I n un recente convegno Silvano Tagliambe, citando Gilles Clément, invitavaa «cambiare leggenda» rispetto ai paradigmi egemoni e consolidati. Viviamo un’epoca affollata di “leggende”, d’idee che si radicano nell’opinione pubblica senza che alcuno si curi di rimetterle in discussione. “Leggenda” è l’idea che la tecnologia sia un fattore negativo e deformante della società. Che la naturalità sia antagonista dell’artificialità. Che solo la cultura posizionale, elitaria, possa produrre conoscenza. Che l’acquisizione meccanica dei dati possa produrre automaticamente le decisioni. Che il futuro dell’uomo sia affidato alla virtualità piuttosto che alla materialità. Scienza e società È difficile immagi- 30 Tecnologia, nuova conoscenza e vita reale tra apparenza e realtà di Aldo Vanini nare che esista chi sappia, o voglia, ascoltare e disponga, allo stesso tempo del potere di mettere in atto i “cambiamenti di leggenda”, ma non disponiamo di altra possibilità che sollevare il problema e proporre soluzioni. Il punto debole della possibilità di produrre il cambiamento di mentalità e di diffondere gli strumenti intellettuali che consentano una nuova congruenza tra gli apparati teorici della nuova conoscenza e la ricaduta sulle aspettative e sulla progettualità dell’intera società e, soprattutto, della gente comune è rappresentato dal carattere non immediatamente percepibile dei modelli interpretativi della moltiplicata complessità della realtà. La rivoluzione rappresentata dalla meccanica classica era congruente con la percezione sensibile dell’uomo comune. Quella congruenza consentì a moltissimi di trasformare l’apparato teorico in attività pratiche. La rivoluzione newtoniana poté così camminare di pari passo con la rivoluzione industriale: una formidabile macchina da guerra che schierava in piena sinergia filosofia, fisica e diffusa attività dimpresa, contro la quale – e contro i relativi vantaggi che ne derivavano – il luddismo poté giocare solo un ruolo marginale. Al contrario, le grandi rivoluzioni filosofiche e scientifiche del XX Secolo hanno rivelato un mondo distante, o in contraddizione, con il senso comune, rappresentabile solo attraverso l’ardua astrattezza del linguaggio simbolico. Così, solo le pun- te più avanzate della ricerca, i laboratori più protetti dell’accademia e dell’industria sono in grado di implementare nei dispositivi materiali di cui tutti usufruiscono, le applicazioni pratiche di conoscenze scientifiche a cui le grandi masse, ma anche la normale classe dirigente, sono impossibilitate ad accedere. Se era sufficiente una stalla per sviluppare le applicazioni delle scoperte di Watts, non altrettanto è possibile per mettere in atto gli sviluppi operativi della fisica dei quanti. Perché un nuovo sensore CMOS possa diventare di dominio pubblico, occorrono i laboratori di Sony o di Canon, niente di meno. La conseguenza più grave di tutto ciò è la perdita di contatto da parte dell’uomo della strada tra il dispositivo quotidianamente utilizzato – sia la fotocamera digitale, il notebook o lo smartphone – e la visione teorica della realtà che sta dietro questi. Se in pochi decenni dalle rivelazioni della fisica classica qualunque studente di scuola media entrava in diretta conoscenza dei principi della dinamica, oggi sfido qualunque membro di un Governo occidentale a spiegare, per sommi e generici capi, il principio d’indeterminazione di Heisenberg o la costante di Planck. È evidente che, in tal modo, tutto l’apparato tecnologico di cui ci si serve, e si diffida, finisce nei meandri oscuri di “leggende” interpretative inadeguate alla costruzione, non solo di una conoscenza relazionale, ma della stessa progettualità adeguata ai nuovi scenari. Da qui nascono la nostalgia per un’improbabile “Arcadia”, la profezia di tecnologie “dolci” quanto improprie, il sogno della fuga nella virtualità contro la materialità. I successi trionfali dell’applicazione della tecnologia, disprezzati a parole ma avidamente incorporati negli aspetti più banali nell’esistenza di ciascuno, finiscono per surrogare la necessità sempre presente nella storia, di far crescere il senso insieme allo strumento. Per la grande maggioranza dei nostri contemporanei, gli strumenti si fanno senso in sé, il che significa, più amaramente, che il senso si è perduto, rendendo sempre più improbabile una progettualità dello sviluppo. La grande sfida sarebbe rappresentata dal ricongiungimento tra conoscenza e applicazione su larga scala, e dal ricondurre la politica all’interno dell’ambito della conoscenza. Non vedo sintomi di decisioni assunte sulla base della conoscenza, dove la conoscenza non può essere rappresentata solo dal dato statistico o dall’autoreferenziale lettura della cronaca. In pratica è venuto meno il ruolo della filosofia come terreno di convergenza di tutte le conoscenze disciplinari – aggettivo, quest’ultimo, sem- pre più ambiguo e riduttivo. Filosofia­­come capacità di ridistribuzione di una nuova visione che della continua, esponenziale, crescita della conoscenza faccia la base dei nuovi scenari decisionali e politici. La caduta di qualità, non solo nazionale, della politica, l’abdicazione di questa e dell’economia nei confronti della finanza, non fanno ben sperare nella possibilità che questo stato di cose si modifichi positivamente. L’accaparramento di ricchezza seguito alla grande rivoluzione finanziaria degli ultimi decenni, ha trasferito potere inaudito a chi, in pieno anonimato, non ha alcun interesse perché questo avvenga. In un mondo abbruttito ad arte da una comunicazione rivolta alla sensazione e allo spettacolo, trovo difficile immaginare che l’uomo comune sia coinvolgibile in una progettualità sostanzialmente evoluzionistica. Non passa giorno che la comunicazione non insinui nuove paure, nuove diffidenze, nuove ipocondrie: perché queste sono le forme attualizzate degli strumenti di dominio delle antiche metafisiche funzionali ai grandi poteri. Un tempo, l’inver- sione di tendenza rispetto a un simile e consolidato corso involutivo veniva affidata alle guerre o alle rivoluzioni. Per il momento non vedo all’orizzonte né le prime, né le seconde. Gli eventi scorrono più rapidamente e inaspettatamente che in passato, per cui è difficile escludere alcunché, ma sarebbe triste, perché si crei un nuovo scenario di progresso, dover sperare e affidarsi nuovamente a metodi così distruttivi, benché apocatastatici. Di fatto, il meglio della storia della conoscenza è tutto affidato alla retroduction, nel senso inteso da Charles Sanders Pierce. È una strategia connaturata alla struttura configurazionale del sistema nervoso centrale umano, fondata sulla capacità di tagliare verticalmente il processo decisionale. Come fa il giocatore di scacchi, che si guarda bene dall’assumere decisioni prima di aver esaminato l’intera matrice degli stati futuri possibili. L’avvento degli Stati fondati sulla burocrazia e del peggior neopositivismo alla Mach, ha creato l’illusione che la soluzione dei problemi nasca automaticamente dall’accumulo di dati analitici. Così, ci troviamo di fronte a una classe dirigente e a un’intellettualità sempre meno disposte a rinunciare al mito della verità attraverso la deduzione. Le scorciatoie oniriche di Einstein, Poincaré o Bohr ci dicono che il sistema nervoso centrale umano ha elaborato strategie ben più efficaci di un improbabile determinismo deduttivo. Se la deduzione è indispensabile come premessa ante e l’induzione come verifica post, una conoscenza che non sia omeostatica conservazione non può che passare per la retroduction. Esiste oggi, però, una classe dirigente, politica, accademica o imprenditoriale, tanto fiduciosa delle proprie capacità da rischiare di mettere a repentaglio i privilegi tanto caparbiamente costruiti? Per passare al terreno concreto dell’organizzazione dello spazio nel tempo – come purtroppo la maggior parte dei miei colleghi tende a dimenticare – il modello che coniuga governo e conoscenza, attraverso gli strumenti della tecnologia, è l’unico possibile, a condizione che si sgomberi il campo dalle “leggende”. In questi anni si è assistito a un’apparente diffusione di conoscenza. Conoscenza parziale, semplicistica e non semplice, orientata ab origine al raggiungimento di obiettivi di natura dogmatica, di radice nostalgica, venduta come progressista ma, invece, radicalmente reazionaria. Nulla è più fatale alla conoscenza della conoscenza approssimativa e dogmatica. Si è creata una falsa etimologia che confonde natura con paesaggio, sostenibilità con inazione, tutela con interdizione. Per vanità, pigrizia e captatio benevolentiae, si è creato un conformismo intellettuale che a mezza voce prende le distanze (ma che pubblicamente e operativamente si allinea) a procedure stanche e inadeguate alla crescente complessità dei problemi e delle aspettative. Il conformismo delle competenze ha rafforzato l’incompetenza del governo, in un circolo vizioso difficilissimo da spezzare, e certamente non solo nel campo pur strategico dell’organizzazione territoriale. I mesi che abbiamo di fronte saranno determinanti per sperare in una pur minima rottura di questo schema consolidato e suicidale. * 31