Indice Introduzione 1 1. Da Broadway a Hollywood 1.1 L’avvento del sonoro e la Grande Depressione 4 1.1.1 “Il cantante di jazz” 6 1.1.2 “Quarantaduesima strada” e il genio di Berkeley 7 1.1.3 “Cappello a cilindro”: la coppia Astaire-Rogers 11 1.1.4 “Il mago di Oz” 15 1.2 Gli anni Quaranta 18 1.2.1 “Incontriamoci a St. Louis” 20 1.2.2 “Il Pirata” 22 1.2.3 “Un giorno a New York” 25 2. Il periodo d’oro 2.1 Gli anni Cinquanta 27 2.2 Minnelli: da “Un americano a Parigi” all’Oscar di “Gigi” 29 2.3 … e Stanley Donen 35 2.4 Spartiacque: “West side story” 43 3. Nuovi protagonisti: il “tardo” musical e gli anni 2000 3.1 Dopo West side story 46 I 3.2 Bob Fosse 47 3.3 “New York, New York” 53 3.4 Il “fenomeno” Travolta 55 3.5 Contestazione e spiritualità 58 3.6 “The blues Brothers” 61 3.7 Il nuovo millennio 62 Conclusioni 72 Bibliografia 74 Sitografia 74 Filmografia 75 II Una delle cose più belle è svegliarsi e sapere che qualcuno ti ama. da New York, New York, Martin Scorsese Ai miei genitori e a mio fratello. Introduzione Questo elaborato intende proporre una visione globale del mondo del musical cinematografico di Hollywood: si può definire una breve “guida” che intende mostrare al lettore un percorso in cui si individuano i momenti più brillanti della storia del genere, quei film che ne costituiscono le tappe fondamentali e che hanno fatto sì che il musical hollywoodiano diventasse un genere cinematografico di grande successo. La scelta di questo tema deriva dal fascino che il musical ha su di me come su tantissimi altri. Un fascino che si deve alla rappresentazione della realtà in chiave leggera, surreale e onirica anche, che il musical propone. Questo grazie alla magia dell’unione di più arti, che concorrono insieme con la recitazione a narrare una storia che induca a sognare. La stesura di questo testo è il frutto di un approfondimento dell’argomento attraverso lo studio di manuali riguardanti il musical e la sua evoluzione nel tempo, ma anche dedicati al cinema hollywoodiano in genere; altre letture mi hanno permesso di poter arrivare ad un’analisi più dettagliata dei film presi in considerazione (fondamentale è risultata la loro visione), come la consultazione di schede specifiche per ogni pellicola contenute sia in manuali che siti internet, dedicati esclusivamente al mondo del cinema e del musical. 1 La tesi consta di tre capitoli, riguardanti tre diverse fasi in cui ho suddiviso l’evoluzione del genere. Il primo capitolo si riferisce alla nascita all’inizio del Novecento del musical teatrale, forma spettacolare che riunisce recitazione, musica e danza all’interno di una struttura drammaturgica più complessa e armoniosa, rispetto a quella delle forme spettacolari da cui deriva, come il vaudeville o la rivista … Negli anni Trenta poi Hollywood porta sullo schermo lo spettacolo, che fino a quel momento è appartenuto solamente a Broadway, e insieme ad esso anche i suoi artisti (per esempio Fred Astaire, Busby Berkeley …). Il primo capitolo si concentra anche sul decennio successivo, con i primi successi del regista Vincente Minnelli, le stelle Judy Garland e Gene Kelly e l’utilizzo del Technicolor. Il secondo capitolo racchiude quello che definisco il “periodo d’oro”, gli anni Cinquanta. È infatti il decennio di maggiore produzione di questo tipo di pellicole, che trovano sempre più consensi di pubblico e che si presentano come vere e proprie opere: ogni film può essere riconducibile al suo regista. Sono dunque gli anni della grande autorialità, in particolare quella di Minnelli e di Stanley Donen, gli anni di Spettacolo di Varietà e Cantando sotto la pioggia, del prestigio della Metro-GoldwynMayer… Questi anni si concludono con la fine del musical classico, ufficializzata da West side story (1960) che apre la strada al “tardo” musical, quello che ritroviamo nel terzo capitolo. Dagli anni Settanta in poi ci troviamo di fronte a nuovi stili, temi, soluzioni. Il musical si presenta con forme diverse, 2 ibride, che non potremmo definire musical, ma in esse la sua influenza è fortemente evidente; il musical così diventa remake (di Fellini per esempio, come vedremo con Bob Fosse), sarà sempre più parodia, revival (Grease), gioco sui miti e anche dissacrazione di essi (pensiamo ai politici e generazionali Jesus Christ Superstar e Hair …). Il musical ha perciò, come qualunque altro genere, una sua storia e una sua evoluzione e, anche se oggi non si ispira più all’epoca classica e ai suoi canoni, non smette mai di perseguire l’obiettivo di farci sognare. 3 1. Da Broadway a Hollywood 1.1 L’avvento del sonoro e la Grande Depressione Alla fine degli anni Venti l’avvento del sonoro provoca il progressivo decadimento del cinema muto, che fino a quel momento aveva fatto di un handicap – la mancanza di sonorità appunto – il suo punto di forza: il muto, infatti, “costringeva” i registi a forzare la semplice rappresentazione delle cose e delle persone, con il risultato di una grande varietà di emozioni e di ricerche stilistiche. Alla caduta di quei generi che del sonoro non avevano bisogno, si contrappone la nascita di generi che del suono e della musica non potevano fare a meno, tra questi il musical, che Hollywood mutua da Broadway. Il musical infatti nasce come forma di spettacolo dal vivo, quando il teatro americano viene influenzato dall’operetta e dall’opera buffa, esportate dagli emigranti europei nel periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento. L’America, dunque, facendo proprie le forme della cultura classica europea e rielaborandole, restituisce qualcosa di inedito attraverso il vaudeville, il burlesque, il minstrel, la rivista, e infine il musical comedy che si ispirano invece al folklore, alla musica popolare quindi al jazz. Tra tutti però il musical si distingue, perché a differenza della semplice 4 sequenza di canti, danze, parodie e sketch comici che accomuna queste nuove forme spettacolari, il musical propone una struttura drammaturgica e musicale più complessa e armoniosa. Hollywood porta così sui propri schermi musica, danza e canto che non costituiscono dei semplici numeri a sé, ma reagiscono con lo sviluppo narrativo e psicologico del film; ogni numero funge sia da ornamento e fuga fuori narrazione, sia da mezzo trasmissivo di significato. Inoltre il trasferimento del genere dal teatro al cinema, coinvolge anche gli stessi artisti che fanno parte del mondo teatrale (attori, autori, musicisti, compositori, coreografi, danzatori …) e diversi spettacoli che saranno opportunamente rielaborati. Le origini del genere coincidono non soltanto con l’avvento del sonoro, ma anche con il periodo storico che ricordiamo come Grande Crisi o Depressione, iniziato con la caduta di Wall Street nel ’29 e durato per tutto il decennio successivo. In questo contesto il musical cinematografico si offre come grande spettacolo, festa, rappresentazione di ricchezza e gioia e, quindi, costituisce un’occasione per sognare e soddisfa il bisogno di evasione dalle difficoltà quotidiane del pubblico. Da subito si presenta secondo una struttura che si basa su un incontro sentimentale o la messa in scena di uno spettacolo a qualunque costo. Quest’ultimo aspetto spesso include il primo. 5 Tutte le majors iniziano a dedicarsi al genere sonoro per eccellenza. Però solo due saranno le case di produzione protagoniste degli anni Trenta: la RKO1 con la coppia Astaire – Rodgers e la Warner con il regista/ coreografo Busby Berkeley. 1.1.1 “Il cantante di jazz” Il punto di partenza da cui si muove il musical non può non essere riconosciuto ne “Il cantante di jazz”, il primo film sonoro nella storia del cinema. Siamo nel 1927 e il film, diretto da Alan Crosland e prodotto dalla Warner Bros, è interpretato Figura 1Una scena de “Il cantante di jazz” in cui Al Jolson si esibisce da un vivace Al Jolson (fig. 1) che canta e parla per la prima volta, grazie all’utilizzo del congegno Vitaphone 2. Non molto amato dalla critica, ottiene 1 RKO (Radio-Keith Orpheum Pictures): tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, la RKO faceva parte del gruppo delle cinque major (comunemente noto come The Big Five) insieme a Metro-GoldwynMayer, Paramount Pictures, Warner Bros. e 20th Century Pictures (attuale 20th Century Fox). Le minimajor invece erano Columbia Pictures, Universal Pictures e United Artists, le cosiddette Little Three, che occupavano un posto di secondo piano poiché, non avendo proprie sale cinematografiche, non controllavano tutto il ciclo produttivo cinematografico costituito dalla produzione, dalla distribuzione e dall'esibizione ovvero l'esercizio di sale cinematografiche, che era monopolio esclusivo del gruppo delle cinque major. 2 Cfr. K. Bloom, Hollywood Musicals. I 100 Più grandi film musicali di tutti i tempi, Gremese, 2012 Tradotto da Vatteroni C. 6 invece un grande successo di pubblico, grazie alla novità tecnica e al talento del protagonista. Al Jolson, di origine russa, giunge in America da bambino e si forma attraverso l’esperienza nel circo, nel varietà e nella commedia musicale, diventando molto popolare grazie alla sua enfasi, la voce generosa e la forza comunicativa. Nel film interpreta Jakie Rabinowitz, assai dotato nel canto e figlio di un ebreo russo cantore nella sinagoga di New York. Il giovane però non sembra voler proseguire la carriera del padre. È attratto invece dalla musica jazz del quartiere di Harlem. Così decide di esibirsi truccato da afroamericano tra i musicisti di colore, provocando lo sdegno del padre. Jackie scappa di casa per tentare la fortuna e dopo tanti sacrifici riesce a esibirsi con successo; purtroppo proprio la sera del suo debutto in un grande teatro di Broadway, viene a sapere che il padre è gravemente malato. Decide allora di abbandonare lo spettacolo e tornare a casa per riconciliarsi col padre ormai in fin di vita. 1.1.2 “Quarantaduesima strada” e il genio di Berkeley Nel 1933 “Quarantaduesima strada”, diretto da Lloyd Bacon per la Warner Bros, presenta al pubblico la tipica trama in cui si intrecciano una storia d’amore e l’allestimento di uno spettacolo, ma con lo sfondo della Grande Crisi che influenza in modo evidente lo sviluppo della vicenda. Alle difficoltà finanziarie che ostacolano la realizzazione dello show, si aggiungono i 7 problemi emotivi dei personaggi che oscillano continuamente tra angosce e speranze nel futuro. L’unico personaggio che ostenta determinazione nel voler arrivare sino in fondo, nonostante la salute precaria, è il regista che si presenta come metafora del presidente americano in carica Roosevelt: È chiaro che Forty – Second Street non è altro che una storia di difficoltà economiche intrecciate a difficoltà psicologiche (quelle della giovane star dello spettacolo e un po’ di tutta la troupe) che si pone un po’ come un tracciato biografico dell’America negli stessi guai. Dunque, lo spettacolo è il New Deal, e le titubanze e le paure dell’esordiente Ruby Keeler sono quelle di un paese che brancola ancora nel buio alla ricerca della fiducia in se stesso (alla fine naturalmente conquistata): «Devi dare, dare, dare!» le ordina il suo Roosevelt – regista la sera della prima.3 Ecco dunque la storia. Viene a diffondersi la notizia che gli impresari Jones e Barry stiano per allestire uno show. È tempo di crisi, quindi una gran moltitudine di attori e ballerine si presenta a teatro. Dorothy Brock è imposta dal finanziatore come soubrette e la regia viene assegnata a Julian Marsh, ridotto sul lastrico dopo la caduta di Wall Street e cagionevole di salute. A poche ore dalla prima Dorothy si sloga una caviglia. Quando sembra che ormai tutto sia andato perduto, Julian convoca Peggy una ballerina di prima fila, per sostituire Dorothy. Per farle dare il meglio, il regista si sottopone con lei a prove estenuanti, che gli fanno rischiare un collasso. Quando infine Peggy entrerà in scena, interpreterà magistralmente la propria parte e lo stesso 3 F. La Polla, Introduzione al cinema di Hollywood, Mondadori Università, 2006 8 sarà per l’intero corpo di ballo. Lo spettacolo ha quindi un esito trionfale e Peggy ottiene il successo e anche l’amore, in Billy che fin dall’inizio è stato dalla sua parte. Il film si caratterizza sì per una forte carica emotiva, ma viene anche ricordato per l’eccezionale contributo coreografico di Busby Berkeley, la cui creatività si traduce in congegni coreografici delineati da insolite visuali. Berkeley abbandona le regole spaziali di rappresentazione del teatro, affidandosi all’occhio e al montaggio cinematografici. Segni distintivi del suo stile sono le lunghe panoramiche sui volti delle belle ragazze; la macchina da presa che si infila tra le gambe delle ballerine, una dopo l’altra (fig. 2); le forme geometriche e caleidoscopiche delle figure inquadrate dall’alto (fig. 3); file di ballerini che si gonfiano come onde. Figura 2 9 Figura 3 In particolare in questo caso, non si può non fare riferimento all’inventiva che si libera nelle scene finali di Quarantaduesima strada, che danno il titolo al film: il numero inizia con l’assolo di Ruby Keeler e dopo il primissimo piano dei suoi piedi, la macchina da presa indietreggia fino a svelare un enorme set popolato da centinaia di danzatori; la celebre strada è invasa da battaglioni di ballerini di tip tap. Nel finale, il corpo di ballo si dispone di spalle su una scalinata; ogni ballerino porta una sagoma di un grattacielo e, girandosi, contribuisce a dare forma allo skyline di New York dal quale emerge la neostar Peggy. La parte svolta da Berkeley ha conferito al film «quel dinamismo e quella plasticità che lo hanno reso visivamente rivoluzionario per l’epoca, tanto da essere definito, per la prima volta, dalla rivista “Photoplay” un musical vero e proprio».4 Ken Bloom ancora afferma che «Quarantaduesima strada ha fatto rinascere il 4 G. Lucci, Musical, Mondadori Electa, Milano 2006 10 musical cinematografico come forma d’arte»5; lo slancio moderno del film porta infatti un’impressione di novità dopo il dialogo artificioso e il torpore della macchina da presa che caratterizzavano i primi film sonori. I miglioramenti sul piano del suono, le ardite angolazioni della macchina da presa di Berkeley, nonché i suoi spettacolari numeri coreografici, rendono i films della Warner di quegli anni visivamente emozionanti e quindi opere di grande successo. 1.1.3 “Cappello a cilindro”: la coppia Astaire – Rogers Di Cappello a cilindro Piero Pruzzo afferma «è il musical più compiuto – una sorta di modello che consacra certi archetipi narrativi ed estetici – di tutti gli anni Trenta»6 (oltre ad essere il più redditizio del decennio per la RKO). Nel 1935 il film riunisce tutte componenti perfette che danno vita a un capolavoro del cinema musicale. A conferma di ciò le nominations all’Oscar per le sontuose scenografie di Van Nest Polglase (da ricordare soprattutto quella dell’assurdo paesaggio di Venezia), per la miglior coreografia curata da Hermes Pan, coreografo preferito di Astaire e suo collaboratore per lungo 5 Cfr. K. Bloom, Hollywood Musicals. I cento più grandi film musicali di tutti i tempi, ,Gremese, 2012 Tradotto da C. Vatteroni 6 P. Pruzzo, Musical americano in cento film, Le Mani, Genova 1998 11 tempo, e ancora per la miglior canzone originale (cioè Cheek to cheek) a opera del grande Irving Berlin e infine quella per il miglior film. La classica e divertente trama da commedia degli equivoci si presenta con naturalezza come una continua e coerente occasione di danza e di canto, sulle suggestive musiche di Berlin. Protagonista è il ballerino Jerry Travers che, arrivato a Londra, incontra il suo produttore Horace Hardwick, che gli cede la sua camera d’albergo. Jerry conosce Dale Tremont, figurinista per il disegnatore di mode Beddini, e comincia a flirtare con lei. Intanto da Venezia la moglie di Horace invia un telegramma a Dale, in cui le chiede di raggiungerla e informandola che suo marito alloggia nel suo stesso albergo. Il numero della stanza ora corrisponde a quello della stanza di Jerry e Dale, sdegnata, conclude che Jerry è il marito di Madge. Così parte per Venezia con Beddini, inseguita da Jerry, Horace e il maggiordomo. Ferita dall’insensibilità di Jerry, Dale accetta di sposare Beddini e il maggiordomo, travestito da prete, li unisce in un matrimonio ovviamente non valido. Dale e Jerry potranno chiarire l’equivoco e finalmente stare insieme. Il racconto gode dall’inizio sino alla fine di una felice curvatura umoristica. L’umorismo e l’ironia caratterizzano anche i numeri eseguiti dagli attori protagonisti, Fred Astaire e Ginger Rogers, elementi che sottolineano la loro danza “moderna” e che non contrastano con un’altra componente, il 12 Figura 4 romanticismo. loro Le esecuzioni diventano ingrediente essenziale per lo sviluppo storia, della non sono semplicemente una parte decorativa o variante festosa. In ogni film Astaire tenta di dar vita a coreografie che si integrino perfettamente con la sceneggiatura. Inoltre una sua affermazione celebre «O e la macchina da presa a danzare, oppure danzo io.» spiega il diverso lavoro della cinepresa nell’immortalare i suoi numeri, rispetto all’utilizzo della stessa da parte di Busby Berkeley di cui abbiamo parlato nel precedente paragrafo. Alle ampie panoramiche, alle inquadrature insolite, ai passaggi da un piano ad un altro, Astaire preferisce la ripresa a figura intera con un piano sequenza unico, per tentare di offrire al pubblico le stesse sensazioni della danza in teatro. Perciò al fine di ottenere tale risultato, Astaire prova e riprova per settimane i suoi balletti prima di essere pronto per girare; inoltre, nel suo scrupolo assoluto, egli preferiva studiare prima i passi e le figure su se stesso e solo successivamente li insegnava alla partner. Per 13 quanto riguarda Cappello a cilindro per esempio, tutto ciò è riassunto nella scena del ballo Cheek to cheek (figura 4), in cui Jerry dichiara il suo amore a Dale. Si ha l’immediata misura della preziosità del lavoro a monte per ottenere, come se fosse perfettamente spontanea, una morbida naturalezza impeccabile, lui perfettamente a suo agio in frac, sottintendendo uno chic di marca europea, lei, americanissima, con gonne ampie e svolazzanti in rotazione, spesso anche pesanti da indossare e di non poco ingombro per muovercisi agilmente; lui certo più abile di lei tecnicamente, ma capace di portarla in vetta accanto a sé, con tutto l’agio e la grazia divina del partner sicuro e affidabile: l’uomo, solido e allegro insieme, che ogni donna sogna. Raro che questo mito si incarni in un ballerino, ma Astaire ha compiuto il miracolo.7 Un’altra memorabile scena è quella girata sotto il padiglione all’aperto in cui Fred e Ginger Isn’t (figura this a 5), eseguono lovely dove i day due ballerini mostrano anche di essere grandi commedianti. Astaire e la Rogers avevano Figura 5 7 E. Guzzo Vaccarino, Filmare la danza, danzare il film in Il cinema che ha fatto sognare il mondo. La commedia brillante e il musical a cura di F. La Polla e F. Monteleone, Bulzoni Editore, Roma 2002 14 una sintonia speciale, qualcosa che nasce dall’ammirazione reciproca. Fuori dallo schermo non erano grandi amici, eppure davanti alla macchina da presa si attivava fra loro qualcosa di indefinibile, che li ha sicuramente portati ad essere una coppia immortale e gradita a tutti. 1.1.4 “Il mago di Oz” Nel 1938 il successo di Biancaneve e i sette nani della Disney convince La MGM che la fantasia poteva essere redditizia e che poteva attrarre un pubblico di adulti, oltre che di bambini. Così nel 1939 viene prodotto e proiettato sul grande schermo un film al confine tra fiaba e racconto morale, Il mago di Oz. Esso rientra nella categoria di musical definita fairy tale, che comprende film musicali immersi in un ambiente onirico e fiabesco. Il film è infatti tratto da un racconto di Lyman Frank Baum, negoziante, giornalista e venditore ambulante fallito, che raggiunge il successo con questa favola il cui titolo è ispirato alle lettere di un suo schedario, dalla “O” alla “Z”. La piccola Dorothy vive in una fattoria con lo zio, la zia e tre ragazzi. Un giorno il cagnolino di Dorothy, Totò, entra nel giardino della vecchia vicina Elmira e spaventa il suo gatto. Elmira, indignata, si rivolge allo sceriffo che l’autorizza a trattenere il cagnolino. Dorothy, inascoltata e incompresa, fugge con Totò; ma un vecchio indovino da lei incontrato la persuade a rientrare a 15 casa. Scoppia un ciclone: il vento spalanca una finestra e colpisce Dorothy. Tutto il suo mondo comincia a girarle intorno. La casa viga in cielo e una volta atterrata, Dorothy si trova in un paese incantevole, dov’è accolta festosamente da strane e magiche creature; infatti con l’atterraggio della casa ha ucciso una strega cattiva. Ma Dorothy vuole ritornare a casa e si reca dal grande mago di Oz per chiedere il suo aiuto. Dopo una serie di avventure fantastiche in compagnia di curiosi personaggi, si risveglia nella sua cameretta con gli zii al suo fianco. Figura 6 Dorothy si mette in viaggio per recarsi dal mago e incontra lo Spaventapasseri, il primo dei suoi tre compagni di avventura. Il messaggio del racconto di Baum che viene riportato sullo schermo è che tutti possiamo possedere, se lo vogliamo davvero, ciò che desideriamo, perché è già con noi. E nel finale, prima di risvegliarsi a casa, Dorothy dice: “Ora so che se deciderò di andare ancora in cerca della felicità non dovrò cercarla oltre i confini del mio giardino, perché se non la trovo là, non la troverò mai da nessun’altra parte.” Quindi la formula magica che le permette di ritornare da Oz a casa è “Nessun posto è bello come casa mia”. L’intreccio di fantasia e sentimenti, sogno e realtà, si inserisce in una dimensione sontuosa, impreziosita dalle belle canzoni di Arlen e Harburg che 16 s’integrano con naturalezza, allo stesso modo delle coreografie vivaci nella narrazione fiabesca. E in particolare, per ciò che riguarda la parte musicale Il mago di Oz vinse l’Oscar grazie al celebre brano Somewhere over the rainbow, cantato dalla diciassettenne attrice protagonista Judy Garland (fig. 7). La Garland con la sua freschezza, gli occhioni, gli stupori e una recitazione tesa e trepida contribuisce notevolmente alla formula vincente del film. Un altro fondamentale aspetto è la presentazione del mondo sicuro, casalingo semplice di e Dorothy attraverso un bianco e nero virato in seppia, in Figura 7 contrapposizione al regno di Oz che è un universo fantastico di spirali, curve, spazi deformati dai colori vivaci e irreali, espressione di anarchia e imprevedibilità, realizzati con l’uso del Technicolor. Il successo di questo film può essere paragonato a quello di Avatar, che con i suoi effetti in 3D ha spronato Hollywood ad accettare quel formato. Così Il mago di Oz ha 17 permesso di dimostrare i vantaggi di questa nuova tecnica e da quel momento in poi tutti i film più importanti saranno realizzati in Technicolor. Il film si caratterizza per un cast dall’interpretazione eccellente, la fantasiosa regia di Victor Fleming, una sceneggiatura brillante e una perfetta colonna sonora: un vero e proprio classico. Un successo planetario nel cinema di tutti i tempi. Figura 8 Dorothy e i suoi compagni di viaggio: lo Spaventapasseri (Ray Bolger), l’Uomo di latta (Jack Haley) e il Leone codardo (Bert Lahr). 1.2 Gli anni Quaranta È questo il decennio che coincide con la guerra e con l’entrata in essa, di lì a poco, degli Stati Uniti. Molti attori e attrici viaggiano in tournée nelle zone di battaglia per tenere alto il morale dei soldati, e non pochi attori si arruolano. Alla fine della guerra Hollywood si ritrova ad affrontare un aumento dei costi e 18 scioperi. L’esportazione dei film subisce un duro colpo a causa dell’aumento della tassazione sui film stranieri in Europa. La disoccupazione così colpisce anche il grande cinema, il cui disagio si accresce a causa della situazione politica e della cosiddetta «caccia alle streghe»8 organizzata dal senatore Joseph MacCarthy e Hollywood si ritrova sul banco degli imputati con le famose liste nere del Comitato per le attività anti-americane. C’è chi, temendo il peggio per se stesso, arriva a denunciare colleghi e amici per attività sovversive e supposte simpatie comuniste; inoltre l’associazione dei produttori dà vita ad in sistema di regole severe, che escludono ingiustamente non poche persone dal lavoro, ma riescono ad arginare il fiume di ostruzioni preparate da MacCarthy. Se nel decennio precedente il musical è stato elegante e sfarzoso, negli anni Quaranta diventa più quotidiano, casalingo. Non v’è dubbio che negli anni Quaranta la maggior parte della produzione musicale americana abbia fortemente insistito sul tema (magari secondario rispetto a quelli trattati nel film, ma sempre presente) della casa, della famiglia, del belonging. Da quel fatidico «There’s no place like home!», che chiude The Wizard of Oz (Il mago di Oz, 1939) di Victor Fleming, 8 «Caccia alle streghe» o «Maccartismo»è il periodo della storia degli Stati Uniti, caratterizzato dall’intenso sospetto anticomunista, rivolto soprattutto alle Istituzioni statunitensi e durato dai tardi anni Quaranta fino alla metà degli anni Cinquanta. Le paure di influenze comuniste furono favorite anche dalla scoperta di clamorosi casi di spionaggio a favore dell'Unione Sovietica, dall'aumento della tensione causato dal consolidarsi dell'egemonia sovietica sull'Europa orientale e dal successo della rivoluzione cinese (1949) e dalla Guerra di Corea (1950-1953). Un elemento principale del maccartismo furono i controlli di sicurezza interni sugli impiegati del governo federale, condotti dall'FBI di J. Edgar Hoover. Questo dettagliato programma investigava tutti gli impiegati su eventuali connessioni comuniste, impiegando testimonianze fornite da fonti anonime che i soggetti all'investigazione non erano in grado di identificare o con cui non potevano confrontarsi. Dal 1951, il programma richiese un certo grado di dimostrazione per licenziare un impiegato statale. Doveva esistere un "ragionevole dubbio" sulla sua lealtà; in precedenza era richiesto un "ragionevole motivo" per ritenerli sleali. 19 in avanti il musical americano ha celebrato spesso e volentieri il senso dell’intimità, della famiglia e , più largamente, dell’appartenenza a una specifica, ristretta comunità.9 Nasce ora una nuova classificazione che va sotto il nome di «Americana», cioè un racconto le cui linee portanti poggiano su una nostalgica visione della vecchia America, con in primo piano abitudini, costumi, valori di un’epoca che fu, i quali, anche se superati dal tempo passato, vengono percepiti come fondamenti del modo di essere americano, prescindendo da qualunque cambiamento apportato dal progresso. Il testimone passa quindi alla MGM, la casa di produzione più attenta ai valori middle - class della società statunitense, interprete dei buoni sentimenti nazionali e lettrice dell’American way of life quotidiana. 1.2.1 “Incontriamoci a St. Louis” In una Saint Louis di inizio secolo, Mister Smith comunica alla famiglia che ha avuto una promozione sul lavoro e dovranno trasferirsi tutti, a fine anno, a New York. È questo l’inizio di un nostalgico sguardo dei protagonisti verso i bei momenti trascorsi n quel luogo e verso gli oggetti abituali, che assumono così un particolare valore sentimentale. La malinconia prevale nell’animo delle tre sorelle Smith: Esther è innamorata del ragazzo della porta accanto, Rose ha 9 F. La Polla, Strictly USA. Il musical americano e l’ideologia nazionale in Il cinema che ha fatto sognare il mondo. La commedia brillante e il musical a cura di F. La Polla e F. Monteleone, Bulzoni Editore, Roma 2002 20 anche lei un fidanzato e la piccola non Tootie vuole lasciare i suoi tanti arrivando amici, a Figura 9 Le sorelle Smith, Rose (Lucille Bremer) e Esther (Judy Garland) piangere disperatamente la notte di Natale, gli ultimi giorni di festa che trascorrerà a Saint Louis. Nelle quattro stagioni successive, Mr. Smith, che dapprima cerca di intensificare la sua opera di persuasione, giunge alla conclusione che è meglio rimanere nella loro amata città, annullando il trasferimento. È un musical questo (prodotto MGM) in cui il regista, Vincente Minnelli, esplora il rapporto intimistico tra i sogni e la realtà quotidiana, tra personaggi e ambiente. Ogni stagione dell’anno che la famiglia passa con il problema del trasferimento vive di riti, richiami e colori diversi: di sentimenti, svelati dai lenti movimenti di macchina che si soffermano sugli oggetti e sulle persone. Il fluire della tessitura cromatica e il movimento della macchina prendono spesso il posto della danza, esaltando la figura minuta di Judy Garland in un tripudio di stoffe, tinte decorazioni. Al di là della sua colorita 21 facciata, è un musical questo molto “difficile”: di atmosfere e stati d’animo, piuttosto che di azione. Tanto è vero che più di un paese non si sente di importarlo, Figura 10 Italia compresa. Eppure non mancano i motivi orecchiabili, le occasioni spettacolari e commoventi, come il brano “Trolley song” che dà inizio a una amabile narrazione visiva oppure “Have yourself a Merry little Christmas”, colonna sonora della commovente scena in cui la notte di Natale Tootie piange disperatamente (fig. 10). «Un film che, con la scusa di rievocare il mondo del principio di secolo, celebra le gioie semplici del passato e il dolce inganno delle apparenze.»10 1.2.2 “Il pirata” Un’altra produzione MGM, un altro grande successo di Minnelli, «il trionfo del sogno che si libera e vince le costrizioni del mondo reale».11 10 P. Pruzzo, Musical americano in cento film, Le Mani, Genova 1998 22 In una scenografia barocca e fiammeggiante, l’attore–acrobata girovago si finge un terribile pirata per farsi amare dalla ragazza, che della leggenda del pirata si è invaghita fino al punto da non distinguere più ciò che desidera da ciò che immagina (mentre l’attore, a forza di recitare, non sa più se vive sulla scena o recita nella vita). L’attore-acrobata Serafin è interpretato da Gene Kelly, grande interprete e ballerino diventato uno dei simboli del grande musical hollywoodiano. La figura di Kelly sarà sempre contrapposta a quella di Fred Astaire, con il quale l’unico aspetto in comune Figura 11 Manuela (Judy Garland) e Serafin (Gene Kelly) recitano fino a smascherare Don Pedro, il vero Macoco. è il perfezionismo che li spinge a provare continuamente, prima di giungere al risultato desiderato. Gene Kelly rappresenta l’atletico e virile prototipo del maschio americano; a differenza di Astaire , non ha partner fisse: è un solista che costringe le telecamere a inseguirlo nelle sue esuberanti performance, come se danzasse insieme a lui. 11 Ivi, p. 19 23 Judy Garland è Manuela, che vive in un’isola dei Caraibi con lo zio. La sua aspirazione a una vita diversa ruota intorno all’immagine che ha dell’audace pirata Macoco. Tuttavia, a malincuore, accetta di sposare il ricco Don Pedro (Walter Slezak) padrone dell’isola, risolvendo così i problemi finanziari dello zio. Il caso però vuole che nel mercato di Puerto Sebastian conosca Serafin, un ballerino acrobata, alle prese con uno spettacolo insieme alla sua compagnia. Quando scopre l’interesse di Manuela per Macoco, Serafin, per ottenere il suo amore, le confessa di essere il pirata rischiando di essere impiccato. Ma alla fine verrà svelata la verità: è Don Pedro il vero Macoco. Per Manuela è la fine di un sogno, ma diventa cosciente dell’amore che prova verso Serafin. Vita reale e sogno si fondono. Il sogno non è più semplice pretesto per un numero, ma è il film stesso a diventare Figura 12 Judy Garland e Gene Kelly interpretano Be a clown nella scena finale. sogno, a narrare, soprattutto con la danza, la storia d’amore. Danno sostegno all’idea minnelliana, le coreografie di Robert Alton e dello stesso Gene Kelly, che dà un’anima anche alle sequenze più virtuosistiche e atletiche e le musiche di Cole Porter. A tal proposito “Be a clown”, destinata a diventare un classico, 24 è il brano con cui i due protagonisti chiudono il film, portando alle estreme conseguenze il trionfo dell’inganno, il motivo portante dell’intero film: tutto è finzione, e solo chi finge è vero, solo chi recita è vivo. 12 Figura 13 Vincente Minnelli con l’attrice Judy Garland, sua moglie. 1.2.3 “Un giorno a New York” Gabey (Gene Kelly), Chip (Frank Sinatra) e Ozzie (Jules Munshin) sono tre marinai, in licenza per ventiquattr’ore e per la prima volta a New York. Le cose da vedere sono tante, ma Figura 14 Jules Munshin, Frank Sinatra e Gene Kelly nella scena iniziale del film. subito uno di loro si invaghisce di “Miss Metropolitana”, una ragazzina che studia danza classica e, per pagarsi gli studi, lavora la sera a Coney Island. I tre l’hanno appena intravista, e per inseguirla chiedono aiuto ad altre due giovani 12 Cfr. Prima la musica, poi le parole di E. Comuzio in F. La Polla e F. Monteleone Il cinema che ha fatto sognare il mondo. La commedia brillante e il musical, Bulzoni Editore, Roma 2002 25 donne, una conducente di taxi e un’antropologa incontrata al museo davanti a uno scheletro di dinosauro fatto crollare. Inseguiti dalla polizia, riescono a farla franca e dopo una salita all’Empire State Building e una visita a qualche cabaret fino a mezzanotte, ritrovano la ragazza. Il tempo però corre, all’alba i tre devono risalire a bordo. Vi arriveranno appena in tempo, accompagnati dalle tre compagne di avventura. È questa la storia di Un giorno a New York, un altro prodotto MGM diretto da Stanley Donen e Gene Kelly che, alla fine degli anni Quaranta, operano un rinnovamento del genere. Il film è uno scoppio di energia e di novità liberatorie. Una più sciolta articolazione del linguaggio, l’ innesto “naturale” delle esibizioni, l’intreccio inevitabile fra spettacolo e vita reale sono gli elementi caratterizzanti di Un giorno a New York. Ricordando la lezione di certi film di Astaire, in cui una danza nasce spontaneamente dal corso stesso della vicenda, il film non si serve di scuse professionali per far ballare o cantare i protagonisti che sono marinai, non gente di spettacolo: se ballano e cantano è perché la vita offre loro, in quelle poche ore, l’occasione di farlo. Inoltre, con Un giorno a New York, il musical esce dagli studios hollywoodiani nel numero iniziale e finale per vivere la vera New York degli anni Cinquanta. Una favola quindi, incorniciata dal profilo della città e dal porto immerso nella prima luce del mattino, che donano un tocco di grande realismo. 26 2. Il periodo d’oro 2.1 Gli anni Cinquanta Continua la «caccia alle streghe» del senatore McCarthy, il cinema è ancora oppresso dal setaccio anticomunista con le famigerate «liste nere» dei cineasti sospettati di essere compromessi con la sinistra. Uomini di grande rigore morale vengono allontanati e la comunità reagisce con un’attività di prestanomi, che firmavano il lavoro di colleghi ingiustamente licenziati, per poter permettere loro di guadagnarsi da vivere. Un esempio è la vincita nel 1956 dell’’Oscar di Dalton Trumbo per il soggetto di The brave one, che aveva firmato come Robert Rich, non potendo così ritirare il premio. Solo nel 1958 viene abolita la proscrizione dei colpevoli e dei sospetti di filocomunismo, e Hollywood può premiare i cineasti allontanati pronunciando il loro vero nome. Negli anni Quaranta nasce la televisione, ma è in questo decennio che il cinema adotta nuove mosse per rispondere all’affermarsi del nuovo mezzo, considerato un pericoloso concorrente. Gli uffici e i laboratori delle case si mettono quindi al lavoro, per realizzare nuovi procedimenti per la fabbricazione di pellicole, 27 ma soprattutto nuovi formati come il Cinemascope13, tecniche di visione come il 3D e altre invenzioni ancora … Gli anni Cinquanta, soprattutto nella prima metà, vedono la realizzazione di veri capolavori del musical e il trionfo totale nel genere da parte della MGM. Ciò grazie anche alla Freed Unit, il gruppo organizzato da Arthur Freed, che impiegò puntualmente gli stessi tecnici per la realizzazione di film quali Spettacolo di varietà, Un americano a Parigi, Gigi, tutti di Vincente Minnelli. Ma il successo della MGM è accompagnato dal nome di un altro grande regista Stanley Donen, che dirige insieme a Gene Kelly Cantando sotto la pioggia. «Nessuno in quegli anni poteva battere la MGM quanto a musical. La fotografia, il colore, l’arrangiamento orchestrale, il ritmo garbato e insieme sostenutissimo, e gli straordinari interpreti, tutto concorreva a fare della Casa la regina del genere».14 13 CinemaScope: un sistema di ripresa cinematografica, basato su lenti anamorfiche, utilizzato dal 1953 al 1967. Sebbene tale sistema abbia dato inizio ai moderni formati cinematografici, il CinemaScope è stato rapidamente reso obsoleto dalle evoluzioni tecniche. Il CinemaScope consiste nel deformare, in ripresa, le immagini e poi disanamorfizzarle in proiezione al fine di ottenere fotogrammi a largo campo visivo, con un conseguente gradevole effetto. Tale sistema fu brevettato negli anni cinquanta dalla 20th Century Fox ed utilizzato per la prima volta nel film La Tunica (1953). Il motivo del successo di tale procedimento è che non andava ad intaccare in modo significativo sia le macchine da presa che i proiettori esistenti nelle sale se non per il cambio delle lenti e di qualche piccola modifica, in tal modo ci fu l'approvazione dei circuiti di distribuzione che non vedevano di buon occhio spese esagerate per la modernizzazione delle sale. 14 F. La Polla, Introduzione al cinema di Hollywood, Mondadori Università, 2006 28 Fino a questo momento il musical è stato niente di più che piacevole e sorprendete intrattenimento. L’autorialità che in questi anni era già rintracciabile in altri generi, come il western, si fa strada anche nel musical. Il genere diventa occasione per dare vita a un mondo autoriale coerente, identificabile facilmente nell’attività di un unico autore. Il musical quindi non descrive più soltanto qualcosa che provoca meraviglia, ma che innesca una riflessione sulla realtà, sullo spettacolo. Ora più che mai i numeri musicali e la storia si integrano perfettamente, sono un’unica cosa. In ciò si distingue soprattutto Minnelli, che incentra la propria poetica su un’idea di sogno antitetico alla realtà. I protagonisti delle storie si abbandonano al sogno, fin quando non vengono risvegliati alla vita reale. Invece Stanley Donen, più che narrare una propria visione del mondo, diventa autore riconoscibile per la creazione di uno stile personalissimo, incentrato sul rapporto fra movimento e psicologia. Esemplificando, nei numeri musicali il movimento aumenta in modo proporzionale all’aumentare dell’eccitazione dei personaggi. Sono loro i registi protagonisti dell’«era d’oro» del musical, che può dirsi conclusa nel 1961 con West side story di Robert Wise di cui parleremo più avanti. 2.2 Minnelli: da “Un americano a Parigi” all’Oscar di “Gigi” Vincente Minnelli è stato uno dei cardini dell’industria cinematografica MGM. 29 Grande regista, ma innanzitutto grande direttore artistico, dopo i suoi primi successi a Broadway come costumista e scenografo, ha la possibilità di dirigere un suo personale spettacolo e diverse riviste. È Arthur Freed che lo introdurrà nella compagnia MGM, raggiungendone il vertice grazie al suo perfezionismo, al suo gusto impeccabile e sempre in equilibrio tra la personale creatività e l’adeguamento alle logiche degli studios. Dopo i grandi successi, tra cui Incontriamoci a St. Louis e Il pirata dei quali abbiamo già parlato, Minnelli si conferma tra gli artefici della definizione del genere, dirigendo Gene Kelly in Un americano a Parigi del 1951 e Fred Astaire in Spettacolo di Varietà del 1953. In Un americano a Parigi Kelly interpreta Jerry Mulligan, un ex soldato americano, che alla fine della guerra decide di rimanere a Parigi per studiare pittura. Il suo amico Adam, un pianista, gli presenta Henri, uno chansonnieur che dice di voler sposare Lisa, ragazza orfana che lui ha salvato e ospitato durante la guerra. Intanto una ricca americana è attratta da Jerry e finge di interessarsi ai suoi quadri; ma Jerry è affascinato da una ragazza francese che ha conosciuto in un locale e che ricambia il sentimento, ma quando lui le chiede di sposarlo, le lo rifiuta. La ragazza è infatti Lisa, che pur non amando Henri, sente un debito di riconoscenza nei suoi confronti. Jerry cerca di dimenticarla, ma a un ballo i due si incontrano di nuovo e si confessano il 30 reciproco amore. Decidono però di dirsi addio. Henri, nascosto, ha assistito alla conversazione e non vuole che Lisa si sacrifichi per lui, così le permette di ritornare Figura 15 Jerry (Gene kelly) e Lisa (Leslie Caron) danzano sulle rive della Senna Love is Here to stay da Jerry. Per questo film Gene Kelly riceve un Oscar speciale per la sua “versatilità” di attore, regista, ballerino e, soprattutto, per le brillanti innovazioni coreografiche. Memorabile il lungo e sontuoso balletto finale, su musica di George Gershwin, della durata di ben 17 minuti, che costa alla MGM 723.000 dollari. Il balletto è una celebrazione coreografica dello stile di artisti come Toulouse-Lautrec, Van Gogh, Renoir, Rousseau. Ma, come scrive Piero Pruzzo, è anche una sorta di ripetizione e trasfigurazione della vicenda del film stesso, con il protagonista che è un artista innamorato di Parigi e di chi l’ha dipinta, e innamorato d’una 31 ragazza che di continuo incontra e di continuo gli sfugge, mentre, intorno, la città si fa lieta e coloratissima, oppure livida e fredda a seconda appunto ch’egli abbia o no la ragazza vicina.15 Altre sono le sequenze musicali che permettono a Kelly di ben esprimersi con al sua danza. Ricordiamo quindi il passo a due Love is here to stay (fig. 15) con Leslie Caron (interprete di Lisa) sulla Senna, dove evidente è il sentimento di malinconia per un amore pieno di ostacoli. Infine anche I got rhythm,che Kelly canta e mima con un gruppo di bambini sul marciapiede, in cui emerge il bisogno di comunicare uno stato d’animo fiducioso nella vita. Spettacolo di varietà è la pellicola che, più di ogni altro musical, celebra in modo appassionato il mondo dello spettacolo e il “dietro le quinte”. Protagonista della storia è il ballerino Tony Hunter (Fred Astaire) che, dopo i successi ottenuti a Hollywood, è ormai dimenticato da tutti. I suoi amici Lester (Oscar Levant) e Lily (Nanette Fabray), autori di riviste musicali, lo invitano a New York, perché lo vorrebbero Figura 16 Dancing in the Dark ballato da Cyd Charisse e Fred Astaire in Central Park nel cast di uno spettacolo che hanno appena scritto. Coprotagonista sarà l’affascinante ballerina classica Gabrielle Gerard (Cyd Charisse), ma sin da subito il rapporto tra i due prende 15 P. Pruzzo, Musical americano in cento film, Le Mani, Genova 1998 32 una piega sbagliata. Nonostante le tante difficoltà nell’allestimento dello spettacolo, alla fine Hunter raggiungerà nuovamente la fama, non solo come ballerino ma anche come regista, conquistando il cuore di Gabrielle. C’è tutto: la danza che nasce come una magia dallo svelarsi dei sentimenti, un duetto in frac e cilindro, un numero di virtuosismo di Astaire, la canzone autoreferenziale (That’s entertainment!), che celebra l’essenza dello show e chiarisce il significato minnelliano del film: la vita e lo spettacolo si scambiano continuamente i ruoli sul palcoscenico del mondo. L’intreccio può ricordare moltissimi musical «backstage» anni Trenta ambientati appunto tra persone che allestiscono una rivista, ma tutto diventa nuovo e originale grazie alla fantasia e al ritmo dei fotogrammi. Decisiva è la regia del perfezionista Minnelli. Gigi è un film del 1958, tratto dall’omonimo romanzo di Colette e ambientato nella Parigi della «Belle époque»; in un periodo in cui il musical sembra allontanarsi dalla dimensione del sogno, ripropone tutti gli elementi della favola romantica. Gigi (Leslie Caron) è una fanciulla di provincia arrivata a Parigi alla fine dell’Ottocento, e allevata dalla nonna materna, la signora Alvarez (Hermione Gingold), e dalla zia, già famose cocottes. Queste vogliono che la ragazza segua le loro orme e, allo scopo, hanno già scelto quello che potrebbe essere il suo protettore, Gaston (Louis Jourdan), ricchissimo giovane che si reca spesso a far loro visita, colpito dalla grazia e dall’allegria di Gigi. 33 Lo zio di Gaston, Honoré (Maurice Chevalier), era stato a suo tempo amante della signora Alvarez. Ora suo nipote sta innamorandosi di Gigi, che ricambia. L’offerta delle parenti di Gigi provoca lo sdegno di Gaston, che si allontana. Ma i suoi sentimenti verso Gigi sono sinceri, perciò ritorna per dichiararsi. Però adesso è Gigi che si mostra indignata. Alla fine Gaston ripara all’equivoco e sposa Gigi, preferendo che la giovane sia sua moglie anziché sua amante. La fine degli anni Cinquanta vede il rinnovamento dei generi tradizionali. Per il musical la stagione dei sentimenti cede il passo a curiosità e nuove soluzioni. Il sogno, che è la colonna portante del cinema di Minnelli, sta per svanire: a dominare sono la commedia e il dramma dichiarati. Tuttavia con Gigi Minnelli riesce ancora una volta a mantenere in vita il sogno, facendo rivivere un’epoca lontana, una «fine secolo» piena pittoriche di suggestioni e dettagli rivelatori: negli ambienti, Figura 17 Gigi (Leslie Caron) e Gaston (Louis Jourdan). negli arredi, negli abiti … Nonostante nel film si balli con molta moderazione, si percepisce l’aria del musical, la felicità del movimento. Gigi si aggiudica nove Oscar: regia, sceneggiatura, scenografia, arredamento, costumi, montaggio, canzone, colonna 34 sonora e fotografia. È il primo musical a riceverne così tanti (ne avrà uno in più, tre anni dopo, West side story). Inoltre Gigi è uno dei pochi musical che darà origine a un lavoro teatrale, anziché arrivare sullo schermo dal palcoscenico. 2.3 … e Stanley Donen Coreografo, attore, cantante, ballerino, sceneggiatore e produttore, Stanley Donen arriva a Hollywood a soli diciassette anni grazie ad Arthur Freed, iniziando come assistente coreografo. Donen ha il merito di aver contribuito all’evoluzione del musical, facendo sì che la coreografia divenisse parte integrante della narrazione. Gli ambienti non sono delle semplici aggiunte estetiche, come fossero palcoscenici su cui si muove l’attore, ma sono spazi, interni ed esterni, i cui elementi favoriscono la danza. Con Donen la macchina da presa nelle strade raggiunge un entusiasmo, una motivazione e un realismo mai visti prima. Grande è stata la collaborazione con Gene Kelly, iniziata con Un giorno a New York (di cui abbiamo parlato), che li a spinti a esplorare le possibilità del cinema, cambiando il modo in cui la danza era rappresentata sullo schermo fino a quel momento. Frutto di questo sodalizio quei capolavori del musical 35 cinematografico che sono Cantando sotto la pioggia (1952) ed È sempre bel tempo (1955). Cantando sotto la pioggia è ambientato nella Hollywood del 1927. Alla prima di un suo nuovo film, il divo Don Lockwood (Gene Kelly), insieme con la sua insopportabile partner Lina Lamont (Jean Hagen), racconta la sua scesa alla celebrità, inventandosi tutto. Quella stessa sera conosce un’aspirante attrice, Kathy Selden (Debbie Reynolds), che mentre sogna il teatro accetta di fare la ballerina nelle feste dei divi, pur disprezzando il cinema. Dopo uno scontro iniziale, tra i due nasce del tenero. Intanto, partendo da Il cantante di jazz, Hollywood si getta sul sonoro. Anche il film che Don e Lina stanno girando dovrà avere voci e suoni, ma l’operazione si rivela difficile perché Lina ha una voce orrenda. Lo scrittore e musicista Cosmo Brown (Donald O’Connor), amico di Don, escogita il sistema per salvare il film: Kathy parlerà e canterà per Lina. Ma Lina ricatta il produttore: guai se verrà rivelato che lei è stata doppiata. Alla prima del film però Don e Cosmo sveleranno il trucco. Lina crolla e Don e Kathy lavoreranno insieme. Prendendo a pretesto l’epoca del passaggio dal muto al sonoro, il musical, qui, rievoca ironicamente i propri balbettii, ma contemporaneamente esibisce l’attuale maturità di 36 linguaggio. Utilizza, insomma, la propria protostoria all’interno di uno spettacolo diverso e più complesso, con il quale racconta in sostanza se stesso. 16 Dietro c’è Arthur Freed. È sua l’idea di ricostruire la Hollywood scossa dal suono; un periodo che lui ha vissuto direttamente. E molti numeri presenti nel film sono stati scritti proprio da Freed insieme con Nacio Herb Brown diversi anni prima. Abili perciò gli sceneggiatori, Betty Comden e Adolph Green, che riescono a scrivere una storia convincente adattandola a numeri totalmente indipendenti. Tra questi la canzone memorabile Singing in the rain, simbolo dell’intero musical, che ispira a Gene Kelly il più riuscito e trascinante balletto della sua carriera: l’artista che, accompagnata ragazza, si offre la alla pioggia nel pieno della felicità, perché ha trovato l’amore e il modo di salvare la sua carriera. La macchina da presa lo Figura 18 accompagna mentre cammina cantando, lo riprende dall’alto mentre pesta le pozzanghere sulla strada e poi si avvicina nuovamente per cogliere la felicità del suo volto (fig. 18). 16 P. Pruzzo, Musical americano in cento film, Le Mani, Genova 1998 37 Un successo durato cinquant’anni grazie ad una regia briosa, alla vitalità di Kelly, allo spirito ironico della sceneggiatura e gli efficaci momenti musicali. È sempre bel tempo è il terzo, e meno citato, dei tre film che vedono la regia a quattro mani di Donen e Kelly e la collaborazione con Arthur Freed e il duo Comden-Green. Non possiede la vitalità e l’inventiva dei due lavori precedenti, tuttavia ha anch’esso una propria vena originale, che non va sul festoso, ma svela un timbro principalmente crepuscolare e riflessivo. Protagonisti sono tre commilitoni che si ritrovano, dieci anni dopo la guerra, in un bar dove erano soliti andare da giovani. Nessuno dei tre è riuscito in ciò che voleva: Ted Riley (Gene Kelly), aspirante avvocato, si ritrova a lavorare nel campo pugilistico; Doug Hallerton (Dan Dailey) è direttore televisivo, ma sta divorziando da sua moglie; Angie Valentine (Michael Kidd), proprietario di un ristorante, è sempre sopraffatto da problemi familiari, legati alla gelosia della moglie. Ma l’incontro dei tre raggiunge un cambiamento con l’entrata in scena di Jackie (Cyd Charisse), organizzatrice Figura 19 Micheal Kidd, Gene Kelly e Dan Dailey. una di programmi 38 televisivi, amica di Doug, intenzionata a fare un servizio sulla loro storia. La giornata è quindi un susseguirsi di fatti casuali, tra i quali l’arresto in diretta di una banda di gangster intenzionati a scagliarsi contro Ted. Questi alla fine ritrova se stesso e scopre l’amore in Jackie, allo stesso modo Doug e Angie sembrano aver ritrovato la speranza. I protagonisti sono costretti a fare i conti con le prime delusioni della vita. Pur dietro il vigore e la creatività dei numeri di ballo e delle canzoni, e anche la satira dei programmi televisivi, dominano il senso della precarietà esistenziale e «la consapevolezza della trappola sentimentale dei ricordi».17 Sette spose per sette fratelli è un musical che Donen dirige nel 1954, prima di tornare a condividere il posto di regista per la terza e ultima volta con Kelly in È sempre bel tempo. È un film che risente di qualche influenza western e che si affida a numeri corali di grande effetto, entrando a far parte del sottogenere del folk-musical. È la storia dei sette fratelli Pontipee che vivono tra le montagne dell’Oregon, in un ambiente quasi primitivo. Milly, interpretata da Jane Powell, è andata in sposa senza troppo rifletterci a uno di loro, Adam (Howard Keel). Decide quindi di insegnare agli altri sei giovani fratelli le buone maniere e i trucchi del corteggiamento. I ragazzi sono così pronti a partecipare alla festa del paese, ma durante i festeggiamenti scoppia una lite fra i giovani montanari e 17 P. Pruzzo, Musical americano in cento film, Le Mani, Genova 1998 39 i cittadini, questi ultimi infastiditi dall’attenzione delle fanciulle rivolta ai nuovi arrivati. Adam, contrario alle buone maniere, dopo aver letto la storia del ratto delle Sabine in un libro consigliato da Milly, decide di organizzare il rapimento di sei belle ragazze. Così avviene, pur con la disapprovazione di Milly che si prende cura delle ragazze, costrette a rimanere sui monti anche a causa di una valanga. Trascorso l’inverno tra i giovani e le fanciulle nasce l’amore, mentre Adam e Milly sembrano allontanarsi. Ma alla fine quando le famiglie raggiungeranno l’Oregon per punire i rapitori, tutto si concluderà con sei matrimoni e la riappacificazione di Milly e Adam. Innanzitutto è evidente come il finale, in cui le donne scelgono di rimanere con i montanari, preferendo la loro rozza autenticità allo stile di vita borghese, dimostra ancora una volta la tendenza del musical in genere a esaltare la schiettezza dello spirito americano: Che il film assegni la palma ai primi (i montanari), la dice lunga sul modello nel quale l’America ama e ha sempre amato identificarsi ispirandosi alle sue origini storiche e pioneristiche: affermazione e apologia di una rozzezza che, lungi dall’essere soltanto inciviltà e maleducazione, si presenta come fondamentale ed inalienabile tratto fondante il carattere americano.18 Questo «ratto delle Sabine» in versione western segue la stessa direzione di Un giorno a New York, puntando sulla coralità piuttosto che sul singolo, e su un 18 F. La Polla, Strictly USA. Il musical americano e l’ideologia nazionale in Il cinema che ha fatto sognare il mondo. La commedia brillante e il musical a cura di F. La Polla e F. Monteleone, Bulzoni Editore, Roma 2002 40 tipo di danza basata sulla prestanza fisica e il ritmo vigoroso anziché l’eleganza. A tal proposito le sequenze di ballo emozionanti e innovative sono del bravissimo Micheal Kidd. I ragazzotti del film sono interpretati da veri ballerini, danzatori provenienti dal balletto, ma sono anche dei veri uomini e lo dimostrano con la loro danza energica e possente; la loro convinzione e l’atteggiamento trascinano il pubblico. Inoltre, fatta eccezione per un paio di riprese, il film è girato interamente in studio. Ciò però non lo rende artefatto, ma lo trasforma quasi in una fiaba. L’artificio è parte della sua bellezza. Per finire, l’ambientazione western e anche le coreografie traggono poi vantaggio da un Figura 20 Milly (Jane Powell) istruisce i sei giovani fratelli. appropriato uso del cinemascope, aggiungendo una suggestione visiva che contribuisce non poco ad attrarre lo spettatore. Nel 1957, a quasi sessant’anni, Fred Astaire è protagonista insieme a Audrey Hepburn di Cenerentola a Parigi, dove l’attrice interpreta Jo Stockton, bibliotecaria attratta dalla cultura, notata per la sua bellezza e per l’eleganza nei movimenti da un famoso fotografo, Dick Avery (Astaire), alla scoperta di nuovi volti da segnalare alla direttrice del giornale dove lavora (Kay 41 Thompson). Dick riesce a convincere la ragazza ad andare con lui a Parigi e la inserisce nell’alta moda parigina. Inevitabile l’amore tra i due, che si concretizza solo quando Jo – convinta di essere innamorata di un professorefilosofo – ne prende coscienza. Prima del film esisteva già una Cenerentola a Parigi: è la commedia musicale di Ira e George Gershwin, scritta nel 1927. Tuttavia il film di cui stiamo parlando non ne è la trascrizione cinematografica. C’è il titolo, ci sono molte canzoni, c’è anche lo stesso interprete – cioè Astaire, che trent’anni prima ha portato al successo lo spettacolo a Broadway e a Londra con la sorella Adele – ma la storia viene da un racconto di Leonard Gersce. Questo film prodotto Paramount; viene dalla infatti Astaire e la Hepburn, gli artisti che il regista, Donen, desidera dirigere, sono sotto contratto con la casa di produzione. Figura 21 Bonjour Paris! Numero di apertura del film con Kay Thompson, Fred Astaire e Audrey Hepburn. Questa rileva i diritti musicali appartenenti alla Warner e realizza il film con una filigrana e un tocco 42 che non sono quelli della MGM. Tuttavia grazie alla regia di Donen e alla fotografia di Ray June, il risultato è quello di un’opera sofisticata che si adatta perfettamente alla materia. Un musical raffinato dove la Hepburn, grazie alla maestria di Astaire, si trasforma in un’interprete adorabile anche nelle sequenze di danza. Il numero più geniale e prezioso di tutto il film però è ovviamente quello di Astaire in Let’s kiss and make up, un a solo in cui riesce a infondere vita agli oggetti utilizzati: un cappello, un ombrello e un impermeabile. Figura 22 Stanley Donen sul set con gene Kelly 2.4 Spartiacque: “West side story” West side story è un musical del 1961 diretto da Robert Wise insieme con il coreografo Jerome Robbins, ideatore dell’omonimo spettacolo teatrale che viene appunto riproposto sullo schermo. Un altro nome che spicca non soltanto 43 nella locandina del film ma anche in quella dello spettacolo è quello dell’ideatore delle musiche, Leonard Bernstein. West side story è da considerare uno “spartiacque” tra il musical classico e quello moderno: è infatti il film che abbandona il mondo “leggero” e onirico del musical, per fare posto a tematiche sociali. In questo caso,ci riferiamo al tema della delinquenza minorile metropolitana a sfondo etnico. La storia è una sorta di Romeo e Giulietta rivisitato in moderna: protagonisti sono Tony Beymer) (Natalie chiave (Richard e Wood), Maria due giovani appartenenti a due bande rivali, i Jets e gli Sharks (questi ultimi portoricani), Figura 23 La scena in cui Tony (Richard Beymer) raggiunge la stanza di Maria (Natalie Wood) dalla scala antincendio e le dichiara il suo amore. che vengono a simboleggiare gli scontri sociali e razziali dell’America negli anni Sessanta. L’astio fra i due gruppi porterà ad una conclusione che vede la tragica morte di Tony, e con questa, la fine dell’odio reciproco. Siamo dunque di fronte ad una storia d’amore, ma anche di morte, con uno sfondo che è quello della violenza e dell’emarginazione giovanile; qualcosa di inusuale fino ad ora per l’ambito del musical. 44 Non si può tralasciare però il grande lavoro del coreografo, Robbins, che affida la vicenda ad una danza vigorosa che ricorre spesso ed anch’essa dallo stile moderno, che contrasta con le musiche drammatiche di Bernstein. Inoltre, un particolare che evidenzia da subito la modernità di West side story sono i titoli di testa, realizzati dal grafico Saul Bass, cui colori accesi sembrano presagire il dramma che avverrà: mentre sullo schermo si alternano colori esplosivi, appare una serie di linee che a poco a poco si trasformano nello skyline di Manhattan. Poi il profilo di New York passa dall’essere un semplice segno grafico ad un’inquadratura reale; i titoli di testa quindi sfilano sulla città ripresa dall’alto. West side story è uno dei più grandi successi cinematografici mondiali: premiato con dieci Oscar (soltanto Ben Hur ne otterrà undici) e con oltre quarant’anni di continuo consenso di pubblico e critica. 45 3. Nuovi protagonisti: il “tardo” musical e gli anni 2000 3.1 Dopo West side story Negli anni Sessanta il musical classico è ormai agonizzante. Dopo West side story ritroviamo Robert Wise alla regia di Tutti insieme appassionatamente (1965), tra i film con gli incassi maggiori ma da subito poco amato dalla critica, con la storia di una giovane novizia che, viene mandata da governante nella casa del capitano von Tripp, di cui si innamorerà. Un prodotto per certi versi “infantile”, come altri che seguiranno (Mary Poppins 1965, Il Dottor Dolittle 1967…). Nel 1964 My fair Lady di George Cukor vince il premio oscar come Miglior film, distinguendosi per l’eleganza e la finezza, ma con una dominante così sofisticata che fa pensare più a un antico atelier che a un musical complesso. In Funny Girl (1968) di William Wyler, la personalità di Barbra Streisand è talmente forte da dominare la scena, prendendo la mano al regista stesso; in Hello Dolly (1969) Gene Kelly cade nella stessa trappola streisandiana. Il musical ormai «ha perso la capacità di riproporre la sua funzione purificatrice e consolatoria in un mondo sconvolto dal caos, quando il musical ha bisogno di riportare quel caos all’ordine». 19 Dagli anni Settanta in poi il musical esplode in forme diverse, ibride, che non potremmo definire 19 F. La Polla, Il nuovo cinema americano, 1967-1975, Marsilio, Venezia 1978 46 musical, ma in esse l’eredità del genere è potente; il musical quindi diventa remake (come vedremo con Bob Fosse), gioco sugli stereotipi (con Martin Scorsese); il tardo musical sarà sempre più parodia, revival, gioco sui miti e anche dissacrazione di essi (Grease, Jesus Christ Superstar, Hair …). 3.2 Bob Fosse Gli anni Sessanta vedono emergere un nome che presto si imporrà come uno dei simboli (se non il più importante) del musical moderno: Bob Fosse. Nel 1968 dirige Sweet charity – Una ragazza che voleva essere amata: la storia di una piccola prostituta e del suo bisogno d’amore. Il film è tratto dallo spettacolo teatrale di Neil Simon e basato su Le notti di Cabiria di Federico Fellini. Fosse, inoltre, trae da West side story l’uso del background urbano, ma soprattutto utilizza con sicurezza la macchina da presa in accordo perfetto con le sue coreografie e Figura 24 Shirley McLaine interpreta Charity 47 mostra anche particolare attenzione alle luci in funzione della composizione della scena. Da sottolineare sono due brani: uno in cui la protagonista Shirley McLaine si cimenta con un numero ricco di ammiccamenti sessuali, dimostrando come siano cambiati i tempi: infatti civetta e gioca con un cilindro alludendo a un fallo ed evocando un certo voyeurismo (fig.24); l’altro brano è all’inizio del film, «che dimostra invece come Fosse tenti di misurarsi con le estetiche del «moderno»: l’esibizione dei movimenti della macchina da presa, la scoperta dell’«apparato», un linguaggio sporco fatto di zoom, fuori fuoco, scarti bruschi, salti di continuità».20 Spesso in Fosse regista ricorrono inquadrature ristrette ai particolari, primissimi piani che, come pezzi di un puzzle attraverso continui stacchi, si ricompongono in un’unica immagine. Le sue creazioni coreografiche invece si compongono di mosse che stanno tra il burlesque e il vaudeville (mondo dove avviene la sua formazione giovanile); braccia allargate, fianchi protesi, cappelli a bombetta sollevati e rotazione delle pelvi; la sessualità è sempre mostrata generosamente, come anche la «vulnerabilità contrapposta alla spavalderia».21 Tutto ciò si ritrova nel capolavoro di Fosse che è Cabaret, diretto nel 1972, vincitore di ben otto statuette. È la storia della sensuale Sally Bowles (Liza Minnelli), che aspira a diventare una diva del cinema. Siamo negli anni Trenta, Sally si esibisce al 20 V. Zagarrio, Sulle ali dell’arcobaleno. Il tardo musical, in Il cinema che ha fatto sognare il mondo. La commedia brillante e il musical a cura di F. La Polla e F. Monteleone, Bulzoni Editore, Roma 2002 21 K. Bloom, Hollywood Musicals. I cento più grandi film musicali di tutti i tempi, ,Gremese, 2012 Tradotto da C. Vatteroni 48 “Kit-Kat Club” di Berlino, oltre a far compagnia a ricchi signori in cambio di denaro. Sullo sfondo gli avvenimenti storici con l’ascesa al potere di Hitler e la decadenza della società berlinese. Cabaret è ricavato dal libro Addio a Berlino di Christopher Isherwood: un’acuta ricostruzione, a caldo, della vita della città tedesca all’inizio degli anni Trenta, mentre la Repubblica di Weimar affondava per mano dei nazisti. Il libro viene perfettamente riplasmato da Fosse, sostenuto da una sceneggiatura, Figura 25 Sally (Liza Minnelli) durante un’esibizione sul palco del Kit-Kat club, nella sequenza iniziale del film. da fotografia, scenografia e costumi che restituiscono, sia l’atmosfera disillusa del cabaret tedesco dell’epoca, sia l’incubo delle strade su cui camminano le camicie brune. Ma non c’è traccia di predica. Fosse lascia che la vicenda parli da sola. Anzi insiste sull’aspetto paradossale del tema: «l’insopprimibile spinta dell’energia vitale che non si spegne neppure nel pieno delle difficoltà proprie 49 di una società in crisi». 22 La protagonista Liza Minnelli, aggressiva e autoironica, tratteggia un personaggio di donna libera ed esuberante. L’equilibrio tra sentimento, ironia, spettacolo e dramma costituisce il punto di forza che esalta le doti artistiche della Minnelli, che è attrice e cantante di grande talento; figlia del grande Vincente Minnelli e di Judy Garland, alla quale dedica la propria statuetta ottenuta con l’interpretazione di Sally, dividerà la propria carriera da star tra teatro, cinema e canzone. Ritornando al film, questi è uno dei pochi musical di rilievo tra quelli che tentano di conquistarsi un’identità più moderna e più colta, dopo un decennio di esaurimento (gli anni Sessanta). Tranne l’inno Tomorrow belongs to me, tutti i numeri del musical sono eseguiti sul palco del “Kit-Kat”. Fosse ha spiegato: «Ho dovuto allontanarmi dai musical cinematografici che si limitano a copiare lo spettacolo di Broadway. Oppure dai film musicali che copiano le convenzioni del palcoscenico. […] tutti i musical di Gene Kelly e di Fred Astaire sono dei classici. Ma rappresentano un’altra epoca. Mi innervosisco guardando musical nei quali la gente canta camminando per strada oppure mentre fa il bucato … Sono convinto che sembri un po’ sciocco. Sul palcoscenico si può fare. Il teatro ha una propria personalità: comunica il senso di una realtà lontana. Il cinema la avvicina.» La coreografia e il movimento di Fosse rispecchiano perciò il mondo del cabaret. Non è finzione, tutto si ispira alla realtà. 22 P. Pruzzo, Musical americano in cento film, Le Mani, Genova 1998 50 Nel 1979 un altro film di Fosse ottiene altri quattro oscar (montaggio, scenografia, costumi e colonna sonora) e la Palma d’oro a Cannes: è All that jazz. Il film è uno spaccato sulle ossessioni che dominano il mondo dello spettacolo. Il protagonista è il regista teatrale Joe Gideon (Roy Scheider), alle prese con l’allestimento di un nuovo spettacolo a Broadway. Ogni mattina, appena sveglio, ripete ossessivamente di fronte allo specchio: “Si va in scena, gente!”. Il lavoro e l’arte per lui sono più importanti di tutto ciò che può accadergli intorno. Di questo atteggiamento subiscono le conseguenze la figlia Michelle (Erzsebet Foldi), l’ex moglie Audrey (Leland Palmer) e la nuova compagna Kate (Ann Reinking). Solo una collega, Angelique (Jessica Lange), riesce a volte a farlo ragionare. Nonostante tutto però, il protagonista giunge a una tragica fine, accelerata dall’abuso di medicinali e da una vita sregolata. Durante l’ultima prima della Gideon rivede personaggi che crisi morte, tutti i hanno popolato la sua vita; nella sua l’ospedale immaginazione diventa la Figura 26 Roy Scheider interpreta Joe Gideon. 51 scenografia dell’ultima recita. Giunge così alla morte mentre volti e oggetti vorticano intorno a lui, finché il tutto non si interrompe bruscamente. In questa trama non si intravede soltanto la storia di Otto e mezzo di Federico Fellini, a cui ancora una volta Fosse si ispira. Qui si parla di Fosse stesso. Il film è la sua personale confessione e insieme un suo omaggio allo showbusiness. All that jazz parla di Fosse mentre realizzava a Broadway il musical Chicago. In questo caso egli dimostra coraggio nel creare un musical in cui le canzoni e i balletti non consolano il pubblico con una storia d’amore o con il riso. C’è poca gioia nelle coreografie, ma l’effetto generale affascina, perché è come se, in un certo senso, avvisassero di non compiere le stesse azioni rappresentate. A volte i processi di identificazione e la mescolanza di realtà e finzione sono quasi sconvolgenti: il personaggio dell’ex moglie interpretato dalla Palmer si basa realmente sulla moglie di Fosse che era protagonista del musical Chicago; la Reinking era realmente l’amante di Fosse durante lo spettacolo, quindi fondamentalmente interpreta se stessa; il vero Figura 27 Bob Fosse. Bob Fosse ebbe un infarto, come il protagonista, durante le prove del musical; per non parlare poi dell’attore 52 protagonista, Roy Scheider, che ripropone la stessa straripante personalità di Fosse. Il film scorre su un ritmo angosciante e nello stesso tempo sprigiona erotismo, dimostrando una «vitalità rabbiosa».23 Quella di un uomo, Fosse, destinato a morire a ritmo di danza (così come accadrà nel 1987, mentre va in scena a Broadway l’ennesima ripresa di Sweet Charity). 3.3 “New York, New York” Se alla fine del decennio Bob Fosse affida a una confessione d’amore per il cinema felliniano la sua personale passione per il musical, qualche tempo prima (1977) è Martin Scorsese a unire la nostalgia per il dopoguerra e i primi anni Cinquanta, con l’avventura delle grandi orchestre e la creazione dei piccoli complessi, con i conflitti di carriera e la difficoltà d’amare propri del mondo dello spettacolo. È il 2 settembre 1945 e a New York si festeggia la resa del Giappone. Il giovane sassofonista Jimmy Doyle (Robert De Niro) individua, tra la folla riunita nel salone di un grande hotel, una ragazza, Francine (Liza Minnelli), e dopo un deciso corteggiamento riesce a conquistarla. Francine è una bravissima cantante, perciò sia lei che Jimmy trovano un’occupazione, inizialmente in un night, poi in un’orchestra sempre in giro per la provincia. Quando il direttore 23 Ivi, p. 47 53 della formazione si ritira, Jimmy prende il suo posto e sposa Francine. La nascita di un figlio, invece che solidificare il rapporto della coppia, provoca di contrasti. I due si separano, così come le loro carriere. Francine diventa una star della canzone e del cinema, mentre Jimmy, dopo un periodo di oscurità, emerge come musicista jazz. Dopo diversi anni i due si rivedono, forse si vogliono ancora bene, ma stavolta è Francine a decidere di non presentarsi all’appuntamento voluto da Jimmy. Più che un musical, New York, New York è una commedia in musica, una musica che è anche parte della tessitura psicologica del film. È una commedia costruita su una serie di sequenze che hanno la forma del musical, in particolare la più significativa è quella in cui, con tipici codici linguistici della tradizione hollywoodiana, si racconta l’ascesa e il successo della protagonista (Happy endings). Anche da sottolineare è l’uso del colore, che ha uno smalto e una libertà dei film di quegli anni. Nella musica si alternano vecchio e nuovo, cioè lo stile delle grandi formazioni da sala da ballo (come per esempio Blue Moon di Rogers e Hart) e le canzoni scritte appositamente per il film da Kander e Ebb, gli autori di Cabaret: da New York, New York che dà il titolo al film e che diverrà un cavallo di battaglia della stessa Minnelli a But the world goes round. Bisogna aggiungere poi come lo spessore musicale e quello drammaturgico del film siano accresciuti, non solamente dalla presenza di due sound differenti, ma dalla esistenza di due modi diversi di vedere lo spettacolo: mentre la cantante fa 54 Figura 28 Liza Minnelli e Robert De Niro. carriera con le canzoni da “numero musicale”, il sassofonista opera per le strade del jazz bianco dell’epoca. Nel 1977 il film dura quattro ore e mezza, ed è un flop di pubblico e stampa. Solo nel 1981, quando Scorsese ne monta una nuova versione di 163 minuti, sarà apprezzato nelle sale e dai critici. 3.4 “Il fenomeno” Travolta Con il personaggio di Tony Manero in La febbre del sabato sera(1977), John Travolta viene ad inserirsi tra le nuove icone del musical. Allievo di Fred Kelly, fratello di Gene, Travolta può sfoggiare le proprie mosse ed i suoi passi, rivelando le sue Figura 29 Tony Manero (John Travolta) vestito di bianco, con il dito puntato verso il cielo sulla pista da ballo, diviene subito l’icona di una generazione. 55 eccellenti doti di ballerino e fornendo un’interpretazione che fa il successo del film. La popolarità della pellicola, derivata anche dalle musiche da disco dei Bee Gees (che diviene in breve tempo una hit delle classifiche di tutto il mondo), lo lega a un’immagine di ribelle che trova l’unica possibilità di riscatto nel ballo. Tony Manero è un giovane italoamericano di Brooklyn, che vede nel ballo l’unica via di scampo da una vita opprimente con il padre disoccupato, la mamma ottusa, i fratelli per lo più indifferenti e un triste lavoro in un negozio di vernici. All’arrivo del tanto atteso sabato sera si lancia sulla pista della discoteca in balli scatenati, diventando l’idolo delle ragazze, anche se lui ha occhi solo per Stephanie (Karen Lynn Gorney), la danzatrice più abile. Tra varie vicende, ripicche e gare di ballo, uno dei membri della comitiva di Tony muore cadendo dal ponte di Brooklyn. L’avvenimento permette al ragazzo di prendere coscienza dell’insensatezza del proprio atteggiamento e di stabilire finalmente un rapporto autentico con Stephanie. Per questo film la produzione riserva a Travolta la stessa attenzione che la MGM riservava a Fred Astaire e così Tony Manero viene sempre ripreso per intero, a dimostrare l’abilità di Travolta e quindi l’assenza di controfigure. È l’attore stesso a insistere perché il regista John Badham lo riprenda a figura intera. Travolta adora i musical cinematografici e Astaire, ed è proprio 56 leggendo un suo taccuino da lavoro che impara, che il pubblico ha bisogno di vedere i suoi piedi mentre balla. Nel 1978 Grease, altro successo di pubblico giovanile, completa il lancio di Travolta, il cui abbigliamento nel film diventa subito una moda tra i giovani: jeans, giubbotto di pelle nera e capelli tirati a lucido con tanta brillantina. Il suo personaggio è Danny, un giovanotto che durante le vacanze conosce la timida e dolce Sally (Olivia Newton-John). Il caso vuole che in autunno i due ragazzi si ritrovino iscritti nella stessa scuola. Ma il ricordo dell’estate sembra essere sbiadito per lo spavaldo Danny, troppo preso dalle bravate con gli amici e dalle corse in macchina. Il loro rapporto è così un continuo alternarsi di schermaglie amorose fino alla fine dell’anno scolastico, quando i due si dichiarano amore e si scatenano in un’energica danza. Grease è un chiaro tentativo di revival del genere, ma punta anche contemporaneamente al revival di un’epoca, quella degli anni Cinquanta. Un’epoca ricca di musical sugli schermi, ma anche segnata per i ragazzi di allora dall’esplosione del rock’n’roll e dalla mitizzazione dell’automobile come mezzo di sfide rischiose e nido d’amore dell’iniziazione sessuale. Il film tenta di combinare tutto ciò in una favola dai colori sgargianti e dall’ottimismo di maniera. Grease si presenta ostentatamente come un musical, piacevole sì, 57 tuttavia è la dimostrazione di come ormai sia impossibile dar nuovamente vita a quel musical classico, dominato dalla magia della favola. Figura 30 Sandy (Olivia Newton-John) e Danny (John Travolta) nella danza finale del film. 3.5 Contestazione e spiritualità Un autobus scarica una folla di giovani e varia attrezzatura di scena:costumi, gonfaloni, una croce. Una tunica bianca viene calata sulle spalle di un biondo hippy che alza le braccia al cielo. La rappresentazione comincia. Il primo episodio mostra la rabbia di Giuda verso Cristo, colpevole di aver rifiutato di capeggiare una rivolta Figura 31 Carl Anderson (Nel ruolo di Giuda), Ted Neely (Gesù) e Yvonne Elliman (Maddalena). antiromana e di aver dato inizio a una sorta di culto della personalità. Si passa poi all’entrata in Gerusalemme, quindi la cacciata dei 58 profanatori dal tempio, la congiura dei sommi sacerdoti, il tradimento di Giuda, Pietro che rinnega Gesù, il giudizio del Sinedrio e infine la crocifissione, fra la disperazione delle donne e della Maddalena. È la storia di Jesus Christ Superstar, film del 1973 diretto da Norman Jewison che sicuramente segna una tappa nella storia del musical e si inserisce, anche grazie alla musica rock, nel clima contestatario e nel bisogno di spiritualità degli anni Settanta. Jesus Christ Superstar spicca innanzitutto per il tema (insolito in un campo dove sono sempre prevalse materie più frivole e virtuosistiche), poi per la forma, simile a quella di una sacra rappresentazione, rivisitata dal punto di vista della ribellione giovanile tipica degli anni Settanta. Anche questo è un musical che racconta la preparazione e lo svolgersi di uno spettacolo, come tanti altri. Viene però scelto uno spazio, che non è quello del teatro, ma una conca in mezzo alla sabbia del deserto e i profili lontani delle montagne. Il film arriva direttamente dall’opera rock di Webber e Rice, a sua volta cresciuta su un album prima ancora dello spettacolo, in cui la parte di Gesù viene cantata da Ian Gillan, cantante dei Deep Purple. Nel musical si rileva l’intento del regista di tenere sempre presente la carica di provocazione e di spiritualità della lettura hippy del Vangelo. Basti notare il rilievo che mantiene alle figure di Giuda (Carl Anderson), che si rivolge con irruenza all’equilibrato Gesù (Ted Neely), e della Maddalena (Yvonne Elliman), che scopre l’amore attraverso la dolcezza di Cristo. 59 Nel 1979 il regista di origine cecoslovacca Milos Forman presenta Hair, una riflessione in chiave musicale sulla guerra in Vietnam, ma anche una rappresentazione della cultura americana popolare degli anni Sessanta. Il protagonista è Claude (John Savage), un giovane dell’Oklahoma, richiamato alle armi a causa della guerra in Vietnam. Al suo arrivo a New York incontra un gruppo di ragazzi mentre bruciano le cartoline di precetto, come atto di protesta contro la guerra. Claude si unisce a loro, conosce Sheila (Beverly D’Angelo), se ne innamora e si ritrova in una festa che termina col degenerare. L’arresto del capogruppo George (Treat Williams)), lo convince a pagare la cauzione con i pochi soldi che ha. Seguono altre trasgressioni. Alla fine Claude decide di arruolarsi e solo grazie all’amico George, che lo sostituisce in caserma, gli permette di salutare Sheila. Sarà però George che, scambiato per Claude, finirà in Vietnam e morirà. Il tema del Vietnam viene affrontato da Forman attraverso l’eredità di uno spettacolo, manifesto della contestazione giovanile degli anni Sessanta: il musical teatrale del 1967 che inneggia al pacifismo, all’amore, alle droghe e ai 60 capelli lunghi. Quando Forman realizza il film, è vero che lo shock della guerra in Vietnam si è ormai allontanato, tuttavia affrontarlo sul grande schermo richiede del coraggio. Non soltanto per l’impatto che può generare sulla collettività, ma anche dal punto di vista cinematografico, perché il film nega la caratteristica tradizionale del musical come favola o puro divertimento. Il tono è disincantato e le stesse sequenze di danza abbandonano il perfezionismo, per lasciare il posto a un movimento più spontaneo. 3.6 “The blues brothers” The blues brothers (1980) è il musical culto degli anni Ottanta, pietra miliare del genere comico-demenziale, tra i musical moderni più riusciti. Diretto da John Landis, rapisce lo spettatore con una serie di situazioni paradossali e demenziali, incentrate sugli assurdi fratelli Jake (John Belushi) e Elwood (Dan Aycroyd). Il film rimane nella memoria anche per i momenti musicali cui danno vita tra i più grandi musicisti blues e rock degli anni Settanta – Ottanta, tra i quali ricordiamo Aretha Franklin, Matt Murphy, James Brown, Ray Charles… La vicenda è quella dei fratelli Jack e Elwood, che riuniscono la loro vecchia blues band e organizzano un megaconcerto per raccogliere fondi a favore dell’orfanotrofio in cui sono cresciuti. Dopo il grande successo, il film ha 61 tutt’ora moltissimi appassionati. Ha anche lanciato una nuova moda: un look “total black”, con cappello e occhiali scuri, cravatte strette e lunghe. Con questo lavoro John Belushi è diventato un idolo, grazie alla naturalezza con cui crea le situazioni più assurde e improbabili. Il suo mito è cresciuto ancora di più dopo la sua tragica e prematura scomparsa per overdose nel 1982. Figura 32 Ray Charles (che interpreta Ray, il proprietario di un negozio di strumenti musicali), affiancato Dan Aycroyd e John Belushi (i Blues brothers). 3.7 Il nuovo millennio Tra il proliferare di film concerto, commedie musicali per teenager e alcune grandi pellicole, dal 2000 sino ad oggi alcuni musical si sono imposti, affascinando il grande pubblico e comportando il rilancio e l’evoluzione del genere, dopo due decenni di relativa oscurità. Il primo a compiere quest’operazione è nel 2001 Moulin Rouge! di Baz Luhrmann che cattura lo spettatore con i colori irreali delle scenografie, i 62 movimenti arditi della macchina e la sceneggiatura coinvolgente, arricchita da scelte visive e canzoni moderne, come per esempio Your song di Elton John, Roxanne dei Police, Like a virgin di Madonna … Moulin Rouge è stato capace di riportare alla centralità i meccanismi del musical classico in un tempo nuovo, ottenendo anche il consenso del pubblico più giovane che del musical è quasi digiuno. Il successo è merito anche degli attori principali, Ewan McGregor e Nicole Kidman, rispettivamente Christian, scrittore squattrinato e bohémien, e Satine, la star del Moulin rouge. I due artisti sono una vera rivelazione: forte è la chimica Figura 33 Il momento dell’innamoramento tra Satine (Nicole Kidman) e Christian (Ewan McGregor). grande fra loro e l’intensità dell’interpretazione che influenza tutto lo spettacolo; oltretutto spiazzano ogni aspettativa, dimostrando di saper cantare davvero. Nella Parigi di inizio Novecento l’amore tra i due protagonisti viene osteggiato dal duca di Worchester (Richard Roxburgh), finanziatore dello spettacolo che vede protagonista Satine. La storia si svolge 63 tra gelosie, ossessioni e desideri conclude e si con la morte della giovane stella del Moulin rouge. Le varie e originali componenti del film di Luhrmann si conciliano in modo tale da suggerire una sensazione d’armonia; geniale risulta poi la scelta del regista di commentare le azioni con canzoni contemporanee: la contrapposizione di un tempo e di un luogo lontani con la musica moderna conferiscono al film un ulteriore unicità. Con questo film Luhrmann raggiunge la consacrazione definitiva come autore di musical, dopo essersi avvicinato al genere con Ballroom (1992) e Romeo + Giulietta (1997). Moulin Rouge! riceve otto nomination all’oscar e vince due statuette per i costumi e la direzione artistica. Nel 2002 Rob Marshall con Chicago omaggia dichiaratamente Bob Fosse, l’omonima versione teatrale del musical allestito nel 1974, ma anche i suoi due grandi successi, All that jazz e Cabaret. Le due protagoniste, la bionda ballerina di fila Roxie Hart (Renée Zellweger), e la bruna soubrette Velma Kelly (Catherine Zeta-Jones), si ritrovano in carcere, 64 colpevoli di aver ucciso i loro uomini, che le hanno tradite. Entrambe si affidano all’avvocato Billy Flynn (Richard Gere) che riesce ad attirare l’attenzione della stampa sul caso di Roxie, con l’obiettivo di trarne vantaggi professionali, e scatenando l’invidia di Velma. La rivalità tra le due donne però si trasforma presto in Figura 34 Renée Zellweger in Roxie Hart un rapporto solidale. Così l’abile avvocato riesce a scagionare le due artiste, che si ritrovano insieme a interpretare Le belle assassine, un numero di grande successo. La vicenda è tratta da un fatto di cronaca che sta alla base del testo teatrale The brave little woman (1926) di Maurine Dallas Watkins. Chicago costituisce riproposizione un’altra contemporanea originale del grande musical, senza alterarne i fondamenti. Il film si caratterizza particolarmente per il montaggio serrato con i numerosi primi piani che nascondono i difetti degli interpreti durante i numeri e una fotografia che privilegia le luci utilizzate sui palcoscenici, che riproducono Figura 35 Catherine Zeta-Jones interpreta Velma Kelly. 65 così un’atmosfera più teatrale. Nel 2003 il film ottiene sei statuette (miglior film, attrice protagonista, montaggio, scenografie e arredamento, costumi e sonoro). Facciamo un salto nel 2006. Susan Stroman porta sullo schermo The Producers, adattamento dell’omonimo spettacolo di Broadway, scritto e musicato da Mel Brooks, ispiratosi a un suo film del 1968 Per favore non toccate le vecchiette. La pellicola segue un registro ironico, toccando momenti di rara comicità e prende di mira il mondo dello spettacolo, criticando velatamente l’etica dubbia di vi opera. Al centro della storia c’è Max (Nathan Lane), un produttore teatrale di Broadway, la cui fama è in declino a causa degli insuccessi dei suoi spettacoli. Gli viene quindi suggerita un’idea dal contabile Leo Bloom (Matthew Broderick): ottenere dei finanziamenti per allestire spettacoli di insicuro successo che, dopo il flop, non vengano più replicati, in modo tale che Leo e Max possano intascare la restante parte dei soldi investiti dai finanziatori. Individuano quindi il copione, La primavera di Hitler, scritto da un drammaturgo nazista, Franz Liebkind, al quale offrono anche il ruolo di Hitler. Come attrice protagonista è scelta la sensuale svedese Ulla (Uma Thurman) e la regia è affidata a Roger De Bris (Gary Beach), privo di talento. Prima di andare in scena però Liebkind si infortuna e il suo posto viene preso dal regista 66 stesso. Lo spettacolo (fig. 36) va in scena e, invece di un flop, si rivela un successo, mettendo così in crisi i soci in affari … Tutto disseminato di numeri musicali, il film raggiunge la vetta con la messa in scena di uno spettacolo assurdo, capolavoro di cattivo gusto. E tra le risate, i motivi orecchiabili, le pantomime e i balletti, sullo schermo è possibile anche scorgere due motivi molto seri: quello evidente storico-politico e quello stoicoesistenziale sull’inconoscibilità del futuro dell’uomo, che nel film si traduce in “Non si sa come andrà lo spettacolo”. Un anno dopo The Producers Hollywood presenta Figura 36 il campione di incassi Haispray, musical diretto da Adam Shankman, tratto dall’omonimo spettacolo andato in scena per la prima volta nel 2002 a Broadway e remake del film realizzato nel 1988 da John Waters. La vicenda si svolge a Baltimora nel 1962. La giovane Tracy Turnblad (Nikki Blonsky) è un’ottima ballerina, nonostante la sua stazza non propriamente filiforme, ed è decisa ad entrare nel corpo di ballo del mitico “Corny Collins’s Show”. La madre Edna (interpretata da un John Travolta en travesti), donna di 67 grande saggezza, tenta di tenere la figlia al riparo dalle illusioni. Con il suo talento, la vitalità e la simpatia Tracy conquista tutti e, a sorpresa, supera l’audizione che la fa entrare nel programma. Ma ad ostacolare i piani della ragazza, segretamente innamorata del primo ballerino, Link (Zac Efron), c’è la produttrice dello spettacolo, l’arrivista Velma Von Tussle (Michelle Pfeiffer), che vuole a tutti i costi lanciare sua figlia Amber (Brittany Snow) come unica star del programma. Le tensioni scatenate da questa rivalità hanno poi come sfondo quelle caratterizzano razziali che l’America di quegli anni. Ciò che conquista in Hairspray è prima di tutto una grande Figura 37 Edna (John Travolta) e Tracy (Nikky Blonsky). musica, coinvolgente, briosa, scatenata nel lanciare i vari protagonisti in balli meravigliosamente coreografati da Shankman; alcuni di questi numeri sono si distinguono particolarmente tra i tanti altri, come l'apertura Good Morning Baltimore che ci immerge nel mondo pastello della vicenda, e lo show-arresto You can’t stop the Beat. A cantarli e ballarli poi un perfetto cast d'attori, con un appariscente Christopher Walken che realizza un fantastico numero in particolare, quello insieme con John Travolta, durante il quale il personaggio di Edna (per cui Travolta deve 68 indossare una pancera da cento chili) perde ogni segno della goffaggine mostrata durante il resto del film. Infine ecco che nel 2012, prodotto da Cameron Mackintosh, dal Regno Unito arriva Les Misérables, il musical ispirato al celebre romanzo di Victor Hugo, già adattato per il palcoscenico dal compositore Claude-Michel Schönberg e dal librettista Alain Boublil. Concludiamo con l’unica pellicola, discussa in questa sede, che non sia di produzione americana, ma che bisogna prendere in considerazione, per il suo essere il musical kolossal di maggior successo degli ultimi anni. Nel film diretto da Tom Hooper, non c’è più traccia della poetica di evasione fondamento del musical classico: si punta sul melodramma, sulla storia di redenzione e di speranza, di sacrificio e riscatto ambientata nella Francia del XIX° Secolo. Hugh Jackman interpreta l’ex detenuto Jean Valjean, ricercato da decenni dallo spietato ispettore Javert (Russell Crowe) dopo aver violato la libertà condizionata. Quando Valjean decide di prendersi cura della giovane figlia dell’operaia Fantine (Anne Hathaway), Cosette (Amanda Seyfried), tra lui e la ragazza si instaurerà un rapporto solido e profondo, che terrà le loro vite legate per sempre. Dopo ogni adattamento possibile (teatro, cinema, TV, fumetto), quello che colpisce della versione di Hooper de Les Misérables è la decisione audace di far cantar dal vivo i protagonisti, e non di inserire in fase di post-produzione le loro performance, come di solito avviene. Questa scelta deriva dalla decisione 69 di Hooper di sulla teatralità e infatti, puntare molto sull'interpretazione e, contribuisce ad esaltare le esibizioni degli attori, dove l’intensità espressiva supera l’accuratezza canora. Particolare interessante: attraverso auricolari nascosti, gli attori sentono la musica del brano che devono cantare, che viene suonata dal vivo, per loro da un pianista. Sono perciò gli attori a stabilire il tempo e non una traccia musicale pre-registrata. Successivamente in studio, il piano viene sostituito da un’orchestra di sette elementi. I dialoghi parlati si contano sulle dita di una mano, tutti cantano per quasi tre ore, regalando interpretazioni vibranti. Tra tutti l’intensa Hathaway protagonista Anne è del momento più toccante e memorabile dell’opera, quando si esibisce in I Dreamed a Dream: un Figura 38 Un primo piano dell’attrice Anne Hathaway durante l’interpretazione di I dreamed a dream. 70 piano sequenza di quasi cinque minuti, stretto sul suo volto sciupato e derelitto (per interpretare il ruolo, l’attrice ha perso in poco tempo 12 chili), con la voce spezzata dal pianto. Grazie a questa sua interpretazione vince l’Oscar come miglior attrice non protagonista. I primissimi piani ricorrono spesso nel film, conseguenza dell’approccio intimista di Hooper, che preferisce puntare sul realismo, dato dalla spontaneità degli interpreti e dalla semplicità dei sentimenti dei personaggi, anziché sulle grandi vedute di una Parigi poco reale ricostruita in studio e sulle sontuose scenografie di Paco Delgado. Fortemente apprezzato dalla critica internazionale, Les Misérables è stato riconosciuto come il miglior esempio di musical dell’ultimo decennio. 71 Conclusioni In questo testo si è tentato di offrire una visione globale, chiara e semplice del percorso storico ed evolutivo del musical cinematografico di Hollywood. Tanti film, quelli che ne hanno determinato la grandezza, all’interno di tre capitoli/blocchi temporali, in cui si narra la nascita del genere (il trasferimento dello spettacolo dal teatro al cinema), degli anni della sua consacrazione (i fertili anni Cinquanta) e del periodo moderno e quello contemporaneo, quando il musical si ripropone sotto nuove vesti, lontane dalla poetica della favola propria del musical classico e/o la dissimulano. E così si è giunti a parlare di “dintorni del musical”. Tuttavia è evidente come, nonostante ogni operazione di “ibridazione”, questo genere non abbia mai perso il suo fascino sugli spettatori di ogni tempo, anzi è sempre capace di affermare la propria vitalità anche attraverso linguaggi nuovi. Dice bene Giorgio Gosetti quando utilizza il termine «reinvenzione»24 per riferirsi alla trasformazione cui è sottoposto il musical dagli anni Settanta: reinvenzione perché il valore catartico di questo genere di spettacolo è ciò che 24 G. Gosetti, Esiste il genere musical?, in F. La Polla, F. Monteleone, Il cinema che ha fatto sognare il mondo. La commedia brillante e il musical, Bulzoni Editore, Roma 2002 72 non va mai perso. Il musical ancora oggi è capace di non lasciarsi sopraffare dal freddo realismo e di offrire una possibile via per il sogno. 73 Bibliografia K. Bloom, Hollywood Musicals. I 100 Più grandi film musicali di tutti i tempi, Gremese, Roma 2012 F. La Polla, Il nuovo cinema Americano, 1967-1975, Marsilio, Venezia 1978 F. La Polla, Sogno e realtà americana nel cinema di Hollywood, Laterza, Bari 1987 F. La Polla, Introduzione al cinema di Hollywood, Mondadori Università, 2006 F. La Polla, F. Monteleone, Il cinema che ha fatto sognare il mondo. La commedia brillante e il musical, Bulzoni Editore, Roma 2002 G. Lucci, Musical, Mondadori Electa, Milano 2006 Walter Mauro, Il musical americano. Da Broadway a Hollywood, Newton & Compton, Roma 1997 P. Pruzzo, Musical americano in cento film, Le Mani, Genova 1998 M. Wood, L’America e il cinema, Garzanti, Milano 1974 Sitografia http://www.allmovie.com/ http://www.cinematografo.it/ http://classicmoviemusicals.com/ http://www.film-review.it/ http://www.filmtv.it/ http://filmup.leonardo.it/ 74 http://www.italiamusical.com/web/home.html http://www.lesmiserablesfilm.com/ http://musicals101.com/ http://www.ondacinema.it/ http://trovacinema.repubblica.it/ Filmografia Il cantante di jazz (The jazz singer), Alan Crosland, USA, 1927. Quarantaduesima strada (42nd Street), Lloyd Bacon, USA, 1933. Cappello a cilindro (Top hat), Mark Sandrich, USA, 1935. Il mago di Oz (The wizard of Oz), Victor Fleming, USA 1939. Incontriamoci a St. Louis (Meet me in St. Louis), Vincente Minnelli, USA, 1944. Il pirata (The Pirate), Vincente Minnelli, USA, 1947. Un giorno a New York (On the Town), Stanley Donen, Gene Kelly, USA, 1949. Un americano a Parigi (An American in Paris), Vincente Minnelli, USA, 1951. Cantando sotto la pioggia (Singin’ in the rain), Stanley Donen, Gene Kelly, USA, 1952. Spettacolo di varietà (The Band Wagon), Vincente Minnelli, USA, 1953. Sette spose per sette fratelli (Seven brides for seven brothers), Stanley Donen, USA, 1954. È sempre bel tempo (It’s always fair weather), Gene Kelly, Stanley Donen, USA, 1955. 75 Cenerentola a Parigi (Funny face), Stanley Donen, USA, 1957. Gigi, Vincente Minnelli, USA, 1958. West side story, Robert Wise, USA, 1961. My fair Lady, George Cukor, USA, 1964. Mary Poppins, Robert Stevenson, USA, 1964. Tutti insieme appassionatamente (The sound of music), Robert Wise, USA, 1965. Funny girl, William Wyler, USA, 1968. Sweet Charity – Una ragazza che voleva essere amata (Sweet Charity), Bob Fosse, USA, 1968 Hello Dolly!, Gene Kelly, USA, 1969. Cabaret, Bob Fosse, USA, 1971. Jesus Christ Superstar, Norman Jewison, USA, 1973. New York, New York, Bob Fosse, USA, 1977. La febbre del sabato sera (Saturday Night Fever), John Badham, USA, 1977. Grease – Brillantina (Grease), Randall Kleiser, USA, 1978. All that Jazz, lo spettacolo continua (All that Jazz), Bob Fosse, USA, 1979. Hair, Milos Forman, USA, 1979. The blues Brothers, John Landis, USA, 1980. Moulin Rouge!, Baz Luhrmann, USA, 2001 Chicago, Rob Marshall, USA, Canada, 2002 The Producers, Susan Stroman, USA, 2006. Hairspray – Grasso è bello (Hairspray), Adam Shankman, USA, 2007. Les Misérables, Tom Hooper, Regno Unito, 2012. 76 Voglio dire GRAZIE innanzitutto alla mia famiglia, perché se oggi raggiungo l’obiettivo della laurea è solo grazie alla loro fiducia, che non è mancata nemmeno nei momenti in cui era difficile concedermela, e grazie ai tanti sacrifici, di cui sono sempre stata consapevole e che prometto, verranno ripagati! Vi amo. Grazie a coloro che, anche se non ci sono più, hanno continuato a guidarmi, ovunque siano adesso. Un grazie alla mia migliore amica, Vittoria, perché è stata sempre un grande esempio di forza e di costanza per me. Tra i pochi a cui mi ispiro, ci sei anche tu e anche se non siamo vicine come prima, col pensiero e con il cuore non siamo mai lontane. Ti voglio bene. Grazie alle mie carissime amiche dell’“Asse Pellaro-Gebbione-Archi”, le mie “zie”, compagne di avventura in questi anni. Grazie, Miryam e Irene, per avermi regalato i momenti più belli di questo percorso universitario, per avermi supportato e sopportato in quelli meno belli e per essere state, anche voi, due modelli da seguire. Grazie a tutti gli amici che a loro modo, anche con poco, anche senza accorgersene, mi hanno aiutato e appoggiato durante questo percorso. Chi c’è stato, io non lo dimentico. Ringrazio tutti i miei colleghi DAMS, che mi hanno fatto conoscere la meraviglia dell’essere speciali. Un immenso grazie alla Professoressa Cervini, per la sua disponibilità, per la cortesia e la simpatia manifestatami e per avermi sempre dimostrato la sua fiducia.