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Introduzione
1
1. Da Broadway a Hollywood
1.1 L’avvento del sonoro e la Grande Depressione
4
1.1.1 “Il cantante di jazz”
6
1.1.2 “Quarantaduesima strada” e il genio di Berkeley
7
1.1.3 “Cappello a cilindro”: la coppia Astaire-Rogers
11
1.1.4 “Il mago di Oz”
15
1.2 Gli anni Quaranta
18
1.2.1 “Incontriamoci a St. Louis”
20
1.2.2 “Il Pirata”
22
1.2.3 “Un giorno a New York”
25
2. Il periodo d’oro
2.1 Gli anni Cinquanta
27
2.2 Minnelli: da “Un americano a Parigi” all’Oscar di “Gigi”
29
2.3 … e Stanley Donen
35
2.4 Spartiacque: “West side story”
43
3. Nuovi protagonisti: il “tardo” musical e gli anni 2000
3.1 Dopo West side story
46
I
3.2 Bob Fosse
47
3.3 “New York, New York”
53
3.4 Il “fenomeno” Travolta
55
3.5 Contestazione e spiritualità
58
3.6 “The blues Brothers”
61
3.7 Il nuovo millennio
62
Conclusioni
72
Bibliografia
74
Sitografia
74
Filmografia
75
II
Una delle cose più belle è svegliarsi e sapere
che qualcuno ti ama.
da New York, New York, Martin Scorsese
Ai miei genitori e a mio fratello.
Introduzione
Questo elaborato intende proporre una visione globale del mondo del musical
cinematografico di Hollywood: si può definire una breve “guida” che intende
mostrare al lettore un percorso in cui si individuano i momenti più brillanti
della storia del genere, quei film che ne costituiscono le tappe fondamentali e
che hanno fatto sì che il musical hollywoodiano diventasse un genere
cinematografico di grande successo.
La scelta di questo tema deriva dal fascino che il musical ha su di me come su
tantissimi altri. Un fascino che si deve alla rappresentazione della realtà in
chiave leggera, surreale e onirica anche, che il musical propone. Questo grazie
alla magia dell’unione di più arti, che concorrono insieme con la recitazione a
narrare una storia che induca a sognare.
La stesura di questo testo è il frutto di un approfondimento dell’argomento
attraverso lo studio di manuali riguardanti il musical e la sua evoluzione nel
tempo, ma anche dedicati al cinema hollywoodiano in genere; altre letture mi
hanno permesso di poter arrivare ad un’analisi più dettagliata dei film presi in
considerazione (fondamentale è risultata la loro visione), come la consultazione
di schede specifiche per ogni pellicola contenute sia in manuali che siti internet,
dedicati esclusivamente al mondo del cinema e del musical.
1
La tesi consta di tre capitoli, riguardanti tre diverse fasi in cui ho suddiviso
l’evoluzione del genere. Il primo capitolo si riferisce alla nascita all’inizio del
Novecento del musical teatrale, forma spettacolare che riunisce recitazione,
musica e danza all’interno di una struttura drammaturgica più complessa e
armoniosa, rispetto a quella delle forme spettacolari da cui deriva, come il
vaudeville o la rivista … Negli anni Trenta poi Hollywood porta sullo schermo
lo spettacolo, che fino a quel momento è appartenuto solamente a Broadway, e
insieme ad esso anche i suoi artisti (per esempio Fred Astaire, Busby Berkeley
…). Il primo capitolo si concentra anche sul decennio successivo, con i primi
successi del regista Vincente Minnelli, le stelle Judy Garland e Gene Kelly e
l’utilizzo del Technicolor. Il secondo capitolo racchiude quello che definisco il
“periodo d’oro”, gli anni Cinquanta. È infatti il decennio di maggiore
produzione di questo tipo di pellicole, che trovano sempre più consensi di
pubblico e che si presentano come vere e proprie opere: ogni film può essere
riconducibile al suo regista. Sono dunque gli anni della grande autorialità, in
particolare quella di Minnelli e di Stanley Donen, gli anni di Spettacolo di
Varietà e Cantando sotto la pioggia, del prestigio della Metro-GoldwynMayer… Questi anni si concludono con la fine del musical classico,
ufficializzata da West side story (1960) che apre la strada al “tardo” musical,
quello che ritroviamo nel terzo capitolo. Dagli anni Settanta in poi ci troviamo
di fronte a nuovi stili, temi, soluzioni. Il musical si presenta con forme diverse,
2
ibride, che non potremmo definire musical, ma in esse la sua influenza è
fortemente evidente; il musical così diventa remake (di Fellini per esempio,
come vedremo con Bob Fosse), sarà sempre più parodia, revival (Grease),
gioco sui miti e anche dissacrazione di essi (pensiamo ai politici e generazionali
Jesus Christ Superstar e Hair …).
Il musical ha perciò, come qualunque altro genere, una sua storia e una sua
evoluzione e, anche se oggi non si ispira più all’epoca classica e ai suoi canoni,
non smette mai di perseguire l’obiettivo di farci sognare.
3
1. Da Broadway a Hollywood
1.1 L’avvento del sonoro e la Grande Depressione
Alla fine degli anni Venti l’avvento del sonoro provoca il progressivo
decadimento del cinema muto, che fino a quel momento aveva fatto di un
handicap – la mancanza di sonorità appunto – il suo punto di forza: il muto,
infatti, “costringeva” i registi a forzare la semplice rappresentazione delle cose
e delle persone, con il risultato di una grande varietà di emozioni e di ricerche
stilistiche.
Alla caduta di quei generi che del sonoro non avevano bisogno, si contrappone
la nascita di generi che del suono e della musica non potevano fare a meno, tra
questi il musical, che Hollywood mutua da Broadway. Il musical infatti nasce
come forma di spettacolo dal vivo, quando il teatro americano viene influenzato
dall’operetta e dall’opera buffa, esportate dagli emigranti europei nel periodo a
cavallo tra Ottocento e Novecento. L’America, dunque, facendo proprie le
forme della cultura classica europea e rielaborandole, restituisce qualcosa di
inedito attraverso il vaudeville, il burlesque, il minstrel, la rivista, e infine il
musical comedy che si ispirano invece al folklore, alla musica popolare quindi
al jazz. Tra tutti però il musical si distingue, perché a differenza della semplice
4
sequenza di canti, danze, parodie e sketch comici che accomuna queste nuove
forme spettacolari, il musical propone una struttura drammaturgica e musicale
più complessa e armoniosa.
Hollywood porta così sui propri schermi musica, danza e canto che non
costituiscono dei semplici numeri a sé, ma reagiscono con lo sviluppo narrativo
e psicologico del film; ogni numero funge sia da ornamento e fuga fuori
narrazione, sia da mezzo trasmissivo di significato. Inoltre il trasferimento del
genere dal teatro al cinema, coinvolge anche gli stessi artisti che fanno parte del
mondo teatrale (attori, autori, musicisti, compositori, coreografi, danzatori …) e
diversi spettacoli che saranno opportunamente rielaborati.
Le origini del genere coincidono non soltanto con l’avvento del sonoro, ma
anche con il periodo storico che ricordiamo come Grande Crisi o Depressione,
iniziato con la caduta di Wall Street nel ’29 e durato per tutto il decennio
successivo. In questo contesto il musical cinematografico si offre come grande
spettacolo, festa, rappresentazione di ricchezza e gioia e, quindi, costituisce
un’occasione per sognare e soddisfa il bisogno di evasione dalle difficoltà
quotidiane del pubblico. Da subito si presenta secondo una struttura che si basa
su un incontro sentimentale o la messa in scena di uno spettacolo a qualunque
costo. Quest’ultimo aspetto spesso include il primo.
5
Tutte le majors iniziano a dedicarsi al genere sonoro per eccellenza. Però solo
due saranno le case di produzione protagoniste degli anni Trenta: la RKO1 con
la coppia Astaire – Rodgers e la Warner con il regista/ coreografo Busby
Berkeley.
1.1.1 “Il cantante di jazz”
Il punto di partenza da cui si
muove il musical non può non
essere
riconosciuto
ne
“Il
cantante di jazz”, il primo film
sonoro nella storia del cinema.
Siamo nel 1927 e il film, diretto
da Alan Crosland e prodotto
dalla Warner Bros, è interpretato
Figura 1Una scena de “Il cantante di jazz” in cui Al Jolson si
esibisce
da un vivace Al Jolson (fig. 1) che canta e parla per la prima volta, grazie
all’utilizzo del congegno Vitaphone 2. Non molto amato dalla critica, ottiene
1
RKO (Radio-Keith Orpheum Pictures): tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, la RKO faceva parte del
gruppo delle cinque major (comunemente noto come The Big Five) insieme a Metro-GoldwynMayer, Paramount Pictures, Warner Bros. e 20th Century Pictures (attuale 20th Century Fox). Le minimajor invece erano Columbia Pictures, Universal Pictures e United Artists, le cosiddette Little Three, che
occupavano un posto di secondo piano poiché, non avendo proprie sale cinematografiche, non controllavano
tutto il ciclo produttivo cinematografico costituito dalla produzione, dalla distribuzione e dall'esibizione ovvero
l'esercizio di sale cinematografiche, che era monopolio esclusivo del gruppo delle cinque major.
2
Cfr. K. Bloom, Hollywood Musicals. I 100 Più grandi film musicali di tutti i tempi, Gremese, 2012 Tradotto
da Vatteroni C.
6
invece un grande successo di pubblico, grazie alla novità tecnica e al talento del
protagonista. Al Jolson, di origine russa, giunge in America da bambino e si
forma attraverso l’esperienza nel circo, nel varietà e nella commedia musicale,
diventando molto popolare grazie alla sua enfasi, la voce generosa e la forza
comunicativa. Nel film interpreta Jakie Rabinowitz, assai dotato nel canto e
figlio di un ebreo russo cantore nella sinagoga di New York. Il giovane però
non sembra voler proseguire la carriera del padre. È attratto invece dalla musica
jazz del quartiere di Harlem. Così decide di esibirsi truccato da afroamericano
tra i musicisti di colore, provocando lo sdegno del padre. Jackie scappa di casa
per tentare la fortuna e dopo tanti sacrifici riesce a esibirsi con successo;
purtroppo proprio la sera del suo debutto in un grande teatro di Broadway,
viene a sapere che il padre è gravemente malato. Decide allora di abbandonare
lo spettacolo e tornare a casa per riconciliarsi col padre ormai in fin di vita.
1.1.2 “Quarantaduesima strada” e il genio di Berkeley
Nel 1933 “Quarantaduesima strada”, diretto da Lloyd Bacon per la Warner
Bros, presenta al pubblico la tipica trama in cui si intrecciano una storia
d’amore e l’allestimento di uno spettacolo, ma con lo sfondo della Grande
Crisi che influenza in modo evidente lo sviluppo della vicenda. Alle difficoltà
finanziarie che ostacolano la realizzazione dello show, si aggiungono i
7
problemi emotivi dei personaggi che oscillano continuamente tra angosce e
speranze nel futuro. L’unico personaggio che ostenta determinazione nel voler
arrivare sino in fondo, nonostante la salute precaria, è il regista che si presenta
come metafora del presidente americano in carica Roosevelt:
È chiaro che Forty – Second Street non è altro che una storia di difficoltà economiche
intrecciate a difficoltà psicologiche (quelle della giovane star dello spettacolo e un po’ di tutta
la troupe) che si pone un po’ come un tracciato biografico dell’America negli stessi guai.
Dunque, lo spettacolo è il New Deal, e le titubanze e le paure dell’esordiente Ruby Keeler
sono quelle di un paese che brancola ancora nel buio alla ricerca della fiducia in se stesso (alla
fine naturalmente conquistata): «Devi dare, dare, dare!» le ordina il suo Roosevelt – regista la
sera della prima.3
Ecco dunque la storia. Viene a diffondersi la notizia che gli impresari Jones e
Barry stiano per allestire uno show. È tempo di crisi, quindi una gran
moltitudine di attori e ballerine si presenta a teatro. Dorothy Brock è imposta
dal finanziatore come soubrette e la regia viene assegnata a Julian Marsh,
ridotto sul lastrico dopo la caduta di Wall Street e cagionevole di salute. A
poche ore dalla prima Dorothy si sloga una caviglia. Quando sembra che
ormai tutto sia andato perduto, Julian convoca Peggy una ballerina di prima
fila, per sostituire Dorothy. Per farle dare il meglio, il regista si sottopone con
lei a prove estenuanti, che gli fanno rischiare un collasso. Quando infine
Peggy entrerà in scena, interpreterà magistralmente la propria parte e lo stesso
3
F. La Polla, Introduzione al cinema di Hollywood, Mondadori Università, 2006
8
sarà per l’intero corpo di ballo. Lo spettacolo ha quindi un esito trionfale e
Peggy ottiene il successo e anche l’amore, in Billy che fin dall’inizio è stato
dalla sua parte.
Il film si caratterizza sì per una forte carica emotiva, ma viene anche ricordato
per l’eccezionale contributo coreografico di Busby Berkeley, la cui creatività
si traduce in congegni coreografici delineati da insolite visuali. Berkeley
abbandona le regole spaziali di rappresentazione del teatro, affidandosi
all’occhio e al montaggio cinematografici. Segni distintivi del suo stile sono
le lunghe panoramiche sui volti delle belle ragazze; la macchina da presa che
si infila tra le gambe delle ballerine, una dopo l’altra (fig. 2); le forme
geometriche e caleidoscopiche delle figure inquadrate dall’alto (fig. 3); file di
ballerini che si gonfiano come onde.
Figura 2
9
Figura 3
In particolare in questo caso, non si
può non fare riferimento all’inventiva che si libera nelle scene finali di
Quarantaduesima strada, che danno il titolo al film: il numero inizia con
l’assolo di Ruby Keeler e dopo il primissimo piano dei suoi piedi, la macchina
da presa indietreggia fino a svelare un enorme set popolato da centinaia di
danzatori; la celebre strada è invasa da battaglioni di ballerini di tip tap. Nel
finale, il corpo di ballo si dispone di spalle su una scalinata; ogni ballerino
porta una sagoma di un grattacielo e, girandosi, contribuisce a dare forma allo
skyline di New York dal quale emerge la neostar Peggy. La parte svolta da
Berkeley ha conferito al film «quel dinamismo e quella plasticità che lo hanno
reso visivamente rivoluzionario per l’epoca, tanto da essere definito, per la
prima volta, dalla rivista “Photoplay” un musical vero e proprio».4 Ken
Bloom ancora afferma che «Quarantaduesima strada ha fatto rinascere il
4
G. Lucci, Musical, Mondadori Electa, Milano 2006
10
musical cinematografico come forma d’arte»5; lo slancio moderno del film
porta infatti un’impressione di novità dopo il dialogo artificioso e il torpore
della macchina da presa che caratterizzavano i primi film sonori. I
miglioramenti sul piano del suono, le ardite angolazioni della macchina da
presa di Berkeley, nonché i suoi spettacolari numeri coreografici, rendono i
films della Warner di quegli anni visivamente emozionanti e quindi opere di
grande successo.
1.1.3 “Cappello a cilindro”: la coppia Astaire – Rogers
Di Cappello a cilindro Piero Pruzzo afferma «è il musical più compiuto – una
sorta di modello che consacra certi archetipi narrativi ed estetici – di tutti gli
anni Trenta»6 (oltre ad essere il più redditizio del decennio per la RKO). Nel
1935 il film riunisce tutte componenti perfette che danno vita a un capolavoro
del cinema musicale. A conferma di ciò le nominations all’Oscar per le
sontuose scenografie di Van Nest Polglase (da ricordare soprattutto quella
dell’assurdo paesaggio di Venezia), per la miglior coreografia curata da
Hermes Pan, coreografo preferito di Astaire e suo collaboratore per lungo
5
Cfr. K. Bloom, Hollywood Musicals. I cento più grandi film musicali di tutti i tempi, ,Gremese, 2012 Tradotto
da C. Vatteroni
6
P. Pruzzo, Musical americano in cento film, Le Mani, Genova 1998
11
tempo, e ancora per la miglior canzone originale (cioè Cheek to cheek) a
opera del grande Irving Berlin e infine quella per il miglior film.
La classica e divertente trama da commedia degli equivoci si presenta con
naturalezza come una continua e coerente occasione di danza e di canto, sulle
suggestive musiche di Berlin. Protagonista è il ballerino Jerry Travers che,
arrivato a Londra, incontra il suo produttore Horace Hardwick, che gli cede la
sua camera d’albergo. Jerry conosce Dale Tremont, figurinista per il
disegnatore di mode Beddini, e comincia a flirtare con lei. Intanto da Venezia
la moglie di Horace invia un telegramma a Dale, in cui le chiede di
raggiungerla e informandola che suo marito alloggia nel suo stesso albergo. Il
numero della stanza ora corrisponde a quello della stanza di Jerry e Dale,
sdegnata, conclude che Jerry è il marito di Madge. Così parte per Venezia con
Beddini, inseguita da Jerry, Horace e il maggiordomo. Ferita dall’insensibilità
di Jerry, Dale accetta di sposare Beddini e il maggiordomo, travestito da
prete, li unisce in un matrimonio ovviamente non valido. Dale e Jerry
potranno chiarire l’equivoco e finalmente stare insieme.
Il racconto gode dall’inizio sino alla fine di una felice curvatura umoristica.
L’umorismo e l’ironia caratterizzano anche i numeri eseguiti dagli attori
protagonisti, Fred Astaire e Ginger Rogers, elementi che sottolineano la loro
danza “moderna” e che non contrastano con un’altra componente, il
12
Figura 4
romanticismo.
loro
Le
esecuzioni
diventano
ingrediente
essenziale per lo
sviluppo
storia,
della
non
sono
semplicemente una
parte decorativa o
variante festosa. In ogni film Astaire tenta di dar vita a coreografie che si
integrino perfettamente con la sceneggiatura. Inoltre una sua affermazione
celebre «O e la macchina da presa a danzare, oppure danzo io.» spiega il
diverso lavoro della cinepresa nell’immortalare i suoi numeri, rispetto
all’utilizzo della stessa da parte di Busby Berkeley di cui abbiamo parlato nel
precedente paragrafo. Alle ampie panoramiche, alle inquadrature insolite, ai
passaggi da un piano ad un altro, Astaire preferisce la ripresa a figura intera
con un piano sequenza unico, per tentare di offrire al pubblico le stesse
sensazioni della danza in teatro. Perciò al fine di ottenere tale risultato,
Astaire prova e riprova per settimane i suoi balletti prima di essere pronto per
girare; inoltre, nel suo scrupolo assoluto, egli preferiva studiare prima i passi e
le figure su se stesso e solo successivamente li insegnava alla partner. Per
13
quanto riguarda Cappello a cilindro per esempio, tutto ciò è riassunto nella
scena del ballo Cheek to cheek (figura 4), in cui Jerry dichiara il suo amore a
Dale.
Si ha l’immediata misura della preziosità del lavoro a monte per ottenere, come se fosse
perfettamente spontanea, una morbida naturalezza impeccabile, lui perfettamente a suo agio in
frac, sottintendendo uno chic di marca europea, lei, americanissima, con gonne ampie e
svolazzanti in rotazione, spesso anche pesanti da indossare e di non poco ingombro per
muovercisi agilmente; lui certo più abile di lei tecnicamente, ma capace di portarla in vetta
accanto a sé, con tutto l’agio e la grazia divina del partner sicuro e affidabile: l’uomo, solido e
allegro insieme, che ogni donna sogna. Raro che questo mito si incarni in un ballerino, ma
Astaire ha compiuto il miracolo.7
Un’altra memorabile scena è quella girata sotto il padiglione all’aperto in cui
Fred e Ginger
Isn’t
(figura
this a
5),
eseguono
lovely
dove
i
day
due
ballerini mostrano anche di
essere grandi commedianti.
Astaire e la Rogers avevano
Figura 5
7
E. Guzzo Vaccarino, Filmare la danza, danzare il film in Il cinema che ha fatto sognare il mondo. La
commedia brillante e il musical a cura di F. La Polla e F. Monteleone, Bulzoni Editore, Roma 2002
14
una sintonia speciale, qualcosa che nasce dall’ammirazione reciproca. Fuori
dallo schermo non erano grandi amici, eppure davanti alla macchina da presa
si attivava fra loro qualcosa di indefinibile, che li ha sicuramente portati ad
essere una coppia immortale e gradita a tutti.
1.1.4 “Il mago di Oz”
Nel 1938 il successo di Biancaneve e i sette nani della Disney convince La
MGM che la fantasia poteva essere redditizia e che poteva attrarre un
pubblico di adulti, oltre che di bambini. Così nel 1939 viene prodotto e
proiettato sul grande schermo un film al confine tra fiaba e racconto morale, Il
mago di Oz. Esso rientra nella categoria di musical definita fairy tale, che
comprende film musicali immersi in un ambiente onirico e fiabesco. Il film è
infatti tratto da un racconto di Lyman Frank Baum, negoziante, giornalista e
venditore ambulante fallito, che raggiunge il successo con questa favola il cui
titolo è ispirato alle lettere di un suo schedario, dalla “O” alla “Z”.
La piccola Dorothy vive in una fattoria con lo zio, la zia e tre ragazzi. Un
giorno il cagnolino di Dorothy, Totò, entra nel giardino della vecchia vicina
Elmira e spaventa il suo gatto. Elmira, indignata, si rivolge allo sceriffo che
l’autorizza a trattenere il cagnolino. Dorothy, inascoltata e incompresa, fugge
con Totò; ma un vecchio indovino da lei incontrato la persuade a rientrare a
15
casa. Scoppia un ciclone: il vento spalanca una finestra e colpisce Dorothy.
Tutto il suo mondo comincia a girarle intorno. La casa viga in cielo e una
volta atterrata, Dorothy si trova in un paese incantevole, dov’è accolta
festosamente da strane e magiche creature; infatti con l’atterraggio della casa
ha ucciso una strega cattiva. Ma Dorothy vuole ritornare a casa e si reca dal
grande mago di Oz per chiedere il suo aiuto. Dopo una serie di avventure
fantastiche in compagnia di
curiosi
personaggi,
si
risveglia nella sua cameretta
con gli zii al suo fianco.
Figura 6 Dorothy si mette in viaggio per recarsi dal mago e incontra lo
Spaventapasseri, il primo dei suoi tre compagni di avventura.
Il messaggio del racconto di
Baum che viene riportato
sullo schermo è che tutti possiamo possedere, se lo vogliamo davvero, ciò che
desideriamo, perché è già con noi. E nel finale, prima di risvegliarsi a casa,
Dorothy dice: “Ora so che se deciderò di andare ancora in cerca della felicità
non dovrò cercarla oltre i confini del mio giardino, perché se non la trovo là,
non la troverò mai da nessun’altra parte.” Quindi la formula magica che le
permette di ritornare da Oz a casa è “Nessun posto è bello come casa mia”.
L’intreccio di fantasia e sentimenti, sogno e realtà, si inserisce in una
dimensione sontuosa, impreziosita dalle belle canzoni di Arlen e Harburg che
16
s’integrano con naturalezza, allo stesso modo delle coreografie vivaci nella
narrazione fiabesca. E in particolare, per ciò che riguarda la parte musicale Il
mago di Oz vinse l’Oscar grazie al celebre brano Somewhere over the
rainbow, cantato dalla diciassettenne attrice protagonista Judy Garland (fig.
7). La Garland con la sua freschezza, gli occhioni, gli stupori e una
recitazione tesa e trepida contribuisce notevolmente alla formula vincente del
film.
Un
altro
fondamentale
aspetto
è
la
presentazione del mondo
sicuro,
casalingo
semplice
di
e
Dorothy
attraverso un bianco e
nero virato in seppia, in
Figura 7
contrapposizione al regno di Oz che è un universo fantastico di spirali, curve,
spazi deformati dai colori vivaci e irreali, espressione di anarchia e
imprevedibilità, realizzati con l’uso del Technicolor. Il successo di questo
film può essere paragonato a quello di Avatar, che con i suoi effetti in 3D ha
spronato Hollywood ad accettare quel formato. Così Il mago di Oz ha
17
permesso di dimostrare i vantaggi di questa nuova tecnica e da quel momento
in poi tutti i film più importanti saranno realizzati in Technicolor.
Il film si caratterizza per un cast dall’interpretazione eccellente, la fantasiosa
regia di Victor Fleming, una sceneggiatura brillante e una perfetta colonna
sonora: un vero e proprio classico. Un successo planetario nel cinema di tutti i
tempi.
Figura 8 Dorothy e i suoi compagni di viaggio: lo Spaventapasseri (Ray Bolger), l’Uomo di latta (Jack Haley) e il Leone
codardo (Bert Lahr).
1.2 Gli anni Quaranta
È questo il decennio che coincide con la guerra e con l’entrata in essa, di lì a
poco, degli Stati Uniti. Molti attori e attrici viaggiano in tournée nelle zone di
battaglia per tenere alto il morale dei soldati, e non pochi attori si arruolano.
Alla fine della guerra Hollywood si ritrova ad affrontare un aumento dei costi e
18
scioperi. L’esportazione dei film subisce un duro colpo a causa dell’aumento
della tassazione sui film stranieri in Europa. La disoccupazione così colpisce
anche il grande cinema, il cui disagio si accresce a causa della situazione
politica e della cosiddetta «caccia alle streghe»8 organizzata dal senatore Joseph
MacCarthy e Hollywood si ritrova sul banco degli imputati con le famose liste
nere del Comitato per le attività anti-americane. C’è chi, temendo il peggio per
se stesso, arriva a denunciare colleghi e amici per attività sovversive e supposte
simpatie comuniste; inoltre l’associazione dei produttori dà vita ad in sistema di
regole severe, che escludono ingiustamente non poche persone dal lavoro, ma
riescono ad arginare il fiume di ostruzioni preparate da MacCarthy.
Se nel decennio precedente il musical è stato elegante e sfarzoso, negli anni
Quaranta diventa più quotidiano, casalingo.
Non v’è dubbio che negli anni Quaranta la maggior parte della produzione musicale
americana abbia fortemente insistito sul tema (magari secondario rispetto a quelli trattati nel
film, ma sempre presente) della casa, della famiglia, del belonging. Da quel fatidico «There’s
no place like home!», che chiude The Wizard of Oz (Il mago di Oz, 1939) di Victor Fleming,
8
«Caccia alle streghe» o «Maccartismo»è il periodo della storia degli Stati Uniti, caratterizzato dall’intenso
sospetto anticomunista, rivolto soprattutto alle Istituzioni statunitensi e durato dai tardi anni Quaranta fino
alla metà degli anni Cinquanta. Le paure di influenze comuniste furono favorite anche dalla scoperta di
clamorosi casi di spionaggio a favore dell'Unione Sovietica, dall'aumento della tensione causato dal
consolidarsi dell'egemonia sovietica sull'Europa orientale e dal successo della rivoluzione cinese (1949) e
dalla Guerra di Corea (1950-1953). Un elemento principale del maccartismo furono i controlli di sicurezza
interni sugli impiegati del governo federale, condotti dall'FBI di J. Edgar Hoover. Questo dettagliato
programma investigava tutti gli impiegati su eventuali connessioni comuniste, impiegando testimonianze
fornite da fonti anonime che i soggetti all'investigazione non erano in grado di identificare o con cui non
potevano confrontarsi. Dal 1951, il programma richiese un certo grado di dimostrazione per licenziare un
impiegato statale. Doveva esistere un "ragionevole dubbio" sulla sua lealtà; in precedenza era richiesto un
"ragionevole motivo" per ritenerli sleali.
19
in avanti il musical americano ha celebrato spesso e volentieri il senso dell’intimità, della
famiglia e , più largamente, dell’appartenenza a una specifica, ristretta comunità.9
Nasce ora una nuova classificazione che va sotto il nome di «Americana», cioè
un racconto le cui linee portanti poggiano su una nostalgica visione della
vecchia America, con in primo piano abitudini, costumi, valori di un’epoca che
fu, i quali, anche se superati dal tempo passato, vengono percepiti come
fondamenti del modo di essere americano, prescindendo da qualunque
cambiamento apportato dal progresso. Il testimone passa quindi alla MGM, la
casa di produzione più attenta ai valori middle - class della società statunitense,
interprete dei buoni sentimenti nazionali e lettrice dell’American way of life
quotidiana.
1.2.1 “Incontriamoci a St. Louis”
In una Saint Louis di inizio secolo, Mister Smith comunica alla famiglia che ha
avuto una promozione sul lavoro e dovranno trasferirsi tutti, a fine anno, a New
York. È questo l’inizio di un nostalgico sguardo dei protagonisti verso i bei
momenti trascorsi n quel luogo e verso gli oggetti abituali, che assumono così
un particolare valore sentimentale. La malinconia prevale nell’animo delle tre
sorelle Smith: Esther è innamorata del ragazzo della porta accanto, Rose ha
9
F. La Polla, Strictly USA. Il musical americano e l’ideologia nazionale in Il cinema che ha fatto sognare il
mondo. La commedia brillante e il musical a cura di F. La Polla e F. Monteleone, Bulzoni Editore, Roma 2002
20
anche
lei
un
fidanzato e la
piccola
non
Tootie
vuole
lasciare i suoi
tanti
arrivando
amici,
a
Figura 9 Le sorelle Smith, Rose (Lucille Bremer) e Esther (Judy Garland)
piangere disperatamente la notte di Natale, gli ultimi giorni di festa che
trascorrerà a Saint Louis. Nelle quattro stagioni successive, Mr. Smith, che
dapprima cerca di intensificare la sua opera di persuasione, giunge alla
conclusione che è meglio rimanere nella loro amata città, annullando il
trasferimento. È un musical questo (prodotto MGM) in cui il regista, Vincente
Minnelli, esplora il rapporto intimistico tra i sogni e la realtà quotidiana, tra
personaggi e ambiente. Ogni stagione dell’anno che la famiglia passa con il
problema del trasferimento vive di riti, richiami e colori diversi: di sentimenti,
svelati dai lenti movimenti di macchina che si soffermano sugli oggetti e sulle
persone. Il fluire della tessitura cromatica e il movimento della macchina
prendono spesso il posto della danza, esaltando la figura minuta di Judy
Garland in un tripudio di stoffe, tinte decorazioni. Al di là della sua colorita
21
facciata, è un musical
questo molto “difficile”:
di atmosfere e stati
d’animo, piuttosto che
di azione. Tanto è vero
che più di un paese non
si sente di importarlo,
Figura 10
Italia compresa. Eppure
non mancano i motivi orecchiabili, le occasioni spettacolari e commoventi,
come il brano “Trolley song” che dà inizio a una amabile narrazione visiva
oppure “Have yourself a Merry little Christmas”, colonna sonora della
commovente scena in cui la notte di Natale Tootie piange disperatamente (fig.
10).
«Un film che, con la scusa di rievocare il mondo del principio di secolo, celebra
le gioie semplici del passato e il dolce inganno delle apparenze.»10
1.2.2 “Il pirata”
Un’altra produzione MGM, un altro grande successo di Minnelli, «il trionfo del
sogno che si libera e vince le costrizioni del mondo reale».11
10
P. Pruzzo, Musical americano in cento film, Le Mani, Genova 1998
22
In una scenografia barocca e fiammeggiante, l’attore–acrobata girovago si finge
un terribile pirata per farsi amare dalla ragazza, che della leggenda del pirata si
è invaghita fino al punto da non distinguere più ciò che desidera da ciò che
immagina (mentre l’attore, a forza di recitare, non sa più se vive sulla scena o
recita nella vita). L’attore-acrobata Serafin è interpretato da Gene Kelly, grande
interprete
e
ballerino
diventato uno dei simboli
del
grande
musical
hollywoodiano. La figura
di
Kelly
sarà
sempre
contrapposta a quella di
Fred Astaire, con il quale
l’unico aspetto in comune
Figura 11 Manuela (Judy Garland) e Serafin (Gene Kelly) recitano fino a
smascherare Don Pedro, il vero Macoco.
è il perfezionismo che li
spinge a provare continuamente, prima di giungere al risultato desiderato. Gene
Kelly rappresenta l’atletico e virile prototipo del maschio americano; a
differenza di Astaire , non ha partner fisse: è un solista che costringe le
telecamere a inseguirlo nelle sue esuberanti performance, come se danzasse
insieme a lui.
11
Ivi, p. 19
23
Judy Garland è Manuela, che vive in un’isola dei Caraibi con lo zio. La sua
aspirazione a una vita diversa ruota intorno all’immagine che ha dell’audace
pirata Macoco. Tuttavia, a malincuore, accetta di sposare il ricco Don Pedro
(Walter Slezak) padrone dell’isola, risolvendo così i problemi finanziari dello
zio. Il caso però vuole che nel mercato di Puerto Sebastian conosca Serafin, un
ballerino acrobata, alle prese con uno spettacolo insieme alla sua compagnia.
Quando scopre l’interesse di Manuela per Macoco, Serafin, per ottenere il suo
amore, le confessa di essere il pirata rischiando di essere impiccato. Ma alla
fine verrà svelata la verità: è Don Pedro il vero Macoco. Per Manuela è la fine
di un sogno, ma diventa
cosciente
dell’amore
che prova verso Serafin.
Vita reale e sogno si
fondono. Il sogno non è
più semplice pretesto
per un numero, ma è il
film stesso a diventare
Figura 12 Judy Garland e Gene Kelly interpretano Be a clown nella scena finale.
sogno, a narrare, soprattutto con la danza, la storia d’amore. Danno sostegno
all’idea minnelliana, le coreografie di Robert Alton e dello stesso Gene Kelly,
che dà un’anima anche alle sequenze più virtuosistiche e atletiche e le musiche
di Cole Porter. A tal proposito “Be a clown”, destinata a diventare un classico,
24
è il brano con cui i due protagonisti chiudono il
film, portando alle estreme conseguenze il trionfo
dell’inganno, il motivo portante dell’intero film:
tutto è finzione, e solo chi finge è vero, solo chi
recita è vivo. 12
Figura 13 Vincente Minnelli con l’attrice
Judy Garland, sua moglie.
1.2.3 “Un giorno a New York”
Gabey
(Gene
Kelly),
Chip
(Frank Sinatra) e Ozzie (Jules
Munshin) sono tre marinai, in
licenza per ventiquattr’ore e per
la prima volta a New York. Le
cose da vedere sono tante, ma
Figura 14 Jules Munshin, Frank Sinatra e Gene Kelly nella scena
iniziale del film.
subito uno di loro si invaghisce di “Miss Metropolitana”, una ragazzina che
studia danza classica e, per pagarsi gli studi, lavora la sera a Coney Island. I tre
l’hanno appena intravista, e per inseguirla chiedono aiuto ad altre due giovani
12
Cfr. Prima la musica, poi le parole di E. Comuzio in F. La Polla e F. Monteleone Il cinema che ha fatto
sognare il mondo. La commedia brillante e il musical, Bulzoni Editore, Roma 2002
25
donne, una conducente di taxi e un’antropologa incontrata al museo davanti a
uno scheletro di dinosauro fatto crollare. Inseguiti dalla polizia, riescono a farla
franca e dopo una salita all’Empire State Building e una visita a qualche
cabaret fino a mezzanotte, ritrovano la ragazza. Il tempo però corre, all’alba i
tre devono risalire a bordo. Vi arriveranno appena in tempo, accompagnati
dalle tre compagne di avventura. È questa la storia di Un giorno a New York,
un altro prodotto MGM diretto da Stanley Donen e Gene Kelly che, alla fine
degli anni Quaranta, operano un rinnovamento del genere. Il film è uno scoppio
di energia e di novità liberatorie. Una più sciolta articolazione del linguaggio, l’
innesto “naturale” delle esibizioni, l’intreccio inevitabile fra spettacolo e vita
reale sono gli elementi caratterizzanti di Un giorno a New York. Ricordando la
lezione di certi film di Astaire, in cui una danza nasce spontaneamente dal
corso stesso della vicenda, il film non si serve di scuse professionali per far
ballare o cantare i protagonisti che sono marinai, non gente di spettacolo: se
ballano e cantano è perché la vita offre loro, in quelle poche ore, l’occasione di
farlo.
Inoltre, con Un giorno a New York, il musical esce dagli studios hollywoodiani
nel numero iniziale e finale per vivere la vera New York degli anni Cinquanta.
Una favola quindi, incorniciata dal profilo della città e dal porto immerso nella
prima luce del mattino, che donano un tocco di grande realismo.
26
2. Il periodo d’oro
2.1 Gli anni Cinquanta
Continua la «caccia alle streghe» del senatore McCarthy, il cinema è ancora
oppresso dal setaccio anticomunista con le famigerate «liste nere» dei cineasti
sospettati di essere compromessi con la sinistra. Uomini di grande rigore
morale vengono allontanati e la comunità reagisce con un’attività di
prestanomi, che firmavano il lavoro di colleghi ingiustamente licenziati, per
poter permettere loro di guadagnarsi da vivere. Un esempio è la vincita nel
1956 dell’’Oscar di Dalton Trumbo per il soggetto di The brave one, che aveva
firmato come Robert Rich, non potendo così ritirare il premio. Solo nel 1958
viene abolita la proscrizione dei colpevoli e dei sospetti di filocomunismo, e
Hollywood può premiare i cineasti allontanati pronunciando il loro vero nome.
Negli anni Quaranta nasce la televisione, ma è in questo decennio che il cinema
adotta nuove mosse per rispondere all’affermarsi del nuovo mezzo, considerato
un pericoloso concorrente. Gli uffici e i laboratori delle case si mettono quindi
al lavoro, per realizzare nuovi procedimenti per la fabbricazione di pellicole,
27
ma soprattutto nuovi formati come il Cinemascope13, tecniche di visione come
il 3D e altre invenzioni ancora …
Gli anni Cinquanta, soprattutto nella prima metà, vedono la realizzazione di
veri capolavori del musical e il trionfo totale nel genere da parte della MGM.
Ciò grazie anche alla Freed Unit, il gruppo organizzato da Arthur Freed, che
impiegò puntualmente gli stessi tecnici per la realizzazione di film quali
Spettacolo di varietà, Un americano a Parigi, Gigi, tutti di Vincente Minnelli.
Ma il successo della MGM è accompagnato dal nome di un altro grande regista
Stanley Donen, che dirige insieme a Gene Kelly Cantando sotto la pioggia.
«Nessuno in quegli anni poteva battere la MGM quanto a musical. La
fotografia, il colore, l’arrangiamento orchestrale, il ritmo garbato e insieme
sostenutissimo, e gli straordinari interpreti, tutto concorreva a fare della Casa la
regina del genere».14
13
CinemaScope: un sistema di ripresa cinematografica, basato su lenti anamorfiche, utilizzato dal 1953 al
1967. Sebbene tale sistema abbia dato inizio ai moderni formati cinematografici, il CinemaScope è stato
rapidamente reso obsoleto dalle evoluzioni tecniche. Il CinemaScope consiste nel deformare, in ripresa, le
immagini e poi disanamorfizzarle in proiezione al fine di ottenere fotogrammi a largo campo visivo, con un
conseguente gradevole effetto. Tale sistema fu brevettato negli anni cinquanta dalla 20th Century Fox ed
utilizzato per la prima volta nel film La Tunica (1953). Il motivo del successo di tale procedimento è che non
andava ad intaccare in modo significativo sia le macchine da presa che i proiettori esistenti nelle sale se non per
il cambio delle lenti e di qualche piccola modifica, in tal modo ci fu l'approvazione dei circuiti di distribuzione
che non vedevano di buon occhio spese esagerate per la modernizzazione delle sale.
14
F. La Polla, Introduzione al cinema di Hollywood, Mondadori Università, 2006
28
Fino a questo momento il musical è stato niente di più che piacevole e
sorprendete intrattenimento. L’autorialità che in questi anni era già
rintracciabile in altri generi, come il western, si fa strada anche nel musical. Il
genere diventa occasione per dare vita a un mondo autoriale coerente,
identificabile facilmente nell’attività di un unico autore. Il musical quindi non
descrive più soltanto qualcosa che provoca meraviglia, ma che innesca una
riflessione sulla realtà, sullo spettacolo. Ora più che mai i numeri musicali e la
storia si integrano perfettamente, sono un’unica cosa. In ciò si distingue
soprattutto Minnelli, che incentra la propria poetica su un’idea di sogno
antitetico alla realtà. I protagonisti delle storie si abbandonano al sogno, fin
quando non vengono risvegliati alla vita reale. Invece Stanley Donen, più che
narrare una propria visione del mondo, diventa autore riconoscibile per la
creazione di uno stile personalissimo, incentrato sul rapporto fra movimento e
psicologia. Esemplificando, nei numeri musicali il movimento aumenta in
modo proporzionale all’aumentare dell’eccitazione dei personaggi. Sono loro i
registi protagonisti dell’«era d’oro» del musical, che può dirsi conclusa nel
1961 con West side story di Robert Wise di cui parleremo più avanti.
2.2 Minnelli: da “Un americano a Parigi” all’Oscar di “Gigi”
Vincente Minnelli è stato uno dei cardini dell’industria cinematografica MGM.
29
Grande regista, ma innanzitutto grande direttore artistico, dopo i suoi primi
successi a Broadway come costumista e scenografo, ha la possibilità di dirigere
un suo personale spettacolo e diverse riviste. È Arthur Freed che lo introdurrà
nella compagnia MGM, raggiungendone il vertice grazie al suo perfezionismo,
al suo gusto impeccabile e sempre in equilibrio tra la personale creatività e
l’adeguamento alle logiche degli studios.
Dopo i grandi successi, tra cui Incontriamoci a St. Louis e Il pirata dei quali
abbiamo già parlato, Minnelli si conferma tra gli artefici della definizione del
genere, dirigendo Gene Kelly in Un americano a Parigi del 1951 e Fred
Astaire in Spettacolo di Varietà del 1953.
In Un americano a Parigi Kelly interpreta Jerry Mulligan, un ex soldato
americano, che alla fine della guerra decide di rimanere a Parigi per studiare
pittura. Il suo amico Adam, un pianista, gli presenta Henri, uno chansonnieur
che dice di voler sposare Lisa, ragazza orfana che lui ha salvato e ospitato
durante la guerra. Intanto una ricca americana è attratta da Jerry e finge di
interessarsi ai suoi quadri; ma Jerry è affascinato da una ragazza francese che
ha conosciuto in un locale e che ricambia il sentimento, ma quando lui le
chiede di sposarlo, le lo rifiuta. La ragazza è infatti Lisa, che pur non amando
Henri, sente un debito di riconoscenza nei suoi confronti. Jerry cerca di
dimenticarla, ma a un ballo i due si incontrano di nuovo e si confessano il
30
reciproco
amore.
Decidono però di dirsi
addio. Henri, nascosto,
ha
assistito
alla
conversazione e non
vuole
che
Lisa
si
sacrifichi per lui, così
le permette di ritornare
Figura 15 Jerry (Gene kelly) e Lisa (Leslie Caron) danzano sulle rive della Senna
Love is Here to stay
da Jerry.
Per questo film Gene Kelly riceve un Oscar speciale per la sua “versatilità” di
attore, regista, ballerino e, soprattutto, per le brillanti innovazioni
coreografiche. Memorabile il lungo e sontuoso balletto finale, su musica di
George Gershwin, della durata di ben 17 minuti, che costa alla MGM 723.000
dollari. Il balletto è una celebrazione coreografica dello stile di artisti come
Toulouse-Lautrec, Van Gogh, Renoir, Rousseau. Ma, come scrive Piero
Pruzzo,
è anche una sorta di ripetizione e trasfigurazione della vicenda del film stesso, con il
protagonista che è un artista innamorato di Parigi e di chi l’ha dipinta, e innamorato d’una
31
ragazza che di continuo incontra e di continuo gli sfugge, mentre, intorno, la città si fa lieta e
coloratissima, oppure livida e fredda a seconda appunto ch’egli abbia o no la ragazza vicina.15
Altre sono le sequenze musicali che permettono a Kelly di ben esprimersi con
al sua danza. Ricordiamo quindi il passo a due Love is here to stay (fig. 15) con
Leslie Caron (interprete di Lisa) sulla Senna, dove evidente è il sentimento di
malinconia per un amore pieno di ostacoli. Infine anche I got rhythm,che Kelly
canta e mima con un gruppo di bambini sul marciapiede, in cui emerge il
bisogno di comunicare uno stato d’animo fiducioso nella vita.
Spettacolo di varietà è la pellicola che, più di ogni altro musical, celebra in
modo appassionato il mondo dello spettacolo e il “dietro le quinte”.
Protagonista della storia è il ballerino Tony Hunter (Fred Astaire) che, dopo i
successi ottenuti a Hollywood, è
ormai dimenticato da tutti. I suoi
amici Lester (Oscar Levant) e
Lily (Nanette Fabray), autori di
riviste musicali, lo invitano a
New York, perché lo vorrebbero
Figura 16 Dancing in the Dark ballato da Cyd Charisse e Fred
Astaire in Central Park
nel cast di uno spettacolo che
hanno appena scritto. Coprotagonista sarà l’affascinante ballerina classica
Gabrielle Gerard (Cyd Charisse), ma sin da subito il rapporto tra i due prende
15
P. Pruzzo, Musical americano in cento film, Le Mani, Genova 1998
32
una piega sbagliata. Nonostante le tante difficoltà nell’allestimento dello
spettacolo, alla fine Hunter raggiungerà nuovamente la fama, non solo come
ballerino ma anche come regista, conquistando il cuore di Gabrielle.
C’è tutto: la danza che nasce come una magia dallo svelarsi dei sentimenti, un
duetto in frac e cilindro, un numero di virtuosismo di Astaire, la canzone
autoreferenziale (That’s entertainment!), che celebra l’essenza dello show e
chiarisce il significato minnelliano del film: la vita e lo spettacolo si scambiano
continuamente i ruoli sul palcoscenico del mondo. L’intreccio può ricordare
moltissimi musical «backstage» anni Trenta ambientati appunto tra persone che
allestiscono una rivista, ma tutto diventa nuovo e originale grazie alla fantasia e
al ritmo dei fotogrammi. Decisiva è la regia del perfezionista Minnelli.
Gigi è un film del 1958, tratto dall’omonimo romanzo di Colette e ambientato
nella Parigi della «Belle époque»; in un periodo in cui il musical sembra
allontanarsi dalla dimensione del sogno, ripropone tutti gli elementi della
favola romantica. Gigi (Leslie Caron) è una fanciulla di provincia arrivata a
Parigi alla fine dell’Ottocento, e allevata dalla nonna materna, la signora
Alvarez (Hermione Gingold), e dalla zia, già famose cocottes. Queste vogliono
che la ragazza segua le loro orme e, allo scopo, hanno già scelto quello che
potrebbe essere il suo protettore, Gaston (Louis Jourdan), ricchissimo giovane
che si reca spesso a far loro visita, colpito dalla grazia e dall’allegria di Gigi.
33
Lo zio di Gaston, Honoré (Maurice Chevalier), era stato a suo tempo amante
della signora Alvarez. Ora suo nipote sta innamorandosi di Gigi, che ricambia.
L’offerta delle parenti di Gigi provoca lo sdegno di Gaston, che si allontana.
Ma i suoi sentimenti verso Gigi sono sinceri, perciò ritorna per dichiararsi. Però
adesso è Gigi che si mostra indignata. Alla fine Gaston ripara all’equivoco e
sposa Gigi, preferendo che la giovane sia sua moglie anziché sua amante.
La fine degli anni Cinquanta vede il rinnovamento dei generi tradizionali. Per il
musical la stagione dei sentimenti cede il passo a curiosità e nuove soluzioni. Il
sogno, che è la colonna portante del cinema di Minnelli, sta per svanire: a
dominare sono la commedia e il dramma dichiarati. Tuttavia con Gigi Minnelli
riesce ancora una volta a
mantenere in vita il sogno,
facendo rivivere un’epoca
lontana, una «fine secolo»
piena
pittoriche
di
suggestioni
e
dettagli
rivelatori: negli ambienti,
Figura 17 Gigi (Leslie Caron) e Gaston (Louis Jourdan).
negli arredi, negli abiti …
Nonostante nel film si balli con molta moderazione, si percepisce l’aria del
musical, la felicità del movimento. Gigi si aggiudica nove Oscar: regia,
sceneggiatura, scenografia, arredamento, costumi, montaggio, canzone, colonna
34
sonora e fotografia. È il primo musical a riceverne così tanti (ne avrà uno in
più, tre anni dopo, West side story). Inoltre Gigi è uno dei pochi musical che
darà origine a un lavoro teatrale, anziché arrivare sullo schermo dal
palcoscenico.
2.3 … e Stanley Donen
Coreografo, attore, cantante, ballerino, sceneggiatore e produttore, Stanley
Donen arriva a Hollywood a soli diciassette anni grazie ad Arthur Freed,
iniziando come assistente coreografo. Donen ha il merito di aver contribuito
all’evoluzione del musical, facendo sì che la coreografia divenisse parte
integrante della narrazione. Gli ambienti non sono delle semplici aggiunte
estetiche, come fossero palcoscenici su cui si muove l’attore, ma sono spazi,
interni ed esterni, i cui elementi favoriscono la danza. Con Donen la macchina
da presa nelle strade raggiunge un entusiasmo, una motivazione e un realismo
mai visti prima.
Grande è stata la collaborazione con Gene Kelly, iniziata con Un giorno a New
York (di cui abbiamo parlato), che li a spinti a esplorare le possibilità del
cinema, cambiando il modo in cui la danza era rappresentata sullo schermo fino
a quel momento. Frutto di questo sodalizio quei capolavori del musical
35
cinematografico che sono Cantando sotto la pioggia (1952) ed È sempre bel
tempo (1955).
Cantando sotto la pioggia è ambientato nella Hollywood del 1927. Alla prima
di un suo nuovo film, il divo Don Lockwood (Gene Kelly), insieme con la sua
insopportabile partner Lina Lamont (Jean Hagen), racconta la sua scesa alla
celebrità, inventandosi tutto. Quella stessa sera conosce un’aspirante attrice,
Kathy Selden (Debbie Reynolds), che mentre sogna il teatro accetta di fare la
ballerina nelle feste dei divi, pur disprezzando il cinema. Dopo uno scontro
iniziale, tra i due nasce del tenero. Intanto, partendo da Il cantante di jazz,
Hollywood si getta sul sonoro. Anche il film che Don e Lina stanno girando
dovrà avere voci e suoni, ma l’operazione si rivela difficile perché Lina ha una
voce orrenda. Lo scrittore e musicista Cosmo Brown (Donald O’Connor),
amico di Don, escogita il sistema per salvare il film: Kathy parlerà e canterà per
Lina. Ma Lina ricatta il produttore: guai se verrà rivelato che lei è stata
doppiata. Alla prima del film però Don e Cosmo sveleranno il trucco. Lina
crolla e Don e Kathy lavoreranno insieme.
Prendendo a pretesto l’epoca del passaggio dal muto al sonoro, il musical, qui, rievoca
ironicamente i propri balbettii, ma contemporaneamente esibisce l’attuale maturità di
36
linguaggio. Utilizza, insomma, la propria protostoria all’interno di uno spettacolo diverso e
più complesso, con il quale racconta in sostanza se stesso. 16
Dietro c’è Arthur Freed. È sua l’idea di ricostruire la Hollywood scossa dal
suono; un periodo che lui ha vissuto direttamente. E molti numeri presenti nel
film sono stati scritti proprio da Freed insieme con Nacio Herb Brown diversi
anni prima. Abili perciò gli sceneggiatori, Betty Comden e Adolph Green, che
riescono a scrivere una storia convincente adattandola a numeri totalmente
indipendenti. Tra questi la canzone memorabile Singing in the rain, simbolo
dell’intero musical, che ispira a Gene Kelly il più riuscito e trascinante balletto
della sua carriera: l’artista
che,
accompagnata
ragazza,
si
offre
la
alla
pioggia nel pieno della
felicità, perché ha trovato
l’amore e il modo di
salvare la sua carriera. La
macchina
da
presa
lo
Figura 18
accompagna mentre cammina cantando, lo riprende dall’alto mentre pesta le
pozzanghere sulla strada e poi si avvicina nuovamente per cogliere la felicità
del suo volto (fig. 18).
16
P. Pruzzo, Musical americano in cento film, Le Mani, Genova 1998
37
Un successo durato cinquant’anni grazie ad una regia briosa, alla vitalità di
Kelly, allo spirito ironico della sceneggiatura e gli efficaci momenti musicali.
È sempre bel tempo è il terzo, e meno citato, dei tre film che vedono la regia a
quattro mani di Donen e Kelly e la collaborazione con Arthur Freed e il duo
Comden-Green. Non possiede la vitalità e l’inventiva dei due lavori precedenti,
tuttavia ha anch’esso una propria vena originale, che non va sul festoso, ma
svela un timbro principalmente crepuscolare e riflessivo. Protagonisti sono tre
commilitoni che si ritrovano, dieci anni dopo la guerra, in un bar dove erano
soliti andare da giovani. Nessuno dei tre è riuscito in ciò che voleva: Ted Riley
(Gene Kelly), aspirante avvocato, si ritrova a lavorare nel campo pugilistico;
Doug Hallerton (Dan Dailey) è direttore televisivo, ma sta divorziando da sua
moglie; Angie Valentine (Michael Kidd), proprietario di un ristorante, è sempre
sopraffatto da problemi familiari, legati alla gelosia della moglie. Ma l’incontro
dei tre raggiunge un
cambiamento
con
l’entrata in scena di
Jackie
(Cyd
Charisse),
organizzatrice
Figura 19 Micheal Kidd, Gene Kelly e Dan Dailey.
una
di
programmi
38
televisivi, amica di Doug, intenzionata a fare un servizio sulla loro storia. La
giornata è quindi un susseguirsi di fatti casuali, tra i quali l’arresto in diretta di
una banda di gangster intenzionati a scagliarsi contro Ted. Questi alla fine
ritrova se stesso e scopre l’amore in Jackie, allo stesso modo Doug e Angie
sembrano aver ritrovato la speranza.
I protagonisti sono costretti a fare i conti con le prime delusioni della vita. Pur
dietro il vigore e la creatività dei numeri di ballo e delle canzoni, e anche la
satira dei programmi televisivi, dominano il senso della precarietà esistenziale e
«la consapevolezza della trappola sentimentale dei ricordi».17
Sette spose per sette fratelli è un musical che Donen dirige nel 1954, prima di
tornare a condividere il posto di regista per la terza e ultima volta con Kelly in
È sempre bel tempo. È un film che risente di qualche influenza western e che si
affida a numeri corali di grande effetto, entrando a far parte del sottogenere del
folk-musical. È la storia dei sette fratelli Pontipee che vivono tra le montagne
dell’Oregon, in un ambiente quasi primitivo. Milly, interpretata da Jane Powell,
è andata in sposa senza troppo rifletterci a uno di loro, Adam (Howard Keel).
Decide quindi di insegnare agli altri sei giovani fratelli le buone maniere e i
trucchi del corteggiamento. I ragazzi sono così pronti a partecipare alla festa
del paese, ma durante i festeggiamenti scoppia una lite fra i giovani montanari e
17
P. Pruzzo, Musical americano in cento film, Le Mani, Genova 1998
39
i cittadini, questi ultimi infastiditi dall’attenzione delle fanciulle rivolta ai nuovi
arrivati. Adam, contrario alle buone maniere, dopo aver letto la storia del ratto
delle Sabine in un libro consigliato da Milly, decide di organizzare il rapimento
di sei belle ragazze. Così avviene, pur con la disapprovazione di Milly che si
prende cura delle ragazze, costrette a rimanere sui monti anche a causa di una
valanga. Trascorso l’inverno tra i giovani e le fanciulle nasce l’amore, mentre
Adam e Milly sembrano allontanarsi. Ma alla fine quando le famiglie
raggiungeranno l’Oregon per punire i rapitori, tutto si concluderà con sei
matrimoni e la riappacificazione di Milly e Adam.
Innanzitutto è evidente come il finale, in cui le donne scelgono di rimanere con
i montanari, preferendo la loro rozza autenticità allo stile di vita borghese,
dimostra ancora una volta la tendenza del musical in genere a esaltare la
schiettezza dello spirito americano:
Che il film assegni la palma ai primi (i montanari), la dice lunga sul modello nel quale
l’America ama e ha sempre amato identificarsi ispirandosi alle sue origini storiche e
pioneristiche: affermazione e apologia di una rozzezza che, lungi dall’essere soltanto inciviltà e
maleducazione, si presenta come fondamentale ed inalienabile tratto fondante il carattere
americano.18
Questo «ratto delle Sabine» in versione western segue la stessa direzione di Un
giorno a New York, puntando sulla coralità piuttosto che sul singolo, e su un
18
F. La Polla, Strictly USA. Il musical americano e l’ideologia nazionale in Il cinema che ha fatto sognare il
mondo. La commedia brillante e il musical a cura di F. La Polla e F. Monteleone, Bulzoni Editore, Roma 2002
40
tipo di danza basata sulla prestanza fisica e il ritmo vigoroso anziché
l’eleganza. A tal proposito le sequenze di ballo emozionanti e innovative sono
del bravissimo Micheal Kidd. I ragazzotti del film sono interpretati da veri
ballerini, danzatori provenienti dal balletto, ma sono anche dei veri uomini e lo
dimostrano con la loro danza energica e possente; la loro convinzione e
l’atteggiamento trascinano il pubblico. Inoltre, fatta eccezione per un paio di
riprese, il film è girato interamente in studio. Ciò però non lo rende artefatto,
ma lo trasforma quasi in una
fiaba. L’artificio è parte della
sua
bellezza.
Per
finire,
l’ambientazione western e
anche
le
coreografie
traggono poi vantaggio da un
Figura 20 Milly (Jane Powell) istruisce i sei giovani fratelli.
appropriato
uso
del
cinemascope, aggiungendo una suggestione visiva che contribuisce non poco
ad attrarre lo spettatore.
Nel 1957, a quasi sessant’anni, Fred Astaire è protagonista insieme a Audrey
Hepburn di Cenerentola a Parigi, dove l’attrice interpreta Jo Stockton,
bibliotecaria attratta dalla cultura, notata per la sua bellezza e per l’eleganza nei
movimenti da un famoso fotografo, Dick Avery (Astaire), alla scoperta di
nuovi volti da segnalare alla direttrice del giornale dove lavora (Kay
41
Thompson). Dick riesce a convincere la ragazza ad andare con lui a Parigi e la
inserisce nell’alta moda parigina. Inevitabile l’amore tra i due, che si
concretizza solo quando Jo – convinta di essere innamorata di un professorefilosofo – ne prende coscienza.
Prima del film esisteva già una Cenerentola a Parigi: è la commedia musicale
di Ira e George Gershwin, scritta nel 1927. Tuttavia il film di cui stiamo
parlando non ne è la trascrizione cinematografica. C’è il titolo, ci sono molte
canzoni, c’è anche lo stesso interprete – cioè Astaire, che trent’anni prima ha
portato al successo lo spettacolo a Broadway e a Londra con la sorella Adele –
ma la storia viene da un racconto di Leonard Gersce.
Questo
film
prodotto
Paramount;
viene
dalla
infatti
Astaire e la Hepburn, gli
artisti che il regista,
Donen, desidera dirigere,
sono sotto contratto con
la casa di produzione.
Figura 21 Bonjour Paris! Numero di apertura del film con Kay Thompson,
Fred Astaire e Audrey Hepburn.
Questa rileva i diritti
musicali appartenenti alla Warner e realizza il film con una filigrana e un tocco
42
che non sono quelli della MGM. Tuttavia grazie alla regia di Donen e alla
fotografia di Ray June, il risultato è quello di un’opera sofisticata che si adatta
perfettamente alla materia. Un musical raffinato dove la Hepburn, grazie alla
maestria di Astaire, si trasforma in un’interprete adorabile anche nelle sequenze
di danza. Il numero più geniale e prezioso di tutto il film però è ovviamente
quello di Astaire in Let’s kiss and make up, un a solo in cui riesce a infondere
vita agli oggetti utilizzati: un
cappello, un ombrello e un
impermeabile.
Figura 22 Stanley Donen sul set con gene Kelly
2.4 Spartiacque: “West side story”
West side story è un musical del 1961 diretto da Robert Wise insieme con il
coreografo Jerome Robbins, ideatore dell’omonimo spettacolo teatrale che
viene appunto riproposto sullo schermo. Un altro nome che spicca non soltanto
43
nella locandina del film ma anche in quella dello spettacolo è quello
dell’ideatore delle musiche, Leonard Bernstein. West side story è da
considerare uno “spartiacque” tra il musical classico e quello moderno: è infatti
il film che abbandona il mondo “leggero” e onirico del musical, per fare posto a
tematiche sociali. In questo caso,ci riferiamo al tema della delinquenza minorile
metropolitana a sfondo etnico. La storia è una sorta di Romeo e Giulietta
rivisitato
in
moderna:
protagonisti
sono
Tony
Beymer)
(Natalie
chiave
(Richard
e
Wood),
Maria
due
giovani appartenenti a
due bande rivali, i Jets e
gli Sharks (questi ultimi
portoricani),
Figura 23 La scena in cui Tony (Richard Beymer) raggiunge la stanza di Maria
(Natalie Wood) dalla scala antincendio e le dichiara il suo amore.
che
vengono a simboleggiare gli scontri sociali e razziali dell’America negli anni
Sessanta. L’astio fra i due gruppi porterà ad una conclusione che vede la tragica
morte di Tony, e con questa, la fine dell’odio reciproco. Siamo dunque di fronte
ad una storia d’amore, ma anche di morte, con uno sfondo che è quello della
violenza e dell’emarginazione giovanile; qualcosa di inusuale fino ad ora per
l’ambito del musical.
44
Non si può tralasciare però il grande lavoro del coreografo, Robbins, che affida
la vicenda ad una danza vigorosa che ricorre spesso ed anch’essa dallo stile
moderno, che contrasta con le musiche drammatiche di Bernstein. Inoltre, un
particolare che evidenzia da subito la modernità di West side story sono i titoli
di testa, realizzati dal grafico Saul Bass, cui colori accesi sembrano presagire il
dramma che avverrà: mentre sullo schermo si alternano colori esplosivi, appare
una serie di linee che a poco a poco si trasformano nello skyline di Manhattan.
Poi il profilo di New York passa dall’essere un semplice segno grafico ad
un’inquadratura reale; i titoli di testa quindi sfilano sulla città ripresa dall’alto.
West side story è uno dei più grandi successi cinematografici mondiali:
premiato con dieci Oscar (soltanto Ben Hur ne otterrà undici) e con oltre
quarant’anni di continuo consenso di pubblico e critica.
45
3. Nuovi protagonisti: il “tardo” musical e gli anni 2000
3.1 Dopo West side story
Negli anni Sessanta il musical classico è ormai agonizzante. Dopo West side
story ritroviamo Robert Wise alla regia di Tutti insieme appassionatamente
(1965), tra i film con gli incassi maggiori ma da subito poco amato dalla critica,
con la storia di una giovane novizia che, viene mandata da governante nella
casa del capitano von Tripp, di cui si innamorerà. Un prodotto per certi versi
“infantile”, come altri che seguiranno (Mary Poppins 1965, Il Dottor Dolittle
1967…). Nel 1964 My fair Lady di George Cukor vince il premio oscar come
Miglior film, distinguendosi per l’eleganza e la finezza, ma con una dominante
così sofisticata che fa pensare più a un antico atelier che a un musical
complesso. In Funny Girl (1968) di William Wyler, la personalità di Barbra
Streisand è talmente forte da dominare la scena, prendendo la mano al regista
stesso; in Hello Dolly (1969) Gene Kelly cade nella stessa trappola
streisandiana. Il musical ormai «ha perso la capacità di riproporre la sua
funzione purificatrice e consolatoria in un mondo sconvolto dal caos, quando il
musical ha bisogno di riportare quel caos all’ordine».
19
Dagli anni Settanta in
poi il musical esplode in forme diverse, ibride, che non potremmo definire
19
F. La Polla, Il nuovo cinema americano, 1967-1975, Marsilio, Venezia 1978
46
musical, ma in esse l’eredità del genere è potente; il musical quindi diventa
remake (come vedremo con Bob Fosse), gioco sugli stereotipi (con Martin
Scorsese); il tardo musical sarà sempre più parodia, revival, gioco sui miti e
anche dissacrazione di essi (Grease, Jesus Christ Superstar, Hair …).
3.2 Bob Fosse
Gli anni Sessanta vedono emergere un nome che presto si imporrà come uno
dei simboli (se non il più importante) del musical moderno: Bob Fosse. Nel
1968 dirige Sweet charity – Una ragazza che voleva essere amata: la storia di
una piccola prostituta e del suo
bisogno d’amore. Il film è tratto
dallo spettacolo teatrale di Neil
Simon e basato su Le notti di
Cabiria di Federico Fellini. Fosse,
inoltre, trae da West side story
l’uso del background urbano, ma
soprattutto utilizza con sicurezza la
macchina da presa in accordo
perfetto con le sue coreografie e
Figura 24 Shirley McLaine interpreta Charity
47
mostra anche particolare attenzione alle luci in funzione della composizione
della scena. Da sottolineare sono due brani: uno in cui la protagonista Shirley
McLaine si cimenta con un numero ricco di ammiccamenti sessuali,
dimostrando come siano cambiati i tempi: infatti civetta e gioca con un cilindro
alludendo a un fallo ed evocando un certo voyeurismo (fig.24); l’altro brano è
all’inizio del film, «che dimostra invece come Fosse tenti di misurarsi con le
estetiche del «moderno»: l’esibizione dei movimenti della macchina da presa,
la scoperta dell’«apparato», un linguaggio sporco fatto di zoom, fuori fuoco,
scarti bruschi, salti di continuità».20 Spesso in Fosse regista ricorrono
inquadrature ristrette ai particolari, primissimi piani che, come pezzi di un
puzzle attraverso continui stacchi, si ricompongono in un’unica immagine. Le
sue creazioni coreografiche invece si compongono di mosse che stanno tra il
burlesque e il vaudeville (mondo dove avviene la sua formazione giovanile);
braccia allargate, fianchi protesi, cappelli a bombetta sollevati e rotazione delle
pelvi; la sessualità è sempre mostrata generosamente, come anche la
«vulnerabilità contrapposta alla spavalderia».21 Tutto ciò si ritrova nel
capolavoro di Fosse che è Cabaret, diretto nel 1972, vincitore di ben otto
statuette. È la storia della sensuale Sally Bowles (Liza Minnelli), che aspira a
diventare una diva del cinema. Siamo negli anni Trenta, Sally si esibisce al
20
V. Zagarrio, Sulle ali dell’arcobaleno. Il tardo musical, in Il cinema che ha fatto sognare il mondo. La
commedia brillante e il musical a cura di F. La Polla e F. Monteleone, Bulzoni Editore, Roma 2002
21
K. Bloom, Hollywood Musicals. I cento più grandi film musicali di tutti i tempi, ,Gremese, 2012 Tradotto da
C. Vatteroni
48
“Kit-Kat Club” di Berlino, oltre a far compagnia a ricchi signori in cambio di
denaro. Sullo sfondo gli avvenimenti storici con l’ascesa al potere di Hitler e la
decadenza della società berlinese.
Cabaret è ricavato dal libro Addio a Berlino di Christopher Isherwood:
un’acuta ricostruzione, a caldo, della vita della città tedesca all’inizio degli anni
Trenta, mentre la Repubblica di Weimar affondava per mano dei nazisti. Il libro
viene
perfettamente
riplasmato
da
Fosse,
sostenuto
da
una
sceneggiatura,
Figura 25 Sally (Liza Minnelli) durante un’esibizione sul palco del Kit-Kat club, nella sequenza
iniziale del film.
da
fotografia,
scenografia e costumi che restituiscono, sia l’atmosfera disillusa del cabaret
tedesco dell’epoca, sia l’incubo delle strade su cui camminano le camicie
brune. Ma non c’è traccia di predica. Fosse lascia che la vicenda parli da sola.
Anzi insiste sull’aspetto paradossale del tema: «l’insopprimibile spinta
dell’energia vitale che non si spegne neppure nel pieno delle difficoltà proprie
49
di una società in crisi».
22
La protagonista Liza Minnelli, aggressiva e
autoironica, tratteggia un personaggio di donna libera ed esuberante.
L’equilibrio tra sentimento, ironia, spettacolo e dramma costituisce il punto di
forza che esalta le doti artistiche della Minnelli, che è attrice e cantante di
grande talento; figlia del grande Vincente Minnelli e di Judy Garland, alla
quale dedica la propria statuetta ottenuta con l’interpretazione di Sally, dividerà
la propria carriera da star tra teatro, cinema e canzone.
Ritornando al film, questi è uno dei pochi musical di rilievo tra quelli che
tentano di conquistarsi un’identità più moderna e più colta, dopo un decennio di
esaurimento (gli anni Sessanta). Tranne l’inno Tomorrow belongs to me, tutti i
numeri del musical sono eseguiti sul palco del “Kit-Kat”. Fosse ha spiegato:
«Ho dovuto allontanarmi dai musical cinematografici che si limitano a copiare lo spettacolo di
Broadway. Oppure dai film musicali che copiano le convenzioni del palcoscenico. […] tutti i
musical di Gene Kelly e di Fred Astaire sono dei classici. Ma rappresentano un’altra epoca. Mi
innervosisco guardando musical nei quali la gente canta camminando per strada oppure mentre
fa il bucato … Sono convinto che sembri un po’ sciocco. Sul palcoscenico si può fare. Il teatro
ha una propria personalità: comunica il senso di una realtà lontana. Il cinema la avvicina.»
La coreografia e il movimento di Fosse rispecchiano perciò il mondo del
cabaret. Non è finzione, tutto si ispira alla realtà.
22
P. Pruzzo, Musical americano in cento film, Le Mani, Genova 1998
50
Nel 1979 un altro film di Fosse ottiene altri quattro oscar (montaggio,
scenografia, costumi e colonna sonora) e la Palma d’oro a Cannes: è All that
jazz. Il film è uno spaccato sulle ossessioni che dominano il mondo dello
spettacolo. Il protagonista è il regista teatrale Joe Gideon (Roy Scheider), alle
prese con l’allestimento di un nuovo spettacolo a Broadway. Ogni mattina,
appena sveglio, ripete ossessivamente di fronte allo specchio: “Si va in scena,
gente!”. Il lavoro e l’arte per lui sono più importanti di tutto ciò che può
accadergli intorno. Di questo atteggiamento subiscono le conseguenze la figlia
Michelle (Erzsebet Foldi), l’ex moglie Audrey (Leland Palmer) e la nuova
compagna Kate (Ann Reinking). Solo una collega, Angelique (Jessica Lange),
riesce a volte a farlo ragionare. Nonostante tutto però, il protagonista giunge a
una tragica fine, accelerata dall’abuso di medicinali e da una vita sregolata.
Durante
l’ultima
prima
della
Gideon
rivede
personaggi
che
crisi
morte,
tutti
i
hanno
popolato la sua vita; nella
sua
l’ospedale
immaginazione
diventa
la
Figura 26 Roy Scheider interpreta Joe Gideon.
51
scenografia dell’ultima recita. Giunge così alla morte mentre volti e oggetti
vorticano intorno a lui, finché il tutto non si interrompe bruscamente.
In questa trama non si intravede soltanto la storia di Otto e mezzo di Federico
Fellini, a cui ancora una volta Fosse si ispira. Qui si parla di Fosse stesso. Il
film è la sua personale confessione e insieme un suo omaggio allo showbusiness. All that jazz parla di Fosse mentre realizzava a Broadway il musical
Chicago. In questo caso egli dimostra coraggio nel creare un musical in cui le
canzoni e i balletti non consolano il pubblico con una storia d’amore o con il
riso. C’è poca gioia nelle coreografie, ma l’effetto generale affascina, perché è
come se, in un certo senso, avvisassero di non compiere le stesse azioni
rappresentate.
A
volte
i
processi
di
identificazione e la mescolanza di realtà e
finzione
sono
quasi
sconvolgenti:
il
personaggio dell’ex moglie interpretato dalla
Palmer si basa realmente sulla moglie di
Fosse che era protagonista del musical
Chicago; la Reinking era realmente l’amante
di Fosse durante lo spettacolo, quindi
fondamentalmente interpreta se stessa; il vero
Figura 27 Bob Fosse.
Bob
Fosse
ebbe
un
infarto,
come
il
protagonista, durante le prove del musical; per non parlare poi dell’attore
52
protagonista, Roy Scheider, che ripropone la stessa straripante personalità di
Fosse. Il film scorre su un ritmo angosciante e nello stesso tempo sprigiona
erotismo, dimostrando una «vitalità rabbiosa».23 Quella di un uomo, Fosse,
destinato a morire a ritmo di danza (così come accadrà nel 1987, mentre va in
scena a Broadway l’ennesima ripresa di Sweet Charity).
3.3 “New York, New York”
Se alla fine del decennio Bob Fosse affida a una confessione d’amore per il
cinema felliniano la sua personale passione per il musical, qualche tempo prima
(1977) è Martin Scorsese a unire la nostalgia per il dopoguerra e i primi anni
Cinquanta, con l’avventura delle grandi orchestre e la creazione dei piccoli
complessi, con i conflitti di carriera e la difficoltà d’amare propri del mondo
dello spettacolo.
È il 2 settembre 1945 e a New York si festeggia la resa del Giappone. Il
giovane sassofonista Jimmy Doyle (Robert De Niro) individua, tra la folla
riunita nel salone di un grande hotel, una ragazza, Francine (Liza Minnelli), e
dopo un deciso corteggiamento riesce a conquistarla. Francine è una bravissima
cantante, perciò sia lei che Jimmy trovano un’occupazione, inizialmente in un
night, poi in un’orchestra sempre in giro per la provincia. Quando il direttore
23
Ivi, p. 47
53
della formazione si ritira, Jimmy prende il suo posto e sposa Francine. La
nascita di un figlio, invece che solidificare il rapporto della coppia, provoca di
contrasti. I due si separano, così come le loro carriere. Francine diventa una star
della canzone e del cinema, mentre Jimmy, dopo un periodo di oscurità, emerge
come musicista jazz. Dopo diversi anni i due si rivedono, forse si vogliono
ancora bene, ma stavolta è Francine a decidere di non presentarsi
all’appuntamento voluto da Jimmy.
Più che un musical, New York, New York è una commedia in musica, una
musica che è anche parte della tessitura psicologica del film. È una commedia
costruita su una serie di sequenze che hanno la forma del musical, in particolare
la più significativa è quella in cui, con tipici codici linguistici della tradizione
hollywoodiana, si racconta l’ascesa e il successo della protagonista (Happy
endings). Anche da sottolineare è l’uso del colore, che ha uno smalto e una
libertà dei film di quegli anni. Nella musica si alternano vecchio e nuovo, cioè
lo stile delle grandi formazioni da sala da ballo (come per esempio Blue Moon
di Rogers e Hart) e le canzoni scritte appositamente per il film da Kander e
Ebb, gli autori di Cabaret: da New York, New York che dà il titolo al film e che
diverrà un cavallo di battaglia della stessa Minnelli a But the world goes round.
Bisogna aggiungere poi come lo spessore musicale e quello drammaturgico del
film siano accresciuti, non solamente dalla presenza di due sound differenti, ma
dalla esistenza di due modi diversi di vedere lo spettacolo: mentre la cantante fa
54
Figura 28 Liza Minnelli e Robert De Niro.
carriera con le canzoni
da “numero musicale”,
il sassofonista opera
per le strade del jazz
bianco dell’epoca. Nel
1977
il
film
dura
quattro ore e mezza, ed
è un flop di pubblico e stampa. Solo nel 1981, quando Scorsese ne monta una
nuova versione di 163 minuti, sarà apprezzato nelle sale e dai critici.
3.4 “Il fenomeno” Travolta
Con il personaggio di Tony
Manero in La febbre del sabato
sera(1977), John Travolta viene
ad inserirsi tra le nuove icone del
musical. Allievo di Fred Kelly,
fratello di Gene, Travolta può
sfoggiare le proprie mosse ed i
suoi
passi,
rivelando
le
sue
Figura 29 Tony Manero (John Travolta) vestito di bianco, con il
dito puntato verso il cielo sulla pista da ballo, diviene subito
l’icona di una generazione.
55
eccellenti doti di ballerino e fornendo un’interpretazione che fa il successo del
film. La popolarità della pellicola, derivata anche dalle musiche da disco dei
Bee Gees (che diviene in breve tempo una hit delle classifiche di tutto il
mondo), lo lega a un’immagine di ribelle che trova l’unica possibilità di riscatto
nel ballo.
Tony Manero è un giovane italoamericano di Brooklyn, che vede nel ballo
l’unica via di scampo da una vita opprimente con il padre disoccupato, la
mamma ottusa, i fratelli per lo più indifferenti e un triste lavoro in un negozio
di vernici. All’arrivo del tanto atteso sabato sera si lancia sulla pista della
discoteca in balli scatenati, diventando l’idolo delle ragazze, anche se lui ha
occhi solo per Stephanie (Karen Lynn Gorney), la danzatrice più abile. Tra
varie vicende, ripicche e gare di ballo, uno dei membri della comitiva di Tony
muore cadendo dal ponte di Brooklyn. L’avvenimento permette al ragazzo di
prendere coscienza dell’insensatezza del proprio atteggiamento e di stabilire
finalmente un rapporto autentico con Stephanie.
Per questo film la produzione riserva a Travolta la stessa attenzione che la
MGM riservava a Fred Astaire e così Tony Manero viene sempre ripreso per
intero, a dimostrare l’abilità di Travolta e quindi l’assenza di controfigure. È
l’attore stesso a insistere perché il regista John Badham lo riprenda a figura
intera. Travolta adora i musical cinematografici e Astaire, ed è proprio
56
leggendo un suo taccuino da lavoro che impara, che il pubblico ha bisogno di
vedere i suoi piedi mentre balla.
Nel 1978 Grease, altro successo di pubblico giovanile, completa il lancio di
Travolta, il cui abbigliamento nel film diventa subito una moda tra i giovani:
jeans, giubbotto di pelle nera e capelli tirati a lucido con tanta brillantina. Il suo
personaggio è Danny, un giovanotto che durante le vacanze conosce la timida e
dolce Sally (Olivia Newton-John). Il caso vuole che in autunno i due ragazzi si
ritrovino iscritti nella stessa scuola. Ma il ricordo dell’estate sembra essere
sbiadito per lo spavaldo Danny, troppo preso dalle bravate con gli amici e dalle
corse in macchina. Il loro rapporto è così un continuo alternarsi di schermaglie
amorose fino alla fine dell’anno scolastico, quando i due si dichiarano amore e
si scatenano in un’energica danza.
Grease è un chiaro tentativo di revival del genere, ma punta anche
contemporaneamente al revival di un’epoca, quella degli anni Cinquanta.
Un’epoca ricca di musical sugli schermi, ma anche segnata per i ragazzi di
allora dall’esplosione del rock’n’roll e dalla mitizzazione dell’automobile come
mezzo di sfide rischiose e nido d’amore dell’iniziazione sessuale. Il film tenta
di combinare tutto ciò in una favola dai colori sgargianti e dall’ottimismo di
maniera. Grease si presenta ostentatamente come un musical, piacevole sì,
57
tuttavia è la dimostrazione di
come ormai sia impossibile
dar nuovamente vita a quel
musical classico, dominato
dalla magia della favola.
Figura 30 Sandy (Olivia Newton-John) e Danny (John Travolta) nella
danza finale del film.
3.5 Contestazione e spiritualità
Un autobus scarica una folla di giovani e varia attrezzatura di scena:costumi,
gonfaloni, una croce. Una tunica bianca viene calata sulle spalle di un biondo
hippy che alza le braccia al
cielo. La rappresentazione
comincia.
Il
primo
episodio mostra la rabbia
di Giuda verso Cristo,
colpevole di aver rifiutato
di capeggiare una rivolta
Figura 31 Carl Anderson (Nel ruolo di Giuda), Ted Neely (Gesù) e Yvonne
Elliman (Maddalena).
antiromana e di aver dato
inizio a una sorta di culto
della personalità. Si passa poi all’entrata in Gerusalemme, quindi la cacciata dei
58
profanatori dal tempio, la congiura dei sommi sacerdoti, il tradimento di Giuda,
Pietro che rinnega Gesù, il giudizio del Sinedrio e infine la crocifissione, fra la
disperazione delle donne e della Maddalena. È la storia di Jesus Christ
Superstar, film del 1973 diretto da Norman Jewison che sicuramente segna una
tappa nella storia del musical e si inserisce, anche grazie alla musica rock, nel
clima contestatario e nel bisogno di spiritualità degli anni Settanta. Jesus Christ
Superstar spicca innanzitutto per il tema (insolito in un campo dove sono
sempre prevalse materie più frivole e virtuosistiche), poi per la forma, simile a
quella di una sacra rappresentazione, rivisitata dal punto di vista della ribellione
giovanile tipica degli anni Settanta. Anche questo è un musical che racconta la
preparazione e lo svolgersi di uno spettacolo, come tanti altri. Viene però scelto
uno spazio, che non è quello del teatro, ma una conca in mezzo alla sabbia del
deserto e i profili lontani delle montagne.
Il film arriva direttamente dall’opera rock di Webber e Rice, a sua volta
cresciuta su un album prima ancora dello spettacolo, in cui la parte di Gesù
viene cantata da Ian Gillan, cantante dei Deep Purple. Nel musical si rileva
l’intento del regista di tenere sempre presente la carica di provocazione e di
spiritualità della lettura hippy del Vangelo. Basti notare il rilievo che mantiene
alle figure di Giuda (Carl Anderson), che si rivolge con irruenza all’equilibrato
Gesù (Ted Neely), e della Maddalena (Yvonne Elliman), che scopre l’amore
attraverso la dolcezza di Cristo.
59
Nel 1979 il regista di origine cecoslovacca Milos Forman presenta Hair, una
riflessione in chiave musicale sulla guerra in Vietnam, ma anche una
rappresentazione della cultura americana popolare degli anni Sessanta. Il
protagonista è Claude (John Savage), un giovane dell’Oklahoma, richiamato
alle armi a causa della guerra in Vietnam. Al suo arrivo a New York incontra
un gruppo di ragazzi mentre bruciano le cartoline di precetto, come atto di
protesta contro la guerra. Claude si unisce a loro, conosce Sheila (Beverly
D’Angelo), se
ne innamora e
si ritrova in
una festa che
termina
col
degenerare.
L’arresto del capogruppo George (Treat Williams)), lo convince a pagare la
cauzione con i pochi soldi che ha. Seguono altre trasgressioni. Alla fine Claude
decide di arruolarsi e solo grazie all’amico George, che lo sostituisce in
caserma, gli permette di salutare Sheila. Sarà però George che, scambiato per
Claude, finirà in Vietnam e morirà.
Il tema del Vietnam viene affrontato da Forman attraverso l’eredità di uno
spettacolo, manifesto della contestazione giovanile degli anni Sessanta: il
musical teatrale del 1967 che inneggia al pacifismo, all’amore, alle droghe e ai
60
capelli lunghi. Quando Forman realizza il film, è vero che lo shock della guerra
in Vietnam si è ormai allontanato, tuttavia affrontarlo sul grande schermo
richiede del coraggio. Non soltanto per l’impatto che può generare sulla
collettività, ma anche dal punto di vista cinematografico, perché il film nega la
caratteristica tradizionale del musical come favola o puro divertimento. Il tono
è disincantato e le stesse sequenze di danza abbandonano il perfezionismo, per
lasciare il posto a un movimento più spontaneo.
3.6 “The blues brothers”
The blues brothers (1980) è il musical culto degli anni Ottanta, pietra miliare
del genere comico-demenziale, tra i musical moderni più riusciti. Diretto da
John Landis, rapisce lo spettatore con una serie di situazioni paradossali e
demenziali, incentrate sugli assurdi fratelli Jake (John Belushi) e Elwood (Dan
Aycroyd). Il film rimane nella memoria anche per i momenti musicali cui
danno vita tra i più grandi musicisti blues e rock degli anni Settanta – Ottanta,
tra i quali ricordiamo Aretha Franklin, Matt Murphy, James Brown, Ray
Charles…
La vicenda è quella dei fratelli Jack e Elwood, che riuniscono la loro vecchia
blues band e organizzano un megaconcerto per raccogliere fondi a favore
dell’orfanotrofio in cui sono cresciuti. Dopo il grande successo, il film ha
61
tutt’ora moltissimi appassionati. Ha anche lanciato una nuova moda: un look
“total black”, con cappello e occhiali scuri, cravatte strette e lunghe. Con
questo lavoro John Belushi è diventato un idolo, grazie alla naturalezza con cui
crea le situazioni più assurde e improbabili. Il suo mito è cresciuto ancora di
più dopo la
sua tragica e
prematura
scomparsa
per overdose
nel 1982.
Figura 32 Ray Charles (che interpreta Ray, il proprietario di un negozio di strumenti musicali),
affiancato Dan Aycroyd e John Belushi (i Blues brothers).
3.7 Il nuovo millennio
Tra il proliferare di film concerto, commedie musicali per teenager e alcune
grandi pellicole, dal 2000 sino ad oggi alcuni musical si sono imposti,
affascinando il grande pubblico e comportando il rilancio e l’evoluzione del
genere, dopo due decenni di relativa oscurità.
Il primo a compiere quest’operazione è nel 2001 Moulin Rouge! di Baz
Luhrmann che cattura lo spettatore con i colori irreali delle scenografie, i
62
movimenti arditi della macchina e la sceneggiatura coinvolgente, arricchita da
scelte visive e canzoni moderne, come per esempio Your song di Elton John,
Roxanne dei Police, Like a virgin di Madonna …
Moulin Rouge è stato capace di riportare alla centralità i meccanismi del
musical classico in un tempo nuovo, ottenendo anche il consenso del pubblico
più giovane che del musical è quasi digiuno. Il successo è merito anche degli
attori principali, Ewan McGregor e Nicole Kidman, rispettivamente Christian,
scrittore squattrinato e
bohémien, e Satine, la
star del Moulin rouge. I
due artisti sono una vera
rivelazione: forte è la
chimica
Figura 33 Il momento dell’innamoramento tra Satine (Nicole Kidman) e Christian
(Ewan McGregor).
grande
fra
loro
e
l’intensità
dell’interpretazione che
influenza tutto lo spettacolo; oltretutto spiazzano ogni aspettativa, dimostrando
di saper cantare davvero. Nella Parigi di inizio Novecento l’amore tra i due
protagonisti viene osteggiato dal duca di Worchester (Richard Roxburgh),
finanziatore dello spettacolo che vede protagonista Satine. La storia si svolge
63
tra gelosie, ossessioni
e
desideri
conclude
e
si
con
la
morte della giovane
stella
del
Moulin
rouge.
Le varie e originali
componenti del film di Luhrmann si conciliano in modo tale da suggerire una
sensazione d’armonia; geniale risulta poi la scelta del regista di commentare le
azioni con canzoni contemporanee: la contrapposizione di un tempo e di un
luogo lontani con la musica moderna conferiscono al film un ulteriore unicità.
Con questo film Luhrmann raggiunge la consacrazione definitiva come autore
di musical, dopo essersi avvicinato al genere con Ballroom (1992) e Romeo +
Giulietta (1997). Moulin Rouge! riceve otto nomination all’oscar e vince due
statuette per i costumi e la direzione artistica.
Nel 2002 Rob Marshall con Chicago omaggia dichiaratamente Bob Fosse,
l’omonima versione teatrale del musical allestito nel 1974, ma anche i suoi due
grandi successi, All that jazz e Cabaret.
Le due protagoniste, la bionda ballerina di fila Roxie Hart (Renée Zellweger), e
la bruna soubrette Velma Kelly (Catherine Zeta-Jones), si ritrovano in carcere,
64
colpevoli di aver ucciso i loro uomini, che
le hanno tradite. Entrambe si affidano
all’avvocato Billy Flynn (Richard Gere)
che riesce ad attirare l’attenzione della
stampa sul caso di Roxie, con l’obiettivo
di
trarne
vantaggi
professionali,
e
scatenando l’invidia di Velma. La rivalità
tra le due donne però si trasforma presto in
Figura 34 Renée Zellweger in Roxie Hart
un rapporto solidale. Così l’abile avvocato riesce a scagionare le due artiste,
che si ritrovano insieme a interpretare Le belle assassine, un numero di grande
successo. La vicenda è tratta da un fatto di cronaca che sta alla base del testo
teatrale The brave little woman (1926) di Maurine Dallas Watkins.
Chicago
costituisce
riproposizione
un’altra
contemporanea
originale
del
grande
musical, senza alterarne i fondamenti. Il film si
caratterizza particolarmente per il montaggio
serrato con i numerosi primi piani che
nascondono i difetti degli interpreti durante i
numeri e una fotografia che privilegia le luci
utilizzate sui palcoscenici, che riproducono
Figura 35 Catherine Zeta-Jones interpreta
Velma Kelly.
65
così un’atmosfera più teatrale. Nel 2003 il film ottiene sei statuette (miglior
film, attrice protagonista, montaggio, scenografie e arredamento, costumi e
sonoro).
Facciamo un salto nel 2006. Susan Stroman porta sullo schermo The
Producers, adattamento dell’omonimo spettacolo di Broadway, scritto e
musicato da Mel Brooks, ispiratosi a un suo film del 1968 Per favore non
toccate le vecchiette. La pellicola segue un registro ironico, toccando momenti
di rara comicità e prende di mira il mondo dello spettacolo, criticando
velatamente l’etica dubbia di vi opera.
Al centro della storia c’è Max (Nathan Lane), un produttore teatrale di
Broadway, la cui fama è in declino a causa degli insuccessi dei suoi spettacoli.
Gli viene quindi suggerita un’idea dal contabile Leo Bloom (Matthew
Broderick): ottenere dei finanziamenti per allestire spettacoli di insicuro
successo che, dopo il flop, non vengano più replicati, in modo tale che Leo e
Max possano intascare la restante parte dei soldi investiti dai finanziatori.
Individuano quindi il copione, La primavera di Hitler, scritto da un
drammaturgo nazista, Franz Liebkind, al quale offrono anche il ruolo di Hitler.
Come attrice protagonista è scelta la sensuale svedese Ulla (Uma Thurman) e la
regia è affidata a Roger De Bris (Gary Beach), privo di talento. Prima di
andare in scena però Liebkind si infortuna e il suo posto viene preso dal regista
66
stesso. Lo spettacolo (fig. 36) va in scena e, invece di un flop, si rivela un
successo, mettendo così in crisi i soci in affari …
Tutto disseminato di numeri musicali, il film raggiunge la vetta con la messa in
scena di uno spettacolo assurdo, capolavoro di cattivo gusto. E tra le risate, i
motivi orecchiabili, le pantomime e i balletti, sullo schermo è possibile anche
scorgere due motivi molto seri: quello evidente storico-politico e quello stoicoesistenziale sull’inconoscibilità del futuro dell’uomo, che nel film si traduce in
“Non si sa come
andrà
lo
spettacolo”.
Un anno dopo The
Producers
Hollywood presenta
Figura 36
il campione di incassi Haispray, musical diretto da Adam Shankman, tratto
dall’omonimo spettacolo andato in scena per la prima volta nel 2002 a
Broadway e remake del film realizzato nel 1988 da John Waters.
La vicenda si svolge a Baltimora nel 1962. La giovane Tracy Turnblad (Nikki
Blonsky) è un’ottima ballerina, nonostante la sua stazza non propriamente
filiforme, ed è decisa ad entrare nel corpo di ballo del mitico “Corny Collins’s
Show”. La madre Edna (interpretata da un John Travolta en travesti), donna di
67
grande saggezza, tenta di tenere la figlia al riparo dalle illusioni. Con il suo
talento, la vitalità e la simpatia Tracy conquista tutti e, a sorpresa, supera
l’audizione che la fa entrare nel programma. Ma ad ostacolare i piani della
ragazza, segretamente innamorata del primo ballerino, Link (Zac Efron), c’è la
produttrice dello spettacolo, l’arrivista Velma Von Tussle (Michelle Pfeiffer),
che vuole a tutti i costi lanciare sua figlia Amber (Brittany Snow) come unica
star del programma. Le tensioni scatenate da questa rivalità hanno poi come
sfondo
quelle
caratterizzano
razziali
che
l’America
di
quegli anni.
Ciò che conquista in Hairspray
è prima di tutto una grande
Figura 37 Edna (John Travolta) e Tracy (Nikky Blonsky).
musica, coinvolgente, briosa,
scatenata nel lanciare i vari protagonisti in balli meravigliosamente coreografati
da Shankman; alcuni di questi numeri sono si distinguono particolarmente tra i
tanti altri, come l'apertura Good Morning Baltimore che ci immerge nel mondo
pastello della vicenda, e lo show-arresto You can’t stop the Beat. A cantarli e
ballarli poi un perfetto cast d'attori, con un appariscente Christopher
Walken che realizza un fantastico numero in particolare, quello insieme con
John Travolta, durante il quale il personaggio di Edna (per cui Travolta deve
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indossare una pancera da cento chili) perde ogni segno della goffaggine
mostrata durante il resto del film.
Infine ecco che nel 2012, prodotto da Cameron Mackintosh, dal Regno Unito
arriva Les Misérables, il musical ispirato al celebre romanzo di Victor Hugo,
già adattato per il palcoscenico dal compositore Claude-Michel Schönberg e dal
librettista Alain Boublil. Concludiamo con l’unica pellicola, discussa in questa
sede, che non sia di produzione americana, ma che bisogna prendere in
considerazione, per il suo essere il musical kolossal di maggior successo degli
ultimi anni. Nel film diretto da Tom Hooper, non c’è più traccia della poetica di
evasione fondamento del musical classico: si punta sul melodramma, sulla
storia di redenzione e di speranza, di sacrificio e riscatto ambientata nella
Francia del XIX° Secolo. Hugh Jackman interpreta l’ex detenuto Jean
Valjean, ricercato da decenni dallo spietato ispettore Javert (Russell Crowe)
dopo aver violato la libertà condizionata. Quando Valjean decide di prendersi
cura della giovane figlia dell’operaia Fantine (Anne Hathaway), Cosette
(Amanda Seyfried), tra lui e la ragazza si instaurerà un rapporto solido e
profondo, che terrà le loro vite legate per sempre.
Dopo ogni adattamento possibile (teatro, cinema, TV, fumetto), quello che
colpisce della versione di Hooper de Les Misérables è la decisione audace di
far cantar dal vivo i protagonisti, e non di inserire in fase di post-produzione le
loro performance, come di solito avviene. Questa scelta deriva dalla decisione
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di
Hooper
di
sulla teatralità e
infatti,
puntare
molto
sull'interpretazione
e,
contribuisce ad esaltare le
esibizioni degli attori, dove l’intensità
espressiva supera l’accuratezza canora.
Particolare
interessante:
attraverso
auricolari nascosti, gli attori sentono la
musica del brano che devono cantare, che
viene suonata dal vivo, per loro da un
pianista. Sono perciò gli attori a stabilire il tempo e non una traccia musicale
pre-registrata. Successivamente in studio, il piano viene sostituito da
un’orchestra di sette elementi. I dialoghi parlati si contano sulle dita di una
mano, tutti cantano per quasi tre ore, regalando interpretazioni vibranti. Tra
tutti
l’intensa
Hathaway
protagonista
Anne
è
del
momento più toccante e
memorabile dell’opera,
quando si esibisce in I
Dreamed a Dream: un
Figura 38 Un primo piano dell’attrice Anne Hathaway durante l’interpretazione di
I dreamed a dream.
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piano sequenza di quasi cinque minuti, stretto sul suo volto sciupato e derelitto
(per interpretare il ruolo, l’attrice ha perso in poco tempo 12 chili), con la voce
spezzata dal pianto. Grazie a questa sua interpretazione vince l’Oscar come
miglior attrice non protagonista. I primissimi piani ricorrono spesso nel film,
conseguenza dell’approccio intimista di Hooper, che preferisce puntare sul
realismo, dato dalla spontaneità degli interpreti e dalla semplicità dei sentimenti
dei personaggi, anziché sulle grandi vedute di una Parigi poco reale ricostruita
in studio e sulle sontuose scenografie di Paco Delgado.
Fortemente apprezzato dalla critica internazionale, Les Misérables è stato
riconosciuto come il miglior esempio di musical dell’ultimo decennio.
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Conclusioni
In questo testo si è tentato di offrire una visione globale, chiara e semplice del
percorso storico ed evolutivo del musical cinematografico di Hollywood. Tanti
film, quelli che ne hanno determinato la grandezza, all’interno di tre
capitoli/blocchi temporali, in cui si narra la nascita del genere (il trasferimento
dello spettacolo dal teatro al cinema), degli anni della sua consacrazione (i
fertili anni Cinquanta) e del periodo moderno e quello contemporaneo, quando
il musical si ripropone sotto nuove vesti, lontane dalla poetica della favola
propria del musical classico e/o la dissimulano. E così si è giunti a parlare di
“dintorni del musical”.
Tuttavia è evidente come, nonostante ogni operazione di “ibridazione”, questo
genere non abbia mai perso il suo fascino sugli spettatori di ogni tempo, anzi è
sempre capace di affermare la propria vitalità anche attraverso linguaggi nuovi.
Dice bene Giorgio Gosetti quando utilizza il termine «reinvenzione»24 per
riferirsi alla trasformazione cui è sottoposto il musical dagli anni Settanta:
reinvenzione perché il valore catartico di questo genere di spettacolo è ciò che
24
G. Gosetti, Esiste il genere musical?, in F. La Polla, F. Monteleone, Il cinema che ha fatto sognare il mondo.
La commedia brillante e il musical, Bulzoni Editore, Roma 2002
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non va mai perso. Il musical ancora oggi è capace di non lasciarsi sopraffare
dal freddo realismo e di offrire una possibile via per il sogno.
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Bibliografia
K. Bloom, Hollywood Musicals. I 100 Più grandi film musicali di tutti i tempi,
Gremese, Roma 2012
F. La Polla, Il nuovo cinema Americano, 1967-1975, Marsilio, Venezia 1978
F. La Polla, Sogno e realtà americana nel cinema di Hollywood, Laterza, Bari
1987
F. La Polla, Introduzione al cinema di Hollywood, Mondadori Università, 2006
F. La Polla, F. Monteleone, Il cinema che ha fatto sognare il mondo. La
commedia brillante e il musical, Bulzoni Editore, Roma 2002
G. Lucci, Musical, Mondadori Electa, Milano 2006
Walter Mauro, Il musical americano. Da Broadway a Hollywood, Newton &
Compton, Roma 1997
P. Pruzzo, Musical americano in cento film, Le Mani, Genova 1998
M. Wood, L’America e il cinema, Garzanti, Milano 1974
Sitografia
http://www.allmovie.com/
http://www.cinematografo.it/
http://classicmoviemusicals.com/
http://www.film-review.it/
http://www.filmtv.it/
http://filmup.leonardo.it/
74
http://www.italiamusical.com/web/home.html
http://www.lesmiserablesfilm.com/
http://musicals101.com/
http://www.ondacinema.it/
http://trovacinema.repubblica.it/
Filmografia
Il cantante di jazz (The jazz singer), Alan Crosland, USA, 1927.
Quarantaduesima strada (42nd Street), Lloyd Bacon, USA, 1933.
Cappello a cilindro (Top hat), Mark Sandrich, USA, 1935.
Il mago di Oz (The wizard of Oz), Victor Fleming, USA 1939.
Incontriamoci a St. Louis (Meet me in St. Louis), Vincente Minnelli, USA,
1944.
Il pirata (The Pirate), Vincente Minnelli, USA, 1947.
Un giorno a New York (On the Town), Stanley Donen, Gene Kelly, USA, 1949.
Un americano a Parigi (An American in Paris), Vincente Minnelli, USA, 1951.
Cantando sotto la pioggia (Singin’ in the rain), Stanley Donen, Gene Kelly,
USA, 1952.
Spettacolo di varietà (The Band Wagon), Vincente Minnelli, USA, 1953.
Sette spose per sette fratelli (Seven brides for seven brothers), Stanley Donen,
USA, 1954.
È sempre bel tempo (It’s always fair weather), Gene Kelly, Stanley Donen,
USA, 1955.
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Cenerentola a Parigi (Funny face), Stanley Donen, USA, 1957.
Gigi, Vincente Minnelli, USA, 1958.
West side story, Robert Wise, USA, 1961.
My fair Lady, George Cukor, USA, 1964.
Mary Poppins, Robert Stevenson, USA, 1964.
Tutti insieme appassionatamente (The sound of music), Robert Wise, USA,
1965.
Funny girl, William Wyler, USA, 1968.
Sweet Charity – Una ragazza che voleva essere amata (Sweet Charity), Bob
Fosse, USA, 1968
Hello Dolly!, Gene Kelly, USA, 1969.
Cabaret, Bob Fosse, USA, 1971.
Jesus Christ Superstar, Norman Jewison, USA, 1973.
New York, New York, Bob Fosse, USA, 1977.
La febbre del sabato sera (Saturday Night Fever), John Badham, USA, 1977.
Grease – Brillantina (Grease), Randall Kleiser, USA, 1978.
All that Jazz, lo spettacolo continua (All that Jazz), Bob Fosse, USA, 1979.
Hair, Milos Forman, USA, 1979.
The blues Brothers, John Landis, USA, 1980.
Moulin Rouge!, Baz Luhrmann, USA, 2001
Chicago, Rob Marshall, USA, Canada, 2002
The Producers, Susan Stroman, USA, 2006.
Hairspray – Grasso è bello (Hairspray), Adam Shankman, USA, 2007.
Les Misérables, Tom Hooper, Regno Unito, 2012.
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Voglio dire GRAZIE innanzitutto alla mia famiglia, perché se oggi raggiungo
l’obiettivo della laurea è solo grazie alla loro fiducia, che non è mancata
nemmeno nei momenti in cui era difficile concedermela, e grazie ai tanti
sacrifici, di cui sono sempre stata consapevole e che prometto, verranno
ripagati! Vi amo.
Grazie a coloro che, anche se non ci sono più, hanno continuato a guidarmi,
ovunque siano adesso.
Un grazie alla mia migliore amica, Vittoria, perché è stata sempre un grande
esempio di forza e di costanza per me. Tra i pochi a cui mi ispiro, ci sei anche
tu e anche se non siamo vicine come prima, col pensiero e con il cuore non
siamo mai lontane. Ti voglio bene.
Grazie alle mie carissime amiche dell’“Asse Pellaro-Gebbione-Archi”, le mie
“zie”, compagne di avventura in questi anni. Grazie, Miryam e Irene, per
avermi regalato i momenti più belli di questo percorso universitario, per
avermi supportato e sopportato in quelli meno belli e per essere state, anche
voi, due modelli da seguire.
Grazie a tutti gli amici che a loro modo, anche con poco, anche senza
accorgersene, mi hanno aiutato e appoggiato durante questo percorso. Chi c’è
stato, io non lo dimentico.
Ringrazio tutti i miei colleghi DAMS, che mi hanno fatto conoscere la
meraviglia dell’essere speciali.
Un immenso grazie alla Professoressa Cervini, per la sua disponibilità, per la
cortesia e la simpatia manifestatami e per avermi sempre dimostrato la sua
fiducia.
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