sostanziale e processuale che lo riguarda, costituisce un centro autonomo di imputazione giuridica, dall’altro, anche per la fattispecie di cui all’art. 250 c.c. (alle stregua dei procedimenti diretti all’adozione dei provvedimenti in tema di potestà dei genitori ex art. 336 c.c., e di altri dalla stessa Corte menzionati in via meramente “esemplificativa”), ha chiaramente riconosciuto al minore la qualità di parte necessaria, con la diretta conseguenza che, se, di regola, la sua rappresentanza sostanziale e processuale è affidata al genitore che ha effettuato il riconoscimento, qualora invece si prospettino situazioni di conflitto d’interessi pur in via potenziale, il giudice deve, su richiesta del p.m., di qualunque parte che vi abbia interesse (art. 79 c.p.c.), o anche di ufficio, nominare un curatore speciale; a tal fine ha, peraltro, efficacemente sottolineato che la disposizione di cui all’art. 78 c.p.c. «non ha carattere eccezionale, ma costituisce piuttosto un istituto che è espressione di un principio generale, destinato ad operare ogni qualvolta sia necessario nominare un rappresentante all’incapace». Il minore nel processo Non è chi non veda come i significativi argomenti, diretti a dichiarare la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 250 c.c., conducono, in generale, ad affermare che il minore, parte nel giudizio di opposizione al suo riconoscimento, lo sia ad ogni effetto anche in tutti gli altri procedimenti diretti alla genesi di un nuovo status ovvero alla modifica o alla estinzione dello stesso. Eppure, tuttavia, va rilevato che siffatti argomenti non hanno evidentemente persuaso il legislatore del 2012/2013: a distanza di un solo anno dalla eloquente pronuncia di cui si è dato conto, sarebbe stato, difatti, agevole ipotizzare che la riforma, invocata per la modifica anche (e proprio) dell’art. 250 c.c., avesse finalmente colto l’occasione per supportare il minore di adeguate garanzie e per definire con fermezza il ruolo da quest’ultimo rivestito nei procedimenti de quibus. 9. Segue. … nei procedimenti sullo stato di adottabilità. Volgendo, ora, l’obiettivo verso i procedimenti in tema di adozione, è bene constatare che l’esigenza di riconoscere al minore la qualità di parte in quanto soggetto destinatario degli effetti dei provvedimenti resi su suoi status e/o diritti ha indotto il legislatore del 2001 ad introdurre nell’ordinamento allora vigente alcune novità di significativo rilievo. In particolare, per quel concerne la questione diretta a garantire ab initio la partecipazione al processo del soggetto minore di età, a seguito delle modifiche apportate dalla l. 149/2001, l’art. 8, 4° comma, l. 184/1983 stabilisce ora la regola secondo cui, nei giudizi per la dichiarazione dello stato di adottabilità, «l’assistenza legale» del minore – e dei genitori (o degli altri parenti) – è obbligatoria fin dall’inizio del processo: in altri termini, il minore “partecipa” dunque sin dall’inizio al processo di adozione e tuttavia, stante l’incapacità di operare anche come “soggetto degli atti”, vi fa ingresso a mezzo di un rappresentante, definito dalla legge, appunto, “assistente legale”. E’ su tali significativi presupposti che la Cassazione (v., per tutte, Cass. 3804/2010), non ha perso occasione per affermare che, nei giudizi sullo stato di adottabilità, la partecipazione del minore è in ogni caso necessaria fin dalla fase iniziale del procedimento. Il minore, quale soggetto di diritti alla stregua dei genitori, è effettivo titolare di un ruolo sostanziale nonché di uno spazio processuale autonomi, per i quali diviene indispensabile garantire una diretta rappresentanza finalizzata a far valere autonomamente i propri diritti. 10. Segue. … nei procedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale. Il riconoscimento al minore della qualità di parte nei procedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale, in quanto destinatario degli effetti del processo, costituisce un dato pressoché acquisito dalla giurisprudenza e dalla dottrina. Nel passaggio da una giustizia intesa come amministrazione dell’interesse del minore ad una giustizia che si configuri come esercizio della funzione giurisdizionale per la salvaguardia dei suoi diritti, si è, infatti, registrata la necessità di assicurare anche al figlio minore di età una tutela che fosse, per quanto possibile, effettiva anche in tutti quei procedimenti inerenti la responsabilità genitoriale che volgono ad incidere su diritti o, talvolta, su veri e propri status. In particolare, Corte cost. 3 gennaio 2002, n. 1, nel riconoscere che la prescrizione contenuta nel citato art. 12 della Convenzione di New York, secondo cui occorre garantire l’ascolto del minore in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne, sia direttamente, sia tramite un rappresentante o un organo appropriato, è «ormai entrata nell’ordinamento», ha, al contempo, affermato che la stessa disciplina transfrontaliera «è idonea ad integrare, ove necessario, la disciplina dell’art. 336, 2° comma, nel senso di configurare il minore come “parte” del procedimento, con la necessità del contraddittorio nei suoi confronti, se del caso previa nomina di un curatore speciale ai sensi dell’art. 78 c.p.c.». Il minore, dunque, parte, secondo la Corte, insieme ai genitori, anche dei procedimenti che comprimono la responsabilità genitoriale (ex art. 336 c.c.), ha il diritto di avere notizia del procedimento eventualmente pendente nonché di parteciparvi; e, dell’immanenza del principio ne costituisce significativa riprova il novellato testo dell’art. 336 c.c., il cui 4° comma (aggiunto Capitolo primo dall’art. 37, l. 149/2001) prevede la necessità che, per tali procedimenti, vuoi i genitori, vuoi il minore siano assistiti da un difensore. Il minore, si è detto, non è, dunque, soltanto “parte in senso sostanziale”, ma poiché parte necessaria, e non eventuale, deve poter partecipare al processo a pena di nullità della sentenza resa in violazione del principio del contraddittorio. Egli è, in buona sostanza, parte autonoma nei procedimenti di cui si discute, sicché la nomina sin dall’inizio di qualsivoglia procedimento che vede coinvolto un suo diritto o status, di un rappresentante ad hoc, diviene un atto dovuto al fine di garantire in concreto il principio della effettività della tutela giurisdizionale. 11. Transizione. Punti fermi dell’indagine. L’indagine svolta sino a questo momento consente, dunque, di affermare che non sussistono, nell’ordinamento vigente, disposizioni contrarie all’assunto per cui il minore è parte, vuoi sostanziale vuoi processuale, sia nei procedimenti in tema di status filiationis, sia nei procedimenti diretti alla dichiarazione dello stato di adottabilità, sia ancora nei procedimenti in ordine alla decadenza ovvero all’esercizio della responsabilità genitoriale; e ciò sul presupposto che, in tali controversie, gli effetti del processo si riflettono, in ogni caso, sullo status del minore ovvero incidono sui suoi diritti a carattere personale e/o patrimoniale. Ebbene, nonostante i significativi risultati sino a questo momento ottenuti, si manifesta ora l’esigenza di verificarne l’effettiva portabilità anche in altri procedimenti civili non afferenti a veri e propri status del minore. In particolare e anticipando che il tema rimane tuttora aperto tra gli studiosi e gli operatori del diritto, occorre appurare se sia teoricamente ipotizzabile attribuire al minore la qualità di parte, in senso sostanziale e processuale, anche nei procedimenti di separazione e di divorzio tra i genitori nonché nei procedimenti sorti a fronte della crisi della famiglia more uxorio, questi ultimi catalogati, dal novellato art. 316 c.c., tra i procedimenti generalmente inerenti la «responsabilità genitoriale» e devoluti alla competenza del tribunale ordinario. Come, invero, si vedrà nelle pagine che seguono, ed indipendentemente dalla soluzione che si vorrà adottare al quesito posto, giova preliminarmente affermare che si appalesa pressoché innegabile la constatazione secondo cui, alla stregua dei procedimenti passati in rassegna nei precedenti paragrafi, la separazione, il divorzio ovvero la crisi delle coppie di fatto, pur tradizionalmente intesi come “procedimenti tra genitori”, coinvolgono a pieno titolo anche i figli sul piano personale e/o economico. 12. Segue. Il ruolo del minore nei processi di separazione, coniugale o di fatto, e di divorzio. Sulla specifica questione va, in via preliminare, evidenziato che la dottrina e la giurisprudenza hanno, more solito, escluso che, nei processi di separazione e di divorzio, il figlio minore di età possa acquisire la qualità di parte, sul presupposto che tali giudizi attengono, per lo più, alla stretta vicenda matrimoniale. Inoltre, in tali procedimenti, il principio della effettività della tutela giurisdizionale si rivelerebbe pienamente garantito anche per il soggetto minore di età, e ciò in virtù degli ampi poteri attribuiti al giudice, dell’obbligatorietà dell’intervento del pubblico ministero nonché del diritto del minore ad essere ascoltato per l’adozione di provvedimenti che lo riguardano. Ora, a fronte di tali pur significativi argomenti, non è dato disconoscere che, al cospetto dell’ordinamento convenzionale ed europeo, il principio per cui la crisi del matrimonio (e delle coppie di fatto) sia un fenomeno di esclusivo appannaggio processuale dei genitori si rivela in parte superato. La nuova concezione della famiglia, diretta a tutelare precipuamente il soggetto minore di età, sollecita, infatti, all’interprete una decisiva opera di restyling delle tecniche di tutela garantite, volta a consentire la partecipazione effettiva del minore nel processo ovvero ad assicurare la salvaguardia, in ogni caso, del principio del contraddittorio anche nei suoi confronti. Il minore nel processo A tal fine, si rivela preliminare il dato per cui, sebbene i giudizi sulla crisi del matrimonio o delle coppie more uxorio non abbiano propriamente ad oggetto lo status dei figli minori, ma siano rispettivamente diretti ad incidere (in senso soltanto parziale o definitivo) sullo status di coniugi dei genitori ovvero, più semplicemente, a separare questi ultimi (art. 316 c.c.), non si può prescindere dalle ricorrenti ipotesi in cui essi siano inevitabilmente destinati ad incidere (altresì) sui diritti fondamentali di cui il minore è effettivo titolare. Giova, invero, tenere presente che, il più delle volte, i genitori si separano o domandano la cessazione degli effetti civili del matrimonio perché, in concreto, sorge la necessità di regolare l’affidamento e/o il mantenimento della prole e di decidere, pertanto, su diritti personali e/o patrimoniali di diretta pertinenza anche dei figli minori. Alla stregua della eterogenea categoria dei «processi civili minorili», anche i processi di separazione tra coniugi, relativi a separazioni di fatto o di divorzio si rivelano, in altri termini, finalizzati all’attuazione della tutela “globale” del minore quale soggetto – e non soltanto oggetto – di diritti; anche per tali procedimenti diviene, dunque, indispensabile attribuire allo stesso minore «la titolarità di convenienti poteri processuali». Se, dunque, quantomeno in astratto, si giunge ad ammettere che il minore è parte in senso sostanziale e processuale perché, insieme ai genitori, è “destinatario degli effetti” anche nei processi di separazione (coniugale o di fatto) e di divorzio, è bene tenere presente sin da ora che, in concreto: a) il minore subentra nel processo come parte debitamente rappresentata dai genitori ; b) questi ultimi, ovvero coloro i quali esercitano la responsabilità genitoriale del minore, agiscono in nome e per suo conto; c) l’acquisizione per il minore dei poteri attribuiti alla parte come soggetto “destinatario degli effetti” è contestuale al momento in cui è divenuto parte, quale “soggetto degli atti” dello stesso processo, il rappresentante legale. 13. Segue. Il minore è parte sui generis nei processi di separazione, coniugale o di fatto, e di divorzio. L’opera di restyling dell’impianto soggettivo dei processi di separazione, coniugale o di fatto, e di divorzio, della quale si è dato conto nei precedenti paragrafi, trova, come più volte ricordato, la sua ratio nella premessa di carattere ideologico per cui il minore va prioritariamente considerato soggetto titolare di diritti. Sennonché, nonostante l’indagine svolta sino a questo momento abbia volutamente messo a fuoco l’obiettivo sul ruolo del minore nel processo, giova ora calibrare la ricostruzione dogmatica effettuata a fronte dei paradigmi processuali propri della separazione e del divorzio ed, individuare, se del caso, alcuni correttivi di carattere metodologico. Si è, nelle pagine precedenti, affermato che il minore è parte in senso sostanziale nei processi di separazione (coniugale o di fatto) e di divorzio tra genitori e che ciò configura la diretta conseguenza dell’assunto secondo il quale tali processi mirano (altresì) a tutelare i diritti della prole. Si è, inoltre, giunti ad affermare che, in tali processi, il minore è destinatario (almeno in parte) degli effetti dei provvedimenti ivi adottati e quindi ad asserire che il minore è parte anche in senso processuale. Orbene, al fine di verificare l’effettiva valenza di detti principi, diviene preliminarmente opportuno constatare che alcune peculiarità dei procedimenti de quibus si appalesano per certi versi distoniche. Attraverso una modalità di percezione “grandangolare” del processo sulla famiglia in crisi, modalità a cui si è fatto riferimento nelle prime pagine del presente studio, va, difatti, evidenziato che, nelle controversie in oggetto, alla domanda di separazione (coniugale o di fatto) o di divorzio sono ab initio sovente coniugate una o più domande ulteriori (casa familiare, addebito della separazione, ecc.); e, inoltre, ed è ciò che si manifesta ancor più rilevante, mentre le domande connesse vertono (o possono vertere) sui diritti personali e/o patrimoniali del figlio minore, la domanda proposta in via principale di separazione (coniugale o di fatto) o di divorzio mira ad un accertamento meramente cognitivo a cui il minore non può che rimanere del tutto estraneo. Capitolo primo Ora, se, come rilevato nei paragrafi precedenti, non v’è ragione di negare che il genitore/genitori possa/no (anzi ne abbia/no l’onere di) agire in giudizio in nome e per conto del figlio minore per la tutela giurisdizionale dei suoi diritti personali e/o patrimoniali in gioco, diviene oltremodo irragionevole ipotizzare che il genitore (o i genitori congiuntamente) domandi (no) al giudice la separazione o il divorzio (anche) in nome e per conto anche del figlio minore. Se, in altri termini, non è dato escludere che anche nei processi di separazione (coniugale o di fatto) o di divorzio, il minore sia parte vuoi sostanziale, vuoi processuale, occorre, tuttavia, precisare che il ruolo acquisito non può essere inteso stricto sensu quale parte del processo ad ogni effetto per tutte le domande congiuntamente proposte. Vale la pena di semplificare affermando che, se in astratto non è arduo immaginare che il minore, in qualità di parte, agisca autonomamente – pur in assenza dell’esercizio dell’azione da parte dei genitori – per la tutela dei propri diritti al fine di ottenere un provvedimento sull’affidamento e/o sul mantenimento, non è affatto ammissibile immaginare che lo stesso minore sia legittimato ad agire per domandare la separazione o il divorzio dei genitori, potendo, all’uopo, agire in giudizio soltanto questi ultimi. Diviene, dunque, pressoché doveroso constatare che il ruolo di parte acquisito in tali processi sia, per il minore, un ruolo sui generis; e che, pertanto, il minore è parte in senso sostanziale e processuale in quanto “destinatario degli effetti” del processo soltanto nelle ipotesi in cui la tutela giurisdizionale richiesta miri alla salvaguardia dei suoi diritti soggettivi; non altrettanto va detto per quel che concerne le domande dirette esclusivamente a regolare i rapporti tra coniugi (o genitori di fatto) inerenti il giudizio di separazione o di divorzio, ove il minore vanta, invece, un mero interesse al processo. 15. Il minore non è parte processuale quale “soggetto degli atti” del processo. I risultati ottenuti dalla rassegna dei diversi processi civili nei quali il minore è parte in senso sostanziale e processuale in quanto “destinatario degli effetti” dei provvedimenti giurisdizionali aventi ad oggetto propri diritti o status, aprono il sipario del processo ove, si è detto, il minore, pur collocato tra i protagonisti della scena, soffre il limite dell’età anagrafica. Invero, si è già rilevato che, benché sia parte ad ogni effetto del processo, il minore è, comunque, privo della capacità di agire, stante la regola generale sancita dall’art. 2 c.c.. In particolare, sul presupposto che, secondo l’art. 75 c.p.c., «sono capaci di stare in giudizio le persone che hanno il libero esercizio dei diritti che vi si fanno valere», il minore, a contrario, pur capace di rivestire il ruolo di parte per gli effetti e, pertanto, dotato della legitimatio ad causam, è privo della capacità processuale ovvero della legitimatio ad processum: egli non può, pertanto, agire in giudizio, porre in essere attività processuali, se non rappresentato da un altro soggetto dotato del potere rappresentativo (rectius legittimazione processuale rappresentativa) conferito dalla legge. Dal suo canto, il rappresentante legale, già rappresentante legale nel campo sostanziale, in virtù di tale potere, prende parte al processo in nome e per conto del minore: i genitori, rappresentanti naturali, il tutore o il curatore speciale, esercitano tutti i poteri processuali che lo stesso minore non è in grado di compiere. 16. Transizione. Il principio del contraddittorio è immanente ad ogni sistema processuale. Modalità e correttivi. Ora, se sul piano meramente teorico il fenomeno della rappresentanza legale si rivela di decisivo ausilio per la “giusta” collocazione del minore nei processi civili minorili che lo riguardano, l’analisi delle prassi applicative dimostra, tuttavia, che detto fenomeno sovente non si manifesta idoneo a garantire il pieno rispetto del principio del contraddittorio. Vi sono, invero, numerose situazioni in cui il genitore (o il tutore) rimane di fatto inerte nell’esercizio della tutela dei diritti del minore; ovvero casi in cui il conflitto di interessi tra i genitori o coloro i quali esercitano la responsabilità genitoriale e i figli minori, pur sussistente, non è facilmente riconoscibile al di fuori del contesto familiare; ovvero ancora casi nei quali i genitori (o Il minore nel processo uno solo di questi) non possono esercitare alcun tipo di azione legale a tutela del figlio minore perché vivono nello Stato italiano in condizione di clandestinità. A ben guardare, in tali ipotesi, la partecipazione al processo del curatore speciale non è affatto automatica. L’esigenza indifferibile di assicurare l’effettiva “partecipazione” al processo del minore, parte sostanziale e processuale (per gli effetti) sin dalla costituzione in giudizio del suo rappresentante legale, e di garantire il rispetto del principio del contraddittorio anche nei suoi confronti, dirige allora l’indagine verso la individuazione dei margini di fruibilità effettiva del fenomeno della rappresentanza legale ad hoc nonché delle peculiari tecniche di tutela volte ad assicurare l’ascolto del minore, la difesa tecnica e l’esercizio dell’azione in nome e per suo conto da parte del pubblico ministero. 17. Segue. La rappresentanza legale. Non e’ ipotizzabile immaginare che il minore, leso nei suoi diritti, esca di casa e si rechi da un avvocato per prospettargli il proprio caso e verificare se sia opportuno iniziare un processo; né che lo stesso minore, in pendenza di un giudizio di separazione fra i genitori, solleciti un avvocato, chiedendogli cosa e come fare per intervenire e partecipare al processo che, inevitabilmente, modificherà le sue condizioni e abitudini di vita. Perché sia garantita l’effettività della tutela giurisdizionale, il minore deve essere, dunque, rappresentato legalmente o dai genitori o da un tutore o, in caso di conflitto di interessi, da un curatore. Ciò può avvenire anche per espressa previsione di legge, in alcuni particolari procedimenti: a mero titolo esemplificativo, si pensi all’art. 244, 4° comma, c.c., relativo ai termini per l’azione di disconoscimento della paternità, secondo cui l’azione può essere promossa da un curatore speciale nominato dal giudice. Ma può avvenire anche qualora sia il giudice che verifichi la effettiva sussistenza di una situazione di conflitto di interessi e provveda di conseguenza alla sostituzione del rappresentante legale “naturale”. Ai sensi degli artt. 78 e 79 c.p.c., la richiesta per la nomina di un curatore del minore deve provenire dal pubblico ministero, dallo stesso minore, dai prossimi congiunti, dai genitori o, in casi particolari, dal giudice di ufficio. Si tratta di individuare i margini del conflitto di interessi, nella consapevolezza acquisita dalla giurisprudenza che la sussistenza del conflitto si registra anche quando il conflitto è soltanto in via potenziale e non si è ancora manifestato in concreto: la nomina del curatore diviene l’unica soluzione possibile per garantire al minore l’effettività della tutela. 18. - Segue. La rappresentanza tecnica Se si riconosce al minore la potenziale qualità di parte, l’ordinamento impone la rappresentanza (difesa) tecnica. Il principio sancito nell’art. 24, 2° comma, Cost., per cui «la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento», si traduce anche nel diritto alla difesa tecnica: esso è strettamente legato al principio del contraddittorio e si sostanzia nel diritto di nominare un proprio difensore che possa assistere e rappresentare il minore durante tutto il corso del processo, anche se, come si vedrà, questo si svolge nelle forme del rito camerale. E ciò indipendentemente dal fatto che il minore sia rappresentato legalmente dai genitori, da un tutore o da un curatore speciale. La difesa tecnica può coincidere con la rappresentanza legale come spesso avviene nella prassi ma può anche aggiungersi a questa. Ma vediamo in quali procedimenti la difesa tecnica è obbligatoria. Nei procedimenti, sia unilaterali sia (bi o) plurilaterali, nei quali si tratta soltanto di gestire gli interessi del minore, ben può ritenersi che il ricorso al difensore sia facoltativo, stante la semplicità del rito camerale e l’oggetto di tali procedimenti. Capitolo primo Non altrettanto può dirsi per quei processi nei quali la tutela del minore inevitabilmente incide su diritti soggettivi e su status; sennonché, ricollegare la necessità della difesa tecnica alla distinzione, per nulla agevole, tra processi camerali relativi alla gestione di interessi e processi camerali incidenti su diritti soggettivi e status, non sembra offrire giuste garanzie, «giacché la necessità o no di tale requisito extraformale finirebbe per dipendere non dal dato formale del procedimento adottato ma da complesse e molto spesso incertissime indagini relative al suo contenuto» (PROTO PISANI). La necessarietà della difesa tecnica trova riscontro sia nelle convenzioni internazionali (cfr. la Conv. europea sui diritti del fanciullo del 1996, artt. 5 e 9), sia nella Costituzione (art. 24, 2° comma, e 111 Cost.), sia nelle leggi interne: la l. 28 marzo 2001, n. 149 (in vigore dal 1° luglio 2007) ha aggiunto un comma all’art. 336 c.c., disciplinante il procedimento della responsabilità dei genitori: «per i provvedimenti di cui ai commi precedenti [ossia i provvedimenti indicati negli articoli precedenti, artt. 315 e segg.] i genitori e il minore sono assistiti da un difensore»; l’art. 10, 2° comma, l. n. 184 del 1983 (come modificato dalla l. n. 149 del 2001) dispone che, al momento dell’apertura della procedura per la dichiarazione dello stato di adottabilità, il presidente del tribunale deve invitare i genitori ed i parenti del minore, che hanno mantenuto rapporti significativi con quest’ultimo, «a nominare un difensore», informandoli che, se non vi provvedono, sarà nominato un difensore di ufficio. Si può, pertanto, affermare che: - le parti del processo minorile sono il minore, entrambi i genitori e il pubblico ministero e che possono assumere la qualità di parte anche eventuali parenti che agiscono in giudizio; - l’obbligo della difesa tecnica è esteso a tutti i procedimenti, sia a quelli c.d. de potestate (ossia riguardanti la decadenza o la reintegrazione nella responsabilità genitoriale, la condotta pregiudizievole ai figli, la rimozione e la riammissione all’esercizio dei beni del figlio, sia a quelli ex art. 316 c.c., sia, infine, a quelli nei quali vi è una controversia su diritti o su status, sia a quelli per l’adottabilità dei minori). Le norme dettate in tema di gratuito patrocinio trovano applicazione anche dinanzi al t.p.m. (cfr. d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115 - testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia); peraltro, al fine di rendere effettive siffatte disposizioni, sarà opportuno che, stante la mancanza di forme di pubblicità (si segnala inoltre l’assenza di un albo di avvocati specializzati nel diritto di famiglia e dei minori), idonee a far conoscere al cittadino la possibilità di farvi ricorso, i giudici e i p.m. informino le parti non solo della necessità di farsi assistere da un difensore, ma anche della possibilità di ricorrere al patrocinio a spese dello stato. 19. - La competenza: il riparto L’idea che il sistema della giustizia minorile fosse retto da un reticolato di competenze sin troppo frammentato tra tribunale ordinario, tribunale per i minorenni e giudice tutelare e che la ripartizione di esse non rispondesse a criterî sempre razionali, costituiva, prima della riforma del 2012, un chiaro leitmotiv sul tema dell’individuazione del giudice chiamato a conoscere delle controversie sorte in ordine all’affidamento e al mantenimento del figlio minore. Da un canto, era agevole rilevare che i molteplici interventi del legislatore risultavano sovente disorganici e privi di una logica coerenza sul piano sistematico, dall’altro, nonostante la concentrazione delle tutele e, più in generale, l’unitarietà del giudice della famiglia fossero principî da più parti auspicati, il sistema sino ad oggi vigente segnava una persistente e significativa discriminazione tra figli legittimi e figli naturali stante la convivenza di due regimi giurisdizionali distinti, sul piano delle forme nonché delle garanzie processuali. Con specifico riferimento alla competenza, la l. 219 del 2012 ne modifica le regole di riparto tra il tribunale ordinario – tradizionalmente competente per le controversie relative all’affidamento dei figli in caso di separazione dei coniugi, di nullità, di scioglimento o di cessazione degli effetti civili Il minore nel processo del matrimonio, nonché al mantenimento anche dei figli naturali – e il tribunale per i minorenni 1 – sino ad ora, competente della filiazione naturale, dell’abbandono e dell’adozione del minore, degli interventi limitativi o ablativi della potestà genitoriale, della dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale. Al contempo, la riforma lascia inalterata la sfera di competenza del giudice tutelare: quale organo giurisdizionale costituito da un singolo magistrato presso ogni tribunale, esso rimane preposto alla tutela del minore orfano o del minore i cui genitori non possono esercitarne la potestà, alla nomina del tutore e alle autorizzazioni di quest’ultimo per le operazioni concernenti la gestione del patrimonio del minore (anche se quelle di maggiore importanza sono sempre di competenza del t.o.), alla ricezione nonché all’approvazione del rendiconto annuale e finale (alla chiusura del tutela), alla nomina del curatore speciale ex art. 78 c.p.c. (sempre che la nomina non spetti al t.o. nelle ipotesi in cui i genitori non possono o non vogliono compiere un atto nell’interesse del minore), alla vigilanza sui provvedimenti del tribunale ordinario e del t.p.m. in tema di esercizio della potestà e di amministrazione del patrimonio del minore (art. 337 c.c.), nonché all’autorizzazione della donna minore di età ad interrompere la gravidanza. Orbene, le novità riportate all’art. 38, 1° comma, disp. att. c.c. in tema di distribuzione delle controversie tra tribunale ordinario e tribunale per i minorenni si incentrano, prevalentemente, in un’operazione di “svuotamento” del carico di lavoro sino ad ora attribuito al tribunale specializzato e di devoluzione dello stesso al tribunale ordinario. In particolare, sono ora devolute alla competenza del tribunale ordinario i procedimenti diretti: a) all’emanazione di provvedimenti inerenti l’amministrazione del fondo patrimoniale o l’attribuzione ai figli minori, in godimento o in proprietà, di una quota dei beni di esso, in caso di annullamento del matrimonio o di divorzio dei genitori (art. 171, 2° e 3° co., c.c.); b) alla costituzione, in caso di divisione dei beni della comunione legale dei coniugi, a favore di uno di essi dell’usufrutto su una parte dei beni spettanti all’altro in relazione alle necessità della prole (art. 194, 2° co., c.c.); c) al riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio (art. 250 c.c.); d) all’affidamento del figlio di uno dei coniugi, nato fuori dal matrimonio e riconosciuto durante il matrimonio, al suo inserimento nella famiglia legittima e ad ogni altro provvedimento a tutela del suo interesse morale e materiale (art. 252 c.c.); e) all’emanazione di provvedimenti inerenti l’attribuzione del cognome al figlio nato fuori dal matrimonio, allorché la filiazione nei confronti del padre sia stata accertata o riconosciuta successivamente al riconoscimento da parte della madre (art. 262 c.c.); f) all’impugnazione del riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio (art. 264 c.c.); g) alla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale anche in caso di figli minori, nelle ipotesi in cui il riconoscimento è ammesso (art. 269, 1° co., c.c.); h) all’emanazione di provvedimenti inerenti l’esercizio della potestà genitoriale in caso di contrasto su questioni di particolare importanza tra i genitori conviventi (e non) o qualora sussista un incombente pericolo di grave pregiudizio per il figlio (art. 316 c.c.); Sopravvive, invece, la competenza del tribunale per i minorenni per i procedimenti diretti: Dal combinato disposto dell’art. 102, 1° comma, Cost. e dell’art. 1 ord. giud., risulta che il tribunale per i minorenni è un giudice ordinario. Tale qualificazione comporta il godimento delle medesime garanzie di tutti i giudici ordinari, previsti a livello costituzionale (riserva di legge in ordine alla autonomia e indipendenza, ai sensi dell’art. 108, 1° e 2° comma, Cost. e inamovibilità, ai sensi dell’art. 107, 1° comma, Cost.). Il t.p.m. è composto da due magistrati (togati) e da due cittadini, un uomo e una donna, scelti tra i cultori di biologia, psichiatria, antropologia criminale, pedagogia, psicologia, assistenti sociali, che abbiano compiuto il trentesimo anno di età; è istituito in ogni sede di corte di appello ed ha giurisdizione su tutto il territorio di essa. Quanto alla competenza per territorio, la giurisprudenza ha, da tempo, affermato che bisogna fare riferimento non al criterio generale di cui all’art. 18 c.p.c., ossia al foro del convenuto (residenza del genitore nei cui confronti la domanda è proposta), bensì alla residenza del minore (quella effettiva e non anagrafica, ossia il luogo di abituale dimora, il luogo ove il minore abitualmente vive e si trova di fatto alla data in cui viene proposta la domanda). 1 Capitolo primo a1) all’ammissione del minore infrasedicenne a contrarre matrimonio (art. 84 c.c.); b1) alla nomina del curatore speciale, qualora le circostanze lo esigano, che assista il minore nella stipulazione delle convenzioni matrimoniali (art. 90 c.c.); c1)alla dichiarazione di decadenza dalla potestà genitoriale quando il genitore viola o trascura i doveri ad essa inerenti o abusa dei relativi poteri con grave pregiudizio del figlio minore (art. 330 c.c.); d1) alla reintegrazione nella potestà genitoriale allorché, cessate le ragioni per le quali la decadenza è stata pronunciata, sia escluso ogni pericolo di pregiudizio per il figlio minore (art. 332 c.c.); e1) all’emanazione di provvedimenti convenienti, allorché la condotta di uno o di entrambi i genitori si riveli pregiudizievole al figlio – benché tale condotta non si riveli tale da dar luogo alla pronuncia di decadenza ex art. 330 c.c. –, ovvero all’allontanamento del figlio dalla residenza familiare, o del genitore/convivente che maltratta o abusa del minore (art. 333); f1) a stabilire le condizioni a cui genitori devono attenersi nell’amministrazione del patrimonio mal gestito del minore, ovvero alla rimozione di uno o di entrambi i genitori dall’amministrazione stessa e alla privazione, in tutto o in parte, dell’usufrutto legale (art. 334); g1) alla riammissione del genitore rimosso dall’amministrazione del patrimonio del minore e/o privato dell’usufrutto legale nell’esercizio dell’una e/o nel godimento dell’altro, quando sono cessati i motivi che hanno provocato il provvedimento di rimozione (art. 335 c.c.); h1) all’autorizzazione alla continuazione dell’esercizio dell’impresa nell’interesse del minore (art. 371, ult. co., c.c.); i1) al riconoscimento dei figli “incestuosi” ex art. 251 c.c.(art. 38, 1° co., disp. att., c.c.); l1) a regolare i rapporti del minore con gli ascendenti ex art. 317 bis c.c. (art. 38, 1° co., disp. att., c.c.). Il tribunale per i minorenni rimane altresì competente: a2) sulla domanda del figlio minore nato fuori dal matrimonio volta ad ottenere, nei casi in cui non può proporsi l’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità, il mantenimento, l’istruzione e l’educazione (artt. 34, disp. att. c.c. che rinvia all’art. 279, 1° co.); b2) sulla domanda di legittimazione, di adozione e di revoca dell’adozione di minore di età (art. 35, 2° comma, disp. att. c.c. del minore; l. 4 maggio 1983, n. 184, così come modificata ed integrata anche dalla l. 31 dicembre 1998, n. 476 – art. 3, in tema di adozione di minori stranieri); c2) sulla domanda per l’interdizione del minore emancipato e su quella per l’interdizione o l’inabilitazione del minore nell’ultimo anno della minore età (art. 40, disp. att. c.c.); d2) sui reclami avverso i decreti del giudice tutelare, ad eccezione dei provvedimenti indicati negli artt. 320, 321, 372, 373, 374, 376, 2° co., 386, 394 e 395 c.c. per i quali è competente il tribunale ordinario (art. 45, disp. att. c.c.); f2) ai sensi della l. 15 gennaio 1994, n. 64, sulla domanda diretta 1) al riconoscimento e l’esecuzione nel territorio dello Stato dei provvedimenti adottati dalle autorità straniere per la protezione dei minori, ai sensi dell’art. 7 della conv. de L’Aja del 5 ottobre 1961 (art. 4); 2) al rimpatrio di minori dal territorio dello Stato, avanzata dalle autorità straniere, ai sensi dell’art. 2, par. 1, dell’art. 4 della conv. de L’Aja del 28 maggio 1970 (art. 5); 3) al riconoscimento e per l’esecuzione nel territorio dello Stato delle decisioni relative all’affidamento dei minori ed al diritto di visita adottate dalle autorità straniere ai sensi degli articoli 7, 11 e 12 della conv. di Lussemburgo del 20 maggio 1980 (art. 6); 4) al ritorno del minore presso l’affidatario al quale è stato sottratto, o a ristabilire l’esercizio effettivo del diritto di visita a norma degli articoli 8 e 21 della conv. de L’Aja del 25 ottobre 1980 (art. 7). 20.- Segue. La concentrazione della tutela del minore innanzi al tribunale ordinario. Limiti. Oltre alle controversie devolute al tribunale ordinario a seguito della riduzione delle competenze del tribunale specializzato di cui si è dato conto sino ad ora, il secondo periodo del novellato art. 38, Il minore nel processo 1° comma, disp. att. c.c. assegna allo stesso tribunale ordinario competente per il giudizio pendente, di separazione o di divorzio, ovvero per quello sorto a fronte di una situazione di conflitto fra genitori conviventi ai sensi dell’art. 316 c.c., i procedimenti di cui all’art. 333 c.c. nonché quelli diretti all’emanazione dei «provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo» della medesima norma (di cui alle lettere a1- l1 del precedente paragrafo). Orbene, al fine di stabilire le modalità operative e l’ambito applicativo di tale previsione, benché il dato letterale della norma sembri condizionare il principio del simultaneus processus alla sola pendenza di un procedimento di separazione o di divorzio (o ex art. 316 c.c.), intercorrente tra i genitori del minore, in via preliminare va detto che il meccanismo dell’attrazione della competenza del tribunale ordinario deve poter funzionare soltanto se la controversia, di volta in volta pendente, abbia comunque ad oggetto anche l’affidamento o il mantenimento del minore; diversamente, sembra, infatti, inevitabile affermare che la competenza del tribunale per i minorenni resti inderogabile. E, ad ogni buon conto, giova altresì ricordare che l’applicazione del principio generale del simultaneus processus alla tutela giurisdizionale del minore non è operazione del tutto nuova agli interpreti. Invero, nel 2008, la Cassazione aveva avuto modo di affermare che, in sede di separazione dei coniugi, la competenza in ordine all’affidamento dei figli minori ai servizi sociali, qualora fosse stata accertata l’inidoneità di entrambi i genitori, spettasse al tribunale ordinario. Peraltro, di recente, la stessa Corte suprema, ferma restando la competenza del tribunale per i minorenni in ordine alla dichiarazione di decadenza dalla potestà genitoriale, ha ribadito la competenza del tribunale ordinario anche a fronte della domanda di uno dei genitori diretta a modificare, in caso di condotta pregiudizievole dell’altro o di abuso grave, le condizioni della separazione al fine di ottenere l’affidamento esclusivo del figlio minore. A tali risultati giunge anche la riforma del 2012, sebbene il legislatore sia andato oltre. Ed infatti, con specifico riferimento all’ambito di applicazione del secondo periodo del riformulato art. 38, 1° comma, in primo luogo, va segnalato che, a seguito del nuovo assetto di distribuzione delle controversie, il principio della concentrazione processuale davanti al tribunale ordinario deve poter operare non soltanto nei procedimenti diretti a tutelare i figli minori nati nel matrimonio, ma altresì i figli adottati da uno o da entrambi i coniugi, ovvero i figli di uno dei coniugi nati fuori dal matrimonio e riconosciuti dall’altro coniuge (art. 252 c.c.). In secondo luogo, come si evince dalla lettera della disposizione, alla cognizione del tribunale ordinario competente del giudizio di separazione o di divorzio (o ex art. 316 c.c.) in corso, devono essere devoluti non soltanto i procedimenti ex art. 333 c.c. instaurati da uno dei genitori in caso di condotta pregiudizievole dell’altro o di abuso grave, ma anche tutti gli altri procedimenti per i quali persiste la competenza del tribunale per i minorenni secondo il novellato art. 38, 1° comma, 1° periodo. Ora, se, per i profili anzidetti, il legislatore è andato oltre il seminato tracciato dalla Corte, per altri, va detto, è rimasto del tutto silente lasciando numerosi vuoti normativi in relazione a svariate ipotesi in cui gli ostacoli oggettivi alla operatività del fenomeno della concentrazione processuale non escludono la sovrapposizione delle competenze nella stessa crisi familiare, che, invece, rimane una conseguenza ineluttabile. Permane, in conclusione, nell’ordinamento minorile interno la presenza di più giudici per una materia che, invece, andrebbe trattata e decisa da un giudice unico, in evidente lesione dei parametri costituzionali, e, come si vedrà, la evidente disparità, tra cause trattate con il rito ordinario e cause trattate con il rito camerale. La previsione, di cui al novellato art. 315 c.c., di uno stesso «stato giuridico» per i figli legittimi e per i figli naturali non trova, infatti, una corrispondente disposizione con riguardo alla tutela giurisdizionale rispettivamente accordata. In altri paesi il «tribunale della famiglia», rectius un giudice specializzato che si occupi delle controversie familiari e minorili è operante da tempo. Capitolo primo Ma, quel che è certo è che la regolamentazione europea in materia di famiglia e minori prescinde dalla distinzione tra figli legittimi e naturali. Ne costituisce un dato esemplificativo il regolamento Ce n. 2201 del 2003 che si applica alla responsabilità genitoriale a prescindere dalla contestualità della decisione su quest’ultima con un procedimento matrimoniale e dalla circostanza che i genitori siano uniti dal vincolo coniugale. Dal 1945, in Francia, si parla di un organo specializzato. Ma è nel 1975, che sorge il giudice degli affari matrimoniali juge aux affaires matrimoniales che, con legge n. 93/22 del 8 gennaio 1993 (in vigore dal 1° febbraio 1994), è diventato il giudice degli affari familiari (juge aux affaires familiales) e che è giudice specializzato del tribunale de grand instance (che opera anche in formazione collegiale); questo ufficio giudiziario conosce del divorzio, della separazione tra coniugi, della separazione di coppie non coniugate, del mantenimento, della responsabilità genitoriale e degli status del minore. Accanto a questo giudice c’è poi il giudice dei minori (juge des enfants), istituito nel 1945, che ha una doppia competenza in materia civile e in materia penale. In Germania, la recente riforma del processo civile relativa al diritto di famiglia, vuoi sostanziale, vuoi processuale, ha introdotto un nuovo organo giudiziario, nel quale confluiscono tutte le controversie in materia di famiglia, il c.d. Groβ Familiengericht, la cui competenza, ai sensi del § 111 FamFG, si estende ora a tutte le cause relativa ai matrimoni, minori, filiazione, adozione, assegnazione dell’abitazione e dei mobili facenti parte dell’abitazione, potestà, alimenti e regime patrimoniale della famiglia. Nel Regno Unito, pur essendo ancora in corso il dibattito sull’introduzione di un giudice unico della famiglia, si è creata da tempo la Familiy division quale organo preminente in materia familiare: i giudici, specializzati in questo settore, si occupano di matrimonio, separazione, divorzio e minori. Il modello spagnolo è molto simile a quello italiano ma sceglie di attribuire all’amministrazione un ruolo assai rilevante in ordine alla posizione giuridica dei minori. Il giudice competente è il Tribunale della famiglia (juzgados de famiglia). 21. - Il processo (rectius i procedimenti) a tutela del minore innanzi al tribunale per i minorenni: il rito camerale. Come già evidenziato nel corso di lezioni istituzionale, i processi di separazione e di divorzio innanzi al tribunale si svolgono in maniera del tutto peculiare: tuttavia, se si escludono i procedimenti non prettamente contenziosi, relativi alla separazione consensuale e al divorzio congiunto in cui le forme processuali sono quelle dei procedimenti in camera di consiglio, vuoi la separazione giudiziale, vuoi il divorzio sono retti dalle regole predeterminate del processo a cognizione piena ed esauriente. Ne consegue che il minore, figlio di genitori coniugati, indipendentemente dalle modalità con le quali subentra nel processo in cui si decide dei suoi interessi/diritti e, salvo a verificare se la sua situazione sostanziale riesca ad affiorare nel giudizio in corso attraverso il filtro dei genitori che lo rappresentano, gode, almeno in questi tipi di procedimenti, delle garanzie processuali previste dalla giurisdizione cognitiva piena. Di contro, i procedimenti celebrati per i figli nati fuori dal matrimonio innanzi al tribunale e/o e al t.p.m. sono per lo più retti dal rito camerale. Alla base di tale scelta legislativa muovevano diverse considerazioni. Per un verso la scarsa efficienza della giustizia: il processo ordinario di cognizione è troppo lungo e, pertanto, sovente inidoneo a garantire l’effettività della tutela giurisdizionale. Per l’altro, per la particolarità della materia e degli interessi coinvolti, il legislatore ha scelto di prefigurare un processo caratterizzato da un formalismo attenuato, e per questo assai duttile, funzionale ad una maggiore celerità, diretto da un giudice dotato di un margine di discrezionalità ben maggiore, nella considerazione che la posizione sostanziale del minore sia un valore preminente. Il minore nel processo Nell’assoluta scheletricità delle disposizioni processuali dei procedimenti minorili, il legislatore, nella maggior parte dei casi, rinvia alle forme previste dagli art. 737 e ss. c.p.c. L’art. 38, 3° comma, disp. att. c.c. afferma che «in ogni caso il tribunale provvede in camera di consiglio sentito il pubblico ministero». Il rinvio è ripetuto nell’art. 84, 2° comma, c.c., ove si richiede che siano sentiti il pubblico ministero, i genitori o il tutore per l’ammissione al matrimonio del minore sedicenne; nell’art. 264, 2° comma, c.c. per il giudizio di impugnazione proposto dal figlio riconosciuto; nella l. 4 maggio 1983, n. 184 (anche dopo le modifiche introdotte dalla legge 28 marzo 2001, n. 149), art. 4, che rinvia all’art. 330 c.c., in ordine all’affidamento, artt. 10 e 15, in ordine alla dichiarazione di adottabilità; artt. 22-23, in ordine all’affidamento preadottivo; art. 25, in ordine alla dichiarazione di adozione; art. 30 (come modificato dalla legge 31 dicembre 1998, n. 476), in ordine al reclamo del decreto di idoneità all’adozione di minori stranieri; nella l. 15 gennaio 1994, n. 64, artt. 4 – 7, sul riconoscimento e l’esecuzione nel territorio dello Stato dei provvedimenti adottati dalle autorità straniere per la protezione dei minori; anche il procedimento previsto dall’art. 250 c.c. per il riconoscimento dei figli naturali, che pure si conclude con sentenza, deve ritenersi che debba svolgersi in camera di consiglio. Per i provvedimenti sulla responsabilità genitoriale contemplati negli artt. 330-335 c.c., l’art. 336 c.c. detta un «procedimento» più formalizzato; nonostante la indiscutibile sommarietà, il legislatore predetermina, per questi procedimenti, alcune regole processuali minime: indica i soggetti legittimati ad agire (1° co.) e afferma che «il tribunale provvede in camera di consiglio, assunte sommarie informazioni e sentito il pubblico ministero. Nei casi in cui il provvedimento è richiesto contro il genitore, questi deve essere sentito». Dalla rapida rassegna di tali fattispecie si evince che il legislatore ha optato per il modello camerale, e ciò non soltanto nei casi in cui il provvedimento del giudice è reso nei confronti della parte che ha dato impulso al procedimento, casi che la dottrina definisce “procedimenti camerali unilaterali”, ma anche in quelle ipotesi in cui il provvedimento è destinato a più parti del processo, ovvero nei “procedimenti camerali bi o plurilaterali”. Il rito camerale non soltanto funziona nei casi in cui si vuole realizzare un interesse non patrimoniale, per il quale il giudice effettua una valutazione di mera opportunità, senza incidere su diritti altrui, non prettamente “giurisdizionale” (si pensi all’ammissione al matrimonio del minore ultrasedicenne, art. 84 c.c. o alla nomina di un curatore speciale che assista il minore nella stipulazione delle convenzioni matrimoniali ex art. 90 c.c.), ma diventa altresì lo strumento per risolvere tutte quelle controversie che finiscono per incidere su situazioni giuridiche soggettive non patrimoniali, potestà e status vuoi dei genitori, vuoi del minore ovvero che hanno direttamente ad oggetto diritti soggettivi o status (si pensi alla decadenza dalla responsabilità ex art. 330 c.c., all’allontanamento dalla residenza familiare ex art. 333 c.c., all’affidamento temporaneo dei minori in mancanza di assenso dei genitori ex art. 4 l. 184/1983, ovvero al giudizio per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale ex art. 269 c.c., al provvedimento che tiene luogo del consenso al riconoscimento del figlio naturale ex art. 250 c.c., alla dichiarazione dello stato di adottabilità di cui agli artt. 8 e ss. l. 184/1983, alla dichiarazione di adozione ex artt. 25-28 l. 184/1983). Per di più, il frettoloso rinvio agli art. 737 ss. c.p.c. di cui al novellato art. 38, disp. att., c.c., operante per tutti i figli, vuoi naturali, vuoi legittimi, non sostituisce le forme della cognizione piena eventualmente messe in moto con i giudizi di separazione giudiziale e di divorzio, ma si sovrappone a queste, lasciando all’interprete l’intricata opera di collage delle procedure eventualmente spendibili fermo restando che il rito camerale rimane oggi discrimine tra figli nati fuori dal matrimonio e figli nati nella coppia “legittima”. 22.- Segue. Le garanzie minime per un giusto processo minorile Ferma restando l’opportunità di individuare delle forme processuali semplificate per tutti quei procedimenti che integrano la fattispecie costitutiva di determinati atti negoziali e preso atto che il Capitolo primo legislatore ha scelto il rito camerale anche per i provvedimenti che incidono in maniera irreversibile su diritti o status o che hanno direttamente ad oggetto diritti o status, si rivela indispensabile la salvaguardia delle garanzie processuali minime anche all’interno di tali procedimenti. Sia prima dell’entrata in vigore dell’art. 111 Cost., sul giusto processo, che dopo, il giudice delle leggi ha chiarito che l’adozione del procedimento in camera di consiglio può riguardare anche situazioni tipiche di giurisdizione contenziosa, idonee a concludersi con provvedimenti decisori, e che tale adozione «risponde a criteri di politica legislativa, inerenti alla valutazione che il legislatore ha compiuto in relazione alla natura degli interessi regolati ed all’opportunità di adottare determinate forme processuali»; che «il procedimento in camera di consiglio non è, di per sé, contrastante con il diritto di difesa sancito dall’art. 24 Cost.» e che ciò che è, tuttavia, essenziale è che «vengano assicurati lo scopo e la funzione, cioè la garanzia del contraddittorio, in modo che sia escluso ogni ostacolo a far valere le ragioni delle parti». Come è noto, il principio del contraddittorio, previsto dall’art. 101 c.p.c., ha una portata generale nel nostro ordinamento (art. 111 Cost.); esso infatti costituisce uno degli aspetti essenziali del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., come tale inviolabile in ogni stato e grado di ogni procedimento; ne consegue la necessità che tale principio operi in ogni tipo di processo, anche se svolto secondo le forme previste per i procedimenti in camera di consiglio. Tale garanzia volge ad assicurare che tutti i soggetti destinatari del provvedimento giurisdizionale possano prendere parte al processo e che, di conseguenza, siano messi nelle condizioni di esercitare i poteri e le facoltà relativi, ferme restando le diverse modalità di attuazione del contraddittorio rispetto al processo ordinario. Si pensi, ad esempio, alla previsione di particolari poteri in capo al giudice e al carattere inquisitorio riconosciuto al processo civile minorile che certamente non possono indurre a ritenere inoperante il principio del contraddittorio; così come nei procedimenti unilaterali, perché questo si realizzi, è sufficiente che il ricorrente sia stato messo nelle condizioni di esporre al giudice le proprie ragioni (diversamente, nei procedimenti in cui un soggetto agisce per ottenere un provvedimento nei confronti di un altro, il contraddittorio è garantito soltanto se tutti i soggetti sono stati posti nella condizione di partecipare). Il primo momento in cui si pone l’esigenza di attuare il contraddittorio è rappresentato dalla convocazione delle parti. Benché di tale aspetto il legislatore se ne occupi soltanto per il procedimento di dichiarazione di adottabilità, avendo, nell’art. 12, 1° co., l. 184/1983, previsto che il presidente del t.p.m. con decreto motivato fissa la comparizione, entro un congruo termine, dinanzi a sé o ad un giudice da lui delegato, dei genitori o dei parenti entro il quarto grado che abbiano mantenuto rapporti significativi con il minore, non si può non affermare che l’essere informati sull’esistenza del procedimento e sul suo oggetto costituisce la condizione minima per la difesa in giudizio in ogni tipo di procedimento. Se ne deve dedurre che il ricorso (forma tipica dell’istanza per effetto degli artt. 737 c.p.c., 250, 274 e 336 c.c. e 17, l. 4 maggio 1983, n. 184), depositato nella cancelleria del giudice, deve essere portato a conoscenza dei destinatari del provvedimento giudiziale, unitamente a questo, che fissa la camera di consiglio; per il principio della libertà delle forme, e in assenza di una espressa previsione normativa, si deve altresì dedurre che sia il giudice a dover individuare la forma di comunicazione più idonea (notificazione del ricorso o comunicazione ad opera della cancelleria dell’atto introduttivo nel suo testo integrale) a realizzare siffatta conoscenza, affinché le “controparti” possano fare valere le loro ragioni prima che venga assunto il provvedimento giudiziale. Ma, a ben vedere, la necessità di convocare le parti sussiste anche allorché sia il pubblico ministero a rendersi promotore dell’iniziativa giudiziale oppure allorché sia il giudice che vi provveda di ufficio (cfr. i provvedimenti temporanei emessi ex officio artt. 336, 3° co., c.c. e 10, l. 4 maggio 1983, n. 184, in tema di dichiarazione di adattabilità): anche in questi procedimenti la parte deve poter partecipare attivamente e conoscere le fonti di prova che il giudice ha eventualmente acquisito e sulle quali fonderà il proprio convincimento. La comunicazione non è, evidentemente, l’unico aspetto da considerare in ordine al momento della convocazione, in quanto si pone il problema di garantire anche ai destinatari del Il minore nel processo provvedimento un termine sufficiente per poter predisporre le proprie difese. A tale riguardo, l’unica norma utile è ancora rappresentata dall’art. 12, 1° co., l. 184/1983, nella parte in cui discorre di «un congruo termine». Nessuna altra disposizione contempla un termine minimo, con la conseguenza che la fissazione di questo è sicuramente rimessa alla valutazione discrezionale del giudice, non potendo, per la estrema semplicità delle forme procedimentali, far funzionare i termini previsti per il procedimento ordinario, atteso che i novanta giorni richiesti dall’art. 163 bis c.p.c. si presentano oltremodo eccessivi già per il processo ordinario. L’attuazione del principio del contraddittorio non è circoscritta al solo momento iniziale, relativo alla convocazione dei destinatari del provvedimento, ma deve essere assicurata per tutto lo svolgimento del procedimento: deve essere garantita alla parti la eventualità che le stesse siano sentite sui fatti di causa, sia per allegare i fatti sui quali il giudice deve decidere sia per indicare i mezzi di prova relativamente a quegli stessi fatti allegati, sia ancora per confutare le prove chieste dalle altre parti. La natura inquisitoria del processo civile minorile si fonda sulla eventualità che il giudice possa d’ufficio instaurare il procedimento nonché sugli ampi poteri allo stesso accordati in ordine allo svolgimento del procedimento, atteso che, di ufficio e senza essere condizionato dall’iniziativa delle parti in causa, «assume informazioni» (non sommarie, ma “scrupolose e approfondite”), ascolta le parti, le interroga liberamente, acquisisce documenti, dispone ispezioni e consulenze tecniche (psicologiche o medico - psichiatriche), acquisisce pareri tecnici, chiede relazioni ai servizi sociali, agli organi di pubblica sicurezza e a ogni altra istituzione in grado di fornire utili notizie. A ben vedere, l’inquisitorietà di cui si parla sembra, però, attenuata da: 1) il limite per il giudice di non poter introdurre nel processo fatti non allegati dalle parti (a meno che non ricorra uno di quei casi in cui il legislatore ha riconosciuto al giudice il potere di azione); 2) la necessità che sia il giudice a dover assumere le informazioni, ascoltando senza formalità i soggetti utili ai fini della decisione, al fine di garantire che la prova sia assunta nel processo e non anche al di fuori (anche laddove i soggetti ascoltati svolgano la loro attività all’esterno, i risultati devono comunque essere acquisiti e discussi all’interno del processo, nel contraddittorio con le parti coinvolte); 3) la necessità che l’istruttoria, pur caratterizzata dalla atipicità dei mezzi di prova nonché dalla atipicità delle modalità di acquisizione degli stessi, si svolga nel rispetto del contraddittorio, potendo le parti contestare le risultanze probatorie acquisite, dedurre e chiedere ulteriori mezzi di prova in relazione a queste. Il carattere inquisitorio che si suole riconoscere al processo civile minorile non può, infatti, giustificare una compressione del diritto delle parti di partecipare attivamente allo svolgimento del processo, in considerazione del fatto che la garanzia del contraddittorio non implica soltanto che un soggetto possa difendersi contro le prove presentate dall’avversario, ma richiede altresì che le parti siano in grado di interloquire su tutte le prove reperite e raccolte d’ufficio. Anzi, come è stato giustamente sottolineato in dottrina, proprio il carattere inquisitorio del procedimento comporta «un più rigoroso rispetto dei diritti di difesa, per il controllo dialettico dei maggiori poteri attribuiti al giudice». Tanto premesso occorre, pertanto, riconoscere alle parti: a) il potere di produrre in camera di consiglio tutti quei documenti che le stesse ritengono rilevanti ai fini della decisione; b) di chiedere l’audizione di soggetti a conoscenza dei fatti di causa, senza che sia per questo necessario osservare le forme previste per la prova testimoniale nel processo ordinario; c) di chiedere l’esibizione di alcuni documenti; d) di chiedere consulenze tecniche; e) di farsi assistere da un proprio consulente, sia nel momento in cui è il giudice che procede all’assunzione delle informazioni o dispone consulenze tecniche, sia nel caso in cui il giudice delega ai servizi sociali l’assunzione delle informazioni. E ciò anche al fine di riequilibrare la posizione di soggezione che le parti hanno rispetto ai servizi sociali. L’indisponibilità dei diritti in contesa induce a ritenere inammissibile la confessione ed il giuramento, sia decisorio sia suppletorio. Nonostante si registrino numerose prassi di segno contrario, è ragionevole affermare che il diritto di difesa della parte e il diritto alla prova si sostanzia anche nell’accesso a tutti gli atti del procedimento (cfr. l’art. 76, disp. att., c.p.c. per il quale le parti o i loro difensori possono esaminare Capitolo primo gli atti e i documenti inseriti nel fascicolo d’ufficio e in quelli delle altre parti e farsene rilasciare copia dal cancelliere) diretti a formare il convincimento del giudice: si pensi alle relazioni e le informazioni scritte che costituiscono un dato ormai costante nel processo civile minorile, anche a seguito della presenza continua dei servizi sociali e degli organi di pubblica sicurezza. Infine, tra i temperamenti all’autorietà del giudice, non può non farsi riferimento, oltre alla obbligatorietà, per i procedimenti che incidono sui diritti, della difesa tecnica, anche alla operatività, quantomeno per quei procedimenti di natura contenziosa, del principio costituzionale della terzietà ed imparzialità del giudice, con la diretta conseguenza che devono ritenersi applicabili gli istituti dell’astensione e della ricusazione del giudice, nonché del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato ex art. 112 c.p.c. (con i dovuti correttivi nelle ipotesi in cui il giudice abbia facoltà di iniziare il processo nell’interesse del minore), finalizzato ad assicurare la necessaria equidistanza del giudice dagli interessi in contesa. Quanto al regime dei controlli dei provvedimenti resi a tutela del minore il sistema delle garanzie non si rivela ancora a perfetta tenuta. Il rinvio alle forme camerali comporta che i procedimenti minorili si concludano con un decreto motivato, fatta eccezione per quelle ipotesi in cui la legge prevede la forma dell’ordinanza (cfr. l’art. 84, 5° co., c.c., che prevede l’ordinanza in caso di reclamo avverso il decreto sull’ammissione al matrimonio del minore ultrasedicenne) ovvero della sentenza (artt. 250 c.c.; 40 disp. att. c.c.; 15 l. 184 del 1983, in tema di dichiarazione dello stato di adottabilità).Il decreto è reclamabile alla Corte d’appello che decide in camera di consiglio con decreto non reclamabile ai sensi dell’art. 739, 3° co., c.p.c. Il reclamo non suscita particolari problemi in termini di garanzie processuali atteso che la parte soccombente non soggiace, diversamente dal giudizio di appello, al sistema delle preclusioni di cui all’art. 345 c.p.c. L’art. 111, 7° comma, Cost., sollecita l’estensione della garanzia del ricorso per cassazione a tutti i provvedimenti camerali che decidono in modo definitivo su diritti o status (o che incidono su diritti o status connessi alla tutela camerale). In tal senso sembra dirigersi la Cassazione, pur con delle argomentazioni in parte discutibili, allorché ne ammesso la ricorribilità dei provvedimenti sull’affidamento dei figli e sulle relative statuizioni economiche, ivi compresa l’assegnazione della casa familiare, ex art. 317 bis c.c., emessi in sede di reclamo (Cass. 23578/2010; Cass. 23032/2009 e Cass. 23411/2009), escludendola però per i provvedimenti, emessi in sede di volontaria giurisdizione, che limitino o escludano la potestà dei genitori naturali ai sensi dell’art. 316 c.c., che pronuncino la decadenza dalla potestà sui figli o la reintegrazione in essa, ai sensi degli art. 330 e 332 c.c., che dettino disposizioni per ovviare ad una condotta dei genitori pregiudizievole ai figli, ai sensi dell’art. 333 c.c., o che dispongano l’affidamento contemplato dall’art. 4, 2º comma, l. 184/1983, in quanto privi dei caratteri della decisorietà e definitività in senso sostanziale (v., da ultima, Cass. 16662/2012). Anche il giudice minorile può emettere dei provvedimenti cautelari e, nell’interesse del minore, provvedere, in situazioni di urgente necessità, anche inaudita altera parte. Per effetto dell’art. 336, ult. co., c.c., in caso di urgente necessità, il tribunale (ossia il collegio e non il giudice delegato) può adottare anche di ufficio, sia anteriormente al giudizio camerale avente ad oggetto i provvedimenti di cui agli artt. 330 e segg. (decadenza, reintegrazione nella potestà dei genitori, ecc.), sia nel corso del procedimento camerale, provvedimenti temporanei, salva comunque la necessità di iniziare il procedimento in sede camerale avente ad oggetto i provvedimenti indicati negli artt. 330-335 c.c. Il contraddittorio viene differito ad un momento successivo, nel procedimento camerale promosso su iniziativa del pubblico ministero, al quale devono essere comunicati gli atti, ovvero del genitore interessato alla revoca del provvedimento temporaneo (art. 336, 1° co., c.c.). Non è previsto un termine perentorio entro cui promuovere il procedimento, a pena di inefficacia dei provvedimenti temporanei (d’altra parte, oggi, anche i provvedimenti cautelari anticipatori non devono necessariamente essere seguiti da un giudizio di merito), sicché, ha ritenuto la giurisprudenza, se al provvedimento urgente reso in assenza di contraddittorio non fa seguito il Il minore nel processo procedimento camerale per l’emanazione del provvedimento definitivo, esso, pur temporaneo, è «idoneo a produrre in modo autonomo un pregiudizio stabile». Anche l’art. 10, l. 4 maggio 1983, n. 184 (così come modificato dall’art. 10 della legge 28 marzo 2001, n. 149) prevede la eventualità che il giudice emetta provvedimenti provvisori nell’interesse del minore in caso di urgenza (ad esempio «il collocamento temporanei presso una famiglia»); e che tale provvedimento debba essere confermato, modificato o revocato, sentite le parti interessate ed assunta ogni necessaria informazione (4-5° comma). Nei giudizi di separazione e divorzio la legge stabilisce che vuoi il presidente, vuoi il giudice istruttore possa provvedere in via temporanea ed urgente alle necessità della prole e/o dei coniugi. Per tali provvedimenti è previsto un diverso regime di controlli (artt. 708 e 709 c.p.c.). Ma dopo il 2012 è altresì previsto che, vuoi il giudice della separazione che del divorzio possa provvedere sulla responsabilità genitoriale con uno dei provvedimenti limitati o ablativi della responsabilità genitoriale previsti dall’art. 336 c.c. Non esiste un unico modello di procedimento cautelare, ma le disposizioni vigenti, pur non in contrapposizione tra di loro, dettano regole diverse tra loro anche in riferimento al regime dei controlli, lasciando all’interprete la scelta delle modalità con le quali operare di volta in volta. 22. L’attuazione dei provvedimenti resi a tutela del minore Il tentativo di costruire un sistema di garanzie processuali minime anche in tema di attuazione dei provvedimenti del giudice civile minorile prende le mosse dalla summa divisio tra provvedimenti giurisdizionali a contenuto patrimoniale e provvedimenti a contenuto non patrimoniale, resi sia dal t.p.m. sia dal t.o. sia dal giudice tutelare. Premesso il dato essenziale per cui i provvedimenti a tutela del minore a contenuto patrimoniale rientrano nell’alveo dei titoli esecutivi ex art. 474 c.p.c. (v., ora, il novellato art. 38, disp. att., c.c.) e sono, pertanto, idonei ad innescare l’esecuzione forzata, si tratta di verificare le modalità di attuazione. La tecnica della espropriazione forzata, che si basa sulla trasformazione del bene in danaro e sulla soddisfazione del creditore per mezzo della distribuzione della somma ricavata, è senz’altro operante anche per i provvedimenti economici resi nell’interesse del minore. Invece, le difficoltà di utilizzare le stesse forme processuali per i provvedimenti a contenuto non patrimoniale hanno indotto la giurisprudenza e la dottrina ad individuare, per l’attuazione di questi, altri tipi di tutele pur previste dal codice di rito. Sennonché, la soluzione di operare con le forme dell’esecuzione in forma specifica per consegna o rilascio ex art. 605 c.p.c. ovvero degli obblighi di fare e non fare ex art. 612 c.p.c. non hanno convinto del tutto le prassi operative. Invero, il ricorso alle forme dell’esecuzione in forma specifica per consegna di cose mobili, prospettato già nella vigenza del codice di rito del 1865, è stato riproposto alcuni anni fa e non sembra condivisibile, in primo luogo perché, utilizzando quello schema, si è costretti ad accostare il minore a una «cosa mobile» cui fanno riferimento gli artt. 2930 c.c. e 605 c.p.c., in secondo luogo, perché il procedimento richiede che la presenza dell’autorità giudiziaria sia davvero marginale. L’equiparazione degli obblighi non patrimoniali a tutela del minore alla categoria degli obblighi di fare di cui agli artt. 612 e segg. c.p.c. ha, per certi versi, raccolto maggiori consensi in dottrina e in giurisprudenza. Ora, tralasciando la pur prospettata idea di affidare la fase dell’attuazione dei provvedimenti al giudice tutelare, chiamato invece a svolgere il compito di vigilanza e controllo ex art. 337 c.c., ed individuata la competenza del giudice del procedimento in corso (cfr. l’esplicito riferimento di cui all’art. 6 l. div. e all’art. 709 ter c.p.c.) - organo che più di altri (del giudice dell’esecuzione ad esempio) è a conoscenza della fattispecie concreta e può meglio assicurare l’attuazione del suo comando –, si è opportunamente ritenuto che l’esecuzione per i provvedimenti a contenuto non patrimoniale fungibili, possa svolgersi secondo la via cosiddetta «breve»: le forme processuali rivengono dalla disciplina dettata per l’attuazione dei provvedimenti cautelari dall’art. 669 Capitolo primo duodecies c.p.c., nel rispetto delle garanzie processuali minime a tutela del diritto del minore di volta in volta dedotto in giudizio. Sennonché, l’individuazione della competenza del giudice del procedimento in corso e il rinvio alle forme di attuazione dei provvedimenti cautelari ex art. 669 duodecies c.p.c., sono destinate a diventare operazioni ermeneutiche pressoché inutili, inidonee ad assicurare l’attuazione del diritto, in tutti quei casi in cui ci si trovi di fronte a provvedimenti di affidamento di minori (e simili) infungibili, caratterizzati da una incoercibilità vuoi immediata, vuoi indiretta. Il sistema delle misure coercitive diventa allora, in tali casi, l’unico rimedio volto a sollecitare l’adempimento dell’obbligato che, al fine di scongiurare una lesione ben più grave di quella che potrebbe derivare dall’adempimento stesso, dovrebbe rassegnarsi a cooperare. Il riferimento normativo è, in primo luogo, l’art. 388, 2° comma, c.p., il quale sanziona il comportamento di chi «elude l’esecuzione di un provvedimento del giudice civile, che concerna l’affidamento di minori». La medesima pena è accordata, secondo l’art. 6 della l. 4 aprile 2001, n. 154, sulle misure contro la violenza nelle relazioni familiari, a chiunque elude l’ordine giudiziale di protezione contro gli abusi familiari previsto dall'art. 342 ter c.c. ovvero di un provvedimento di eguale contenuto assunto nel procedimento di separazione personale dei coniugi o nel procedimento di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio. A tali figure di illecito penale così individuate, che presuppongono la pendenza di un processo esecutivo e che l’obbligato non abbia ottemperato all’ordine impartito del giudice, deve aggiungersi altresì l’art. 650 c.p. ai sensi del quale chiunque non osserva i provvedimenti legalmente dati dell'autorità (polizia), è punito con l’arresto fino a tre mesi o con un’ammenda. Prescindono, invece, da un provvedimento dell’autorità giudiziaria o della polizia, le pene previste dall’art. 570 c.p.: è punito con la reclusione fino ad un anno o con una multa da 103 euro a 1032 euro chi, abbandonando il domicilio domestico o comunque serbando una condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie, si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla potestà dei genitori o alla qualità di coniuge, ovvero chi malversa o dilapida i beni del figlio minore o del pupillo o del coniuge, o, infine, chi fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore, ovvero inabili al lavoro, agli ascendenti o al coniuge (il quale non sia legalmente separato per sua colpa). A tale disposizione rinvia l’art. 12 sexies della l. n. 898/70 (introdotto dalla l. n. 74/1987), allorché sia il coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione dell’assegno di divorzio dovuto (l’art. 3 della l. n. 54 del 2006, in materia di separazione dei coniugi ed affidamento dei figli, stabilisce che l’art. 12 sexies cit. si applica anche in caso di violazione degli obblighi di natura economica senza ulteriori specificazioni). L’art. 574 bis c.p. (introdotto dalla l. 94/2009), prevede che, salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque sottrae un minore al genitore esercente la potestà dei genitori o al tutore, conducendolo o trattenendolo all’estero contro la volontà del medesimo genitore o tutore, impedendo in tutto o in parte allo stesso l’esercizio della potestà genitoriale, è punito con la reclusione da uno a quattro anni. Se tali fatti sono commessi da un genitore in danno del figlio minore, la condanna comporta la sospensione dall’esercizio della potestà dei genitori. Ora, la circostanza che alcuni comportamenti resi in ambito familiare, nel rapporto tra i coniugi e con la prole, siano registrati nel codice penale come figure di reato per le quali l’autorità giudiziaria penale irroga di volta in volta, determinandone la portata, le misure afflittive relativamente indicate dal legislatore, crea, nel contenzioso familiare a tutela del minore, un’inevitabile commistione tra processo penale e processo civile che non esime l’interprete dalla necessità di verificare se, anche all’interno del processo civile, esistono (e, se esistono, quali di questi possano ritenersi operanti nelle diverse fattispecie) degli espedienti processuali volti a sollecitare l’obbligato ad adempiere all’ordine impartito. Il minore nel processo La mancata cooperazione dell’obbligato ad ottemperare un ordine del giudice civile in tema di affidamento dei minori può sollecitare quest’ultimo ad irrogare altre misure vuoi prima che si sia verificato l’inadempimento, su istanza di parte, vuoi successivamente. A questo proposito, si segnala l’art. 709 ter c.p.c., norma di fattura discutibile, perché assimila alle misure coercitive tout court le sanzioni di natura risarcitoria, ma che si rivela essenziale, nell’esclusivo interesse del minore, vuoi sul piano sistematico ai fini della ricostruzione dogmatica delle forme processuali fruibili per la esecuzione diretta, vuoi per la realizzazione concreta sia dei provvedimenti a contenuto non patrimoniale sia di quelli a contenuto patrimoniale; la norma agisce sulla volontà dell’obbligato a cooperare, prevedendo che in caso di gravi inadempienze, il giudice del procedimento in corso possa ammonirlo, condannarlo al pagamento di una sanzione pecuniaria a favore della Cassa delle ammende, ovvero disporre il risarcimento dei danni nei confronti del minore o dell’altro genitore. Per effetto dell’art. 614 bis c.p.c., con il provvedimento di condanna il giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento. Ci si è chiesti se tale disposizione possa funzionare nei processi a tutela della famiglia. E se, in caso di risposta affermativa, sia diretta soltanto ai provvedimenti di condanna ad un facere infungibili, dal momento che qualora dovesse poter operare anche in riferimento agli obblighi di fare fungibili, tale misura ben potrebbe costituire un utile supporto quantomeno nelle situazioni in cui ci si trovi di fronte a patrimoni non del tutto incapienti. Si pensi, a mero titolo esemplificativo, ad un caso di sottrazione del minore: l’attuazione coattiva dell’obbligo di restituzione (fungibile) con l’ausilio della forza pubblica può arrecare un pregiudizio al minore, pregiudizio che potrebbe essere evitato per mezzo della coartazione dell’obbligato all’adempimento spontaneo ex art. 614 bis. 23. Prospettive di riforma: il tribunale per la famiglia L’analisi svolta del processo civile minorile ci porta a dover riflettere sulle prospettive di riforma. Il dato essenziale da cui partire è che, pur in mancanza della predeterminazione legale delle forme e dei termini processuali, il giudice deve poter assicurare l’attuazione del principio del contraddittorio nei termini anzidetti. La circostanza che nelle materie affidate al t.p.m. siano in discussione gli interessi ed i diritti dei minori, sicché il giudice minorile vede arricchire il proprio ruolo di una funzione non prettamente giudiziaria, tanto che i suoi provvedimenti sono anche diretti a proteggere i minori e ad assicurare una effettiva attuazione dei loro diritti, non significa che il giudice minorile non sia un giudice; e compito del giudice è sempre quello di applicare la legge, nel rispetto delle garanzie e dei diritti delle persone interessate dalla decisione. Il risultato finale è che ciascun giudice minorile deve procedere ad integrare lo schema camerale (si pensi all’ipotesi regolata nell’art. 316 c.c., ove il giudice «suggerisce le determinazioni che ritiene più utili nell’interesse del figlio e dell’unità familiare»; oppure nell’art. 333 c.c., ove il giudice «può adottare i provvedimenti convenienti»), nel non facile contemperamento dell’interesse del minore e di coloro i quali ne esercitano la potestà. Tale soluzione appare l’unica prospettabile e, ciò nonostante, non si rivela sempre appagante, stante la eccessiva discrezionalità affidata a ciascun giudice. L’opera di composizione del rito minorile diventa, infatti, una sorta di «fai da te» del singolo giudice che è chiamato a far funzionare delle regole processuali di cui soltanto alcune sono predeterminate dal legislatore, dovendo, per le altre, preoccuparsi di rivenirle da altri procedimenti (magari analoghi), con l’inevitabile rischio di utilizzare strumenti processuali differenti a fronte di identiche situazioni sostanziali. E’ pertanto auspicabile un intervento del legislatore diretto a predeterminare le forme processuali minime a garanzia di un processo nell’interesse del minore, che pur sommario, sia “giusto” secondo i parametri costituzionali. Le novità legislative appena approvate, infatti, nulla hanno a che vedere Capitolo primo con i problemi sottesi alla tutela del minore quale soggetto “debole” del processo. La negoziazione assistita, di cui all’art. 6 l. 162/2014 in vigore dal 16 settembre, anche qualora la si volesse accogliere con favore, accedendo ad una definizione meno stringente di diritti indisponibili, incide su ipotesi, invero assai circoscritte, che presuppongono una fine “condivisa” del rapporto coniugale, rispetto al carico del contenzioso che investe, invece, in maniera significativa il tribunale ordinario (nonché il tribunale per i minorenni). Non è chi non veda, insomma come allo stato, il contesto non lasci trasparire alcun raggio di luce e che l’operatore al quale si richiede inevitabilmente uno sforzo interpretativo sempre più incisivo nella imprescindibile esigenza di guardare all’interesse del minore e dei genitori nel rispetto delle garanzie processuali imposte dalla Costituzione, si trova a fare i conti, ancora una volta con delle ingenti novità più in punto di immagine che di sostanza. Giova segnalare, tuttavia, che costituisce uno dei contenuti di un recentissimo schema di disegno di legge delega al Governo, recante nuove disposizione per l’efficienza del processo civile, la formazione di una sezione specializzata, di composizione mista (sarebbe auspicabile la presenza dei giudici non togati nel collegio, a condizione che vi sia sempre la maggioranza della componente togata al momento della decisione), alternativa alla creazione di un tribunale della famiglia ad hoc, quale futuro giudice della famiglia, dei minori e dei diritti della persona (si segnala che nel sistema attuale, soltanto i grandi tribunali godono di una sezione che si occupi di tutte le controversie in materia di famiglia; la stessa sezione, però, si occupa anche di altri tipi di controversie). I giudici che attualmente formano l’organico del t.p.m. costituirebbero la nuova sezione specializzata del t.o., interamente dedicata alla famiglia e ai minori. Per le stesse ragioni si verrebbe a creare una sezione specializzata della corte di appello. Si tratta allora di trasformare ciò che già c’è; il che, da un punto di vista economico, non implicherebbe grosse spese aggiuntive né, evidentemente nessun taglio. Ciò comporterebbe l’eliminazione di competenze di procedimenti paralleli pendenti di sovrapposizioni di interventi sullo stesso nucleo familiare e spesso sulla medesima situazione patologica, rispondendo anche a ragioni di economia processuale, di riduzione dei costi e di tempestività della risoluzione delle singole controversie.