Il giovane Scheler (1899-1906) - ISBN 978-88-7916 - LED

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10-12-2007
9:42
Pagina 1
Giuliana Mancuso
Il giovane Scheler
(1899-1906)
PRESENTAZIONE
[…] se immaginiamo che in linea di principio non ci sia la funzione
logica con tutta la ricchezza dei modi della sua presenza, allora resta un
qualcosa di assolutamente ambiguo, una massa intuitiva grezza da definire
soltanto in modo figurato, un caos assolutamente indeterminato che non
porta determinazione di alcun genere. 1
Max Scheler, 1904-1906
Il fatto – quanto meno il fatto ‘puro’ o fenomenologico – non viene
‘definito’ solo in base a una ‘proposizione’ o a un ‘giudizio’ correlativo;
né esso viene anzitutto estrapolato, per così dire, da un cosiddetto ‘caos’
del dato. Anche il dato a priori è un contenuto intuitivo, non un qualcosa
di ‘proiettato’ o di ‘costruito’ sui fatti tramite il pensiero. 2
Max Scheler, 1913
I passi che introducono queste considerazioni presentano Scheler impegnato
nel sostenere due posizioni ben diverse. La frase del 1913 offre un’immagine consona al paradigma ermeneutico dominante gli studi sull’autore
del Formalismusbuch, vale a dire quella del fenomenologo realista che
lavorò – in polemica con l’idealismo trascendentale della fenomenologia
husserliana –, nella «direzione metodologica indicata dalla proposizione
relativa al primato dell’essere sul pensiero» 3; quanto invece alla prima
affermazione, databile al biennio 1904-1906, essa costituisce una ingente
1
LW, p. 98 (la trad. di questo e degli altri passi che verranno citati è mia, ove non
diversamente segnalato; i corsivi sono dell’autore, ove non diversamente segnalato).
2
Formalismus, GW II, p. 71 (trad. it. leggermente modificata, p. 78).
3
DPG, GW VII, p. 261.
12
PRESENTAZIONE
anomalia per tale paradigma, poiché Scheler vi sostiene una concezione
del dato del tutto anti-fenomenologica, immediatamente riconducibile
all’idealismo logico della Scuola di Marburgo, come si evince dall’esame
del testo da cui è tratta.
Di questo testo anomalo – così come della riflessione svolta dal giovane
Scheler negli scritti che lo precedono a partire dal 1899 durante la sua
permanenza a Jena, periodo definito a volte «neokantiano», più spesso
«prefenomenologico» – la letteratura secondaria si è occupata ben poco.
Per di più, quando lo ha fatto, è stato quasi sempre soltanto sulla base di
un punto di vista ‘retrospettivo’, che il passo seguente esemplifica in modo
eccellente:
Gli scritti prefenomenologici di Scheler non presentano forse grande
importanza. Si potrebbero ricavare in essi elementi che preannunciano
tesi più tardi esplicitamente sostenute […] tutta una serie di motivi,
insomma, interessanti sì, ma solo alla luce e in funzione delle più solide
concezioni delle opere maggiori. 4
In base a quanto si sostiene qui, della filosofia giovanile scheleriana si
deve rilevare soltanto ciò che può valere come motivo anticipatore della
futura ‘conversione’ alla fenomenologia: ne viene che gli scritti giovanili
sono definiti appunto come «prefenomenologici», eccellente esempio
di definizione che non definisce, e che solo in forza del riferimento alla
successiva produzione fenomenologica possano rivestire un qualche interesse. Benché il testo da cui è tratto il passo risalga ormai al 1952, la linea
interpretativa che vi si manifesta e la conseguente valutazione della filosofia
giovanile scheleriana che ne risulta sono state e sono tuttora ampiamente
condivise dalla letteratura. Si tratta, del resto, di un taglio metodologico che caratterizza la gran parte degli studi dedicati alle opere giovanili,
siano queste opere di filosofi, romanzieri o scienziati: come scrive Juan
Arana nel suo libro sul Kant «precritico» (altro celeberrimo esempio da
aggiungere alla lista delle definizioni e negativo), «sembra che un lavoro
dedicato alla tappa iniziale della filosofia di Kant debba servire per forza
a una miglior comprensione della parte del suo pensiero che tutti consideriamo ‘definitiva’», sicché il Kant «precritico» alla fine non è altro che
un «Kant che solo in riferimento alla Critica della ragione pura acquista
una certa rilevanza. Pertanto ci si dovrà occupare soprattutto delle origini
della filosofia trascendentale, presentando, da un punto di vista genetico,
una nuova immagine della medesima» 5. Scheler sarebbe quindi in ottima
4
5
Pedroli 1952, p. 1.
Arana 1982, p. 15.
PRESENTAZIONE
13
e nutrita compagnia, se non fosse che la sua vicenda filosofica si trova a
essere particolarmente refrattaria all’approccio genetico-evolutivo appena
delineato: come mostrano i passi citati in apertura, sono infatti profonde
(e si vedrà anche estremamente ampie) le sacche di resistenza che la sua
filosofia giovanile presenta rispetto all’opera della maturità. Il che non ha
impedito all’approccio in questione – genetico-evolutivo o retrospettivo
che dir si voglia – di dominare anche la (per di più scarsa) letteratura
secondaria sul giovane Scheler, con il risultato di lasciare l’interrogazione
sullo specifico di questa parte della produzione del filosofo sostanzialmente
inevasa, in modo tale che il suo peculiare orientamento neokantiano è a
tutt’oggi poco più di una genericissima etichetta, da apporre a tutto ciò
che non è immediatamente leggibile come avvisaglia delle note posizioni
successive di impronta realistico-fenomenologica.
La presente ricerca vuole colmare questa lacuna nell’ormai vastissimo
panorama della letteratura secondaria su Max Scheler e intende farlo adottando un punto di vista che ribalta scientemente l’approccio retrospettivo
cui si è appena accennato, del quale peraltro il primo responsabile è stato,
come si vedrà, Scheler stesso. Ritengo infatti che un tale modo di procedere
sia scorretto anzitutto dal punto di vista metodologico e che, come ogni altro
errore di metodo, anche questo debba necessariamente ripercuotersi sui
contenuti, ostacolando nel caso di Scheler una verace comprensione della
sua vicenda speculativa. Nelle pagine che seguono lo Scheler fenomenologo
è stato quindi ‘messo tra parentesi’ e dei testi che formano la produzione
giovanile del filosofo, definita dall’arco temporale che va dal 1899 al 1906,
si è cercato di fornire una lettura il più possibile ‘interna’, tramite un esame
circostanziato, volto a presentarne la struttura espositiva e argomentativa,
i nuclei tematici principali, nonché l’orizzonte concettuale di riferimento
in cui risultano essere inseriti. L’obiettivo primario è quello di fare luce
sul nebuloso neokantismo del giovane Scheler, per definirne finalmente i
contorni; la speranza è che in tal modo si possano guadagnare elementi
importanti per riconsiderare la sua produzione successiva, come si è provato
a fare a conclusione dell’indagine relativamente alla riforma del concetto di
a priori che sta alla base della critica al formalismo etico e alla riflessione
metafisico-antropologica svolta dal filosofo negli ultimi anni di vita.
L’idea di chiarire che cosa mai fosse quel neokantismo giovanile al
quale la maggior parte degli studi su Scheler solo fuggevolmente accenna
non sarebbe mai sorta senza un preesistente interesse per la filosofia neokantiana; il fatto che questa potesse rivelarsi tanto importante per comprendere il pensiero scheleriano (anzitutto quello giovanile, ma non solo)
è venuto via via precisandosi nel corso della ricerca, permettendo così di
presentare sotto una luce nuova un filosofo troppo spesso fossilizzato in
figure largamente stereotipate.
I
CRITICA ASSIOLOGICA DELLA COSCIENZA
1. UN NUOVO PUZZLE
Un buon punto di partenza per definire il contesto in cui collocare la filosofia giovanile scheleriana può essere individuato in ciò che Paul Natorp
scrive ad Albert Görland in una lettera del 6 luglio 1902:
[…] V. ha praticamente ceduto la redazione [scil. delle «Kant-Studien»] a
Scheler (Jena). Quale sia la posizione di costui nei nostri confronti non lo
so; ha scritto un libro contro il metodo trascendentale e quello psicologico,
a sostegno del metodo ‘noologico’ di Eucken. In ogni caso, l’impressione
che ho avuto finora è che si tratti di una persona portata alla riflessione,
da non paragonare nemmeno a una zucca vuota come V. 1
Oltre il cicaleccio e le strategie dell’accademia, oltre la malignità nei confronti del malcapitato Vaihinger, il passo è interessante per due ordini di
ragioni: anzitutto perché dà conto di ciò che del giovane Scheler in quegli
anni di inizio Novecento doveva interessare a un docente e filosofo maturo
e affermato come Natorp; in secondo luogo perché questi è notoriamente
uno dei principali esponenti del neokantismo marburghese, indirizzo che si
vedrà essere determinante per la caratterizzazione della filosofia giovanile
1
Holzhey 1986, vol. II, p. 278. Dietro la V puntata, oggetto del poco lusinghiero
commento di Natorp, c’è Hans Vaihinger, tra le altre cose nel 1897 fondatore delle «KantStudien», alla cui redazione Scheler lavorò per un anno e mezzo, grazie all’interessamento
di Rudolf Eucken. Scheler, peraltro, non si distinse certo come redattore-modello: in un
periodo di crisi finanziaria e organizzativa della rivista, «Max Scheler, l’assistente-redattore
del quasi cieco Vaihinger, durante il giorno mostrava una tale indolenza che si dovette
urgentemente trovare qualcun altro a cui affidare la conduzione» della rivista (Sieg 1994,
p. 212; si veda anche la nota 103).
16
CRITICA ASSIOLOGICA DELLA COSCIENZA
scheleriana. Sono del resto due aspetti che si può far fatica a distinguere,
quando si consideri che essere ‘docente affermato’ e essere ‘neokantiano’
erano due concetti spesso coestensivi nell’accademia tedesca a cavallo
tra XIX e XX secolo 2; il che spiega anche perché Natorp giudichi qui il
giovane studioso sulla base di Die transzendentale und die psychologische
Methode, l’opera del 1900 in cui il ventiseienne Scheler più sistematicamente
si confronta con il nocciolo teorico e operativo dell’indirizzo marburghese,
ossia, appunto, il metodo trascendentale.
Il passo di Natorp non solo apre uno squarcio sul rapporto che la
riflessione giovanile scheleriana intrattiene con la tradizione neokantiana
– e marburghese in particolare –, ma fornisce anche altre due informazioni
centrali per collocare Scheler nel panorama filosofico tedesco dell’epoca: si
tratta del nome di un luogo, Jena, e di quello di un docente attivo nell’ateneo
della piccola cittadina turingia, vale a dire Rudolf Eucken. È infatti sotto la
protezione del di lì a poco (1908) vincitore del premio Nobel per la letteratura che Scheler termina i suoi studi ed esordisce sulla scena accademica,
ed è Jena a vedere le pubblicazioni dei primi testi del filosofo: dal 1899 al
1904 escono a suo nome due voluminose monografie, due lunghi articoli
e due recensioni a un’opera del maestro Eucken; a questi testi va aggiunto
il lungo frammento di un’opera sulla logica progettata in due volumi, alla
quale Scheler lavorò tra 1904 e 1906, quando decise di ritirare l’opera dalla
stampa e abbandonò Jena per Monaco. Negli anni successivi non pubblicò
più nulla e quando riprese a farlo, nel 1911, i suoi scritti erano ormai di
chiara impostazione fenomenologica.
I testi ai quali Scheler lavorò tra 1899 e 1906 durante il soggiorno a Jena
circoscrivono in modo ben definito il corpo della sua produzione giovanile, una produzione dalla fisionomia peculiare, in gran parte difficilmente
integrabile con l’immagine di Scheler ormai sedimentatasi nei manuali e
nella stessa letteratura specialistica. Il che non significa che in questi testi
non ci siano elementi interpretabili come anticipazioni degli interessi che
mossero il futuro «filosofo dei valori» o come avvisaglie delle soluzioni
teoriche adottate dal «fenomenologo della vita emotiva» o dall’embriagado
de esencias 3 (alcuni tra i topoi sui quali la letteratura scheleriana più volentieri indugia); anzi, per le letture che adottano una tale impostazione
‘retroattiva’, la difficile integrabilità dell’opera giovanile con quella successiva non ha costituito in realtà un problema così grande: individuando
gli elementi che possono reggere l’impostazione retrospettiva, lavorandoli
per smussarne le scomode spigolosità, tali letture ne hanno infine ricavato
2
3
Cfr. Köhnke 1993.
Ortega y Gasset 1928.
UN NUOVO PUZZLE
17
tessere perfettamente compatibili con quel mosaico che fin dall’inizio volevano comporre, liquidando tutto il resto con l’estremamente funzionale
etichetta di ‘errore di gioventù’.
Il fatto che sia stato proprio Scheler il primo a rimodellare il suo passato utilizzando una procedura del tutto analoga 4 non credo, in ogni caso,
ci debba obbligare a fare altrettanto, soprattutto quando si consideri che
pochi sono gli elementi della filosofia giovanile scheleriana a soddisfare il
criterio retrospettivo e molti quelli che non lo soddisfano e che quindi in
tal modo vanno persi. Piuttosto che andare in cerca del già noto, mi sembra
utile allora smetterla di giocare al solito vecchio puzzle con pezzi che hanno
tutta l’aria di formare un altro mosaico e, fuor di metafora, considerare
i testi giovanili di Scheler anzitutto nel contesto storico-filosofico che è
loro proprio.
2. IL CONTESTO JENESE
Scheler iniziò i suoi studi universitari nel 1894, iscrivendosi alla facoltà
di filosofia presso l’ateneo di Monaco, per passare già nel semestre estivo
alla facoltà di medicina, continuando tuttavia a seguire lezioni di filosofia,
tra le quali quelle di Theodor Lipps. L’anno seguente si trasferì a Berlino, dove si immatricolò ancora come studente di medicina, per quanto
tra le lezioni frequentate nel suo anno di permanenza ce ne siano state
anche di filosofia (seguì tra gli altri Wilhelm Dilthey e Georg Simmel).
Nel 1896, all’età di 22 anni, mise fine una volta per tutte al progetto di
intraprendere l’esotica carriera di medico di bordo – quale curiosamente
pare volesse diventare 5 – e si trasferì a Jena per frequentarne la celebre
facoltà di filosofia. Qui terminò gli studi, diventando a tutti gli effetti
l’allievo prediletto di Rudolf Eucken, il quale insegnava nella cittadina
turingia dal 1874 (l’anno in cui nacque Scheler), quando subentrò a Kuno
Fischer sulla cattedra di logica e metafisica. Tra i colleghi di Eucken – che
nell’ateneo jenese insegnò per quarantasei lunghi anni – vanno senz’altro
menzionati Gottlob Frege (che a Jena aveva studiato e già compiuto un
4
Si veda p. es. Vorrede zur zweiten Auflage (1922) di Methode, GW I, pp. 201-203;
si veda inoltre infra, cap. II, § 3., p. 145; cap. III, § 1., pp. 156-160.
5
Cfr. Henckmann 1998 (a), p. 17. Tra le pochissime fonti secondarie sulla filosofia
giovanile di Scheler, l’articolo di Henckmann ha costituito il mio imprescindibile punto
di partenza; per questa ragione verrà spesso citato nel corso del testo. Per la ricostruzione
delle vicende biografiche degli anni jenesi si vedano anche Henckmann 1998 (b), pp. 1620, e Mader 1980, pp. 18-30.
18
CRITICA ASSIOLOGICA DELLA COSCIENZA
buon pezzo di carriera accademica, fino a conseguire lo straordinariato
nel 1879), Karl Fortlage, il teologo evangelico Karl von Hase, il linguista
Berthold Delbrück, il fisico Ernst Abbe e lo zoologo e Populärphilosoph
Ernst Haeckel. Quest’ultimo, pur avendo poi instaurato un rapporto cordiale con Eucken, ne aveva all’inizio osteggiato la chiamata, preferendo al
suo posto un filosofo il cui pensiero fosse più orientato alla riflessione sul
sapere scientifico; il conflitto tra le Weltanschauungen dei due più celebri
professori jenesi non poteva del resto essere più netto e la vita dell’ateneo
era caratterizzata dall’opposizione tra lo spiritualismo euckeniano da un
lato e il materialismo di Haeckel dall’altro. A conferma del ruolo di spicco
dell’università jenese nella comunità culturale del tempo si può ricordare
come lo strisciante ma netto conflitto tra i due abbia ricevuto una decisa
amplificazione a livello internazionale nel dicembre del 1908, quando «il
premio Nobel per la letteratura venne consegnato non allo zoologo jenese
Ernst Haeckel (1834-1919) – come avevano anticipato numerose riviste
italiane e francesi […], bensì al suo collega jenese e ‘antipodo’, il filosofo
Rudolf Eucken (1846-1926)» 6. Se prima che il premio venisse consegnato
Haeckel e gli esponenti della comunità scientifica a lui più vicini non riuscivano nemmeno a capacitarsi di come il nome di Eucken fosse riuscito
a rientrare nella rosa dei candidati 7, dopo la sconfitta lo zoologo spiegava
così la piega presa dagli eventi: Eucken «ha vinto come rappresentante
dell’‘idealismo’ e sacerdote del ‘mondo elevato dello spirito’, mentre a me
è toccato soccombere in quanto rappresentante del ‘materialismo’ e schiavo
della ‘bassa natura’» 8.
Più che su Haeckel, tuttavia, vale la pena attirare l’attenzione sulla figura
di un altro collega di Eucken, quell’Otto Liebmann che, come si vedrà, avrà
un ruolo non certo di secondo piano nella vicenda scientifico-accademica
del giovane Scheler. Basti dire per ora che nel 1882, alla morte di Fortlage,
la facoltà di filosofia cercava un successore che potesse controbilanciare il
deciso orientamento storico-umanistico di Eucken: al fine di equilibrare
l’offerta didattica (si direbbe oggi), la scelta cadde quindi sull’autore del
fortunato Kant und die Epigonen (1865), giudicato il candidato ideale per
la natura critica della sua filosofia, incentrata sulla teoria della conoscenza
e praticata in costante riferimento alle scienze della natura.
Hoßfeld et al. 2005, p. 97.
«Come Eucken, che in linea di principio è il mio antipodo, abbia potuto arrivare
fin qui, per i colleghi del posto è un mistero! È un buon oratore e un bravo kantiano
[…], ha anche scritto molti ‘bei libri’ a proposito di ‘fini elevati’ ecc., ma non ha prodotto
un solo lavoro originale di valore», scrive sprezzantemente Haeckel in una lettera del
30 novembre 1908, citata in Hoßfeld et al. 2005, p. 98.
8
Ibidem.
6
7
IL CONTESTO JENESE
19
Quando Scheler si immatricolò all’università jenese, Eucken e Liebmann rappresentavano quindi due modi ben diversi di fare e intendere la
filosofia e, tra i due, le preferenze del giovane andarono senz’altro al primo:
di Liebmann, infatti, nel suo intero corso di studi a Jena frequentò un solo
e unico ciclo di lezioni (sulla psicologia), mentre la sua partecipazione alle
lezioni, ai seminari e alle esercitazioni di Eucken rimase costante in ognuno
dei tre semestri (su quattro complessivi) di cui si ha documentazione 9. Tra
gli anni sessanta e settanta del XIX secolo Eucken aveva esordito come
filologo e storico della filosofia antica: formatosi a Göttingen sotto la guida di Gustav Teichmüller e, grazie alla mediazione di questi, divenuto in
seguito amico di Friedrich Adolf Trendelenburg, il suo iniziale ambito di
indagine era stato infatti la filosofia di Aristotele 10. Negli anni settanta – in
seguito al grande dolore causatogli dalla morte della madre 11 e dopo essere
stato chiamato a Jena da Basilea –, abbandonò tuttavia gli studi aristotelici
per imprimere alla sua attività di docente e di intellettuale quella che si
potrebbe definire una decisa svolta dall’erudizione all’impegno: nel 1874,
in occasione della sua chiamata nell’ateneo jenese, scriveva infatti in una
lettera di voler praticare la filosofia in modo tale che essa per gli studenti
significasse «non solo un ampliamento delle nozioni, ma anche un generale
approfondimento della vita spirituale», concependo egli la filosofia «non
semplicemente come occupazione intellettuale, bensì nel complesso proprio come una questione di cuore» 12. Con questo spirito Eucken iniziò
a lavorare a una serie di opere, in cui si venne via via dispiegando quella
magniloquente concezione della filosofia come redentrice dello smarrito
e disgregato uomo contemporaneo che tanto successo darà al suo propugnatore. Nel 1885 escono i Prolegomena zu Forschungen über die Einheit
des Geisteslebens in Bewusstsein und That der Menschheit, seguiti tre anni
dopo dall’opera in funzione della quale la precedente era stata concepita 13,
9
Si veda l’utilissimo Dathe 1997, p. 2. Le lezioni di Eucken frequentate da Scheler
avevano per titolo Idee guida del presente, Etica, Esercitazioni filosofiche (semestre invernale 1896/97); Filosofia del XIX secolo; Discussione delle questioni di principio della
logica (semestre estivo 1897); Essenza della religione (semestre invernale 1897/98).
10
Über den Sprachgebrauch des Aristoteles. Betrachtungen über die Praepositionen,
Berlin, Weidmann, 1868; Über die Methoden und die Grundlagen der aristotelischen Ethik,
Frankfurt am Main, Mahlau & Waldschmidt, 1870; Über die Bedeutung der Aristotelischen
Philosophie für die Gegenwart (discorso accademico inaugurale, tenuto il 21 novembre
1871 a Basilea), Berlin, Weidmann, 1872; Die Methode der aristotelischen Forschung in
ihrem Zusammenhang mit den philosophischen Grundprinzipien des Aristoteles dargestellt,
Berlin, Weidmann, 1872.
11
Si veda la lettera a Christoph Ernst Luthard del gennaio 1874, citata in Graf 1997,
p. 57.
12
Lettera a Moritz Seebeck, citata in Graf 1997, p. 64.
13
Eucken 19252 (1888).
20
CRITICA ASSIOLOGICA DELLA COSCIENZA
testi nei quali Eucken presenta l’ossatura della sua proposta filosofica. Se il
concetto centrale di tale proposta è appunto quello di una ‘vita spirituale’,
che si tratta di afferrare e praticare come organica unità di piano biologico e piano spirituale, il suo obiettivo programmatico sta nel garantire e
salvaguardare questa sorta di unità bipolare dalle pretese riduttivistiche
del monismo imperante, sia esso di indirizzo oggettivistico-naturalistico o
soggettivistico-intellettualistico.
La decisa opzione anti-positivistica del pensiero di Eucken non deve
tuttavia far dimenticare il fatto che egli stesso ebbe a definire la sua proposta
filosofica come una forma di «‘positivismo’ che vuole abbracciare l’intera
realtà» 14: l’istanza che muove questo «positivismo spirituale» 15 è in fondo
la stessa istanza generale che porterà Husserl a scrivere che, «se ‘positivismo’
è la fondazione assolutamente libera da pregiudizi di tutte le scienze sul
‘positivo’, cioè su quello che si afferra originalmente, allora siamo noi [scil.
fenomenologi] i veri positivisti» 16 – un tema sul quale, per inciso, insisterà
anche lo ‘Scheler fenomenologo’, per esempio in uno dei manoscritti di
teoria della conoscenza coevi alla stesura del Formalismusbuch, laddove
la filosofia fenomenologica verrà definita come «la forma più radicale di
empirismo e positivismo» 17. L’anti-positivismo euckeniano va quindi inteso
soprattutto come presa di posizione a sostegno della autonomia della validità ideale contro le pretese riduzionistiche in senso materialistico di certo
positivismo, non come chiusura pregiudiziale nei confronti della filosofia
che lavora programmaticamente a contatto con le scienze particolari: in
questo senso Eucken guardava a se stesso non certo come a un «tradizionalista metafisico» avverso alla scienza, bensì come a un «sostenitore di
una modernità autentica e consapevole, capace di integrare» le acquisizioni
dei saperi empirici «in una metafisica dello spirituale» 18.
Eucken 1922, p. 76.
Graf 1997, p. 55.
16
Husserl 1913, p. 45 (trad. it., p. 47); in Husserl 1927, p. 10, il fondatore dell’indirizzo fenomenologico scrive che la filosofia di Eucken e la fenomenologia sono due
strade diverse per raggiungere lo stesso obiettivo, ossia per «superare la distinzione
essenziale tra l’uomo nella natura e l’umanità nello spirito, per scorgere l’unità della vita
spirituale che si manifesta via via nel corso della vita dell’umanità e per ricondurla alle
fonti originarie».
17
PuE, GW X, p. 381.
18
Graf 1997, p. 71.
14
15
II
IL PROBLEMA DEL METODO
E LA RIFORMA DELL’A PRIORI
1. UN ESAME DIFFICILE
Negli anni trascorsi a Jena da studente Scheler non si era limitato a frequentare lezioni e a sostenere esami, ma aveva contribuito attivamente alla
vita culturale universitaria, fondando nell’autunno 1896 insieme a Julius
Goldstein, un altro allievo di Eucken, la «Philosophische Gesellschaft zu
Jena» 1. La società si riuniva la sera «nel suo locale, il Café Rein», per discutere temi come Il parallelismo psicofisico 2 o Il principio più adeguato per
1
Cfr. Henckmann 1998 (a), p. 19. Come scrive Henckmann, della «Philosophische
Gesellschaft» si sa molto poco. Nella biblioteca dell’università di Jena ho potuto consultare i Berichte citati infra, ma non mi è stato possibile trovare altro materiale, se non
successivo al periodo in cui Scheler fu attivo a Jena. Tuttavia, a colmare questa lacuna,
posso segnalare le ricerche del già citato Uwe Dathe, il quale nel corso di una ricerca
sullo storico Alexander Cartellieri ha recentemente trovato nell’archivio della biblioteca
di Jena i verbali redatti a mano relativi alle sedute della società che vanno dal 26.05.1903
al 17.05.1906. Il dottor Dathe, che ringrazio di cuore per avermi fornito queste preziose
informazioni, al momento in cui scrivo non è ancora riuscito a stabilire nulla sulla provenienza di questi verbali. Tra di essi si trova in ogni caso il resoconto dettagliato di una
conferenza di Scheler, scritto di suo pugno.
2
Titolo del Referat della dottoressa Francken, tenuto nella decima seduta del semestre estivo del 1898, quando, nota il segretario della società, «per la prima volta venne
ammesso alla seduta un buon numero di donne», Semester-Bericht über die Thätigkeit der
Philosophischen Gesellschaft zu Jena im Sommer-Semester 1898 (d’ora in poi SS 1898),
steso dal segretario Th. Genthe, p. 3 (ho consultato la copia presente nella Thüringer
Universitäts- und Landesbibliothek Jena – d’ora in poi ThULB – con la segnatura Hist.
lit.VI, 103/10, sotto la quale rientrano anche i Berichte citati di seguito).
54
IL PROBLEMA DEL METODO E LA RIFORMA DELL’A PRIORI
un sistema filosofico 3; possedeva inoltre una biblioteca – formata in parte
da testi acquistati direttamente dalla società stessa, in parte da donazioni
(tra le quali si segnalano quelle di Eucken e del barone Friedrich von Hügel) – della quale Scheler faceva uso 4. Nella relazione del semestre estivo
del 1898 sulle iniziative della società, Scheler viene annoverato tra i membri
straordinari, in quanto non più immatricolato a Jena: egli in effetti aveva
conseguito la Promotion presentando lo scritto sui rapporti tra dimensione
conoscitiva e dimensione morale, per trasferirsi quindi a Heidelberg 5,
dove trascorse un breve soggiorno di studio; in questo periodo lavorò
anche come assistente alla camera di commercio di Ludwigshafen. L’anno
seguente fece ritorno in Turingia 6 per conseguire l’abilitazione, visto che
Eucken gli aveva detto che presto ci sarebbe stata l’opportunità di ottenere
una docenza privata nella facoltà jenese di filosofia. Contestualmente al
ritorno da Heidelberg, Scheler riprese anche a frequentare le sedute della
«Philosophische Gesellschaft», dove nel semestre invernale 1888/89 tenne
una relazione «scientificamente molto interessante» su Sabatier: fondazione
di una filosofia della religione 7. Nel semestre successivo, in base al relativo
Bericht, «l’attività della ‘Philosophische Gesellschaft’ è stata veramente
vivace e soddisfacente. Si sono tenute sedici sedute serali», tra le quali
sei dedicate alla lettura dell’opera di Liebmann (membro onorario della
società insieme a Eucken) Die Klimax der Theorien 8, e sette a conferenze:
la conferenza del 2 marzo 1900 su Giudizi analitici e sintetici fu tenuta da
Scheler 9.
Se l’esame per la Promotion fu tutto sommato una sorta di passerella
sulla quale Scheler sfilò non solo senza incontrare ostacoli, ma riscuotendo
3
Titolo della relazione del dottor Unbehaun, in Semester-Bericht über die Thätigkeit
der Philosophischen Gesellschaft zu Jena im Winter-Semester 1898/99 (d’ora in poi WS
1898/99) steso da Fr. Heller, p. 2.
4
«Durante il semestre passato sono stati presi in prestito dalla biblioteca in tutto
21 libri, precisamente dai signori Dr. Scheler, Dr. Medicus […]» (SS 1898): ogni Bericht
contiene un Bibliotheks-Bericht, in cui vengono documentate le nuove acquisizioni,
ripartite in acquisti e in donazioni.
5
SS 1898, p. 3; poco sopra l’autore spiega implicitamente il criterio per la distinzione tra membro ordinario e straordinario, laddove scrive: «Un membro ordinario, il
dottor Fritz Medicus, nel corso del semestre è passato nelle file dei membri straordinari,
essendosi trasferito a Halle».
6
Anche se in WS 1898/99 viene registrato come residente a Berlino.
7
WS 1898/99, p. 2. Louis-Auguste Sabatier (1839-1901), teologo protestante francese: molto probabilmente Scheler relazionò sulla sua opera Equisse d’une philosophie
de la religion, Paris, Fischbacher, 1897.
8
Liebmann 1884.
9
Semester-Bericht über die Thätigkeit der Philosophischen Gesellschaft zu Jena im
Winter-Semester 1899/1900, steso da F. Brodführer, p. 1 s.
UN ESAME DIFFICILE
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il vero e proprio entusiasmo del suo maestro, la prova di abilitazione costituì invece una prova ben più ardua. Nella sua valutazione dello scritto lo
stesso Eucken – relatore della tesi presentata dall’allievo prediletto con il
titolo Versuch über die philosophische Methode – esprime un giudizio a tratti
insolitamente (per l’entusiastico stile euckeniano) cauto e circospetto, che
lascia trasparire alcune riserve di fondo: secondo Eucken, il lavoro pone
più questioni e compiti di quelli che il metodo proposto dall’autore riesce
in effetti a risolvere; non solo ma Scheler «non sempre è riuscito a evitare
di far nascere un nuovo problema da ogni problema trattato, finendo così
con l’impegolarsi in troppe indagini collaterali»; lo sforzo filosofico scheleriano «si rivolge all’intero della filosofia e cerca di trovarvi una propria
posizione», il che «naturalmente» espone il lavoro «a determinati rischi»,
per esempio quello di cadere in contraddizione, come effettivamente accade
«in alcuni passi» 10.
Se raffrontate alle lodi sperticate che Eucken aveva speso due anni
prima per la tesi di laurea del suo allievo, le sue perplessità sullo scritto
di abilitazione di Scheler risultano in verità piuttosto stridenti; come avrò
modo di mostrare meglio in seguito, quando verrà esaminato il testo, credo
infatti che non ci possa essere dubbio sulla superiorità scientifica e sulla
maggiore maturità filosofica della Methodenschrift rispetto ai Beiträge.
Senz’altro c’è un aspetto sul quale non si può non convenire con Eucken:
la principale caratteristica dello scritto sul metodo è in effetti la sua natura
prevalentemente critica a scapito della parte propositiva, che viene liquidata
nelle ultime pagine del testo in modo piuttosto brutale e con un taglio
fin troppo generale. Se si lascia da parte questo aspetto, tuttavia, il testo
risulta nel complesso ben organizzato e definito nella scansione delle sue
parti, e le «indagini collaterali» in cui Scheler finisce qui per «impegolarsi»
sono non solo meno numerose ma soprattutto meno ‘collaterali’ di quelle
che affliggono invece la struttura confusa dei Beiträge – i quali, d’altra
parte, soffrono anch’essi di quella carenza in sede propositiva ravvisata
da Eucken nello scritto sul metodo. In generale, quindi, non mi sembra
che le valutazioni di Eucken colgano obiettivamente (sempre per quanto
è possibile farlo) il valore dei due testi scheleriani e nemmeno mi pare che
tali valutazioni abbiano tra loro una coerenza interna, visto che accusano
il secondo testo di difetti che il primo presenta in maggior misura.
In realtà credo che le perplessità euckeniane sulla Habilitationschrift
di Scheler possano essere spiegate – meglio di quanto non facciano le
ragioni formali addotte da Eucken stesso – considerandone i contenuti e
il taglio. Anzitutto bisogna tenere conto del fatto che Scheler dedica l’in-
10
Citato in Dathe 1997, p. 5.
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IL PROBLEMA DEL METODO E LA RIFORMA DELL’A PRIORI
tera trattazione al serrato confronto con la filosofia trascendentale e con
quella di orientamento psicologico, per relegare nelle due ultime pagine
la proposta ‘noologica’ che egli mutua dal maestro, una proposta che in
tal modo finisce per risultare piuttosto vaga e indistinta, più un impegno
programmatico che non una metodologia filosofica con una sua peculiare
e ben definita fisionomia. Scheler senza dubbio si serve di alcune tra le
principali unità concettuali della filosofia euckeniana: anzitutto della nozione di Arbeitswelt – ossia la connessione di opere e prestazioni culturali
attestata dalle diverse forme di sapere –, in quanto insieme coerente di
fenomeni che può valere come dato di partenza dal quale poter risalire alla
vita spirituale 11; del sintagma o sistema di vita che Eucken definisce «un
complesso caratteristico di eventi e circostanze manifestantesi attivamente
nella realtà storica […], dal quale ci aspettiamo un principio per la piena
e completa definizione del molteplice» 12 (come per esempio possono
essere il naturalismo o l’intellettualismo, secondo Eucken i due principali
sintagmi del suo tempo); soprattutto del metodo noologico, definito in
esplicita opposizione a quello psicologico (per il quale non si dà alcun
«mondo spirituale autonomo con contenuti e leggi proprie» e i «processi
spirituali» vanno trattati come «stati del soggetto» 13), avendo esso a che
fare non «con la psiche, ma con lo spirito, non con la yuc», ma con il
noàj» 14, visto che i sintagmi possono essere colti solo a questo livello; e
infine del concetto di personalità, che sta al centro del «sistema di vita»
propugnato da Eucken nella sua «battaglia per un contenuto spirituale
di vita» e per la fondazione di una nuova Weltanschauung 15, da opporre
alla disgregazione e decadenza contemporanee. Tutto ciò, come si vedrà,
lo si ritrova nello scritto di abilitazione di Scheler, senza tuttavia che tali
elementi siano presentati in modo approfondito e soprattutto senza che
venga tentata una loro sistematica connessione.
In secondo luogo, per spiegare le perplessità di Eucken sullo scritto
dell’allievo, bisogna tenere conto del fatto che, a differenza dei Beiträge,
esso è essenzialmente uno scritto di teoria della conoscenza, un ambito che
Eucken ha sempre subordinato al problema etico-pratico tanto nella sua
attività didattica, quanto nella sua opera filosofica. In ogni caso, quali che
siano state le ragioni dei dubbi di Eucken, esse non furono tali da impedirgli di concludere il suo giudizio per così dire in crescendo: nonostante
i difetti del testo, scrive infatti Eucken, «nel complesso emerge un talento
11
12
13
14
15
Cfr. Eucken 1885, p. 45.
Ivi, p. 74.
Ivi, p. 98.
Ivi, p. 99.
Cfr. Eucken 1896.
UN ESAME DIFFICILE
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così singolare per la ricerca filosofica e una conoscenza così buona dei
fondamenti scientifici della filosofia, che io nutro favorevoli aspettative
per la carriera scientifica dell’abilitando e che quindi […] ne appoggio
l’ammissione all’esame di abilitazione» 16.
Il talento di Scheler per la filosofia non deve tuttavia essere sembrato
poi così particolarmente singolare a Otto Liebmann, correlatore della tesi
di abilitazione, e tanto meno pare che l’esaminatore abbia giudicato così
buona la conoscenza dei «fondamenti scientifici della filosofia» mostrata
dal candidato. Al fine di comprendere la tensione che caratterizzò l’esame
sostenuto da Scheler per ottenere la libera docenza, bisogna a questo punto
spendere qualche parola su Liebmann, «uno tra i primi che con impressionante energia si erano richiamati al criticismo dimenticato» 17, colui che
con il suo Kant und die Epigonen 18 aveva lanciato lo slogan in grado di
cogliere l’esigenza diffusa in gran parte della filosofia tedesca degli anni
sessanta del XIX secolo: also muß auf Kant zurückgegangen werden 19. La
vulgata vuole che con il primo libro di Liebmann si inauguri ufficialmente
il neokantismo, anche se «è ovvio» che tale movimento «non è nato improvvisamente nel 1865 dalla penna del giovane venticinquenne […] come
Atena dalla testa di Zeus» 20. In realtà, la palma di «iniziatore ufficiale del
neokantismo» Liebmann se la contende almeno con il suo maestro di Jena
Kuno Fischer e con Eduard Zeller – solo per fare due nomi tra i papabili –, a testimonianza del fatto che in generale quello dell’«inizio» è spesso
un mito retroattivo e che, nel caso particolare, Liebmann con il suo libro
aveva semplicemente dato voce a un’esigenza diffusa e già ben avvertita.
Aveva studiato filosofia e matematica, prima a Jena, sotto Fischer appunto,
per trasferirsi poi a Lipsia, dove ebbe modo di seguire le lezioni di Gustav
Theodor Fechner e Moritz Wilhelm Drobisch, e infine a Halle. Conseguì
l’abilitazione in filosofia a Tubinga e divenne professore a Strasburgo nel
1872, dove rimase dieci anni prima di essere chiamato a Jena, nel cui ateneo
insegnò per circa trenta anni, fin quasi alla morte.
Dalla sua opera giovanile, la prima e la più celebre, cercò in seguito
per così dire di emanciparsi, rifiutando quella palma di iniziatore del neoCitato ivi, p. 5 s. L’esame di abilitazione prevede infatti una fase preliminare in
cui vengono valutati i titoli del candidato (pubblicazioni ecc.) e soprattutto lo scritto
presentato come tesi di abilitazione; superata questa fase, si viene ammessi all’esame vero
e proprio, consistente in un esame orale e in una lezione di prova.
17
Windelband 1910, p. III.
18
Liebmann 19122 (1865).
19
Così si chiude, a mo’ di litania, ognuno dei capitoli dedicati da Liebmann agli
«epigoni» di Kant, ossia Fichte, Schelling, Hegel (indirizzo idealistico), Herbart (indirizzo
realistico), Fries (indirizzo empirico), Schopenhauer (indirizzo trascendente).
20
Orth 1994, p. 17.
16
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IL PROBLEMA DEL METODO E LA RIFORMA DELL’A PRIORI
kantismo che tanto spesso gli è stata invece attribuita; per esempio, nella
terza edizione di quella che è la sua opera principale per mole e ambizione, chiarisce il senso del suo giovanile also muß auf Kant zurückgegangen
werden nei termini seguenti:
Intendevo dire che solo con questa inversione di rotta saremmo risaliti
per le false piste finora percorse fino a raggiungere il punto di partenza,
dal quale sarebbe stato quindi possibile ripartire per fare nuovi progressi.
Con ciò si è data precisa espressione a un pensiero che a quei tempi era,
per così dire, nell’aria e che io non mi attribuisco quindi in nessun modo
come merito personale. 21
Sempre nella stessa sede, poco più avanti, aggiunge che «la presente opera
occupa una posizione non all’interno, bensì all’esterno dell’ambito delimitato
dall’autorità di Kant» 22, il che pare inevitabilmente contraddire quanto
sostenne Windelband nel 1910, laddove questi scrisse che «si potrebbe
chiamare Liebmann il più fedele tra tutti i kantiani» 23. Il caposcuola del
neokantismo sudoccidentale si sottrae alla contraddizione ricorrendo a una
delle più caratteristiche figure ricorrenti di tutta la letteratura neocriticista:
in base a questo topos, che potremmo chiamare ‘dello spirito e della lettera’,
Liebmann – prosegue Windelband – senza dubbio basa la sua riflessione
sulla convinzione del fatto che «lo spirito della filosofia trascendentale sia
immortale», il che d’altra parte non gli impedisce di ritenere che «certamente
bisogna correggere molte, forse tutte le singole e letterali formulazioni dei
concetti […] che in Kant sono storicamente condizionati» 24. Per salvaguardare lo spirito del criticismo Liebmann si è spinto molto oltre nella
sua correzione della lettera kantiana; in particolare, ai fini della presente
indagine, è utile soffermarsi su due aspetti di questa decisa operazione ermeneutica, proprio perché vanno a opporsi direttamente all’interpretazione
euckeniana della filosofia critica: si tratta della «cosa in sé» e della dottrina
della libertà intelligibile. La tesi portante di Kant und die Epigonen è che
le false piste sulle quali ha finito per muoversi la filosofia post-kantiana si
dipartono tutte da un errore fondamentale che affligge il criticismo dall’interno, vale a dire la dottrina della cosa in sé, interpretata da Liebmann come
imperdonabile concessione al dogmatismo: la sua proposta è allora quella
di sbarazzarsi del noumeno e di ogni tentazione trascendente per limitare
l’operato filosofico in senso puramente immanente ai dati dell’esperienza
spazio-temporalmente determinata. Il che comporta, conseguentemente,
21
22
23
24
Liebmann 19003, nota a p. 231.
Ivi, p. 232.
Windelband 1910, p. III.
Ivi, p. IV.
UN ESAME DIFFICILE
59
che nell’opera successiva Liebmann rifiuti la dottrina kantiana della libertà
e del carattere intelligibile, fondata su quello stesso concetto di cosa in sé
che egli giudica «una parola senza significato» 25. Da quanto detto emerge
chiaramente la struttura della ricezione che Liebmann ebbe della filosofia
di Kant, della quale egli nel passo seguente indica esplicitamente i punti
che non condivide:
Per quanto riguarda la dialettica trascendentale e la dottrina delle idee che
vi viene sviluppata; inoltre la riabilitazione delle stesse ‘idee trascendentali’ – intrapresa nella Critica della ragion pratica sulla base dell’interesse
etico-pratico –, idee alle quali nella dialettica trascendentale veniva negato
qualsiasi valore conoscitivo oggettivo; infine l’uso mistico-positivo del
concetto di ‘cosa in sé’, da Kant stesso introdotto inizialmente come
‘concetto-limite negativo’, ma in effetti del tutto impensabile; questa
parte delle concezioni del grande pensatore la possiamo passare sotto
silenzio. Semplicemente a me non interessa la lettera, bensì lo spirito
del criticismo. 26
Tutta la distanza rispetto al modo in cui Eucken valuta la filosofia kantiana si fa qui evidente: lo ‘spirito del criticismo’ per Liebmann risiede
essenzialmente nella analitica trascendentale della Critica della ragion pura;
il cuore del sistema critico è allora la teoria della conoscenza, esattamente ciò che Eucken ha pressocché ignorato nella sua ricezione di Kant e
che in generale ha poco sviluppato nella sua stessa riflessione. Liebmann
propone di eliminare dal progetto trascendentale la dottrina della cosa
in sé e tutti gli elementi che rimandano alla dimensione noumenica, per
sviluppare una metafisica critica che insiste sulla dipendenza dell’oggetto
dal soggetto; Eucken, al contrario, mette tale dottrina al centro della sua
valutazione della prima critica, individuando nell’accesso etico-pratico al
mondo intellegibile garantito dalla Critica della ragion pratica la soluzione
kantiana per il superamento degli esiti fenomenistici del criticismo in sede
di teoria della conoscenza, nonché per una conciliazione della dimensione
conoscitiva e di quella pratica dell’esperienza, che Kant ha presentato in
così netta contrapposizione.
Se Cassirer ha sostenuto che «tutti i rappresentanti di rilievo del ‘neokantismo’ concordavano per lo meno su quest’unico punto: che il fulcro del
sistema di Kant fosse da cercare nella sua dottrina della conoscenza» 27, allora
si può dire – volendo correggere la lettera della definizione di Windelband
per precisarne lo spirito – che Liebmann appare come il più fedele fra tutti
25
26
27
Liebmann 1866, p. 59.
Liebmann 19032, p. 236.
Cassirer - Heidegger 1990, p. 100.
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IL PROBLEMA DEL METODO E LA RIFORMA DELL’A PRIORI
i neokantiani, in forza della sua ricezione ‘teorico-conoscitiva’ della filosofia
kantiana, così distante da quella ‘etico-pratica’ di Eucken.
La profondità del conflitto tra i due commissari d’esame si coglie proprio nel giudizio che Liebmann diede dello scritto di abilitazione di Scheler.
Per quanto discreto, vi si ravvisa infatti un chiaro riferimento polemico alla
cornice euckeniana in cui Scheler inserisce le sue riflessioni sul problema
del metodo, laddove si legge: «[…] quanto al valore del punto di vista
scelto dall’autore, credo mi sia consentito qui di tacere»; esprimere il proprio giudizio sul metodo noologico di Eucken avrebbe significato infatti
ingaggiare un confronto critico, ancora prima che con l’abilitando, con quel
collega relatore di «natura diversissima, addirittura quasi opposta» alla sua,
un’opposizione che Max Wundt dipinge nei seguenti termini:
Eucken cerca sempre la sintesi, Liebmann è un analitico più misurato;
Eucken esorta sempre a muoversi verso le questioni di fondo estreme e, a
partire da esse, cerca di dispiegare l’intero, Liebmann ogni volta parte da
questioni singole e da esse giunge solo problematicamente a individuare
possibili nuclei concettuali unificanti. Il fatto che Eucken abbia esercitato
un’influenza più estesa è naturale in un’epoca appassionatamente rivolta
ai problemi di una concezione universale del mondo. In contrapposizione,
la forza di Liebmann stava soprattutto nella formazione scientifica, nel
pensiero rigorosamente critico e nell’impegno, perseguito con successo, di dare un solido sostegno alla filosofia rivolgendosi al lavoro delle
scienze determinate. 28
Tra questi due fuochi si trovò allora Scheler e con lui il suo scritto di
abilitazione, troppo ‘teorico-conoscitivo’ e a tratti specialistico per entusiasmare il relatore Eucken e al tempo stesso troppo ‘noologico’ e universalizzante per avere la misurata approvazione del correlatore Liebmann.
L’unico punto di contatto tra le valutazioni dei due si registra in effetti sul
limite oggettivo della tesi di Scheler, vale a dire la mancata elaborazione
di una parte propositiva: come Eucken, ma con tono decisamente meno
indulgente, anche Liebmann ritiene infatti che il lavoro di Scheler «offra
più critica e postulati per il futuro che non risultati compiuti e positivi,
cercando quindi di formulare un programma che dovrebbe dimostrarsi
pienamente giustificato solo con un’effettiva realizzazione di ciò che qui
viene semplicemente preteso» 29. Per il resto, se Eucken rimprovera a
Scheler di perdersi in troppe Seitenuntersuchungen, Liebmann da parte
sua depreca la tendenza universalizzante che affligge la tesi dell’abilitando
(tendenza che, per inciso, costituisce una caratteristica peculiare delle opere
28
29
Wundt M. 1922, p. 472.
Citato in Dathe 1997, p. 6.
UN ESAME DIFFICILE
61
di Eucken), scrivendo con un certo sarcasmo: «I più diversi ambiti del sapere
e le più diverse sfere rappresentative – matematica, scienza della natura,
storia, giurisprudenza, economia politica, religione e così via – formano
il materiale su cui si sviluppa la sua trattazione e conferiscono al lavoro
l’impronta di una variopinta poli-storia e pan-storia». Quanto al valore
delle critiche che Scheler muove ai due principali indirizzi metodologici
del tempo, Liebmann scrive che «la sua critica del ‘metodo psicologico’
è sotto molti aspetti persuasiva; la sua critica del ‘metodo trascendentale’
contiene certamente qualcosa che coglie nel segno, anche se egli solleva
qui alcune obiezioni sulle quali c’è il dubbio che si possa mai riuscire a
dire qualcosa di risolutivo».
La parte più severa del giudizio di Liebmann riguarda i rilievi critici di
Scheler alla dottrina trascendentale dello spazio e del tempo: «[…] mescolando caoticamente gli elementi più eterogenei», in questa sezione l’autore
«si perde qua e là in meri giochi di parole e omonimie, confondendo l’uso
metaforico dei termini con ciò che viene inteso sensu proprio». Liebmann
conclude quindi la sua valutazione con il seguente responso: «Nel complesso sono del parere che la facoltà ammetta il dottor Scheler al colloquio e
all’abilitazione, dovendogli tuttavia imporre espressamente come dovere il
miglioramento e la revisione di singoli passi del suo lavoro» 30.
Il contrasto con Liebmann sulla interpretazione della filosofia trascendentale doveva ripresentarsi nuovamente all’esame orale, tenutosi il
30 giugno del 1900. Dopo un colloquio con il relatore Eucken, da questi
giudicato «veramente soddisfacente» 31, la conduzione dell’esame passò al
correlatore, secondo il quale lo scritto di abilitazione di Scheler offrirebbe
una valutazione del metodo trascendentale «che a volte presenta degli errori
e non arriva sempre a cogliere la profondità dei problemi»; in particolare,
l’abilitando non sarebbe riuscito a dimostrare quella che secondo Liebmann
è una sua convinzione, ossia che il perno della filosofia kantiana vada
individuato nel «problema dell’unificabilità della libertà con la necessità
causale di natura»; inoltre, prosegue il severo esaminatore, «non sembra»
che a Scheler «sia ben chiara l’opposizione di principio tra determinismo e
indeterminismo e il fondamentale significato che essa ha per la filosofia» 32.
Fatte queste premesse certo non incoraggianti, Liebmann chiese quindi a
Scheler di chiarire quale fosse «l’autentico perno e problema cardinale della
concezione kantiana del mondo», dando per scontato che tale perno non
fosse da cercare nella direzione indicata da Scheler nella Habilitationschrift
30
31
32
Citato ibidem.
Citato ibidem.
Citato ibidem.
62
IL PROBLEMA DEL METODO E LA RIFORMA DELL’A PRIORI
e volendo come dare una seconda occasione al candidato per rispondere
correttamente. La sottolineatura della contrapposizione tra dimensione
conoscitiva e dimensione etico-pratica era, come si è visto, la principale
chiave di lettura usata da Eucken nella sua valutazione della filosofia kantiana, mentre il rifiuto dell’intera dottrina della libertà sviluppata nella
Critica della ragion pratica contraddistingueva la posizione di Liebmann
in proposito; alla luce di tali considerazioni è allora piuttosto significativo
che Liebmann abbia insistito proprio su questo punto in sede d’esame.
Ancora più significativa è la risposta data dal candidato alla domanda del
correlatore: Scheler rispose infatti che il problema cardinale della filosofia
kantiana riguardava la classificazione e la gerarchia delle diverse scienze,
riuscendo in tal modo ad avere finalmente l’approvazione di Liebmann,
che alla fine giudicò comunque soltanto «sufficiente» la prova.
Potrebbe sembrare qui che Scheler abbia piegato il capo e dato la
risposta voluta dal suo esaminatore, una risposta che a sua volta potrebbe
sembrare prima facie di tutt’altra natura rispetto a quel problema dell’unificabilità di libertà e necessità causale che, secondo Liebmann, Scheler
avrebbe indicato nel suo scritto come il cuore problematico del criticismo:
in realtà a me pare che dal punto di vista sostenuto da Scheler nella sua
Habilitationschrift si tratti soltanto di due diverse formulazioni dello stesso
problema; per Liebmann, invece, doveva trattarsi di una differenza sostanziale, rifiutando egli la dottrina kantiana della libertà intellegibile e quindi
la legittimità stessa di una formulazione come la prima. Inoltre l’autore di
Die Klimax der Theorien, in cui le scienze vengono gerarchicamente ordinate secondo il grado di empiria e di teoria che presentano, non poteva
non concordare sul fatto che il nucleo problematico del criticismo fosse
appunto «la classificazione e la gerarchia delle diverse scienze», sicché si
spiega facilmente la sua soddisfazione per la risposta di Scheler. In ogni caso,
l’esame orale venne superato e Scheler poté tenere la sua lezione di prova
su Le idee riguardo il progresso in filosofia il 28 luglio, ottenendo il giorno
stesso la venia legendi. Tuttavia il confronto con Liebmann non era finito,
anzi doveva ancora conoscere il suo capitolo più aspro quando Scheler, in
autunno, pubblicò lo scritto di abilitazione senza apportarvi le correzioni che
la facoltà, su richiesta dello stesso Liebmann, aveva imposto all’abilitando
«espressamente come dovere». Ne nacque allora un vero e proprio caso
accademico, con scambi di lettere tra un Liebmann decisamente piccato,
il decano della facoltà di filosofia in cerca di chiarimenti e uno Scheler
piuttosto sfuggente nel fronteggiare le accuse di Liebmann e le richieste di
spiegazione della facoltà: una vicenda che, comunque, alla fine non impedì
a Scheler di iniziare la sua attività di Privatdozent nell’ateneo jenese.
La vicenda del non facile esame di abilitazione di Scheler e del confronto-scontro con Liebmann svoltosi sotto lo sguardo prima di Eucken,
UN ESAME DIFFICILE
63
poi dell’intera facoltà, documenta allora non solo le tensioni tra opposte
concezioni della filosofia kantiana (e della filosofia in generale) presenti
all’epoca nella comunità universitaria jenese ma, per quanto riguarda più
specificamente Scheler, dà il polso del conflitto che percorre la sua stessa
opera giovanile: il conflitto tra la tendenza universalizzante rimproveratagli
da Liebmann – una tendenza che Scheler aveva in comune con Eucken e
che senz’altro riconosceva come sua caratteristica peculiare 33 – e la consapevolezza del fatto che questa tendenza andava arginata e disciplinata,
per non correre il rischio di uscire dall’ambito della «filosofia scientifica»
e di finire in quello della «letteratura filosofica un tempo definita edificante» 34. In effetti, dopo i Beiträge e l’articolo su Arbeit und Ethik (sul
quale torneremo in seguito) 35, entrambi pubblicati nel 1899 e di contenuti
e toni spiccatamente euckeniani, nella produzione di Scheler si riscontra
da un lato l’allontanamento dagli ambiti già abbondantemente esplorati
dal maestro, dall’altro un nuovo incedere, più pacato e analitico, sotto
l’aspetto metodologico: per quanto Liebmann abbia trovato eccessivamente
generalizzante l’impostazione della Methodenschrift e fin troppo ricco il suo
contenuto, mi pare infatti che da un punto di vista sinottico – del quale
Liebmann non poteva ovviamente beneficiare – tale scritto segnali invece
in Scheler la crescente volontà di rendere più ‘scientifica’ la sua concezione
della prassi filosofica.
Questa impressione trova una conferma se si considera l’attività di
libero docente svolta da Scheler fino al 1906 sia all’interno della facoltà
di filosofia 36 sia nell’ambito dei corsi estivi «für Damen und Herren» organizzati dall’ateneo jenese 37. Per gli studenti della facoltà Scheler tenne
lezioni principalmente sugli argomenti che caratterizzavano la riflessione
filosofica in ambito neokantiano, vale a dire la logica, la filosofia di Kant, i
tratti fondamentali della teoria della conoscenza, le teorie dell’astrazione, il
problema del metodo, la presentazione dei diversi orientamenti della filosofia
contemporanea in ambito teorico-conoscitivo, il rapporto tra «scienze della
In una lettera a Eucken non datata (ma quasi certamente del 1906), sulla quale si
avrà modo di soffermarsi estesamente in seguito nel corpo del testo, Scheler scrive: «[…]
io ho inevitabilmente la tendenza mentale [Geistesrichtung] a concatenare tutto con tutto
e niente mi risulta più difficile che isolare i problemi» (in Feyl 1960-1961, p. 284).
34
Sono parole che lo stesso Scheler nel 1922 poco elegantemente riserverà al suo
maestro Eucken, senza peraltro fare cenno al fatto di essere stato suo allievo a Jena, in
DPG, GW VII, p. 273.
35
Si veda infra, cap. IV, § 2.
36
Cfr. Dathe 1997, p. 9.
37
Cfr. Ferienkurse in Jena für Damen und Herren (1901-1910), consultabili alla ThULB
con la segnatura Hist.lit.VI, 195; cfr. anche Dathe 1997, pp. 10-11, e Henckmann 1998
(a), pp. 27-28.
33
64
IL PROBLEMA DEL METODO E LA RIFORMA DELL’A PRIORI
natura» e «scienze dello spirito» sotto l’aspetto epistemologico, la posizione da assegnare alla psicologia all’interno della teoria della conoscenza.
Nell’ambito dei corsi estivi «per signore e signori» egli poteva invece dare
libero sfogo a quella tendenza universalizzante che all’interno della facoltà
teneva bene a bada (proponendo tra l’altro corsi non solo di filosofia, ma
anche di letteratura); in questo senso si può considerare per esempio il
corso di Introduzione alla filosofia – tenuto da Scheler nel 1901 e ripetuto
l’anno seguente –, il cui programma indica come suoi contenuti l’essenza,
la definizione e la suddivisione della filosofia, la storia e i tratti principali
di logica, etica ed estetica, la teoria della conoscenza (con particolare attenzione a Kant), la psicologia, la metafisica e la filosofia della religione,
nonché i compiti spettanti alla filosofia contemporanea: il tutto nell’arco
di nemmeno due settimane in lezioni quotidiane di un’ora ciascuna! Oggi
come ieri, è naturale per chiunque che la trattazione divulgativa debba
essere meno specifica e tecnica di quella accademica: tuttavia lo scarto tra
le lezioni di Scheler per gli studenti universitari e quelle per i principianti
risulta così ampio da testimoniare efficacemente la sua attitudine poco
accademica alla omnicomprensività (a quanto pare estranea, per esempio,
all’herbartiano Otto Flügel, anch’egli docente di filosofia ai corsi estivi
jenesi, il quale, poco accondiscendente alla cornice divulgativa del progetto,
presentava in quegli stessi anni un ciclo di lezioni spiccatamente tecniche
su La psicologia di Herbart e i suoi avversari).
2. UN NUOVO TRATTATO SUL METODO
Venendo a un esame ravvicinato dello scritto scheleriano di abilitazione
pubblicato nel 1900 con il titolo Die transzendentale und die psychologische
Methode. Eine grundsätzliche Erörterung zur philosophischen Methodik,
è questa l’opera giovanile che, dopo il frammento sulla logica, attesta al
meglio non solo la notevole dimestichezza di Scheler con gli strumenti e i
motivi concettuali della filosofia di impronta neokantiana, ma soprattutto
l’appartenenza, seppur critica, della sua stessa riflessione a questo indirizzo
filosofico. Già solo con la designazione del problema del metodo niente
meno che come «la questione fondamentale di tutta la filosofia» 38 – tant’è
che «ogni volta che nella sua storia è stato conseguito un progresso essenziale, questo è stato un progresso del metodo» 39 – Scheler infatti si inserisce
38
39
Methode, GW I, p. 200.
Ivi, p. 199.
UN NUOVO TRATTATO SUL METODO
65
chiaramente all’interno del paradigma trascendentale inaugurato da Kant,
definito «il grande artefice della più potente trasformazione del pensiero
nell’ambito della filosofia moderna», il quale non a caso «ha chiamato la
sua opera principale un ‘trattato del metodo’» 40.
Ma è l’intera Prefazione alla prima edizione dell’opera ad avere un
inconfondibile suono neokantiano, soprattutto allorché Scheler chiama
in causa un celebre passo di Windelband 41, per definire meglio, sulla sua
base, il compito che spetta alla filosofia contemporanea; dal momento che
«la più recente Kantforschung», scrive Scheler, «ci sembra aver definitivamente distrutto i tentativi di estrapolare un metodo univoco dall’opera
di questo spirito che domina sempre e ancora il pensiero filosofico», egli
sostiene l’opportunità di riformulare la dichiarazione windelbandiana nel
modo seguente:
Non «il fatto che comprendere Kant» significhi «andare oltre di lui» – per
usare un’espressione di Windelband – ci sembra possa essere ancora la
questione da porre; piuttosto ci sembra che il problema fondamentale
del metodo sia semplicemente come si debba andare oltre di lui. 42
E che il riferimento a Windelband sia tutt’altro che episodico, lo si può
facilmente comprendere se si richiama alla memoria il saggio dei Preludi
intitolato Metodo critico o genetico. Non solo, a ben vedere, il titolo dello
scritto di abilitazione di Scheler sembra per certi versi quasi una parafrasi
di quello del saggio windelbandiano («trascendentale» per «critico» e
«psicologico» per «genetico»), ma il senso della stessa Prefazione dell’opera – in cui il giovane filosofo presenta in una visione d’insieme le linee guida
dell’intera trattazione – potrebbe essere benissimo riassunto ricorrendo alle
considerazioni con cui Windelband inizia la sua riflessione sul problema
del metodo; scrive il caposcuola del neokantismo del Baden:
40
Ivi, p. 199 s. Si veda Kant 17872 (1781), KGS III, p. 15 (trad. it., p. 48; corsivi
miei): «[…] in quel tentativo di mutare il procedimento finora seguito dalla metafisica, e
precisamente operando in essa una radicale rivoluzione sul modello di quella dei geometri
e dei fisici, sta il compito di questa critica della ragion pura speculativa. Essa è un trattato
del metodo e non un sistema della scienza stessa».
41
Windelband 19249 (1884), vol. I, p. IV, laddove troviamo scritto: «[…] tutti noi
che facciamo filosofia nel XIX secolo siamo discepoli di Kant. Ma il nostro odierno
‘ritorno’ a lui non può essere il semplice rinnovo della forma storicamente condizionata
nella quale egli espose le idee della filosofia critica. Quanto più profondamente si coglie
l’antagonismo che sussiste tra i diversi motivi del pensiero di Kant, tanto più vi si trovano
i mezzi per elaborare i problemi che egli ha creato con le sue soluzioni. Comprendere
Kant significa andare oltre Kant».
42
Methode, GW I, p. 200.
66
IL PROBLEMA DEL METODO E LA RIFORMA DELL’A PRIORI
Da quando Kant nella Critica della ragion pura, che, come è noto, non
voleva essere tanto un sistema filosofico, quanto un «Trattato del metodo», cercò di opporre allo psicologismo dei suoi contemporanei una
concezione nuova della conoscenza e del compito della filosofia, il problema del metodo rimase sempre all’ordine del giorno. Risolverlo significa
infatti decidere la propria posizione nella filosofia o rispetto a essa. Ha
impedito una soluzione felice il fatto che la dottrina di Kant […] non si
sia presentata abbastanza definita e netta perché il concetto del metodo
critico, che essa intendeva creare, fosse al sicuro da ogni malinteso […].
L’esame di Kant sulla ‘origine’ delle rappresentazioni andava parzialmente di pari passo con le indagini già note e la sua abitudine al modo
allora in uso di trattare i problemi non gli aveva permesso di esporre con
chiarezza la fondamentale differenza che pure egli stesso aveva statuito
fra ‘origine’ e ‘giustificazione’. […] Di Kant stesso, perciò, fu la colpa,
se il suo nuovo concetto della apriorità si ridusse presto all’antica idea
della priorità psicologica […]. 43
In queste osservazioni di Windelband troviamo ben prospettate alcune delle
principali linee direttrici lungo le quali si sviluppa lo scritto scheleriano:
la centralità del metodo in filosofia come principale lascito della svolta
kantiana; il riscontro della presenza, nella riflessione di Kant, di elementi
contrastanti, che spesso portano a confondere la distinzione di principio
tra genesi fattuale delle rappresentazioni e loro giustificazione di diritto; il
dipartirsi, da questa tensione interna alla filosofia kantiana, di un orientamento interpretativo dell’apriorismo in chiave genetico-psicologica.
Il fatto che la continuità problematica con il saggio di Windelband sia
evidente non significa, d’altra parte, che Scheler ne sposi senz’altro l’impostazione, la linea argomentativa e le conclusioni: al contrario, mentre l’autore
dei Preludi fin dal titolo del suo scritto pone l’aut aut tra metodo psicologico e metodo critico-trascendentale, scegliendo naturalmente il secondo,
Scheler, da parte sua, sottopone a critica entrambi i metodi, mettendone
in luce le unilateralità contrapposte, per tentare di mediarle all’interno
di un terzo metodo, che, sulla scorta di Eucken, egli definisce noologico.
E se il nocciolo argomentativo del saggio di Windelband sta tutto nella
convinzione che quaestio facti e quaestio juris vadano tenute ben distinte,
che tra domanda genetica sulle origini delle rappresentazioni e domanda
trascendentale sulla giustificazione della loro validità ci sia una linea netta
di demarcazione, il nerbo su cui si regge la trattazione scheleriana è invece
la sottolineatura della difficoltà, o meglio, dell’impossibilità sistematica del
mantenere ferma tale distinzione: il metodo noologico, che egli propone
43
Windelband 1883, p. 99 ss. (trad. it., p. 129 ss.).
UN NUOVO TRATTATO SUL METODO
67
in alternativa sia al metodo trascendentale sia a quello psicologico, dovrà
quindi farsi carico del radicamento della quaestio juris nella quaestio facti
senza cedere al naturalismo psicologistico, all’insegna, ancora una volta,
di quel progetto di psicologia trascendentale che si è visto essere sotteso
già ai Beiträge.
Sulla effettiva tenuta della soluzione noologica al problema del metodo,
Scheler in ogni caso non si sbilancia troppo, tant’è che individua lo spazio di
significatività e interesse filosofico del suo scritto non tanto nella proposta
di «teorie in qualche modo complete», quanto piuttosto nella evidenziazione
di «problemi autentici» 44, che spesso restano soltanto impliciti nel dibattito
sul metodo. E in effetti Scheler dedica la maggior parte dei suoi sforzi alla
critica del metodo trascendentale e di quello psicologico, lasciando che
la configurazione della proposta noologica emerga più per contrasto con
quelle sottoposte a critica, che non all’interno di una elaborazione veramente
propositiva e sistematica.
2.1. La filosofia e i saperi
L’Introduzione dello scritto di abilitazione intende collocare la questione
del metodo filosofico all’interno del dibattito – eminentemente neokantiano – relativo al rapporto che la filosofia intrattiene con i saperi particolari.
Ancora una volta è utile il riferimento a Windelband, il quale, nel saggio
La filosofia contemporanea e il suo compito (posteriore di sette anni alla tesi
scheleriana di abilitazione), scrive a questo proposito che la filosofia
non può che percorrere intimamente la ricerca della altre scienze e da
esse derivare. Non può che mirare a questo: scoprire nelle conoscenze
scientifiche i principi in virtù dei quali ci è possibile giudicare la misura
e il grado del loro valore. […] La filosofia deve avere come sua premessa le altre scienze, ma non per saccheggiarle o per cogliere a capriccio
questo o quello dei loro risultati, bensì per renderle oggetto del proprio
procedimento, quello critico. […] Il suo vero compito è trovare le basi
ultime di questo sapere conquistato nell’immediata attività della ricerca,
è comprendere la struttura intima del lavoro intellettuale di tutte le discipline speciali e raggiungere le premesse obiettive che contengono in
sé la loro giustificazione. […] La filosofia non può procedere altrimenti
che analizzando nei suoi principi, secondo il metodo critico, il frutto
del lavoro scientifico del XIX secolo e chiarendo l’intima struttura delle
sue premesse. 45
44
45
Methode, GW I, p. 201.
Windelband 1907, p. 9 ss. (trad. it., p. 23 s.).
68
IL PROBLEMA DEL METODO E LA RIFORMA DELL’A PRIORI
L’immagine qui tratteggiata della filosofia come «scienza delle scienze»,
come «la prima e fondamentale» 46 tra le scienze o ancora metariflessione che rinuncia a occuparsi direttamente degli oggetti per garantire le
condizioni che rendono possibile il sapere che ne abbiamo, è esattamente quella che evoca Scheler nelle pagine introduttive del suo lavoro di
abilitazione, sebbene le sue considerazioni in proposito siano percorse
da una vena di preoccupazione che non sembra invece scuotere le fiere
parole di Windelband sulla filosofia come «comprensione consapevole
del contenuto culturale dell’umanità» 47. La preoccupazione di Scheler è
data dall’eventualità che i grandi risultati conseguiti nell’esercizio effettivo
della pratica scientifica nelle sue varie declinazioni possano far apparire
come del tutto superflua «una dottrina metodologica intesa come disciplina
filosofica» 48 – una preoccupazione che rimanda alle riflessioni di un altro
protagonista del movimento di ‘ritorno a Kant’, vale a dire Eduard Zeller,
la cui prolusione del 1862 all’università di Heidelberg è stata anch’essa
indicata come inizio convenzionale di tale composito movimento. Nel suo
discorso inaugurale Zeller fotografa felicemente la situazione della filosofia
tedesca a lui contemporanea, scrivendo che
al posto dei sistemi grandiosi e unitari che hanno governato in rapida
successione la filosofia tedesca per mezzo secolo, nel momento attuale
ci si offre lo spettacolo di una innegabile confusione […] il rapporto
tra la filosofia e le scienze particolari […] è deviato in modo tale che la
filosofia è disposta ad imparare da esse più di quanto non succedesse
qualche decina di anni fa; d’altro canto, però, nelle scienze si è radicato
Ivi, p. 10 (trad. it., p. 23).
Ivi, p. 11 (trad. it., p. 24).
48
Methode, GW I, p. 204. Questa preoccupazione di Scheler potrebbe far venire
alla mente quanto Heidegger dirà a Davos nel 1929, nel corso del celebre dibattito con
Cassirer, laddove egli ricostruirà la genesi del neokantismo a partire dall’«imbarazzo in
cui la filosofia viene a trovarsi rispetto al problema di che cosa propriamente le rimanga
nel complesso delle conoscenza. Intorno al 1850 la situazione è tale che tanto le scienze
dello spirito quanto quelle della natura hanno preso possesso della totalità del conoscibile,
per cui sorge la questione: che cosa rimane ancora alla filosofia, se la totalità dell’ente è
stata spartita tra le scienze? Le rimane soltanto più la conoscenza della scienza, non la
conoscenza dell’ente […]» (in Appendice II. Dibattito di Davos tra Ernst Cassirer e Martin
Heidegger, in Heidegger 1981, p. 219). Per lumeggiare il contesto in cui si inseriscono
le considerazioni scheleriane non credo però sia il caso di scomodare Heidegger e le sue
valutazioni sulla filosofia tedesca della seconda metà del XIX secolo, e questo non solo
per non cedere alla tentazione dello sguardo retrospettivo che valuta il ‘prima’ alla luce
del ‘dopo’, ma soprattutto perché tali valutazioni hanno la loro indispensabile premessa
nella assunzione di una ‘differenza ontologica’ tra essere ed ente, che non mi pare poter
trovare rispondenza alcuna in un orizzonte teorico come quello della filosofia giovanile
scheleriana.
46
47
UN NUOVO TRATTATO SUL METODO
69
sempre più il pregiudizio che la filosofia non serva ai loro scopi o che
addirittura esse ne vengano disturbate nel loro lavoro. 49
Più di trent’anni dopo, il rapporto tra filosofia e scienze particolari appare a
Scheler ancora negli stessi termini in cui Zeller lo dipinge nella sua prolusione, con l’aggravante per cui l’intercorsa proliferazione dei saperi specialistici
e il conseguimento di sempre nuovi risultati hanno fatto sì che le riflessioni
filosofiche sul metodo potessero essere liquidate come «generalità talmente
vaghe da non poter avere alcuna influenza sul regime intellettuale» 50. È
quindi anzitutto alle scienze e agli scienziati che il giovane filosofo si rivolge in questa Introduzione, preoccupato non tanto di legittimare nei loro
confronti la riflessione filosofica sul metodo, quanto piuttosto di mostrare
la necessità di tale riflessione per le scienze stesse, le quali possono solo
trarre beneficio dall’individuazione degli «sfondi della ricerca positiva»,
che proprio «la gran quantità dei risultati positivi minaccia di occultare» 51.
La prima delle ragioni che impongono «alla filosofia il dovere di occuparsi
dei metodi delle scienze particolari e che, rispettivamente, costringono il
singolo ricercatore ad essere filosofo» 52 sta nella struttura stessa dell’impresa scientifica, in particolare nella natura del rapporto intercorrente tra
raccolta dei dati d’esperienza e indirizzo metodologico della ricerca; chi
pensa che la scienza possa fare a meno dell’indagine filosofica sul metodo
ha di tale rapporto una concezione profondamente errata – a ben guardare
invertita – per cui «la scienza sarebbe lentamente giunta ai suoi alti livelli
attuali tramite un progressivo accumulo di dati particolari e, all’interno di
questo processo, i cambiamenti essenziali del metodo si sarebbero compiuti
facilmente, come da sé […]» 53. In realtà questa concezione cumulativa del
progresso scientifico, per cui è la raccolta di sempre nuovi dati a rendere
possibile l’adozione di nuovi indirizzi metodologici, è facilmente confutabile con la semplice considerazione della storia della scienza, i cui grandi
progressi hanno sempre costituito momenti di «rottura con il vecchio» 54,
non certo di suo pacifico svolgimento. I cambiamenti del metodo non sono stati resi possibili dall’accumulo di dati, prosegue Scheler, bensì dalla
«forza creatrice di una fantasia logica, che si è risollevata in una brusca
battaglia con la tradizione», sicché «in tutte le trasformazioni fondamentali
[…] all’interno della storia della scienza noi troviamo iniziative creatrici e
49
50
51
52
53
54
Zeller 1877, p. 489 s.
Comte 1949, vol. I, p. 71, citato da Scheler in Methode, GW I, p. 204.
Methode, GW I, p. 207.
Ibidem.
Ivi, p. 205.
Ibidem.
70
IL PROBLEMA DEL METODO E LA RIFORMA DELL’A PRIORI
anticipazioni, che per prime aprono alla ricerca nuovi ambiti della realtà» 55.
È quindi il metodo a determinare la selezione e la configurazione dei dati
d’esperienza e non viceversa, il che comporta una concezione del corso
della scienza non certo come passivo accumulo di dati, quanto piuttosto
come spontaneo processo di determinazione e costituzione dell’oggettività
scientifica; all’interno di tale processo, la natura viene interrogata sulla base
di ipotesi creativamente formulate dallo scienziato e in un certo senso costretta entro i confini di queste ipotesi, venendo così indotta a confermare
o a confutare le congetture dello scienziato, il quale dunque non si lascia
governare passivamente dalla natura, ma guida la natura, in modo tale che
essa risponda alle sue domande 56. Se si vogliono individuare le condizioni
che conferiscono universale validità alle leggi scientifiche, bisognerà allora
astrarre dall’effettività di questo processo di incessante determinazione,
per risalire ai principi «in virtù dei quali soltanto», scrive Kant nella prima critica, «è possibile che i fenomeni concordanti possano valere come
leggi» 57, principi che non risiedono nella natura, quanto piuttosto nella
ragione dello scienziato che la interroga. E l’individuazione di tali principi
secondo Scheler può spettare soltanto alla riflessione filosofica sul metodo,
la cui capacità di astrazione e generalizzazione la rende in grado di «portare
sempre di nuovo alla chiara luce del giorno questi giudizi a priori» – si noti
il termine utilizzato da Scheler –, «questi sfondi della ricerca positiva» 58.
L’interrogazione filosofica sul problema del metodo è del resto l’unica
strada percorribile per evitare l’«anarchia metodologica» che deriverebbe
dall’«assolutismo dei metodi delle scienze particolari», vale a dire la tendenza
che porta ognuno dei diversi metodi delle singole scienze a volere imporsi
sugli altri nella propria determinatezza e particolarità; d’altra parte, occupandosi della questione del metodo in stretta connessione con le scienze,
la filosofia non fa altro che compiere «un dovere verso se stessa» 59, poiché, evitando il confronto con i saperi determinati, si condannerebbe alla
sterilità. Sterilità in cui del resto essa rischierebbe di incorrere anche nel
momento in cui limitasse «il suo lavoro di teoria della conoscenza solo a una
parte della scienza, per esempio soltanto alla matematica, alla meccanica e
alla fisica matematica», escludendo dal suo orizzonte di interesse «storia,
Ivi, p. 206.
Riecheggiano qui le parole di Kant: «[…] la ragione scorge soltanto ciò che essa
stessa produce secondo il proprio disegno», essa deve «procedere innanzi coi principi
dei suoi giudizi secondo leggi stabili, costringendo la natura a rispondere alle proprie
domande, senza lasciarsi guidare da essa, per così dire, con le dande», Kant 1787 2 (1781),
KGS III, p. 10 (trad. it., p. 42).
57
Ibidem.
58
Methode, GW I, p. 207.
59
Ivi, p. 209.
55
56
UN NUOVO TRATTATO SUL METODO
71
teologia, economia politica e quegli ambiti della scienza naturale, in cui
non possono essere conseguite proposizioni necessarie e universalmente
valide» 60. E in questa volontà di Scheler di legare la riflessione filosofica
alla molteplicità qualitativa dell’esperienza – attestata da saperi così diversi
come Naturwissenschaften e Geisteswissenschaften – non può non essere
vista l’espressione dell’esigenza, che, come è stato scritto, «guida l’itinerario teorico del neocriticismo», vale a dire «l’esigenza di un’unità che si
costruisca rispettando le intrinseche differenze, prima fra tutte quella tra
natura e storia, muovendo dal fatto della loro realtà» 61.
2.2. Le principali linee metodologiche della filosofia contemporanea
Questa esigenza viene del resto chiaramente esplicitata nella sezione seguente, intitolata Visione d’insieme dei metodi filosofici nella filosofia moderna, nel
corso della quale Scheler enuclea le caratteristiche formali e contenutistiche
che la riflessione filosofica contemporanea accorda al metodo. Quanto alle
prime, Scheler le ravvisa nell’autonomia che il metodo deve conservare
rispetto a presupposti contenutistici inindagati, nella sua esclusività e nella
forza creatrice che esso deve possedere. Ma è possibile individuare anche tre
nuclei contenutistici attorno ai quali si muovono i principali orientamenti
metodologici in filosofia: i primi due sono riconducibili alla questione relativa
a quella che Scheler chiama «la codeterminazione del metodo filosofico da
parte della matematica e della storia» 62. Ciò che Scheler vuole dire è che si
può tracciare una distinzione tra indirizzi di pensiero per i quali la filosofia
deve procedere more geometrico – e la filosofia moderna prekantiana, tanto
sul versante razionalistico, quanto su quello empiristico, è secondo Scheler
tutta orientata in questo senso – e altri indirizzi per i quali è invece la storia
a costituire il modello di riferimento per l’indagine filosofica. È a questo
punto che Scheler, riflettendo sulla profonda differenza tra metodo storico
e metodo matematico, esplicita a chiare lettere l’esigenza cui si faceva riferimento poco sopra, in un passo che, per la sua efficacia di penetrazione
problematica, vale la pena riportare in tutta la sua estensione:
Storia e matematica sono scienze diametralmente opposte [Polarwissenschaften]. L’ideale sarebbe senza dubbio una teoria della conoscenza
che fosse in grado di accordarle. Ma quali contrasti sarebbero qui da
ricondurre a un’unità! Qui come punto di partenza una piccola serie,
60
61
62
Ibidem.
Gigliotti 1983 (a), p. 14.
Methode, GW I, p. 212.
72
IL PROBLEMA DEL METODO E LA RIFORMA DELL’A PRIORI
determinata per numero e contenuto, di proposizioni, definizioni e assiomi, là innumerevoli punti di partenza, lasciati da principio alla libera
scelta; qui verità ed errore distinguibili con la massima precisione, là
un campo sterminato di ipotesi, dai più diversi gradi di probabilità; qui
l’argomentazione circolare è un grossolano errore di ragionamento, là è
inevitabile; qui l’oggetto è rigorosamente delineato, ma completamente
vuoto, e soltanto una singola funzione psichica è impegnata nella sua
configurazione, là una vita dai contorni fluttuanti, ma più che ricca di
contenuti, che impegna in una volta tutte le forze essenziali della natura
umana e chiama ogni vissuto personale del ricercatore a collaborare; qui
il carattere di un’attività spirituale che costruisce in modo spontaneo,
là la necessità di lasciarsi influenzare lentamente e completamente dalle
cose […]. 63
In questa raffigurazione a tinte forti – notoriamente le più apprezzate da
Scheler – del contrasto tra matematica e storia sono evidentemente presenti i
principali motivi-guida del dibattito sullo statuto epistemologico delle cosiddette «scienze dello spirito», dibattito che, dalla seconda metà dell’Ottocento
in poi, vide Dilthey, Windelband e Rickert tra i suoi più incisivi protagonisti.
Nel passo di Scheler si ritrova infatti per un verso l’accentuazione diltheyana
della opposizione tra mondo naturale degli oggetti, spiegabile matematicamente, e mondo umano dei vissuti e degli eventi, comprensibile per via
ermeneutica; per altro verso, si registra anche l’espressione dell’esigenza
tipica del neokantismo, soprattutto sudoccidentale, di riportare ambiti così
diversi a un unico terreno fondazionale, spiegando la distinzione non in base
all’oggetto, ma al diverso modo in cui il metodo storico e quello matematico
lo costituiscono. Inoltre, con l’accenno alle funzioni psichiche impegnate
nella configurazione dell’oggetto scientifico e di quello storico, si prospetta
ancora una volta l’inevitabilità di considerazioni psicologico-trascendentali.
Mentre il tema della psicologia trascendentale verrà ripreso più avanti, al
centro di queste pagine resta per ora la questione riguardante l’incidenza
di storia e matematica sul metodo filosofico, questione che Scheler passa
a esaminare in relazione alla «potente svolta metodologica operata dalla
geniale azione spirituale di Kant» 64. Che ruolo svolgono all’interno della
filosofia kantiana matematica e storia? In che misura le loro diversissime
istanze e procedure metodologiche influiscono sul metodo critico? Queste
sono le domande che guidano le riflessioni del giovane Scheler.
Egli si sofferma anzitutto sul rapporto che la filosofia kantiana intrattiene con la scienza matematica, affermando che «il più inconfutabile merito
di Kant sotto l’aspetto metodologico» va ravvisato nella «sua rottura con
63
64
Ivi, p. 213 s.
Ivi, p. 214.
UN NUOVO TRATTATO SUL METODO
73
il metodo matematico in filosofia, nella sua comprensione della differenza
essenziale tra il modo di pensare filosofico e quello matematico» 65: nella
filosofia, infatti, «non ci sono né definizioni né assiomi e nemmeno dimostrazioni», dal momento che «i principi fondamentali del pensiero filosofico
hanno bisogno di una deduzione e non sono quindi assiomi» 66. Sebbene
non la citi esplicitamente, Scheler fa qui riferimento – in certi punti in
modo quasi letterale – alla prima critica, precisamente alla sezione della
Dottrina trascendentale del metodo intitolata La disciplina della ragion pura
nell’uso dommatico, dove Kant mostra come nella filosofia trascendentale
il metodo matematico non sia in grado di arrecare il ben che minimo
vantaggio […]; geometria e filosofia sono due cose interamente diverse,
anche se si danno scambievolmente la mano nella scienza della natura,
[…] pertanto il procedimento dell’una non può essere imitato dall’altra.
La fondatezza della matematica poggia su definizioni, assiomi, dimostrazioni. […] Nessuno di questi elementi, nel senso in cui vengono intesi
dai matematici, può essere fornito o imitato dalla filosofia. 67
Tuttavia, per inquadrare con precisione il rapporto che la filosofia kantiana
intrattiene con la scienza matematica, secondo Scheler non ci si può arrestare qui; infatti, per quanto Kant abbia distinto rigorosamente il metodo
matematico da quello filosofico, è pur sempre innegabile che per l’indagine
critico-trascendentale la scienza matematica resta «il dato principale per
la determinazione e la delimitazione della facoltà conoscitiva. Il problema
fondamentale del lavoro concettuale di Kant resta come […] sia possibile
la scienza matematica della natura. Sebbene non faccia filosofia in modo
matematico, egli tuttavia fa filosofia essenzialmente sulla matematica» 68.
Sulla filosofia critica resta quindi pur sempre rilevante la misura dell’incidenza della scienza matematica, come attesta il passo dei Primi principi
metafisici della scienza della natura citato da Scheler, in cui Kant scrive:
«[…] poiché in ogni dottrina della natura viene riscontrato solo tanto di
scienza propriamente detta quanto vi si trova di conoscenza a priori, ne
segue che la dottrina della natura conterrà tanta scienza propriamente detta
quanta è la matematica che in essa può essere applicata» 69. Ma riguardo a
Ivi, p. 215.
Ibidem.
67
Kant 17872 (1781), KGS III, p. 476 (trad. it., p. 559). Poche pagine più in là si
trova un altro passo qui richiamato implicitamente da Scheler, laddove Kant scrive che
«la filosofia non ha assiomi, e non è in grado di imporre in modo così assoluto i suoi
principi a priori, ma è costretta a render conto del proprio diritto attraverso una rigorosa
deduzione», ivi, p. 481 (trad. it., p. 563).
68
Methode, GW I, p. 215.
69
Kant 1786, KGS IV, p. 470 (trad. it., p. 12).
65
66
74
IL PROBLEMA DEL METODO E LA RIFORMA DELL’A PRIORI
questa centralità assegnata alla matematica – vero e proprio contrassegno
della «scienza propriamente detta» – Scheler esprime forti perplessità, che
investono anzitutto l’ambito di quelle scienze naturali, i cui procedimenti
sono principalmente descrittivi e classificatori, e che quindi non mettono
capo a un’oggettività esattamente matematizzabile. Più in generale, il dubbio di Scheler è che le parole di Kant sulla «scienza propriamente detta»
finiscano da un lato con l’escludere la possibilità di legittimare in senso
trascendentale una scienza che non sia soltanto matematica, ma che sia
scienza matematica dell’esperienza, dall’altro col definire la facoltà conoscitiva in base alle sue sole «prestazioni matematiche» 70.
Quanto invece all’incidenza della storia e del suo procedimento metodologico sulla filosofia di Kant, Scheler scrive che, a questo proposito,
va registrata una sorta di paradosso: tale incidenza non si riscontra affatto
dove ci si potrebbe presumibilmente aspettare di riscontrarla con maggior
facilità, vale a dire negli scritti kantiani di filosofia della storia. Per comprendere le ragioni che spiegano questa incongruenza, bisogna per prima
cosa tenere presente che, conformemente all’impostazione kantiana, «il
filo conduttore alla luce del quale noi dobbiamo lavorare sulla storia è il
principio fondamentale della filosofia del diritto di Kant»; in secondo luogo
che tale principio, prosegue Scheler, «si basa in ultima istanza sulla legge
morale» 71. Le opere kantiane che stanno alla base di queste considerazioni
scheleriane sono il saggio del 1784 Idea di una storia universale dal punto di
vista cosmopolitico e la Metafisica dei costumi del 1797. Il primo testo è infatti
l’«esposizione in nove tesi di una filosofia della storia fondata sul principio
di un avvento progressivo e universale del diritto» 72; quanto al fondamento
del diritto, nella Metafisica dei costumi Kant scrive che il principio su cui
si fonda la legislazione giuridica, o, con le sue parole, «la legge universale
del diritto», può essere formulata nel modo seguente: «agisci esternamente
in modo che il libero uso del tuo arbitrio possa coesistere con la libertà di
ognuno secondo una legge universale» 73. Sebbene la legislazione giuridica
sia soltanto esterna, a differenza di quella etica, la quale richiede non solo
la conformità esterna dell’azione all’idea del dovere (legalità), ma anche
che l’idea del dovere sia il motivo determinante della volontà del soggetto
che compie l’azione (moralità), resta pur sempre il fatto che «tutti i doveri,
unicamente perché sono doveri, appartengono all’etica» e che quindi la
legislazione etica stessa «possa farci un dovere di prendere per motivi determinanti certi doveri che si riferiscono a un’altra legislazione, vale a dire
70
71
72
73
Methode, GW I, p. 215.
Ivi, p. 217.
Guerra 200013, p. 88.
Kant 1797, KGS VI, p. 231 (trad. it., p. 35).
UN NUOVO TRATTATO SUL METODO
75
a una legislazione esterna» 74, come appunto quella giuridica. Solo tenendo
presente tutto ciò, si possono comprendere quali siano le ragioni dell’incongruenza rilevata da Scheler nel fatto che gli scritti kantiani di filosofia della
storia non rivelino alcun debito nei confronti della metodologia storica:
infatti, posto che il filo conduttore della filosofia kantiana della storia è
il diritto e il diritto rimanda alla legge morale, come correttamente scrive
Scheler nell’opera sul metodo, la legge morale, a sua volta
non è condizione di una esperienza reale (come sono per esempio le
categorie e i principi), bensì condizione di una esperienza possibile, la
quale da parte sua è essa stessa un problema. La legge morale è stata
‘esposta’, non ‘dedotta’. Se deve essere costretta all’interno della «via
trascendentale» (per usare parole di Cohen), allora si può dire soltanto:
la legge morale è condizione del problema di un regno dei fini. 75
Numerosi sono i riferimenti all’opera kantiana che potrebbero essere portati a sostegno di queste considerazioni di Scheler; mi limiterò quindi ai
più significativi: nella Critica della ragion pura Kant scrive che la ragione
nel suo uso morale contiene «principi della possibilità dell’esperienza, cioè
di azioni che, in conformità a precetti morali, potrebbero aver luogo nella
storia degli uomini» 76; nella Fondazione della metafisica dei costumi egli
sostiene che nella filosofia pratica non si pongono «principi di ciò che
accade, bensì leggi di ciò che deve accadere anche se non accadrà mai» 77.
Ma il riferimento principale di Scheler è certamente il notissimo passo
della Critica della ragione pratica, nel quale, riguardo alla legge morale,
Kant afferma recisamente:
Nella deduzione, cioè nella giustificazione della sua validità universale
necessaria, e nell’esame della possibilità di una siffatta proposizione
sintetica a priori, non si può sperare di procedere bene come quando si
trattava dei Principi dell’intelletto puro teoretico. […] Non posso adottare
questo procedimento per la deduzione della legge morale. […] La legge
morale è data in certo modo come un fatto della ragione pura, di cui
abbiamo consapevolezza a priori e di cui siamo apoditticamente certi,
anche nell’ipotesi che l’esperienza non possa fornirci alcun esempio della
osservanza rigorosa di questa legge. Di conseguenza nessuna deduzione
può dimostrare la realtà oggettiva della legge morale […]; pertanto […]
tale realtà non potrebbe trovar conferma nell’esperienza. 78
Ivi, p. 219 (trad. it. leggermente modificata, p. 21).
Methode, GW I, p. 217. Il riferimento di Scheler è a Cohen 19102 (1877), p. 181
(trad. it., p. 167).
76
Kant 17872 (1781), KGS III, p. 524 (trad. it., p. 608).
77
Kant 1785, KGS IV, p. 427 (trad. it., p. 57 s.).
78
Kant 1788, KGS V, p. 46 s. (trad. it., p. 185 s.).
74
75
76
IL PROBLEMA DEL METODO E LA RIFORMA DELL’A PRIORI
Kant, dunque, in riferimento alla filosofia pratica, parla di azioni che nella
storia degli uomini potrebbero, forse, incontrarsi; di leggi di ciò che deve accedere, anche se non accadrà mai; della inesistenza di una qualsiasi esperienza
che possa essere portata a conferma della realtà obiettiva della legge morale
e della conseguente impossibilità di una deduzione di tale legge. E non è un
caso che, a proposito di questi temi, Scheler faccia qui il nome di Cohen, la
cui più grande preoccupazione nella Fondazione kantiana dell’etica è appunto
che si veda nell’a priori pratico kantiano nulla più che l’espressione di una
«possibilità avulsa dai fatti» 79: «l’uso morale della ragione» indicherebbe
allora «soltanto i principi della possibilità dell’esperienza (analiticamente)
possibile, e non di una esperienza (sinteticamente) reale» 80.
E Scheler dà esattamente corpo ai timori di Cohen, nel momento in
cui sostiene che la filosofia kantiana della storia è del tutto priva di senso
storico proprio perché il suo ‘filo conduttore’ ultimo è quella legge morale
della quale non è possibile trovar conferma alcuna nell’esperienza reale.
Scrive infatti:
Poiché […] il metodo kantiano della filosofia pratica rifiuta seccamente
l’esperienza storica dell’uomo non soltanto come elemento che partecipa
alla configurazione del principio morale, ma anche come dato per una
deduzione trascendentale, anche la sua filosofia della storia è, propriamente e correttamente parlando, quella parte della sua intera opera che
è la più estranea al modo di pensare storico. 81
La maggior incidenza sulla filosofia critica del metodo storico e delle sue
istanze si registra invece, secondo Scheler, nell’ambito della teoria kantiana
della conoscenza, il cui rivoluzionario nucleo concettuale sta notoriamente
nella svolta copernicana, in base alla quale Kant invita a fondare l’oggettività
conoscitiva «muovendo dall’ipotesi che siano gli oggetti a dover regolarsi
sulla nostra conoscenza» 82 e non viceversa. In base a questa ipotesi, la
fondazione della conoscenza non va cercata direttamente nell’essere degli
oggetti d’esperienza, bensì nella conoscenza stessa, poiché appunto non sono
gli oggetti a condizionare la nostra conoscenza, ma è la nostra conoscenza
con le sue strutture e funzioni a condizionare gli oggetti, o meglio, a determinarne la costituzione in quanto oggetti di ogni nostra esperienza possibile.
Procedendo da questo mutato modo di pensare, secondo il quale «noi
tanto conosciamo a priori delle cose quanto noi stessi poniamo in esse» 83,
79
80
81
82
83
Gigliotti 1989, p. 107.
Cohen 19102 (1877), p. 15 (trad. it., p. 23).
Methode, GW I, p. 217.
Kant 17872 (1781), KGS III, p. 12 (trad. it., p. 44).
Ivi, p. 13 (trad. it., p. 45).
UN NUOVO TRATTATO SUL METODO
77
la Critica della ragion pura si propone quindi di individuare le strutture e le
funzioni soggettive che rendono possibile a priori l’oggettività del conoscere,
accantonando in tal modo «il nome risonante di ontologia» e sostituendovi
«quello modesto di una semplice analitica dell’intelletto puro» 84.
Questo rivolgersi della ragione dalle cose alla sua propria struttura non
significa certo che la ragione si debba limitare a occuparsi «cavillosamente
di se stessa» e nemmeno che essa si possa conoscere in una qualche «evidenza originaria», tramite una sorta di auto-intuizione che ne riveli una
qualche «caratteristica osservabile, la quale ci permetta di distinguere la
ragione dagli altri accadimenti psichici» 85. Un accesso diretto, intuitivo
alla ragione e alle sue strutture oggettivanti è incompatibile con la filosofia
critica e con la svolta copernicana che ne costituisce il cuore, poiché per
questa via si finirebbe per fare della ragione un oggetto tra gli oggetti, da
indagare al modo della altisonante ontologia dogmatica. Per non tradire lo
spirito della ‘modesta’ analitica dell’intelletto puro, qual è allora il metodo
che la critica della ragione deve adottare? Conformemente al significato
della svolta trascendentale, la ragione, scrive Scheler, deve essere criticata
a partire dai suoi risultati, «dalla realtà […] delle opere visibili dell’intera
umanità: deve essere valutata [ermessen] in base alla grandiosa prestazione
della scienza matematica della natura» 86. L’indagine critico-trascendentale
deve quindi risalire dal fatto alle condizioni che lo hanno reso possibile
o, meglio, che in linea di principio ne garantiscono a priori la possibilità,
conformemente a quello che Kant chiama metodo analitico-regressivo e
che egli, nelle sue lezioni di logica, così definisce in contrapposizione al
metodo sintetico-progressivo: «[…] il metodo analitico è opposto a quello sintetico. Il primo comincia col condizionato e col fondato e risale ai
principi (a principiatis ad principia), il secondo, invece, va dai principi alle
conseguenze o dal semplice al composto. Il primo potrebbe anche venir
chiamato regressivo, il secondo progressivo» 87. Ma, più che la definizione
generale dei due metodi, ciò che dovrà interessare in questa sede è la loro
applicazione all’interno della filosofia critica: a questo proposito, non si
può non fare riferimento al passo dei Prolegomeni in cui Kant spiega che,
per rispondere alla domanda sulla possibilità della conoscenza sintetica
a priori, nella prima critica egli si è servito del metodo sintetico, al quale
invece nei Prolegomeni preferisce quello analitico, perché più semplice 88.
Ivi, p. 207 (trad. it., p. 71).
Methode, GW I, p. 217.
86
Ivi, p. 217 s.
87
Kant 1800, KGS IX, p. 149 (trad. it., p. 143).
88
Kant 1783, KGS IV, p. 274 (trad. it., p. 67). Si veda anche la nota ivi, p. 276 (trad. it.,
p. 287 nota 3), dove Kant precisa: «[…] il metodo analitico, in quanto si oppone al sin84
85
78
IL PROBLEMA DEL METODO E LA RIFORMA DELL’A PRIORI
Invece di prendere direttamente in esame le condizioni di possibilità come richiede il metodo sintetico, quello analitico prende le mosse dal fatto
costituito nell’esperienza e da questo risale regressivamente alle condizioni
che ne rendono possibile a priori la costituzione. Come si sa, i neokantiani
– in particolare la Scuola di Marburgo –, proprio nella regressività del
metodo analitico vedono la garanzia che le funzioni a priori cui si perviene
nell’indagine siano al riparo dai più grossolani fraintendimenti e vengano
assicurate nel loro valore trascendentale di condizioni della possibilità dell’esperienza 89: il metodo analitico-regressivo, infatti, parte dal composto,
dal continuum della conoscenza e da qui risale al semplice, dal condizionato
alla condizione, in modo tale che il momento intuitivo e quello concettuale
della conoscenza possano certamente essere isolati a beneficio dell’indagine
trascendentale, ma mai pensati come nettamente separati l’uno dall’altro,
o fondati su elementi sostanziali come sensibilità e intelletto, o ancora
concepiti come forme vuote che devono essere riempite dal materiale della
sensazione; partendo dal fatto reale della scienza matematica della natura è
più semplice evitare pericolose complicazioni sostanzialistico-dogmatiche di
quella che Scaravelli ha definito la «malattia costituzionale» della filosofia
kantiana 90; è più semplice, in altre parole, non perdere di vista il fatto che
le forme a priori hanno un significato esclusivamente funzionale al fatto
della scienza da cui prende inizio l’indagine.
Se l’unico metodo ammissibile in ambito trascendentale è per i neokantiani quello analitico-regressivo, questo è dovuto d’altra parte anche a
un’altra ragione: il vincolo costitutivo che il metodo analitico-regressivo
intrattiene con il fatto della scienza non solo mette al riparo l’indagine
trascendentale dai più diffusi equivoci interpretativi, ma, soprattutto, dà
tetico, è tutt’altra cosa che un complesso di giudizi analitici: esso vuol dire soltanto che si
parte da ciò che è oggetto della questione, come dato, per risalire alle condizioni che lo
rendono possibile. In questi casi si può anche far uso di puri giudizi sintetici, come ce ne
dà esempio l’analisi matematica: onde potrebbe meglio venir chiamato metodo regressivo
a differenza del metodo sintetico o progressivo».
89
Si veda Cohen 1871, p. 233 (trad. it., p. 237), laddove l’autore scrive: «[…] l’apriorità
è solo una cosa a metà, indimostrata, senza la relazione trascendentale con l’esperienza
possibile».
90
Malattia per cui «gli elementi che confluiscono in uno a formare nel ‘luogo’ dell’unione la effettualità dell’esperienza (e solo in quel luogo si ha l’effettiva, concreta
e reale esperienza)», nell’ambito dell’analisi regressiva – man mano che dal «‘luogo’
dell’unione» ci si allontana a ritroso – vengono isolati e presentati separatamente, «come
se avessero una loro realtà effettuale fuori dalla sintesi». Sicché, prosegue Scaravelli, ci
si ritrova nella «strana situazione di presentare con una mano gli elementi ben isolati e
ben delineati nei loro aspetti e nei loro caratteri peculiari» (per esempio da una lato la
sensibilità ricettiva, dall’altro l’intelletto spontaneo), «e con l’altra di metterli insieme
rapidamente insieme fra loro, in intima fusione, onde mostrare l’impossibilità che hanno
a funzionare separatamente» (in Scaravelli 1990, p. 63, in part. nota 16).
UN NUOVO TRATTATO SUL METODO
79
espressione a una delle istanze più radicate nella riflessione dei neocriticisti, in base alla quale il piano trascendentale delle condizioni di possibilità
«dev’essere riconosciuto e affermato soltanto dopo la sua realizzazione
storica», sicché «tanto le fondazioni logiche pure quanto i valori possono essere individuati dalla riflessione filosofica soltanto sulla base di
determinate dottrine scientifiche e di determinati beni culturali» 91. Ed
è particolarmente significativo ai fini della presente indagine che Scheler
veda la maggior incidenza del metodo storico sulla filosofia criticistica,
nonché uno dei più grandi meriti di Kant, proprio nell’individuazione del
fatto storico della scienza matematica della natura come Ausgangsdatum e
nel conseguente andamento regressivo dell’indagine che da qui si diparte;
scrive infatti Scheler:
[…] quel momento […] che tradisce un riferimento del suo metodo a
un modo storico di pensare noi lo ravvisiamo nel fatto che […] termine
di paragone della ragione diventa un sistema dato di azioni storiche di
pensiero; nel fatto che, in tal modo, appare per la prima volta la possibilità
di commisurare la ragione a una realtà e non, viceversa, di commisurare
ogni realtà a una ragione dogmatica. […] È e rimane grandissimo merito
di Kant l’aver esposto di nuovo allo spirito umano, tramite la svolta metodologica presentata, […] la sua peculiare essenza, senza presupporla
dogmaticamente, ma definendola soltanto a partire dalle sue proprie
opere, venute alla luce successivamente nel corso della storia. 92
Scheler, dunque, condivide in toto la limitazione tipicamente neokantiana
del metodo trascendentale in senso esclusivamente analitico-regressivo,
operazione ermeneutica che si compendia nello ‘slogan’ che recita: dal fatto
alle condizioni di possibilità. Ma se egli per un verso approva l’instaurazione
del legame vincolante che unisce riflessione trascendentale e fatti culturali
dell’esperienza, d’altro canto nutre al contempo forti perplessità riguardo al
modo in cui tale legame viene inteso nella filosofia kantiana e neokantiana:
in altre parole, pur essendo anch’egli convinto che la dottrina trascendentale
della conoscenza vada indissolubilmente legata al fatto storico della scienza,
non per questo condivide l’accezione neokantiana di «scienza», né tanto
meno la pretesa neocriticistica che i risultati della riflessione trascendentale
analitico-regressiva abbiano universale validità. Ma la posizione critica di
Scheler emergerà con chiarezza nel prosieguo della trattazione; in questa
parte dell’opera egli si limita invece a presentare le sue riserve sotto forma
di domande, il cui inequivocabile tono retorico palesa del resto un’insoddisfazione di fondo riguardo al metodo trascendentale neokantianamente
91
92
Gigliotti 1983 (a), p. 13.
Methode, GW I, p. 218 s.
80
IL PROBLEMA DEL METODO E LA RIFORMA DELL’A PRIORI
reinterpretato. E le quattro domande che Scheler pone – e che egli stesso definisce «pesanti» nella misura in cui «vanno a toccare la questione
del metodo filosofico fino al nocciolo» – meritano di essere riportate per
intero, poiché investono il delicatissimo punto riguardante la nozione di
«esperienza» posta alla base delle opzioni metodologiche della filosofia
trascendentale:
Primo punto: a costituire il fondamento del procedimento metodologico
è l’esperienza comune, è l’esperienza scientifica data in una certa epoca
o è forse l’ideale di un’esperienza scientificamente compiuta? Secondo
punto: in quel fondamento riescono a dire la loro tutte le scienze o solo
una parte ritagliata dall’intero della scienza? Terzo punto: nel concetto
fondamentale di esperienza non vanno fatte rientrare anche le parti extrascientifiche […] dell’esperienza umana? Quarto punto: c’è in generale
un concetto di esperienza universalmente valido per la storia umana,
cosicché ci si possa interrogare sulla possibilità della esperienza? 93
Secondo Scheler, Kant e il neokantismo (soprattutto quello marburghese)
hanno ragione nel vincolare metodologicamente la riflessione filosofica ai
fatti storici dell’esperienza, ma – nel momento in cui si tratta di stabilire
quali fatti possano essere legittimamente presi come punto di partenza,
quale concetto generale di ‘esperienza’ sia sotteso all’indagine e, soprattutto,
quale estensione di validità vada attribuita ai risultati dell’indagine analiticoregressiva – la tradizione criticistica specifica il metodo in modo tale da
assolutizzare del tutto anti-storicamente «uno stato storico dell’esperienza
nella esperienza» 94 tout court. Anche laddove la filosofia trascendentale
riesce a soddisfare al meglio le istanze della metodologia storica prevale
quindi un orientamento di fondo che è in ultimo anti-storico.
Resta infine un terzo nucleo di contenuto attorno al quale si muovono le
principali correnti metodologiche della filosofia contemporanea, riguardante
il tema della genesi delle rappresentazioni, o, meglio, la questione relativa
al diritto o meno «di individuare il compito principale della filosofia nella
comprensione della genesi delle rappresentazioni e dei principi» 95. Richiamando ancora il saggio di Windelband, si tratta per Scheler di ripartire gli
indirizzi filosofici contemporanei all’interno dell’aut aut che oppone metodo
critico e metodo genetico. E il punto di partenza per questa panoramica
ancora una volta non può non essere la filosofia di Kant, il quale, secondo
Scheler, «non è giunto a una decisione definitiva» 96 in favore dell’uno o
93
94
95
96
Ivi, p. 219.
Ibidem.
Ivi, p. 212 s.
Ivi, p. 220.
UN NUOVO TRATTATO SUL METODO
81
dell’altro dei due metodi, come ritengono alcuni interpreti della filosofia
critica, poiché a ben vedere ciò che in effetti egli «ha rigorosamente rifiutato non è il metodo psicologico e genetico in generale, quanto piuttosto
specificamente il metodo empirico-psicologico» 97. Addirittura, il cosiddetto
metodo «trascendental-psicologico» sarebbe, secondo Scheler, un «elemento
necessario dell’argomentazione kantiana». Con ciò Scheler non intende
contestare in alcun modo il fatto che «con la dimostrazione dell’apriorità
trascendental-psicologica di un concetto o di una intuizione non sia ancora
data loro la legittima autorizzazione di fondare una conoscenza oggettiva»;
in altri termini, Scheler non vuole sostenere che per risolvere il quesito
trascendentale sia sufficiente constatare l’apriorità dello spazio, del tempo
e delle categorie, come fa Kant rispettivamente nella Esposizione metafisica
e nella Deduzione metafisica della prima critica; infatti, se ci si arrestasse a
questo punto dell’indagine, si avrebbe un’apriorità esclusivamente soggettivo-psicologica, alla quale mancherebbe la legittimazione di condizione
dell’oggettività dell’esperienza che soltanto l’Esposizione trascendentale e
la Deduzione trascendentale sono in grado di fornire rispettivamente alle
intuizioni pure di spazio e di tempo e alle categorie. Scheler, dunque, è
d’accordo con Kant, quando nella prima critica afferma che i concetti
puri «abbisognano di un certificato di nascita ben diverso da quello che
ne attesti la discendenza dall’esperienza» e che l’indagine genetica sulle
rappresentazioni mette capo a una «tentata derivazione fisiologica, che
propriamente non può neppure venir detta deduzione, poiché concerne
solo una quaestionem facti», sicché va più adeguatamente chiamata tutt’al
più «spiegazione del possesso di una conoscenza pura» 98. Il che però, secondo Scheler, non significa che la questione genetica si risolva del tutto
nella dimensione empirico-psicologica e che tale questione non possa essere
sensatamente e legittimamente posta anche in ambito trascendentale; è in
questo senso che Scheler scrive, richiamandosi al passo kantiano appena
citato:
Le «conoscenze pure» devono avere «un diverso certificato di nascita da
quello che ne attesti la discendenza dall’esperienza»; ma di un «certificato
di nascita» hanno bisogno anch’esse. Sicuramente la «quaestio juris» non
è identica alla «quaestio facti». Ma senza la rivendicazione di un fattuale
a priori soggettivo la domanda sul suo diritto teorico-conoscitivo non
può assolutamente essere posta. 99
97
98
99
Ivi, p. 221 (corsivo mio).
Kant 17872 (1781), KGS III, p. 101 (trad. it. leggermente modificata, p. 154).
Methode, GW I, p. 221.
82
IL PROBLEMA DEL METODO E LA RIFORMA DELL’A PRIORI
In questo passo torna quindi uno dei motivi ricorrenti della riflessione
filosofica del giovane Scheler, vale a dire il tema della psicologia trascendentale, intesa come necessaria parte complementare della riflessione sulla
costituzione dell’oggettività. Se i fatti culturali dell’esperienza attestano modi
qualitativamente diversi dell’oggettività e suoi diversi gradi di validità, il
dissolvimento funzionalistico della soggettività trascendentale in un semplice titolo generale sotto cui raccogliere analoghe operazioni oggettivanti
diventa difficile proprio perché tali operazioni non sono affatto analoghe:
scienza matematica della natura e storia, ma anche etica ed estetica e con
loro tutta la compagine dei Fakta culturali, esprimono modi così diversi di
dare senso all’esperienza da rendere sempre più arduo l’«idealismo senza
soggetto» 100 del neokantismo marburghese (principale interlocutore di
Scheler nell’opera sul metodo) e da richiedere invece, in tutt’altra direzione, il ricorso a un soggetto in qualche modo ontologicamente definito 101 e
alle sue diverse facoltà, un soggetto inteso come piano unificante da cui si
dipartono le molteplici direzioni oggettivanti attestate dall’esperienza 102. Il
metodo critico non va quindi visto in alternativa a quello genetico, bisogna
piuttosto cercare di integrare i due metodi in un metodo che sia appunto
trascendentale e psicologico al contempo, evitando tanto la dissoluzione
in senso funzionale-trascendentale della soggettività, quanto la riduzione
empiristica dell’a priori all’organizzazione psico-genetica dell’uomo (come
quella operata da quell’indirizzo dello stesso movimento neokantiano che
fa capo a Lange).
Da questa panoramica sulla questione metodologica nella filosofia contemporanea Scheler conclude quindi che «un’armonizzazione [Ausgleich]
tra le esigenze che, in quanto forze codeterminatrici, matematica e scienza
matematica della natura da un lato e scienza della storia dall’altro pongono
al metodo filosofico, è stata raggiunta finora tanto poco, quanto una composizione del contrasto tra metodo psicologico e metodo trascendentale»;
d’altra parte egli prosegue affermando che «ogni tentativo di trovare il
Brelage 1965, p. 97.
In questo senso scrive Scheler: «[…] una qualche autorizzazione, un qualche necessario riferimento agli oggetti lo può possedere sempre e soltanto qualcosa che in qualche
modo è [ein irgendwie Seiendes]; una semplice autorizzazione che fosse autorizzazione di
nessuno, di nessun soggetto, non potrebbe mai operare creativamente» (Methode, GW
I, p. 220 s.).
102
Cfr. Gigliotti 1989, p. 186, laddove in riferimento a Cassirer l’autrice scrive: «[…]
si tratta in buona sostanza di stabilire se muovendosi unicamente sul versante di come
si dia la possibilità del mondo dell’oggettività, usando la nozione di soggettività sempre
soltanto correlativamente all’oggettività, e muovendo da essa, si riesca a conservare la
possibilità di non convalidare di fatto soltanto uno dei suoi modi e di giustificare invece
tutte le molteplici sue manifestazioni. O se, al contrario, risulti inevitabile il risalire ad
un trascendentale come soggetto».
100
101
UN NUOVO TRATTATO SUL METODO
83
metodo filosofico corretto deve andare nella direzione di tale armonizzazione», tentativo che richiede anzitutto, come condizione preliminare, «un
esame critico dei due metodi principali che oggi si danno vicendevolmente
battaglia» 103, vale a dire il metodo trascendentale e quello che Scheler
definisce psicogenetico.
103
Methode, GW I, p. 226.
144
IL PROBLEMA DEL METODO E LA RIFORMA DELL’A PRIORI
3. LO SCRITTO SUL METODO: BILANCIO
Con l’elenco delle dodici tesi appena esposte si conclude lo scritto sul metodo, che segna una tappa importante e significativa nel percorso teoretico
scheleriano, già inaugurato con i Beiträge. Rispetto alla tesi di laurea del
1897 e alla disamina dei rapporti tra principi etici e principi logici offerta in
quella sede, lo scritto di abilitazione si pone senza dubbio in un rapporto di
continuità problematica, segnalata soprattutto dalla rinnovata sottolineatura
della necessità di una psicologia trascendentale. D’altra parte, sotto l’aspetto
formale e stilistico, è qui immediatamente riscontrabile un respiro più ampio
e al tempo stesso meno generico della trattazione, che sa piuttosto abilmente
mettere a servizio di un’indagine dal taglio ‘teorico’ tanto una larga parte
della ricerca filosofica (e non solo) contemporanea, quanto la storia stessa
del pensiero filosofico e di quello scientifico. In questo senso nell’opera
sul metodo mancano le lunghe digressioni storiche che appesantiscono
non di poco la struttura complessiva dei Beiträge, e le polemiche con gli
indirizzi filosofici contemporanei risultano prive di quella pedanteria alla
quale Scheler aveva mostrato di essere incline soprattutto nell’ambito del
confronto con Sigwart. È certamente innegabile, come già segnalato, un
forte squilibrio tra pars destruens e pars construens, ma la critica è condotta in modo tale da anticipare le tesi conclusive; riesce quindi piuttosto
agile l’individuazione degli elementi centrali della proposta noologica, che
sono la ripresa del tema della psicologia trascendentale già presente nei
Beiträge e, soprattutto, il progetto di una riforma dell’apriorismo in senso
contenutistico e non solo formale. Da un lato, sulla matrice criticista del
concetto di a priori Scheler innesta le suggestioni provenienti dalle ampie
panoramiche storiche euckeniane sulle grandi personalità filosofiche del
passato, in modo tale che la forma-legge della rigorosa tradizione kantiana
viene a incontrarsi con la nozione piuttosto vaga di «progetti apriorici»
[apriorische Entwürfe] personali proposta dal maestro; d’altra parte, ribadendo costantemente la necessità di tenere sempre correlati il variegato
mondo delle produzioni culturali e l’indagine sulle condizioni della loro
possibilità (alle seconde si può arrivare soltanto a partire dalle prime),
Scheler fa sua la regressività analitica del metodo trascendentale, rifiutandone però la limitazione in senso scientifico e la pretesa di ultimatività.
La riforma contenutistica dell’a priori va quindi attuata in due direzioni
complementari, una soggettivo-psicologica e l’altra oggettivo-culturale, in
modo tale che andranno ammessi atti costitutivi reciprocamente irriducibili
per i correlativi e altrettanto reciprocamente irriducibili elementi oggettuali
che il molteplice e diveniente mondo del lavoro attesta.
La riforma dell’a priori che Scheler qui delinea resta senza dubbio
soltanto abbozzata, tuttavia mi sembra che il suo senso complessivo possa
LO SCRITTO SUL METODO: BILANCIO
145
essere ben colto ricorrendo cautamente a una espressione quale ‘a priori
della correlazione’, ben sapendo che chiamare in causa questa nozione
potrebbe apparire una grossa concessione a quello ‘sguardo retrospettivo’ che cerca prodromi della fenomenologia di Scheler nella sua filosofia
giovanile e che ho intenzionalmente voluto mettere tra parentesi in questa
mia indagine. In realtà il senso in cui mi servo di tale espressione – che
peraltro la vulgata vuole pressocché estranea alla ricezione scheleriana
della fenomenologia – non vuole affatto essere quello tecnico della filosofia
fenomenologica, ma va inteso soltanto come descrittivo della struttura qui
tratteggiata da Scheler, una struttura che è appunto correlativa di un polo
‘culturale’ e di uno ‘personale’: piuttosto, l’opzione correlativistica trova
qui il suo sfondo naturale nella filosofia neokantiana. Del resto, per quanto
Scheler nella Prefazione del 1922 alla seconda edizione dell’opera abbia
gioco facile nel recuperare in senso fenomenologico alcuni nuclei tematici
dello scritto sul metodo – scrive per esempio: «la geistige Lebensform (ossia
il livello noetico della coscienza) […]» 316 – e per quanto tali nuclei effettivamente si prestino a una tale operazione, non c’è dubbio sul fatto che,
senza l’apparato teorico husserliano a sostenerli, essi si presentino tutt’al
più, con le parole di Scheler, come segnali delle «difficoltà a partire dalle
quali nel modo fenomenologico dell’indagine si aprì all’autore una strada
nuova, qui ancora non battuta» 317.
Se i Beiträge insistevano sulla opposizione dell’ambito conoscitivo e
di quello etico-pratico per sostenere, all’interno di una «critica assiologica
della coscienza», la necessità di problematizzare la nozione windelbandiana di coscienza trascendentale in quanto Normalbewusstsein, l’opera
sul metodo guarda invece alle produzioni culturali della Arbeitswelt e alla
loro molteplicità qualitativa in modo meno problematico e più fiducioso
rispetto alla possibilità che i contrasti dell’esperienza trovino risoluzione
nel concetto «unitario ma non semplice» di spirito. Il che si spiega, credo,
con la rinuncia alla pretesa di una configurazione definitiva del piano delle
condizioni di possibilità, o, in altri termini, con l’immissione del trascendentale nella dimensione storico-temporale. Tuttavia Scheler non dovette
mai ritenersi troppo soddisfatto del metodo noologico, dal momento che
in seguito non sentì l’esigenza di definirlo in modo più preciso e più autonomo rispetto al maestro Eucken e nemmeno scrisse opere in cui si assiste
a una sua effettiva applicazione. L’opera sul metodo, lungi dall’essere una
sorta di dichiarazione programmatica che prelude a lavori futuri, segna
invece l’inizio di un periodo tormentato per Scheler, che tra 1900 e 1904
316
317
Methode, GW I, p. 202.
Ibidem.
146
IL PROBLEMA DEL METODO E LA RIFORMA DELL’A PRIORI
pubblicherà soltanto una breve recensione e un articolo relativi a un testo
di Eucken – Der Wahrheitsgehalt der Religion (1901) –, insieme a un saggio
per commemorare il centenario della morte di Kant. Il metodo noologico
viene quindi a rappresentare una sorta di sentiero interrotto, e, alla fin fine,
nemmeno mai veramente percorso nella filosofia giovanile scheleriana. Se
invece si dovesse individuare ‘ciò che è vivo’ in queste riflessioni di Scheler
sul metodo, ebbene credo che si tratti del confronto ricco e serrato che
egli ingaggia con «il trascendentalismo della Scuola di Marburgo» 318, con
il quale tuttavia, come si vedrà, per diversi anni ancora egli si troverà a
dover fare i conti.
318
Ibidem.
III
LOGICA TRASCENDENTALE 1
Dopo aver ottenuto l’abilitazione con lo scritto sul metodo, tra 1900 e 1901
Scheler inizia la sua attività di Privatdozent a Jena, dove fino al 1906 terrà
numerose serie di lezioni, lavorando inoltre, come si è detto, nell’ambito
dei corsi organizzati dall’ateneo jenese nel periodo estivo. Come scrive
Henckmann, se si considerano i corsi accademici unitamente a quelli estivi,
si può affermare (come fece lo stesso Scheler in un curriculum presentato
nel 1919 all’università di Köln) che negli anni di insegnamento a Jena
egli coprì ampiamente con le sue lezioni il vasto ambito delle discipline
filosofiche, tanto sotto l’aspetto sistematico, quanto sotto quello storico 2.
Questa intensa attività didattica si accompagna, sul versante della pro1
Una parte di questo capitolo è già stata pubblicata sotto forma di articolo: cfr.
Mancuso 2005.
2
Facendo riferimento a quanto detto supra, cap. II, § 1., pp. 63-64, cfr. Henckmann
1998 (a), p. 27 s., dove l’autore scrive che Scheler tenne corsi di «introduzione alla filosofia,
alla logica, alla dottrina del metodo, alla teoria della conoscenza, con particolare riguardo
alle scienze della natura e a quelle storiche, alla psicologia e all’etica; […] nella storia della
filosofia egli si è limitato alla filosofia dell’età moderna, individuando il momento chiave
nel XIX secolo, tenendo lezioni su Kant e Schopenhauer, così come sul positivismo».
Nell’ambito della didattica estiva tenne «almeno tre volte un corso di dodici lezioni di
‘Introduzione alla filosofia’», nel quale egli presentava «essenza, definizione e suddivisione
della filosofia», individuandone quattro configurazioni storico-geografiche principali
(«filosofia indiana, greco-romana, medievale e moderna»); quanto alla suddivisione della
filosofia nelle sue discipline specialistiche, il corso scheleriano cercava di offrire una «panoramica enciclopedica dell’intero formato dal sistema filosofico», soffermandosi sulla logica,
l’etica, l’estetica, nonché sulla teoria della conoscenza, sulla psicologia, sulla metafisica,
sulla filosofia della religione, sulla filosofia della natura e della storia. Significativamente
l’ultima lezione del corso veniva dedicata da Scheler «al rapporto dell’età contemporanea
con la filosofia e al compito della filosofia nel presente», un compito critico e al tempo
stesso di guida, confermandosi in tal modo un «allievo di Eucken».
148
LOGICA TRASCENDENTALE
duzione scientifica, a due progetti di ricerca che avrebbero dovuto dare
luogo a un’introduzione all’etica contemporanea e a un testo sulla logica.
Nonostante l’interesse e le pressioni di Eucken affinché il giovane docente
desse corpo a queste due linee di studio, il primo dei due progetti restò
tale almeno fino al 1914, quando uno Scheler ormai affermatosi come
esponente di punta dell’indirizzo fenomenologico diede alle stampe un
saggio intitolato Ethik. Ein Forschungsbericht 3, nel quale è presumibile
siano rientrati gli studi del periodo jenese 4.
Quanto al testo sulla logica – del quale ci rimane solo una parte cospicua del primo dei due volumi che avrebbero dovuto formare l’opera –,
esso conobbe una vicenda molto più tormentata, che si cercherà qui di
ricostruire.
1. DA JENA A MONACO: UN BRUSCO EPILOGO E UN LUNGO RIASSESTAMENTO
Si è già accennato alla tensione che percorre la vicenda intellettuale del giovane Scheler: la tensione tra la filosofia intesa à la Eucken come «questione
di cuore», verso la quale egli si sentiva naturalmente inclinato, e la filosofia
come metariflessione sull’oggettività costituita ed esercizio di scomposizione
analitica praticata da un Liebmann o da un Cohen, che il giovane sentiva
sì come distante, ma che al tempo stesso gli si imponeva come modello
scientificamente rigoroso nonché accademicamente riconosciuto. E in effetti
– sebbene Liebmann sia stato di tutt’altro parere – rispetto alla produzione
precedente (i Beiträge e l’articolo Arbeit und Ethik sul quale si tornerà in
seguito) già lo scritto sul metodo attesta in Scheler la volontà di rendere
più conforme la sua prassi filosofica ai parametri sulla cui base la comunità
accademica valutava le prestazioni dei suoi membri e, a maggior ragione,
degli aspiranti tali, come era allora Scheler: parametri decisamente lontani
dall’ardore e dallo slancio universalizzante euckeniano e molto più vicini
alla fredda pacatezza e alla meticolosità di Liebmann. Si può ipotizzare,
d’altra parte, che questa stessa volontà ‘auto-inibitoria’ sia stata una tra le
cause del progressivo decrescere fino alla cessazione delle pubblicazioni di
3
Poi ripreso col titolo Ethik. Eine kritische Übersicht der Ethik der Gegenwart in
GW I, pp. 371-409.
4
Che Scheler lavorasse a tale progetto fin dagli anni di Jena è attestato anche da
una nota del testo sulla logica, in cui l’autore rimanda alla «mia introduzione all’etica
contemporanea, di prossima pubblicazione» (LW, p. 22 nota 2; sulla scelta di citare
dall’edizione Willer della Logik I piuttosto che dall’edizione Frings dei GW si veda infra,
p. 163 nota 34).
DA JENA A MONACO
149
Scheler. Come si è detto, dopo lo scritto sul metodo (1900) e fino al 1911,
Scheler pubblicherà solo due recensioni (1903) e un articolo per celebrare il
centenario della morte di Kant nel 1904. In questo stesso anno un numero
delle «Kant-Studien» annuncia la prossima pubblicazione di un suo articolo
intitolato Kant und die moderne Logik 5: lo studio, tuttavia, non vide mai
la luce. Nel lasso di tempo tra 1904 e 1911 – così fatalmente lungo per un
mondo come quello accademico, notoriamente retto dalla legge publish or
perish – Scheler quindi non pubblica nulla: il suo tentativo più ambizioso
sarà appunto lo scritto sulla logica, la cui stesura lo impegnerà negli ultimi
due anni di Jena e il cui ritiro dalla pubblicazione nel 1906 coinciderà con
l’abbandono della cittadina turingia per Monaco.
All’interno di questa indagine sulla filosofia giovanile scheleriana il
frammento sulla logica viene a rivestire molteplici significati. Dal punto
di vista del contenuto filosofico, si tratta del testo in cui Scheler più decisamente si allinea all’indirizzo marburghese del neokantismo, sul quale le
opere precedenti esprimevano ancora alcune riserve di fondo. Al contempo,
per lo storico della filosofia alle prese con il problema della periodizzazione
del pensiero scheleriano, la Logik I ha natura eminentemente liminare,
segnando in modo più che evidente la fine della fase neokantiana: ritirare
dalla pubblicazione il primo volume di un’opera di cui si sono già corrette
le bozze è un atto così radicale da non lasciare dubbi sul fatto che l’autore
non si riconoscesse più in quanto aveva scritto.
Si può dire allora che la vicenda della Logik I rappresenti proprio il
momento in cui la tensione alla quale si accennava viene a esplodere, facendosi ingestibile e imponendo, insieme ad altri fattori, la necessità di un
radicale cambiamento, come attesta una lunga lettera di Scheler a Eucken
non datata, ma che, in base al contenuto, dovrebbe risalire alla seconda
metà del 1906 e precedere di poco il ritiro del volume sulla logica 6. Come
ogni testo in cui un autore si trova a dover valutare il proprio percorso
intellettuale e a stilare una sorta di bilancio, si tratta indubbiamente di un
documento fondamentale, che tuttavia va preso con estrema cautela: una
cautela che si deve fare ancora più circospetta nel caso di Scheler, il quale
spesso in occasioni simili ha dato prova di poca attendibilità 7. La temperie
5
«Nei prossimi quaderni le ‘Kant-Studien’ pubblicheranno – salvo eventuali cambiamenti – tra gli altri i seguenti lavori: […] M. Scheler, Kant und die moderne Logik
[…]», «Kant-Studien» 9 (1904), retro della copertina.
6
La lettera fa parte del Nachlass di Eucken ed è stata pubblicata in Feyl 1960-1961,
pp. 283-285, da cui sono tratti i passi citati in seguito nel corpo del testo.
7
Per fare qualche esempio, nel curriculum vitae allegato alla dissertazione per la
Promotion Scheler anticipa di un anno il conseguimento della maturità, avvenuto nel 1894
e non nel 1893: cfr. il Lebensabriss del dicembre 1897, in GW I, p. 159, e Henckmann
1998 (a), p. 17 nota 22; in DPG, GW VII, p. 308, come si vedrà dettagliatamente in
150
LOGICA TRASCENDENTALE
intellettuale che egli attraversò negli ultimi anni di Jena ne esce in ogni
caso eccellentemente illuminata e per questo vale la pena soffermarvicisi
diffusamente.
La lettera presenta uno Scheler estremamente demoralizzato che confida
al maestro le sue riserve nei confronti del volume sulla logica nonché tutta
l’amarezza per le scarse prospettive di successo accademico, cercando di
giustificare la stentata produzione degli ultimi anni. Ben consapevole di aver
finora deluso Eucken – il quale dopo la Promotion e l’abilitazione aveva
cercato di coinvolgerlo in alcune iniziative con esiti poco felici 8 –, Scheler
scrive al maestro di sentire l’obbligo di chiarire le «ragioni della stagnazione
dei miei lavori», avendo cura di licenziare anzitutto il più atroce tra i dubbi
che funestano ogni intellettuale alle prese con un periodo critico, quello di
non essere tagliato per lo strano mestiere che ci si ritrova a fare:
Da lungo tempo avrei scacciato tutta la sofferenza e il dolore che in questi
anni mi hanno pervaso, se fossi riuscito a convincermi che non sono
portato alla filosofia o che non sono in grado di fare nulla di significativo
in questo ambito. La prego di non considerarmi presuntuoso o superbo,
se dico che sono profondamente convinto proprio dell’esatto contrario.
Mai come negli ultimi due anni ho sentito in me una tale crescita spirituale e psicologica; ci sono state settimane in cui mi beavo – non nella
raccolta di materiale, visto che di questo non ci si può beare – dell’esperienza della creazione produttiva, un’esperienza che lei ben conosce in
quanto vero filosofo e non mero erudito. A tratti tutto si disponeva da
sé secondo una necessità interna, senza staccarsi dall’intuizione e dalla
vita, come può ben succedere al mero speculare […]. Solo davanti a Lei
posso parlare di tutto ciò senza temere che le mie parole vengano prese
per retorici luoghi comuni. Perché solo a Lei io mi sento […] in questo
profondamente … affine.
Dunque, in base a quanto scrive qui, le giornate di Scheler paiono non
essere mai state funestate dall’atroce dubbio di cui sopra: forse però Eucken
qualche perplessità sulla propensione alla filosofia dell’allievo prediletto
iniziava a nutrirla e urgeva pertanto fare chiarezza su questo punto. La linea
difensiva adottata da Scheler consiste allora nel proiettare le sue difficoltà
seguito, retrodata al 1901 il ritiro dalle stampe del primo volume della Logik, avvenuto
invece nel 1906. Sempre in DPG, nelle pagine dedicate alla presentazione della filosofia
di Eucken (GW VII, p. 273 ss.), tralascia di dire che il vincitore del Nobel era stato suo
maestro a Jena.
8
Della inefficienza di Scheler come redattore delle «Kant-Studien» già si è detto (si
veda supra, cap. I, § 1., p. 15 nota 1); egli inoltre, sempre su iniziativa di Eucken, avrebbe
dovuto partecipare con un contributo sull’etica alla stesura di un volume collettivo in
onore di Kuno Fischer; il volume uscì (cfr. Windelband 1905) senza il saggio di Scheler,
cfr. Henckmann 1998 (b), p. 18.
DA JENA A MONACO
151
sullo sfondo del contrasto tra meri eruditi, che «raccolgono materiale» e
speculano in modo vuoto e astratto, e veri filosofi, i quali intendono la
filosofia come creazione produttiva vicina all’intuizione e alla vita: Scheler
si dichiara senz’altro sicuro di rientrare, come il maestro, in questa seconda
categoria.
Se non alla mancanza di ‘autostima filosofica’, a che cosa allora si deve
la frustrazione e la scarsa produttività di questi anni? Scheler elenca tre
ragioni: la prima, di ordine strettamente personale, è «che io e mia moglie
non ci intendiamo più […], senza tuttavia avere il minimo diritto di poterle
fare di ciò una colpa». Tuttavia, prosegue il filosofo forse più rinomato
insieme ad Abelardo (e a pochi altri) per la tormentata vita amorosa, per
quanto questa sia la ragione «più essenziale tra tutte», si tratta pur sempre
di un genere di problemi «che non dipendono dal nostro arbitrio e che
non possono essere modificati solo decidendo di farlo», dei quali quindi
non ha molto senso parlare.
Scheler ha invece molto da dire sulle altre due ragioni che, secondo le
sue parole, «mi ostacolano e mi fanno soffrire»: la prima riguarda «il progetto e il modo in cui si va formando il mio libro sulla logica», la seconda
consiste in «un dubbio crescente sulla possibilità che di questi tempi io riesca
a raggiungere i miei obiettivi come docente universitario». È in relazione
a questi due punti che Scheler dispiega e viene via via precisando la linea
difensiva abbozzata fin dall’inizio; quanto al libro sulla logica egli scrive:
[…] è un genere di libro con cui si vuole diventare professore straordinario; il progetto che ne ho è purtroppo eccessivamente ampio, per
quanto al contempo lo sia fin troppo poco, se dovesse dare un’idea precisa
di quello che è lo stato attuale della mia evoluzione filosofica. Mentre
vi lavoravo, neanche per un attimo ho avuto di mira soltanto la logica.
In ogni momento la logica era per me solo un elemento 9 del sistema
filosofico. Già, del sistema, purtroppo. Perché io ho inevitabilmente
la tendenza mentale [Geistesrichtung] a concatenare tutto con tutto e
niente mi risulta più difficile che isolare i problemi. Lei sarà il primo
a capirlo: non Le capita forse la stessa cosa? C’è solo una grossa differenza: Lei ha intrapreso la sua grande opera quando era più maturo e
le preoccupazioni per la carriera non La mettevano più sotto pressione,
dopo che in precedenza si era occupato di indagini più circoscritte e
rigorosamente definite […]. Ma in fondo non è così grave. Pubblicherò
il mio primo volume; nella costruzione mancherà un po’ di unitarietà;
9
Henckmann fa notare come nella trascrizione della lettera di Scheler Feyl legga
erroneamente Zier («coronamento») al posto di Glied (qui tradotto con «elemento»): la
traduzione qui fornita si basa sul testo trascritto da Feyl e sulle correzioni apportatevi in
Henckmann 1998 (a), pp. 28-29, dove l’autore riporta uno stralcio della lettera.
152
LOGICA TRASCENDENTALE
conterrà resti di diversi stadi di sviluppo; sarà frammentario 10. Mi farà
sembrare molto più staccato dalla vita di quanto io sia; ma le mie lezioni
di etica, che devono venire in seguito, mostreranno che per filosofia non
intendo semplicemente la speculazione astratta. […] Sarebbe stato molto
meglio se avessi trattato uno dei tanti temi presenti nella mia logica in
un libro breve e ben organizzato. Ma ormai le cose stanno così, non c’è
nulla che possa essere cambiato e alla fine mi si potrà dire che ho voluto
strafare. Ma anche queste difficoltà non sono poi insuperabili. Il secondo
volume sarà migliore.
La principale difficoltà nello scrivere l’opera sulla logica è individuata qui
nella destinazione accademica del testo, concepito dal giovane autore come
pietra su cui edificare la propria carriera universitaria; una tale destinazione
necessariamente costringe la ricerca entro i termini di valutazione fissati
da una comunità scientifica le cui redini, lascia intendere Scheler (che
nel corso della lettera diventerà via via più esplicito in proposito), sono
strettamente nelle mani di quei «meri eruditi» che «isolano problemi» e
«speculano astrattamente» a scapito del «sistema» e del contatto con la
«vita». Rispetto a tale comunità, Scheler dipinge se stesso e Eucken come due outsider, con una significativa differenza: Eucken grazie alle sue
giovanili ricerche filologiche su Aristotele si è assicurato una cattedra da
ordinario, una volta occupata la quale ha potuto smettere i panni dell’antichista minuzioso e indossare senza problemi quelli dell’Herzensphilosoph
sistematico («intendo», precisa significativamente Scheler, «‘vital-sistematico’
o ‘cultural-sistematico’, non sistematico à la Hartmann»); Scheler, invece, si
trova costretto ad arginare il suo slancio pan-filosofico nei confini angusti
fissati dall’accademia, con conseguenze deleterie sulla coerenza interna
del suo lavoro. E in effetti chiunque legga la Logik alla luce di quanto
Scheler scrive qui non può non rimanere colpito dalla incompatibilità tra
i profili intellettuali che emergono dai due testi: ci si figura quindi che il
giovane filosofo in questi anni abbia dovuto dispiegare un poderoso sforzo
disciplinante, se non addirittura mimetico, che spiegherebbe molta della
frustrazione trasudante dalla lettera a Eucken.
La preoccupazione principale che funesta gli ultimi anni di Scheler a
Jena resta in ogni caso quella legata alla possibilità di diventare docente
universitario strutturato: in relazione a quest’ultimo punto, l’allievo esprime
al maestro un malanimo e un livore tali da sconfinare nel risentimento, la
disposizione assiologica pervertita che egli anni dopo analizzerà in modo
così sottile e accurato. In questa fase finale della lettera il mondo accade10
Nella trascrizione di Feyl quest’ultima frase non è trascritta perché ritenuta illeggibile; Henckmann scrive invece: «er wird fragmentarisch sein», in Henckmann 1998
(a), p. 29.
DA JENA A MONACO
153
mico viene dipinto come una sorta di «lega di birbanti contro gli uomini da
bene» 11, laddove questi ultimi sono ovviamente lo stesso Scheler e Eucken,
in lotta contro i «birbanti» eruditi che hanno saldamente in mano il ristretto
mercato della ripartizione delle cattedre, destinate, ça va sans dire, ai loro
giovani epigoni. Inasprito su questi toni e su questa linea, scrive infatti un
risentitissimo Scheler:
La mia avversione per l’infeconda oscurità dello specialismo universitario
odierno è troppo viscerale, il mio odio per molti di questi fantocci eruditi,
freddi, senza vita è troppo grande […]. Io desidero con tutto il cuore una
[…] comunità […] in cui ci sia meno arbitrio e più giustizia.
La parte senza dubbio più sorprendente della lettera è in ogni caso quella
che precede l’invettiva finale contro la casta accademica, quando Scheler
finalmente spende qualche parola sul contenuto della propria filosofia,
argomento finora solo vagamente toccato:
[…] il contenuto della mia filosofia sarà poco adatto per rendermi bene
accetto a quelle persone che oggi detengono il potere decisionale in
ambito accademico […]. Non se ne deve meravigliare. La sua filosofia,
infatti, non si adatta affatto meglio all’esercizio accademico della filosofia
di quanto non faccia la mia, vorrei dire meglio la «nostra», poiché la mia
filosofia è soltanto la sua, sotto forma diversa e con toni più appassionati.
Questo è certo, grazie a Dio […].
Solo nel seguito, quando si esaminerà da vicino la Logik, si potrà comprendere quanto stupore destino queste dichiarazioni di Scheler. Si può
tuttavia anticipare un elemento che dia il polso dello stridore tra quanto
egli dice qui a Eucken sulla sua, anzi, la ‘loro’ filosofia e la filosofia che
Scheler andava invece sviluppando fin dal 1904 nel testo sulla logica: in
questo ampio frammento il nome di Eucken non viene citato nemmeno una
volta. Si potrebbe pensare che si tratti di un fatto senza particolare valore,
ma le cose stanno diversamente, come si capisce proseguendo nella lettura
dello sfogo di uno Scheler mai così immedesimato con Eucken come qui,
al punto di parlare anche in vece del maestro:
È un fatto: noi vogliamo una filosofia positiva e non freddamente negativo-critica. Noi vogliamo una filosofia che culmini in un atteggiamento
religioso verso la vita e che liberi gli uomini dalle loro passioni filistee per
interessi superficiali […]. Rispetto a questo ideale la filosofia accademica
non è fin troppo meschina e pedante? Noi vogliamo una filosofia nella
quale possano abitare uomini completi, vitali, non una filosofia conce-
11
Così Leopardi definisce il mondo, in Pensieri, I.
154
LOGICA TRASCENDENTALE
pita come angusta camera da studio per i dotti. […] In un tempo come
il nostro, logorato da lotte partitiche del genere più ripugnante, una
filosofia come quella che noi vogliamo è forse in grado di procacciarsi
delle cattedre? […] Il filosofo è – così mi paiono stare le cose più passa il
tempo – un essere vivente che tanto meno è in grado di inserirsi nell’organismo dell’università di oggi quanto più egli è filosofo. Egli deve avere
tutto contro di sé, trovandosi sempre in mezzo al conflitto dei doveri,
nell’alternativa di diventare un operaio dell’erudizione o di vivere in
disaccordo col suo ambiente. A quale odiosa diffidenza, a quali odiose
occhiate di sottecchi in ogni direzione ci si deve abituare! E come soffre
là in mezzo la vita spontanea e immediata. Io penso che non si possano
chiamare in causa i nostri Kant, Fichte, Schelling, Hegel, Herbart. I loro
infatti erano tempi completamente diversi: l’alessandrinismo della cultura
erudita non era ancora così esteso, l’allontanamento dell’università dalle
forze trainanti della vita non era ancora così grande, l’ambizione sfrenata
per il successo effimero non era ancora cresciuta a dismisura come accade
oggi […]. È il potere della società accademica e dello spirito corporativo
della casta dei dotti che ci piega e ci intimidisce a tal punto.
Se Scheler veramente voleva una filosofia come quella qui descritta a
Eucken, non sorprende che, poco dopo la stesura di questa lettera, egli
abbia ritirato dalla pubblicazione il primo volume della Logik, di cui erano
già pronte le prime bozze. Sorprende piuttosto il fatto che, avendo una
tale concezione della filosofia, Scheler abbia potuto dedicare un lungo
periodo della sua vita a concepire e a scrivere un testo simile, dal quale,
come si vedrà, emerge una concezione della filosofia eminentemente critica,
né ostile né orientata ma semplicemente indifferente all’obiettivo di promuovere «un atteggiamento religioso verso la vita», estranea all’impegno
immediatamente etico di «liberare gli uomini»: insomma una filosofia
nient’affatto à la Eucken.
Come spiegare allora la discrasia tra ciò che Scheler scrive a Eucken
e quanto invece emerge dallo scritto sulla logica? Mi pare significativo, a
questo proposito, che un testo concepito con l’esplicito intento di «diventare
professore straordinario» sia di impostazione neokantiana, di un neokantismo, più precisamente, che si può ricondurre alla Scuola di Marburgo.
È un fatto che sembrerebbe confermare lo studio di Köhnke sulla nascita
e l’ascesa del neokantismo 12. Si tratta di una ricostruzione del quadro
storico della filosofia universitaria tedesca negli anni che vanno dal 1830
al 1881: l’autore ripercorre la preistoria e la storia del neokantismo all’interno dell’accademia, dal momento in cui si annuncia come filosofia critica
di opposizione all’idealismo classico in pensatori come Friedrich Adolf
12
Köhnke 1993.
DA JENA A MONACO
155
Trendelenburg, Friedrich Eduard Beneke e nei teisti speculativi Immanuel
Hermann Fichte e Christian Hermann Weiße, fino a quando il neokantismo
non arriva a presentarsi esso stesso come «nuovo idealismo» 13, dominante
la scena accademica tedesca di fine XIX secolo e finalmente in grado di
imporre un’auto-immagine fondata su «mistificazioni della sua preistoria
e delle sue premesse» 14. Secondo Köhnke, al termine «neokantismo» non
corrisponderebbe quindi un indirizzo distintamente identificabile come
categoria del pensiero filosofico, piuttosto a esso si dovrebbe guardare come
a un’etichetta che tiene sotto di sé pensatori spesso così distanti («centinaia di appartenenti al corpo docente universitario» 15) da coprire, sotto il
comune richiamo a Kant, i contenuti filosofici più disparati 16. L’autentico
collante del ‘movimento’ neokantiano sarebbe da individuare, piuttosto,
nelle preoccupazioni e negli interessi di natura politico-accademica dei
protagonisti. Detto brutalmente, lo Zurück zu Kant che dal 1865 in poi
risuonò sulla scena filosofica tedesca sarebbe stata la parola d’ordine di
una giovane generazione di studiosi che intendeva beneficiare delle tensioni anti-idealistiche prodottesi dopo la morte di Hegel, per sostituire alla
dominazione idealistica delle università una nuova dominazione.
In un saggio del 1922 sulla filosofia tedesca contemporanea, Scheler
scriverà parole che sembrano appositamente concepite per confermare la
tesi di Köhnke; in riferimento agli orientamenti teoretico-conoscitivi di
area neokantiana, egli sostiene:
Per quanto questi indirizzi di pensiero si trovino a mio parere in una
condizione di inarrestabile decadenza, tuttavia vantano ancora, in base al
principio dell’inerzia storica, uno spazio molto rispettabile nella filosofia
accademica tedesca […]; hanno tutti origine nel tempo in cui la filosofia
tedesca degli anni sessanta del secolo precedente cercava nuovamente
di guadagnarsi il diritto all’esistenza accademica per mezzo del richiamo a
Kant (per primo O. Liebmann ‘ritorno a Kant’). 17
Ivi, p. 433.
Ivi, p. 14.
15
Ivi, p. 18.
16
Secondo Köhnke, il neokantismo «sorse – lentamente e in maniera quasi impercettibile –, correnti eterogenee confluirono, ma mai nemmeno uno dei partecipanti attivi
a questo processo si comprese come parte di un movimento più ampio. Esso divenne
percepibile solo quando si osservò – e non a caso a farlo furono i suoi critici – che c’era
tutta una serie di impostazioni filosofiche che tra loro, certo, erano completamente in
disaccordo, ma che comunque avevano qualcosa di comune nel fatto di richiamarsi
tutte a Kant. Qui non erano soltanto un fondatore, una data di nascita e un programma
a mancare, ma perfino il loro nome i neokantiani lo ricevettero in assegnazione da altri
come semplice etichetta» (ivi, p. 213 s., citato in Ollig 1997, p. 29).
17
DPG, GW VII, p. 279 s. (corsivo mio).
13
14
IV
IL NEOKANTISMO GIOVANILE DI SCHELER
Per completare il quadro all’interno del quale si è cercato di restituire il
percorso seguito da Scheler nella sua riflessione giovanile, resta da considerare il gruppo delle pubblicazioni minori del filosofo, comprendente due
articoli piuttosto corposi – Arbeit und Ethik, risalente al 1899, e Immanuel
Kant und die moderne Kultur, uscito nel 1904 per commemorare il centenario della morte del filosofo di Königsberg – e due recensioni del 1903 a
Der Wahrheitsgehalt der Religion del maestro Eucken. Dal momento che
sull’articolo del 1899 si è già scritto molto 1 e poiché le due recensioni sono
appiattite sull’opera euckeniana del 1901 (come del resto una recensione
si trova spesso a dover essere), concentrerò la mia attenzione soprattutto
e in primo luogo sull’articolo in onore di Kant, a dispetto dell’ordine cronologico. Una decisione che, d’altra parte, rispecchia una delle tesi che
si intende qui sostenere, in base alla quale lo spiritualismo euckeniano
esercitò su Scheler una influenza meno significativa rispetto al neokantismo
sudoccidentale e soprattutto marburghese.
Si tratterà quindi di corroborare tale tesi una volta completata la presentazione e l’analisi dei testi, quando sarà possibile tirare le somme, enucleare
cioè le influenze costitutive della filosofia giovanile scheleriana, stabilirne i
diversi pesi e circoscrivere il problema teorico che vi sta al centro.
1
Si vedano Dupuy 1959, vol. I, cap. II, pp. 43-57; Morra 1973 (c); Allodi 1997,
pp. 30-34; Bosio 1998; Verducci 1997, con bibliografia sul tema «lavoro ed etica» in
Scheler, nonché Verducci 2003 (a) e Verducci 2003 (b).
222
IL NEOKANTISMO GIOVANILE DI SCHELER
1. LA SVOLTA KANTIANA: DAL PENSIERO DI SOSTANZA A QUELLO DI FUNZIONE
Lo scritto del 1904 su Kant e la cultura moderna è particolarmente significativo ai fini della presente ricerca sul neokantismo giovanile scheleriano,
non solo per il suo essere esplicitamente dedicato all’influsso della filosofia
critica sulla scena culturale tedesca di inizio XX secolo e più in generale
sul pensiero occidentale, ma anche perché è la pubblicazione con cui si
chiude ‘ufficialmente’ la produzione di Scheler che precede l’adesione
alla fenomenologia: quando nel 1911 egli tornerà a pubblicare, sarà infatti
con il già richiamato articolo sul fenomeno della Selbsttäuschung, scritto
dopo anni di assidua partecipazione alle vicende monacensi e gottinghesi
della fenomenologia. Si può dire che la decisione di ritirare dalle stampe
il primo volume della Logik e di rinunciare all’elaborazione di una logica
trascendentale segni il momento effettivo in cui Scheler, nella seconda metà
del 1906, abbandona l’indirizzo neokantiano, mantenendosi dietro le quinte
del palcoscenico filosofico-accademico o, meglio, rifiutandosi di presentare
la sua Logik su tale palcoscenico; retrospettivamente, l’articolo del 1904 in
onore di Kant rappresenta invece, per insistere nella metafora, una sorta di
canto del cigno del rapporto che Scheler intrattenne con la filosofia critica
nei suoi anni giovanili, l’ultima esibizione di un regista-attore ancora ignaro
del fatto che per il suo prossimo spettacolo dovrà aspettare anni, cambiare
compagnia e rinnovare radicalmente il proprio repertorio.
Nel suo scritto commemorativo, Scheler esordisce accostando la figura
di Kant a «quei grandi legislatori» come «Licurgo, Solone, ai quali l’umanità
non smetterà mai di rendere onore» 2: l’operato di Kant si presta infatti
all’analogia con l’azione svolta da costoro per rinvenire i principi sulla cui
base regolamentare i rapporti esterni che le singole volontà intrattengono
nell’ambito della società civile. Analogo lo sforzo e lo spirito legislativo,
ma diverso e ben più vasto il terreno della loro esplicazione, che per Kant
fu «l’ambito complessivo della attività razionale in generale», in modo tale
che secondo Scheler ben più rivoluzionario è il significato storico-culturale
che spetta alla sua opera:
I. Kant non ha aggiunto una nuova filosofia a quella già esistente storicamente, bensì ha cambiato radicalmente il concetto della filosofia.
Filosofia per lui è […] conoscenza e delimitazione dei principi dell’attività
intellettuale, delle direzioni in cui essa agisce nella scienza, nella prassi
morale, nel gusto estetico e nella religione. 3
2
3
KMK, GW I, p. 354.
Ibidem.
DAL PENSIERO DI SOSTANZA A QUELLO DI FUNZIONE
223
L’intenzione di Scheler in questo suo scritto non sarà tanto una presentazione per sommi capi dei contenuti della filosofia kantiana, che egli presume
essere ben noti al lettore, quanto piuttosto la messa a fuoco del ruolo
svolto da tale filosofia nel complesso della «cultura spirituale dell’occidente
in generale e, in particolare, in relazione alla modernità» 4. Si tratta quindi
di individuare anzitutto il «nucleo ideale della filosofia kantiana», in forza
del quale secondo Scheler il criticismo può essere identificato tout court
con la «coscienza filosofica della modernità», e tale nucleo va ravvisato
senz’altro nella rivoluzione copernicana, nella fondamentale intuizione
del fatto che
il mondo intero, il mondo interno e quello esterno, il regno della natura
e il regno della moralità non costituiscono un ordine ‘dato’, ‘compiuto’
o in generale qualcosa che sia assolutamente fondato in sé, bensì una
dimensione incompleta, del tutto indeterminata, un eterno punto interrogativo e un eterno compito. 5
In base alla acquisizione di questo rivoluzionario punto di vista, a decidere
«quale significato oggettivo, quale valore di realtà» spetti al dato non è la
natura del dato stesso, bensì l’insieme
dei principi necessari di ragione, che si trovano e agiscono in noi non
come un dono misericordioso di un dio dogmaticamente presupposto
o come un equipaggiamento del quale ci avrebbe dotati una natura tutelare, altrettanto dogmaticamente presupposta, bensì semplicemente in
quanto leggi […]. Le leggi di ragione sono le leggi dell’essere stesso, non
l’effetto [Wirkung] di una cosa qualsiasi – sia questa cosa dio, anima o
natura –, non un ingrediente accessorio del mondo che potrebbe anche
mancare. 6
Al centro della riflessione kantiana sta quindi l’interrogazione sul rapporto
tra ragione e natura – o, in altri termini, tra conoscenza e realtà –, domanda
in risposta alla quale la filosofia critica ribalta la tradizionale concezione
per cui la prima non sarebbe che rispecchiamento statico della seconda.
Scheler fa riferimento alla prefazione della seconda edizione della Critica
della ragion pura, nella quale la proposta filosofica dell’opera è presentata
in stretta analogia con il metodo sperimentale che la scienza matematica
della natura utilizza da Galilei in poi, un metodo del quale Kant enuclea
le rivoluzionarie implicazioni teorico-conoscitive, per estenderne quindi
l’ambito di applicazione dalla fisica alla stessa metafisica. La linea espositiva
4
5
6
Ibidem.
Ivi, p. 356.
Ibidem.
224
IL NEOKANTISMO GIOVANILE DI SCHELER
seguita da Scheler nel suo saggio è dunque quella di contrapporre le due
fondamentali concezioni della scienza – e del rapporto tra conoscenza e
realtà che esse implicano – alle quali, a suo giudizio, ogni altra è riconducibile, vale a dire «la concezione greca e la concezione moderna, o anche
l’idea di Immanuel Kant» 7. Prima di Kant, infatti, «tutti i contrasti dei
partiti teorico-conoscitivi da Aristippo e Platone fino a Leibniz e Hume» 8
si alimentavano in realtà dello stesso presupposto di fondo, introdotto
dai greci e perpetuatosi poi in innumerevoli forme fino al XVIII secolo:
il presupposto in base al quale la conoscenza sarebbe «immagine» [Bild]
dell’oggetto dato. Nella storia della filosofia gli strumenti per il tratteggio
di questa conoscenza-immagine sono stati individuati principalmente nella
sensazione e nella percezione sensibile, come vuole la tradizione empiristica,
o nel concetto, come pretende invece l’indirizzo razionalistico; ci sono state
inoltre correnti che hanno negato la possibilità stessa della conoscenza,
come hanno fatto gli scettici greci, francesi e inglesi; ma queste differenze
non paiono a Scheler rilevanti, nella misura in cui scettici, empiristi e razionalisti hanno tutti assegnato alla conoscenza lo stesso compito, quello
di «raffigurare una realtà, ossia di raggiungere, di cogliere qualcosa che in
qualche modo è ‘dato’ e indipendente dallo spirito che lavora in noi» 9.
Le implicazioni teorico-conoscitive che Kant seppe vedere nelle rivoluzionarie aquisizioni metodologiche della scienza moderna – superando gli
stessi scienziati quanto a consapevolezza e a capacità di riflessione 10 – vanno
invece in tutt’altra direzione: dal fatto che Galilei «fece rotolare lungo un
piano inclinato le sue sfere, il cui peso era stato da lui stesso prestabilito»,
che Torricelli «fece sopportare all’aria un peso, da lui precedentemente
calcolato pari a quello di una colonna d’acqua nota», Kant conclude «che
la ragione scorge soltanto ciò che essa stessa produce secondo il proprio
disegno» e che «essa deve procedere innanzi coi principi dei suoi giudizi
secondo leggi stabili, costringendo la natura a rispondere alle proprie domande, senza lasciarsi guidare da essa, per così dire, con le dande» 11.
Ivi, p. 357.
Ivi, p. 358.
9
Ibidem.
10
Scheler, a questo proposito, chiede retoricamente se la concezione della conoscenza come raffigurazione della realtà non sia tutt’ora forse «ancora oggi l’opinione della
maggior parte dei ricercatori scientifici», scrivendo poi che «a questa domanda bisogna
rispondere senza dubbio con un sicuro sì»; ma egli aggiunge subito che non è questa una
grande obiezione, nel momento in cui si separa con cura «l’operato reale della scienza
dalla riflessione filosofica su questo operato» (ibidem).
11
Kant 17872 (1781), KGS III, p. 10 (trad. it., p. 42).
7
8
238
IL NEOKANTISMO GIOVANILE DI SCHELER
3. SCHELER NEOKANTIANO
Più dello spiritualismo euckeniano è allora la filosofia di indirizzo neokantiano ad aver influito sulla produzione giovanile di Scheler. D’altra parte,
come scrive Henckmann, «se si riconduce al neokantismo il primo inizio
della filosofia di Scheler a Jena […] allora nasce la domanda su che cosa
si debba intendere veramente con questo neokantismo» 54. Che il ‘neokantismo’ costituisca una categoria filosofica estremamente problematica,
laddove si tenti di darne una configurazione interna unitaria e di specificarne
Banfi 1961, p. 47 s.
Se all’interno dell’opera giovanile questa insoddisfazione per la filosofia euckeniana
non viene mai chiaramente esplicitata, benché traspaia in filigrana, nel 1922, in DPG,
GW VII, p. 273 ss., Scheler la manifesterà invece a chiare lettere, dando del pensiero
del maestro una valutazione certamente non lusinghiera: pur avendo il merito «di aver
tenuto salde le esigenze della filosofia di offrire una metafisica e insieme una concezione
della vita in grado di formare l’uomo, e di averlo fatto in un tempo in cui la filosofia
correva il rischio di diventare una semplice nota a pie’ di pagina delle scienze positive
specialistiche», secondo quanto scrive l’allievo di un tempo, le argomentazioni teoriche di
Eucken sono «molto carenti»; a ragione i critici hanno rilevato «l’insufficienza di analisi
approfondite nei suoi pensieri, la mancanza di legami della sua filosofia con le scienze,
il procedimento non metodico del suo pensiero e la grande indeterminatezza e vaghezza
del caratteristico stile personale della sua esposizione»; soprattutto Eucken ha confuso
«religione e metafisica in un solo significato, inammissibile per entrambe».
54
Henckmann 1998 (a), p. 16.
52
53
SCHELER NEOKANTIANO
239
l’‘essenza’, è cosa nota; in questo senso si rivela particolarmente efficace
l’immagine con cui Friedrich Tenbruck restituisce la nebulosità che avvolge
il concetto stesso di neokantismo: esso
è stato sempre come un paesaggio di montagna frastagliato, che si lascia
abbracciare con lo sguardo tanto poco dall’esterno quanto dall’interno.
Si possono scalare singole cime, si possono scalare anche tutte le cime,
ma non si vedrà mai l’intera catena montuosa nella sua connessione
complessiva. 55
Su questa base, si comprendono le parole di Henckmann sulla inevitabile
insorgenza della domanda su che cosa si debba esattamente intendere quando si definisce «neokantiana» la filosofia giovanile scheleriana: si tratterà
quindi, per sfruttare l’immagine di Tenbruck, di affrontare più da vicino
le due «cime» del massiccio neokantiano, all’ombra delle quali Scheler
svolse la sua riflessione giovanile, vale a dire la Scuola di Marburgo su un
versante e quella del Baden sull’altro.
Nel loro richiamarsi a Kant, entrambe le scuole sostengono una concezione ‘copernicana’, ossia funzionalistica e coerentistica della conoscenza
vera, da opporre a quello che Kant chiamava il «dogmatismo» della tradizione metafisica e a quegli elementi della dottrina kantiana stessa che di tale
dogmatismo appaiono come pericolosi residui. Se in relazione alla necessità
di ‘bonificare’ il criticismo dalle componenti spurie per assicurarlo nelle sue
principali linee direttrici si registra tra le due scuole una sostanziale comunione di intenti, questa invece viene meno in sede propositivo-sistematica,
nel momento in cui si tratta di stabilire come «andare con Kant oltre Kant».
Si registrano in proposito alcuni principali punti di divergenza, che, quanto
alla riflessione gnoseologica, come recentemente scrive Michael Friedman,
si concentrano attorno a tre questioni principali: «[…] il rapporto tra matematica e ambito della logica pura; il rapporto tra l’ambito della logica
pura e la molteplicità ‘preconcettuale’ della sensazione; e la relazione tra
ambito della logica e ambito dei valori» 56. In relazione ai primi due punti,
il comune rifiuto di una facoltà indipendente dell’intuizione pura per come
era stata ammessa da Kant porta a esiti profondamente differenti: la scuola
marburghese incorpora «la matematica pura nella logica formale», in tal
modo «rimpiazzando la molteplicità data della sensazione con la progressione
metodologica della scienza naturale matematizzata»; diversamente,
nell’approccio della Scuola di sud-ovest, all’opposto, siamo lasciati, da
un lato, con le sole forme di giudizio della logica formale tradizionale e,
55
56
Tenbruck 1994, p. 71; cfr. anche Ollig 1997, p. 37.
Friedman 2004, p. 42.
240
IL NEOKANTISMO GIOVANILE DI SCHELER
dall’altro, con la molteplicità data ‘preconcettuale’ delle sensazioni: la
cruciale intermediazione della matematica è venuta meno. 57
La divergenza delle direzioni in cui si sviluppano le due principali interpretazioni neokantiane raggiunge quindi il punto di massima distanza nella
concezione dell’a priori: sullo sfondo di un comune anti-psicologismo, i
marbughesi concepiranno dinamicamente l’a priori in senso rigorosamente
trascendentale, come condizione funzionale di possibilità che solo nell’astrazione metodologica può essere isolata dai Fakta culturali da essa resi possibili, mentre i neokantiani del Baden intenderanno l’a priori come «valore»,
arrivando con Rickert a trasformare il piano trascendentale delle condizioni
di possibilità in una gerarchia assiologica in ultimo trascendente.
Una presentazione delle due scuole neokantiane, con la contestuale
messa in luce delle loro divergenze, la offre lo stesso Scheler nel già richiamato saggio del 1922 su Die deutsche Philosophie der Gegenwart. Le
considerazioni sul neokantismo svolte qui da Scheler vanno prese con
molta cautela, poiché presentano una strana emulsione di componenti
reciprocamente insolubili: lo spassionato stile analitico-espositivo dello
storico della filosofia si accompagna infatti alle accese critiche parziali del
rappresentante di un indirizzo filosofico alternativo (la fenomenologia), che
per giunta in passato si dichiarava sostenitore di quella filosofia che ora
è oggetto della sua spesso impietosa critica (il neokantismo). Nonostante
queste difficoltà, quanto all’influenza delle due scuole neokantiane sulla
filosofia del giovane Scheler, dallo scritto del ’22 si può trarre una conferma
di ciò che emerge dall’analisi delle opere del periodo di Jena, vale a dire del
maggior interesse che, rispetto al neokantismo sudoccidentale – e a dispetto
della vicinanza problematica con esso quanto al motivo assiologico –, il
neokantismo marburghese esercitò sempre su Scheler, a partire anzitutto
dalla sua produzione giovanile per arrivare a quella metafisico-antropologica
degli ultimi anni, come si cercherà di mostrare in seguito.
Venendo quindi alla presentazione del neokantismo offerta da Scheler
nello scritto sulla filosofia tedesca a lui contemporanea, egli individua quattro indirizzi principali all’interno del movimento filosofico che si richiama
a Kant: il «realismo neocriticista» di Alois Riehl, la Scuola di Marburgo, la
Scuola sudoccidentale e la scuola fondata dal friesiano Leonard Nelson. Ciò
che interessa qui è ovviamente quanto Scheler scrive del neokantismo marbughese e di quello del Baden e, soprattutto, la sua valutazione del rispettivo
‘peso filosofico’ delle due scuole. Nel delineare la posizione marburghese
Scheler si concentra soprattutto sulla figura di Cohen, definito «lo spirito
57
Ivi, p. 46.
SCHELER NEOKANTIANO
241
dominante della scuola» 58, rivolgendo la sua attenzione in particolare alle
opere che formano il Sistema di filosofia, vale a dire la Logik der reinen
Erkenntnis (1902), la Ethik des reinen Willens (1904) e la Ästhetik des reinen
Gefühls (1912), testi in cui Cohen sviluppa la propria interpretazione della
filosofia trascendentale in una direzione sempre più personale e critica nei
confronti di Kant. A Natorp Scheler riconosce di aver sostenuto «la dottrina
neokantiana in modo certamente più chiaro e […] più univoco e sistematico del maestro», senza tuttavia raggiungerne «la profondità e l’impeto»;
quanto a Cassirer, «il terzo rappresentante più significativo della scuola»,
si tratta secondo Scheler di colui che «nei suoi lavori storici e sistematici
ha dato alla dottrina neokantiana forse l’espressione più acuta, precisa e
attualmente influente» 59. In ogni caso è nell’opera di Cohen che Scheler
individua i nuclei concettuali del neokantismo marburghese, il primo dei
quali viene ravvisato anzitutto nel rifiuto del concetto kantiano della «cosa
in sé», o meglio in una sua interpretazione radicalmente funzionalistica,
per cui il noumeno va inteso come «concetto-limite della nostra conoscenza, […] obiettivo ultimo di un progresso conoscitivo infinito». In questo
contesto «conoscere non significa raffigurazione, ma nemmeno significa
determinazione simbolica di una realtà e oggettualità esistente, bensì ideale
‘produzione e formazione dell’oggetto’ stesso», in modo tale che «l’oggetto
non è ‘dato’, quanto piuttosto è la sua produzione ad essere ‘assegnata’ al
nostro intelletto, conformemente alle leggi che lo abitano» 60. Scheler indica
quindi uno dei tratti costitutivi della posizione marburghese nel rigoroso
idealismo che porta Cohen, nella Logik der reinen Erkenntnis, a dichiarare
«noi cominciamo con il pensiero» e a definire la sensazione «una x cercata,
un ‘problema dell’intelletto’», un prodotto del metodo infinitesimale: un
idealismo, quello coheniano, che Scheler ben differenzia da quello di Hegel,
poiché il primo passa sempre dal «fatto» dato dell’esperienza scientifica 61
e intende il concetto di «a priori» nel suo significato trascendentale di
condizione per la possibilità di questo «fatto», per arrivare nella Logik del
1902 a svilupparne gli aspetti dinamici e funzionali nella nozione produttiva
di «fondazione» [Grundlegung], opposta a quella statica di «fondamento»
[Grundlage]. All’interno di questa peculiare reinterpretazione della filosofia
critica le categorie non sono più kantianamente concepibili come date una
volta per tutte in un numero fisso e definitivamente stabilito, ma vanno
intese come «una serie in linea di principio interminabile di prodotti che
il pensiero crea, al fine […] di portare avanti il processo infinito della
58
59
60
61
DPG, GW VII, p. 280.
Ivi, p. 282.
Ibidem.
Ivi, p. 282 s.
242
IL NEOKANTISMO GIOVANILE DI SCHELER
scienza» 62; e poiché «al pensiero nulla è dato», spazio e tempo, che in Kant
erano forme pure della passiva intuizione sensibile, vengono da Cohen
inclusi in questa stessa «serie» produttiva, per essere concepiti anch’essi
come «categorie del pensiero» 63.
Quanto al neokantismo sudoccidentale, Scheler individua gli aspetti
che lo distinguono da quello marburghese anzitutto nel fatto che «mentre
la Scuola di Marburgo ha cercato di orientarsi nel modo più unilaterale
alla scienza matematica della natura, a dominare la cerchia degli interessi di
questa scuola sono soprattutto le scienze storiche e culturali» 64. In secondo
luogo, il Kant che costituisce il termine teorico di riferimento della Scuola
è «un Kant già passato attraverso J.G. Fichte» 65. Il fondatore del neokantismo sudoccidentale è Wilhelm Windelband, del quale Scheler ricorda
in primo luogo l’opera di storico della filosofia, per indicare poi nella sua
distinzione tra carattere nomotetico e carattere idiografico delle scienze il
punto di partenza (poi superato) per la teoria della storia sviluppata nel
testo sui limiti della concettualizzazione scientifico-naturale 66 da Heinrich
Rickert, definito «il maggiore e più influente sistematico» 67 tra i neokantiani
del Baden. Per questa ragione è proprio la filosofia di Rickert a costituire
l’oggetto principale delle riflessioni di Scheler nello scritto del ’22, mentre a
quel Windelband che nelle opere jenesi veniva così spesso chiamato in causa
viene qui dedicato ben poco spazio. Scheler individua gli elementi portanti
della riflessione rickertiana anzitutto nella tematizzazione di un modo della
concettualizzazione opposto a quello che cerca di superare la molteplicità
data tramite il ricorso alla generalizzazione, consistente viceversa nel cercare di «determinare in modo sempre più preciso questa molteplicità come
‘individuo’ […] tramite la formazione di concetti individuali» 68. Su questa
base, scrive Scheler, Rickert arriva a concepire «individuo» e «universale»
come «risultato di due formazioni e modi di trattazione orientati in direzioni
contrapposte», che si esercitano però sulla stessa materia dell’esperienza,
sebbene in modo tale che «la forma categoriale dell’individuo (Rickert
la introduce come una nuova categoria nel sistema categoriale di Kant)
possiede significato ‘costitutivo’ per la realtà, mentre alla categoria di legge
spetta un significato soltanto ‘regolativo’» 69. Riportando la distinzione tra
scienze della natura e scienze storiche a questi due modi contrapposti di
62
63
64
65
66
67
68
69
Ivi, p 283.
Ibidem.
Ivi, p. 286.
Ibidem.
Rickert 19295 (1902).
DPG, GW VII, p. 286.
Ivi, p. 287.
Ibidem.
SCHELER NEOKANTIANO
243
concettualizzazione, Rickert giunge così ad affermare (secondo Scheler in
modo del tutto arbitrario) il primato metafisico delle seconde sulle prime:
«[…] poiché la categoria dell’individuo è costitutiva 70, la realtà mondana è
primariamente non ‘natura’, bensì ‘storia’» 71. Alla costituzione dell’oggetto
storico-culturale concorre in modo essenziale, insieme alla considerazione
individualizzante del dato, il riferimento «a un sistema universale di valori
validi», poiché solo questo riferimento consente di «selezionare all’interno della incommensurabile ricchezza del reale individuale ciò che è […]
culturalmente significativo»; e il compito di individuare i valori spetta alla
filosofia, che tanto Windelband quanto Rickert concepiscono appunto come
«scienza dei valori universali» 72. Nella teoria della conoscenza infine – che
Rickert presenta nell’opera più volte ripresa e rielaborata Der Gegenstand
der Erkenntnis 73 – il neokantismo sudoccidentale sostiene un idealismo,
che nel giudizio di Scheler «non è un estremo razionalismo e logicismo
come quello dei marburghesi, bensì ammette insieme i fondamenti alogici
e arazionali della realtà dell’esperienza vissuta data» 74.
Di questa presentazione delle due principali scuole neokantiane colpisce
il diverso atteggiamento dell’autore nei loro confronti: pur criticandole
entrambe, Scheler tuttavia mostra verso il neokantismo marburghese un
maggior rispetto, una considerazione seria e sincera del suo valore filosofico, mentre alla scuola sudoccidentale riconosce come punto di merito
soltanto il fatto che essa non tenta «di risolvere il mondo intero in pure
determinazioni di pensiero» 75 al modo dei marburghesi. Sotto tutti gli altri
aspetti, invece, secondo Scheler il neokantismo del Baden
è ampiamente inferiore alla dottrina marburghese: al posto della ricchezza
fuori del comune del mondo concettuale marburghese e della sua ammirevole vastità [Vielseitigkeit] compaiono qui monotone ripetizioni
schematizzanti di un paio di concetti basilari oltremodo modesti e miseri,
che, uniti all’esaltata [aufgebläht] arroganza dell’Io ereditata da Fichte,
si sforzano inutilmente di reggere un’intera filosofia di fronte al tutto
dell’universo. 76
Scheler prosegue nella sua severa critica, scrivendo che nel neokantismo
sudoccidentale, «proprio come in Fichte, la natura è in fondo soltanto
Dunque non soltanto regolativa.
Ibidem.
72
Ivi, p. 288.
73
Rickert 19286 (1892). In DPG Scheler cita la terza edizione dell’opera (Tübingen,
P. Siebeck, 19153).
74
DPG, GW VII, p. 289.
75
Ibidem.
76
Ibidem.
70
71
244
IL NEOKANTISMO GIOVANILE DI SCHELER
‘materiale’ per un vuoto affaccendarsi culturale [Kulturgetue], il cui senso
ultimo dovrebbe risiedere in ‘valori’ e ‘validità’ puramente formali che si
librano in aria», per arrivare infine ad affermare sarcasticamente che «dovrebbe addirittura essere considerato un problema psicologico-culturale
spiegare come questa che è la più vuota delle scuole kantiane abbia potuto
trovare nel nostro paese una espansione così grande» 77.
Certamente Scheler non è tenero nemmeno nei confronti dei marburghesi. Di Cohen scrive per esempio che egli infuse negli allievi «la convinzione
che il logos del mondo fosse attivo in lui stesso e in ognuno di quelli che
l’avrebbe seguito», che la sua opera presenta a tratti una «rara oscurità, se
non addirittura una frequente astrusità dell’esposizione» 78 e soprattutto
che la scienza depositata «nel libri stampati», con la quale Cohen identifica
il punto di partenza dell’indagine trascendentale, «sembra come caduta dal
cielo» 79. Quanto alle opere storico-filosofiche della scuola (vengono qui
citati gli studi di Natorp su Platone, quelli di Cassirer su Leibniz e sulla
storia della teoria della conoscenza) 80, secondo Scheler sono «addirittura
rovinose per una concezione storica obiettiva della storia della filosofia»,
poiché in esse «i pensatori trattati vengono valutati quasi esclusivamente
sotto il loro aspetto logico e teorico-conoscitivo» 81. Tuttavia l’asprezza
di questi giudizi e il loro tono tranchant si mitigano nel momento in cui
il lettore si addentra nell’esposizione delle dottrine marburghesi, che nel
complesso vengono presentate come solide e rigorose 82, per quanto del tutto
alternative alla Sachphilosophie fenomenologicamente orientata sostenuta da
Scheler. Complessivamente, dunque, dallo scritto del ’22 emerge una ben
diversa valutazione delle due principali espressioni del neokantismo, con
una dichiarata preferenza di Scheler per la Scuola di Marburgo rispetto a
quella del Baden, come attesta già la produzione degli anni di Jena.
Quanto all’influenza del neokantismo sudoccidentale – segnatamente
del caposcuola Wilhelm Windelband –, sulle opere giovanili di Scheler,
essa è ben visibile nelle due monografie del biennio 1899-1900. I Beiträge,
in primo luogo, ben presentano le grandi unità problematiche che Scheler
accoglie da tale indirizzo: il motivo della validità (che, oltre a Windelband,
77
78
79
80
1920.
Ivi, p. 290.
Ivi, p. 281.
Ivi, p. 284.
Scheler si riferisce a Natorp 19212 (1903) e 1914, nonché a Cassirer 1902, 19112 e
DPG, GW VII, p. 284 s.
Colpisce in particolare il giudizio positivo su Cassirer, del quale Scheler riassume
Substanzbegriff und Funktionsbegriff, definita la sua «principale opera teoretico-conoscitiva»; quanto a Cassirer 1916 e 1921, Scheler li giudica «belli, in parte anche veri e
profondi» (DPG, GW VII, p. 285).
81
82
SCHELER NEOKANTIANO
245
si può far risalire al maestro di quest’ultimo, Lotze, la cui Logik viene
spesso citata da Scheler nell’opera del 1899) e la traduzione in termini
assiologici dell’a priori kantiano che deriva dalla radicalizzazione di tale
motivo; la concezione di logica, etica ed estetica come «scienze normative»
e la conseguente trasposizione della kantiana «critica della ragione» nel
compito di una «critica assiologica della coscienza»; la demarcazione della
filosofia dalla psicologia, conseguita in base ai diversi ambiti oggettuali di
riferimento e ai diversi metodi – «critico» per la filosofia che si occupa
della «necessità del non essere permesso il contrario», «genetico» per la
psicologia che indaga sulla «necessità del non poter essere altrimenti»; la
distinzione delle «norme» dalle «leggi di natura» e il conseguente dibattito epistemologico sul diverso statuto che va assegnato alle «scienze dello
spirito» e a quelle della natura. Questi sono i grandi temi che informano i Beiträge ed essi sono direttamente riferibili alle riflessioni svolte da
Windelband nei saggi che formano i Präludien. Lo scritto di abilitazione
presenta anch’esso significativi debiti nei confronti del caposcuola del
neokantismo sudoccidentale: mi riferisco soprattutto alla centralità della
questione metodologica come principale lascito della filosofia kantiana; al
rilievo critico della presenza, in tale filosofia, di premesse psicologiche non
adeguatamente tematizzate da parte di Kant; nonché, in ultimo, al rapporto
che la filosofia è chiamata a intrattenere con i saperi specialistici sotto il
profilo tanto contenutistico quanto procedurale. Tuttavia, malgrado questa
ingente presenza di motivi windelbandiani, è proprio l’opera sul metodo
a mostrare, in modo a mio parere molto chiaro, il maggior interesse di
Scheler per il neokantismo marburghese rispetto a quello sudoccidentale,
portando alla luce una tendenza che già era implicita nei Beiträge. Anzitutto
la concezione della filosofia come «scienza dei valori» – in base alla quale
logica, etica ed estetica andrebbero intese come ‘scienze normative’ in
relazione alle direzioni assiologiche del vero, del buono e del bello – nell’opera sul metodo viene decisamente meno: il tema della validità ideale e
della sua giustificazione resta senza dubbio al centro delle preoccupazioni
scheleriane, ma la direzione in cui il metodo noologico cerca di sviluppare
tale tema non è più quella di una «critica assiologica della coscienza» o di
una «scienza dei valori universalmente validi», bensì quella di una «metafisica critica» che al centro ha la nozione unitaria sebbene non semplice di
«spirito» intesa come condizione di possibilità del mondo delle produzioni
culturali, non certo quella di «coscienza normale» e del correlato sistema
di valori universali, in relazione ai quali poter individuare e giustificare le
norme. In secondo luogo la secca alternativa windelbandiana tra metodo
critico-trascendentale e metodo psicologico-genetico non viene accolta da
Scheler, il quale cerca piuttosto di mediare le istanze dei due metodi nel
progetto di una psicologia trascendentale. Inoltre, quanto al rapporto tra
246
IL NEOKANTISMO GIOVANILE DI SCHELER
la filosofia e le scienze, Scheler certamente ritiene, come Windelband, e
in generale come tutti gli esponenti del composito movimento di ‘ritorno
a Kant’, che la filosofia abbia il compito di comprendere e giustificare il
lavoro intellettuale nelle sue molteplici espressioni specialistiche, mostrando tuttavia, rispetto al caposcuola del neokantismo sudoccidentale, una
maggiore preoccupazione per il fatto che i successi delle singole scienze
possano rendere superflua la filosofia: proprio per evitare questo rischio, la
filosofia deve essere intesa come riflessione metodologica sulle condizioni
che rendono possibile l’oggettività del sapere in ogni sua forma.
Teorizzando questa declinazione anzitutto metodologica della filosofia,
senza dubbio più interessante e stimolante di quello del Baden pare a Scheler
il neokantismo marbughese, che ha esplicitamente fatto coincidere la filosofia
con il metodo trascendentale, oltretutto reinterpretato rispetto a Kant in
modo tale da rendere ancora più stretto il nesso funzionale tra riflessione
filosofica e Fakta scientifico-culturali. Tutte queste ragioni concorrono a
spiegare il fatto che nel Durchschnittsbild del metodo trascendentale presentato da Scheler – sulla base della considerazione dei tratti comuni ai diversi
indirizzi che si richiamano a Kant – l’apporto del neokantismo del Baden
sia decisamente scarso, in modo tale che l’«immagine mediana» che nelle
intenzioni dell’autore ne dovrebbe risultare non è affatto mediana, bensì
molto marburghese e ben poco sudoccidentale. È dunque con la Scuola di
Marburgo che Scheler si confronta in vista della configurazione del metodo
noologico, il quale accoglierà in sé, come si è visto, alcune delle principali
istanze e caratteristiche del metodo trascendentale.
Il frammento della Logik, infine, conferma ampiamente il progressivo
distacco da parte di Scheler dal contesto sudoccidentale, all’interno del
quale egli aveva esordito sulla scena filosofica: tra le concezioni della logica
che l’opera rigetta c’è infatti la logica intesa windelbandianamente come
«scienza normativa», espressione particolare di quella logica dello scopo
[Zwecklogik] che si contrappone alla transzendentale Richtigkeitslogik in
favore della quale Scheler argomenta, sulla base di una posizione di impronta chiaramente marburghese. Si può sostenere allora che l’influenza
di Windelband sia stata ampia soprattutto nei Beiträge, anche se già in
quell’opera, sottolineando la conflittualità tra principi etici e principi logici,
Scheler giungeva a introdurre elementi che problematizzavano non poco
la nozione windelbandiana di «coscienza normale», ponendo la necessità
di un suo ripensamento. In ogni caso, nella configurazione della filosofia giovanile scheleriana va riconosciuto a Windelband e al neokantismo
sudoccidentale una incidenza effettivamente maggiore e più tecnicamente
‘filosofica’ di quella esercitata dal maestro Eucken, che si è visto essere di
natura più genericamente ‘culturale’: si potrebbe dire che la strumentazione
concettuale windelbandiana abbia sostenuto Scheler nel raffinamento della
SCHELER NEOKANTIANO
247
‘grana grossa’ di quello spiritualismo euckeniano che – secondo le parole
dello stesso Scheler – «si trova al limite tra la filosofia scientifica e quella
letteratura filosofica un tempo definita edificante» 83.
Quanto al neokantismo marburghese, la disposizione complessiva del
giovane Scheler nei confronti della scuola capeggiata da Hermann Cohen
può essere sintetizzata col dire che tale indirizzo costituì per lui il più solido
termine di riferimento per l’elaborazione della propria filosofia negli anni
di Jena. Il che non significa certo che le due monografie del biennio 18991900 possano essere definite ‘marburghesi’ nei contenuti e nel metodo: esse,
al contrario, mettono in luce le principali difficoltà alle quali va incontro
l’orizzonte concettuale dispiegato dalla Scuola di Marburgo, un orizzonte
del quale Scheler peraltro riconosce tutta la saldezza e il rigore, cercando
insieme di conservarne alcune delle principali istanze, nel momento in cui
abbozza le linee direttrici della sua filosofia noologica. Se si considera poi
che il progetto noologico di riforma dell’a priori non venne più sviluppato
dopo lo scritto di abilitazione in cui era stato annunciato e, soprattutto,
che il principale programma filosofico al quale Scheler lavorò negli anni
successivi fu la Logik – opera, questa sì, sostanzialmente ‘marburghese’ nei
contenuti e nel metodo –, si può sostenere che tra 1904 e 1906 egli tentò
di far cadere le resistenze fino ad allora opposte all’idealismo coheniano,
salvo in ultimo decidere bruscamente di ritirare l’opera dalle stampe.
Senza dubbio la Logik stride con i Beiträge e con lo scritto sul metodo
sotto molti aspetti: la concezione della logica come «scienza normativa»,
esplicitamente sostenuta nei Beiträge, nel frammento sulla logica viene
abbandonata e sottoposta a severa critica; nessun accenno viene fatto al
progetto di una psicologia trascendentale, che invece entrambe le opere del
biennio 1899-1900 auspicavano e in parte tentavano; morale e «scienze dello
spirito», tra gli ambiti privilegiati della precedente riflessione scheleriana,
vengono qui del tutto trascurate in favore del settore forse più rarefatto
della ricerca filosofica, la logica appunto; soprattutto, la Logik der reinen
Erkenntnis di quel Cohen in precedenza più volte sottoposto a critica viene
qui citata sempre con approvazione. Proprio a partire dal chiarimento di
quest’ultimo punto si può acquisire l’elemento fondamentale per tentare
di comprendere la particolarità della Logik I nel contesto della riflessione
giovanile scheleriana, un chiarimento che richiede in primo luogo una contestualizzazione della Logik der reinen Erkenntnis nel quadro della filosofia
di Hermann Cohen. Nel complesso della vicenda intellettuale coheniana,
l’opera del 1902 presenta infatti, come è stato scritto, un «carattere di autorevisione e, per certi versi, di rovesciamento delle posizioni precendenti»,
83
DPG, GW I, p. 273.
248
IL NEOKANTISMO GIOVANILE DI SCHELER
sicché ciò che colpisce in essa è «la distanza non solo dal Kant ‘storico’,
ma dallo stesso Kant ‘sistematico’ del Cohen degli anni ’80» 84. Rispetto
al Kant «storico», nella Logik quella reinterpretazione dinamicizzante dei
rapporti tra i «due tronchi dell’umana conoscenza» già avviata da Cohen
nelle precedenti opere si radicalizza al punto tale da portare alla negazione
della distinzione stessa tra intuizione pura e pensiero puro, con l’elevazione
di spazio e tempo al piano della attiva determinazione categoriale; non solo,
ma rispetto al Kant «sistematico» – ossia il Kant reinterpretato da Cohen
nella Kants Begründung der Ethik (1877), nello scritto sul metodo infinitesimale (1883), nella seconda edizione della Kants Theorie der Erfahrung
(1885) e nella Kants Begründung der Ästhetik (1889) –, il tema della originaria e dunque costitutivamente incessante produttività del pensiero puro
in relazione al divenire del processo scientifico-conoscitivo fa sì che venga
in primo piano «l’intreccio di logica e storia, di dimensione categoriale e
processualità dell’impresa scientifica»: in questo quadro non si tratta più
«di costruire un sistema di categorie in sé concluso e dedotto da un principio speculativo, bensì di accogliere entro una connessione funzionale,
dinamica, aperta» 85 i motivi concettuali che hanno informato di sé la storia
del pensiero scientifico, indicandone le linee direttrici di sviluppo.
Se si tiene presente la profonda innovazione rappresentata dall’opera
del 1902 rispetto alla riflessione coheniana anteriore, si può comprendere
perché Scheler abbia tentato di elaborare la propria transzendentale Richtigkeitslogik sulla sua base, abbandonando quindi le riserve precedentemente nutrite nei confronti della filosofia trascendentale cohenianamente
reinterpretata. La Logik der reinen Erkenntnis, infatti, in primo luogo
elimina le ipoteche sensiste e psicologistiche che ancora gravavano sulla
filosofia kantiana, a causa di quella che, nello scritto sul metodo, Scheler
riteneva l’ambigua dottrina dell’estetica trascendentale; inoltre, e soprattutto, l’opera del 1902 corregge proprio quell’aspetto della reinterpretazione
coheniana della filosofia trascendentale che aveva attirato su di sé le più
severe critiche di Scheler anzitutto nello scritto di abilitazione, vale a dire
il divario tra esperienza possibile ed esperienza reale, l’incapacità del piano trascendentale delle condizioni di possibilità di far fronte alla storicità
dell’impresa scientifica.
Senza dubbio la Logik I presenta in larga parte un tratto comune all’intera produzione scheleriana degli anni di Jena, ossia il prevalere di
ricostruzioni critiche di altre posizioni filosofiche sull’elaborazione positiva
e sistematica di una proposta personale. Ciononostante l’ampio frammento
84
85
Ferrari 1988, p. 63 s.
Ivi, p. 67.
SCHELER NEOKANTIANO
249
superstite resta un caso a sé anche sotto questo aspetto: in esso, infatti, la
critica alle concezioni della logica avverse viene svolta sulla base non di
progetti teorici che restano solo abbozzati – quali il saggio di psicologia
trascendentale tentato dai Beiträge o la filosofia noologica dello scritto sul
metodo –, quanto piuttosto sulla scorta di una posizione filosofica che nei
suoi tratti fondamentali si presenta come estremamente solida e sicura, da
quanto emerge con chiarezza dalle rigorose argomentazioni dispiegate da
Scheler contro i suoi diversi interlocutori, nonché dalla ricostruzione dei
contenuti di cui avrebbe dovuto occuparsi l’ambizioso secondo volume 86.
E, sulla base di quanto si è mostrato nel capitolo espressamente dedicato
alla Logik, la solidità e la sicurezza che Scheler vi mette in mostra si giustificano proprio sulla base del rimando all’autorità di Cohen, un rimando
che si fa esplicito laddove egli cita espressamente il fondatore della Scuola
di Marburgo, sempre a proposito di questioni fondamentali, sempre per
dichiarare il suo totale accordo.
In conclusione la trama delle influenze costitutive della produzione
giovanile di Scheler si può riassumere nel modo seguente: per il suo debutto filosofico egli scelse come palcoscenico il neokantismo assiologico di
Windelband, del quale tuttavia i Beiträge già offrono una problematizzazione tale da incrinarne l’apparente solidità; con l’opera sul metodo cercò
quindi di dare consistenza alla filosofia noologica di Eucken, prendendo
dall’indirizzo psicologistico e soprattutto dal neokantismo marburghese
quella strumentazione concettuale che al maestro mancava; fu però nella
Logik che egli abbracciò senza riserve e senza tentativi di correzioni sincretistiche una posizione filosofica con la quale andava confrontandosi da
anni. Il più solido tentativo scheleriano di «andare con Kant oltre Kant»
si svolse quindi sotto l’egida di Hermann Cohen. E proprio il fatto che la
logica della scoperta scientifica presa a modello da Scheler nel frammento
del 1904-1906 sia così peculiarmente e inequivocabilemente coheniana
nei contenuti e nel metodo concorre forse a spiegare perché della logica
scheleriana restò soltanto un frammento, sebbene dall’impostazione tanto
sicura: accanto alle ragioni pratiche che motivarono la decisione di ritirare il testo dalla pubblicazione, si può ipotizzare che Scheler abbia infine
compreso come il margine di azione speculativa a disposizione della sua
86
Si veda Willer 1975, pp. 280-285, dove il curatore della riedizione in ristampa
anastatica del frammento della Logik tenta, sulla base di quanto Scheler preannuncia
nelle pagine rimasteci, una ricostruzione dei contenuti del secondo volume che avrebbe
dovuto comporre l’opera: tra essi, una dottrina del giudizio; il confronto con alcune teorie
dell’evidenza; una teoria delle proposizioni esistenziali; una teoria degli assiomi della logica;
un capitolo sull’errore; una dottrina delle categorie; una trattazione di spazio e tempo;
una dottrina dei concetti; una dottrina del sillogismo; una parte dedicata al concetto di
scopo.
250
IL NEOKANTISMO GIOVANILE DI SCHELER
logica trascendentale sarebbe stato estremamente limitato dall’imponente
proposta coheniana.
A questo punto si può finalmente disporre di tutti gli elementi necessari
per circoscrivere il problema generale che mosse la riflessione filosofica di
Scheler negli anni di Jena. A tal fine va anzitutto riscontrata una costante
attenzione, da parte del giovane filosofo, per questioni di ordine fondazionale: l’individuazione delle condizioni che rendono possibile conoscenza
e morale, e i rapporti che intercorrono tra esse, il problema del metodo
in filosofia, l’elaborazione trascendentale della logica come scienza generale dell’oggettività sono i principali argomenti ai quali Scheler lavorò in
questo periodo, e tutte e tre le questioni sono riconducibili al problema
complessivo della fondazione delle diverse forme oggettive dell’esperienza,
nel senso kantiano della giustificazione e legittimazione della loro pretesa
di determinare a priori, ossia in modo universalmente valido, i diversi ambiti oggettuali. È quindi all’interno di questo orizzonte problematico che
Scheler inserisce la sua riflessione giovanile, un orizzonte che egli tuttavia
non accoglie passivamente, ma del quale viene via via individuando le
principali difficoltà. Tali difficoltà Scheler le ravvisa nel rapporto tra piano
trascendentale delle condizioni di possibilità – siano queste grandi unità
assiologiche sulla scorta di Windelband o funzioni legali di produzione
dell’oggettività come per il marburghese Cohen – e piano effettivo delle
realizzazioni storiche da esse rese possibili, più precisamente in relazione a
due questioni-chiave: la diversità qualitativa delle oggettivazioni dell’esperienza e la loro storicità. In questo senso si potrebbe dire che le domande
conduttrici della filosofia giovanile scheleriana siano state le seguenti: in
primo luogo, come si giustifica in assenza di un criterio immediatamente
ontologico la diversità dei modi di oggettivazione dell’esperienza? In secondo luogo, come è possibile conciliare la pretesa trascendentale di individuare le condizioni dell’‘esperienza possibile’ con il divenire incessante
dell’esperienza reale?
Le risposte che il giovane Scheler tentò di dare a queste domande mi
sembra vadano cercate nel tema della psicologia trascendentale e in quello
di una riforma in senso contenutistico e storicizzante dell’a priori, motivi
che comportano una profonda revisione del piano trascendentale delle condizioni di possibilità, per far sì che esso riesca a fronteggiare la molteplicità
qualitativa e diveniente dell’esperienza. Recuperare la psicologia in senso
dinamico-funzionale, in modo da ‘elevare’ le facoltà dal piano psichico a
quello trascendentale e da poter quindi porre ‘intelletto’ e ‘sentimento’ come
«soggettivazioni» (per usare un termine natorpiano) nella vita immediata
della coscienza di due forme oggettive d’esperienza qualitativamente diverse
come conoscenza e morale, è la strada tentata da Scheler nei Beiträge per
giustificare la molteplicità qualitativa attestata dall’esperienza. Quanto
SCHELER NEOKANTIANO
251
invece alla storicità delle forme oggettivate dell’esperienza, nello scritto sul
metodo si è visto Scheler auspicare, più che articolare sistematicamente,
un nuovo apriorismo, nel quale si tratta di rinunciare alla pretesa che l’a
priori possa «valere per ogni ‘esperienza possibile’», per accontentarsi invece «della validità per una cultura storicamente determinata» 87, in modo
tale che si dovrà ammettere una serie di contenuti culturali a priori, tanti
quanti sono stati, sono e saranno gli ambiti dell’esperienza che necessitano di giustificazione. Tanto il progetto di una psicologia trascendentale,
quanto quello della riforma dell’apriorismo resteranno tuttavia in uno stato
preparatorio che non troverà ulteriori sviluppi significativi negli anni che
seguirono il biennio 1899-1900. Si resterebbe quindi sostanzialmente delusi,
se nel percorso filosofico seguito da Scheler negli anni di Jena si cercassero
vere e proprie risposte alle due domande alle quali tale percorso è stato
qui ricondotto; piuttosto sono proprio queste due domande, il fatto stesso
che nei Beiträge e nello scritto sul metodo non abbiano trovato risposte
adeguate, insieme al tentativo ambizioso ma alla fine abortito della Logik,
a restituire il significato complessivo della riflessione filosofica del giovane
Scheler: una riflessione che si inserì problematicamente e criticamente
all’interno del paradigma trascendentale inaugurato da Kant, e poi svolto
dalle diverse figure del neokantismo, e che dunque va compresa in relazione a questo paradigma, ai suoi ‘rompicapi’ e alle sue ‘anomalie’. Il che
è quello che si è cercato di fare qui, evitando di cedere alla tentazione di
interpretare questa parte della filosofia scheleriana come semplice preludio
interlocutorio della successiva produzione fenomenologica di Scheler, la
comprensione della quale potrebbe soltanto beneficiare di un approccio,
esattamente inverso a quello finora dominante la letteratura secondaria,
che veda nel ‘dopo’ tracce del ‘prima’.
87
Methode, GW I, p. 253.
V
IL PRIMA NEL DOPO:
DUE PROPOSTE INTERPRETATIVE
Il modo più efficace di concludere la presente indagine sulla filosofia del
giovane Scheler mi sembra essere quello di provare a saggiarne l’impostazione metodologica e la tesi storico-filosofica in relazione agli sviluppi presi
dalla riflessione del filosofo negli anni della maturità. In altre parole, dopo
aver mostrato che il neokantismo scheleriano – lungi dall’essere nulla più
che una generica etichetta da apporre a opere giovanili ancora informi –,
si situa invece in una ben definita costellazione concettuale, della quale accoglie l’orizzonte problematico, utilizza gli strumenti e accetta le principali
opzioni di fondo; si tratta ora di far vedere come tale neokantismo abbia
lasciato in dote a Scheler elementi che rientrano come fattori costitutivi
in alcune delle principali teorie sostenute dal filosofo nelle cosiddette fasi
«fenomenologica» e «metafisico-panenteistica» del suo pensiero. Per cogliere
questo permanente indebitamento concettuale nei confronti della tradizione
kantiana si esamineranno due luoghi centrali del pensiero di Scheler: la
riforma cui egli sottopone il concetto di a priori, ossia la piattaforma teorica
sulla quale edifica l’etica materiale dei valori e critica il formalismo etico,
e il rapporto tra metafisica e antropologia per come viene presentato in
alcuni testi risalenti agli ultimi anni di vita del filosofo.
Prima di procedere, bisogna però spendere qualche parola sul contesto
storico-filosofico in cui si inserisce una tale operazione ermeneutica, con
riferimento in particolare alla figura di Scheler e in generale al rapporto tra
i due indirizzi filosofici del neokantismo e della fenomenologia. Anzitutto
si deve precisare che questa ricerca non intende affatto rendere Scheler
più neokantiano di quanto effettivamente egli sia stato; l’obiettivo primario
dell’indagine è semplicemente quello di dare una precisa fisionomia al suo
neokantismo giovanile, come si è cercato di fare nei capitoli precedenti.
254
IL PRIMA E IL DOPO: DUE PROPOSTE INTERPRETATIVE
Una volta raggiunto tale obiettivo, le considerazioni che seguono non si
propongono, dunque, l’intento di sostenere che Scheler, senza saperlo,
sarebbe rimasto per così dire un neokantiano travestito da fenomenologo. L’intenzione è piuttosto quella di inserire la vicenda intellettuale di
Scheler in un più ampio quadro insieme storico e filosofico, centrato su
un’immagine del rapporto tra neokantismo e fenomenologia diversa da
quella che per lungo tempo si è imposta e tale da giustificare – o quanto
meno da non far apparire peregrino – il tentativo di rintracciare strutture
e motivi neokantiani nei presupposti della fenomenologia scheleriana della
vita emotiva e nel nesso sistematico che nella sua tarda riflessione il filosofo
instaura tra metafisica e antropologia.
1. NEOKANTISMO E FENOMENOLOGIA
L’immagine ‘tradizionale’ dei rapporti tra neokantismo e fenomenologia
presenta le due posizioni filosofiche come contrapposte e in alternativa,
fino al limite della incommensurabilità 1. Una tale immagine ha potuto
sedimentarsi sulla base di ciò che i protagonisti dei due orientamenti, ma
anzitutto i fenomenologi di Monaco e di Gottinga, ebbero a dichiarare in
proposito. Tra le testimonianze che rendono più efficacemente il modo in
cui i fenomenologi intesero il loro rapporto con la tradizione criticistica c’è
il seguente passo di Edith Stein, dove l’assistente di Husserl scrive:
Le Ricerche logiche avevano suscitato scalpore soprattutto perché apparivano come un distacco radicale dall’idealismo critico di impronta kantiana
e neo-kantiana. Vi si rintracciò una ‘nuova Scolastica’, poiché lo sguardo
si distoglieva dal soggetto per rivolgersi alle cose: la conoscenza apparve di
nuovo un accogliere che riceve la sua legge dalle cose stesse, non – come
nel criticismo – un determinare che costringeva le cose ad accettare la
sua legge. Tutti i giovani fenomenologi erano realisti convinti. 2
Fu Hermann Cohen a definire (sprezzantemente, a differenza di Stein)
la fenomenologia una «nuova Scolastica», scrivendo che «essa è […] nel
migliore dei casi ontologia, intesa come prima parte della metafisica» 3.
1
In direzione opposta, volta a sottolineare la continuità problematica e le profonde
interconnessioni tra i due indirizzi, si muovono i seguenti studi, tra quelli che più mi
sono serviti per la presente indagine: Brelage 1965; Kern 1965; Gigliotti 1989; Besoli et
al. 2001.
2
Stein 19993, p. 228.
3
Cohen 19142 (1902), p. 56. Si veda anche Natorp 1918 (b), p. 45, dove l’autore
sostiene che Husserl non sempre riesce a sottrarsi all’accusa, «(che sotto altri aspetti
respinge a ragione), per cui egli farebbe ritorno alla scolastica».
NEOKANTISMO E FENOMENOLOGIA
255
Cambiato di segno da negativo in positivo, il modo in cui Cohen valutò le
Ricerche husserliane è quindi lo stesso in cui le accolsero quei fenomenologi
che vi videro «una sfida nei confronti del neokantismo» 4 e che in seguito,
nel 1913, si sentirono traditi da Ideen I e dalla «svolta trascendentale» 5
che Husserl vi avrebbe compiuto, rendendo pubblico un orientamento già
preso a partire dal 1906.
Nonostante gli sforzi di Husserl per ricomprendere le fasi di sviluppo del
suo pensiero in senso unitario, se non internamente teleologico, in alcuni passi
le Ricerche logiche presentano in effetti posizioni quanto meno eccentriche
rispetto al trascendentalismo esplicitamente perseguito dal 1913 in poi 6.
Münch 2000, p. 521.
La valutazione del primo volume di Ideen come tradimento idealistico delle istanze
contrapposte avanzate nelle Ricerche logiche si fissa fin da subito nella ricezione dell’opera
husserliana da parte dei fenomenologi monacensi e gottinghesi: a questo proposito cfr.
Avé-Lallemant 1975 (a); per contro, sulla filosofia fino alle Ricerche logiche rispetto al pensiero husserliano seguente, si veda Husserl 1999. Un’analoga avversione per la prospettiva
trascendentalistica si registra recentemente p. es. in Dieter Münch, il quale spiega la ‘svolta’
sulla base di «fattori esterni alla filosofia» e relativi alla biografia di Husserl, sostenendo
che essa sarebbe «inaccettabile dal punto di vista della sua precedente concezione della
filosofia», col proposito, questo sì filosofico, di «demitologizzare lo Husserl trascendentale
per potersi collegare di nuovo all’opera precedente» (Münch 2000, p. 504). Sul versante
opposto si veda p. es. Franzini 2002, p. XIII nota 2 («è il concetto stesso di svolta che
non si adatta al metodo ‘stratificato’ del lavoro di Husserl»); si veda anche English 2006,
p. 336, dove, pur mostrando in tutta la sua complessità l’itinerario che condusse Husserl
alla trascendentalizzazione della fenomenologia, si sostiene che «la fenomenologia sia e
non possa che essere trascendentale». In Costa 2002, p. 435, il primo volume di Idee è
definito al tempo stesso «un punto di arrivo, un momento di svolta e l’inizio di un nuovo
percorso di pensiero». In Lavigne 2005, p. 720, si ricostruisce il divenire del pensiero
husserliano dalle Ricerche fino al primo volume delle Idee, con l’obiettivo di dirimere
l’annosa questione interpretativa che vede i sostenitori della ‘svolta’ opposti a quelli della
‘continuità’, mettendo in luce le diverse opzioni filosofiche implicite nelle due letture e
giungendo alla conclusione seguente, che mi pare condivisibile: «[…] si può dire allora
che nel 1901 Husserl sia già idealista […] ma che la fenomenologia che egli pratica non
lo sia necessariamente. Husserl aderisce, all’epoca delle Ricerche logiche, a un idealismo
tendenziale, frutto di convinzione personale, ma per lui il legame tra questa interpretazione
personale e i risultati scientifici del metodo fenomenologico non è ancora stabilito».
6
P. es. cfr. Husserl 19132 (1901), vol. XIX/1, p. 221 (trad. it., vol. I, p. 489), dove
riguardo alla distinzione tra contenuti astratti e contenuti concreti, Husserl sostiene
espressamente che la distinzione ha «un valore ontologico», supera cioè l’ambito dei
fenomeni di coscienza, visto che «sono possibili anche oggetti che si trovano di fatto al
di là di una manifestazione accessibile a qualsiasi coscienza umana in generale. In breve
questa distinzione […] entra nel quadro di un’ontologia formale a priori». Si veda, insieme
a questi paragrafi che chiudono la Seconda ricerca, soprattutto l’intera Terza ricerca. Infine
si veda il passo della Quinta ricerca in cui Husserl, confrontandosi con Natorp, scrive di
non riuscire «affatto a scoprire questo io primitivo come necessario centro di riferimento.
Tutto ciò che io posso notare, e quindi percepire, non è altro che l’io empirico», Husserl
19132 (1901), vol. XIX/1, p. 374 (trad. it., vol. II, p. 151).
4
5
256
IL PRIMA E IL DOPO: DUE PROPOSTE INTERPRETATIVE
La particolarità delle Ricerche rispetto all’impronta trascendentale in seguito
conferita da Husserl alla sua riflessione trova conferma anche nella ricezione dell’opera all’interno del dibattito filosofico attuale: facendo ricorso
a schematismi forse abusati, ma funzionali, da un lato ci sono oggi filosofi
‘analitici’ molto interessati alle Ricerche husserliane (soprattutto quelle su
espressione e significato, sulle teorie relative alla formazione del concetto,
sulla mereologia come settore dell’ontologia formale), che essi intendono
in chiave senz’altro realistica; dall’altro lato, nella ricezione ‘continentale’
dell’opera, più che dei temi in essa trattati ci si occupa della sua compatibilità con la riflessione husserliana posteriore di impianto trascendentale,
alla quale vengono indubbiamente riservate le attenzioni maggiori e più
filosoficamente ‘vive’. Su un versante, quindi, ci sono coloro che nelle Ricerche vedono un’opera di impostazione realistica e che nel primo volume
di Idee ravvisano una svolta trascendentale del tutto biasimevole, sull’altro
coloro che nelle Ricerche vedono già i prodromi del seguente idealismo
fenomenologico trascendentale e che quindi non ammettono alcuna svolta,
quanto piuttosto una evoluzione implicita in ciò che precede.
A seconda del lato in cui ci si schiera, dovrebbe naturalmente cambiare
il modo in cui intendere il rapporto tra neokantismo e fenomenologia. Sul
primo versante, intesa la fenomenologia sotto il segno del realismo ontologico, il rapporto non può che essere di contrapposizione; sul secondo
versante, invece, se si vuole seguire l’invito di Husserl a considerare secondo una linea di continuità le fasi di sviluppo della fenomenologia – da
un’impostazione statico-descrittiva a una genetico-costitutiva in senso
trascendentale –, allora neokantismo e fenomenologia andrebbero considerate come figure di uno stesso paradigma, quello appunto della filosofia
trascendentale inaugurata da Kant. Da questo secondo punto di vista, la
ricezione delle Ricerche logiche alla luce di un ‘realismo convinto’ sarebbe
il ‘fraintendimento’ cui poter ricondurre gran parte delle vicissitudini che
formano la storia del cosiddetto ‘movimento’ fenomenologico – che, come
è noto, è storia fatta di tradimenti e traditori, «di secessioni e di diaspore» 7.
Tale fraintendimento, va ribadito, certamente trova ben più di un sostegno
nell’opera husserliana 8, come mostra il fatto che i fenomenologi realisti
Besoli - Guidetti 2000, p. 11.
Cfr. Ingarden 1975, in part. il primo capitolo. A fondamento dell’interpretazione
delle Ricerche logiche nel senso di un realismo ontologico, Ingarden indica quel passo
del capitolo dei Prolegomeni intitolato L’idea della logica pura – Husserl 19132 (1900),
p. 230 s. (trad. it., p. 235 s.) – che si è visto essere al centro della critica di Scheler nella
Logik I (cfr. supra, cap. III, § 2.4.3.): Ingarden racconta (Ingarden 1975, p. 8) che nel
1927, quando disse a Husserl che per le sue ricerche aveva letto tra l’altro il capitolo
dei Prolegomeni in questione, questi esclamò: «Oh, ma perché l’avete letto, lì mi sono
sbagliato a tal punto!». Sul fatto che alcune formulazioni di Husserl abbiano suscitato
7
8
NEOKANTISMO E FENOMENOLOGIA
257
ebbero ottimi argomenti per sostenere che nel 1913 fosse stato piuttosto
Husserl a fraintendere se stesso e quanto da lui sostenuto nelle Ricerche,
così come oggi, tra coloro che si occupano di ontologia formale, c’è chi
può ben vedere nell’opera husserliana del 1900-1901 «il più importante
contributo all’ontologia realistica (aristotelica) in epoca moderna» 9.
Personalmente ritengo che l’opera con cui si inaugura il progetto fenomenologico sia di natura tale da prestarsi, più di quanto accade normalmente, a operazioni ermeneutiche di segno contrapposto, anzitutto per la
struttura e la storia stessa del testo: si può ricordare in proposito come
alcuni di coloro che salutarono nello Husserl dei Prolegomeni il campione
dell’anti-psicologismo di impronta realistica avessero iniziato a insospettirsi
già nel leggere le sei ricerche del secondo volume, per poi vedere in Ideen I
la conferma dei loro cattivi presagi 10. Tuttavia, fatta salva la legittimità di
prendere dall’opera di un autore quello che più serve ai propri scopi (come si fa oggi soprattutto in area ‘analitica’ con Husserl e in generale con
la storia della filosofia tutta), ritengo che, intesi nel loro complesso, i due
volumi delle Ricerche non possano essere letti all’interno dell’opposizione
in senso prekantiano tra idealismo e realismo. Non credo, insomma, che
nel motto della fenomenologia alle cose stesse si possa ravvisare una svolta
realistica verso l’oggetto 11 rispetto all’idealismo trascendentale allora imperante, per poi contrapporle la successiva evoluzione di Husserl come
una ‘contro-svolta’ idealistica verso il soggetto, perché, su questa base, la
stessa fenomenologia ‘descrittiva’ delle Ricerche risulterebbe difficilmente
comprensibile. Nelle intenzioni del suo fondatore la fenomenologia si pone
infatti al di là della contrapposizione tra soggetto e oggetto, e individua
il proprio ambito tematico nella correlazione intenzionale che definisce
la struttura del vissuto di coscienza: proprio per questo non mi pare si
colga nel segno deprecando o salutando nelle Ricerche la riproposizione
di un realismo ontologico. Non è il caso in questa sede di addentrarsi
l’impressione che egli nelle Ricerche logiche avesse voluto «sfuggire allo psicologismo logico
solo tramite un platonismo logico», ma che d’altra parte già la Quinta e la Sesta ricerca
abbiano poi incrinato a fondo tale impressione, introducendo il tema della costituzione
(cfr. Ströker 1987, p. 51).
9
Smith - Mulligan 1982, p. 37.
10
Si veda quanto detto infra a proposito di H. Conrad-Martius.
11
Cfr. Gadamer 1963, p. 117. A questo proposito si veda quanto scrive Brelage 1965,
p. 114: «Anche la fenomenologia di Husserl risale ai principi, alle origini. Ma per lui
ha carattere di principio la cosa data intuitivamente nel modo della autodatità per ogni
conoscenza soltanto pensante. In questo senso, e non come programma di una filosofia
realistica, va intesa l’esigenza di tornare ‘alle cose stesse!’», sicché la teoria husserliana
della conoscenza «non è un puro intuizionismo» e «il suo ideale della conoscenza non è la
pura intuizione senza pensiero […], bensì l’intuizione come riempimento delle intenzioni
di pensiero».
258
IL PRIMA E IL DOPO: DUE PROPOSTE INTERPRETATIVE
nella intricatissima selva degli studi dedicati alla ricostruzione delle fasi
conosciute dalla filosofia husserliana e nemmeno si vuole affermare che le
innovazioni teoriche (la riduzione anzitutto) successive alla stesura delle
sei ricerche fossero già contenute nell’opera precedente; semplicemente,
già la fenomenologia descrittiva ivi dispiegata e l’assunzione fondamentale
che vi sta alla base – in forza della quale, come è stato scritto, «la decisione
su che cosa sia in ultima analisi un oggetto di una specie qualsiasi, e in che
senso esso sia, può essere presa solo tramite l’analisi delle sue maniere di
datità o manifestazione nella coscienza» 12 – mi sembrano escludere una
interpretazione della posizione husserliana in senso realistico. Le riflessioni
successive alla pubblicazione delle Ricerche e il primo libro di Idee in cui esse
trovano sistematizzazione non mi paiono allora ‘rovesciare’, bensì chiarire,
approfondire, dinamicizzare (e inevitabilmente modificare e complicare)
l’impostazione dell’opera con cui si inaugura il progetto fenomenologico:
tali riflessioni, approfondendo il problema della fondazione e giustificazione della conoscenza, non fanno che tornare «sul metodo e sui temi delle
Ricerche logiche stesse, ribadendo la necessità di portare al centro della
riflessione la questione fondativa della tradizione scientifica della filosofia
occidentale, cioè il problema del trascendentale» 13.
In questo quadro, ben diverso da quello che si prospettava ai «giovani
fenomenologi» di cui parla Stein nel passo citato in precedenza, i rapporti tra neokantismo e fenomenologia assumono un’altra forma: non più
paradigmi incommensurabili, ma figure, per quanto ben distinte, di uno
stesso paradigma, quello inaugurato dal progetto kantiano di una critica
della ragione, dall’interrogazione sulle condizioni soggettive che rendono
possibile le diverse forme in cui l’esperienza si presenta oggettivata. Il che
non significa allora voler cancellare la contrapposizione di neokantismo e
fenomenologia; significa piuttosto sostenere che il senso autentico della loro
contrapposizione può essere colto solo all’interno del paradigma iniziato da
Kant, del quale i due indirizzi portano a espressione tensioni contrapposte
e implicite già nella filosofia kantiana che vi sta alla base.
L’elemento in forza del quale neokantismo e fenomenologia possono
essere indicati come espressioni di uno stesso paradigma filosofico sta in
ciò che accomuna il modo in cui i due indirizzi intendono i loro ambiti di
indagine e il lavoro da compiere su di essi. Vincolare il lavoro filosofico ai
Fakta culturali, come fa il neocriticista, che li scompone regressivamente
risalendo alle loro condizioni di possibilità, oppure ai vissuti di coscienza, da portare a datità evidente nell’intuizione, come fa il fenomenologo,
12
13
Bernet - Kern - Marbach 1989, p. 262.
Franzini 2002, p. XVII.
NEOKANTISMO E FENOMENOLOGIA
259
sicuramente significa avere concezioni della filosofia e assunzioni di base estremamente distanti; tuttavia i due ambiti sono accomunati, su un
versante, da ciò che Husserl chiama la «meravigliosa correlazione» 14 tra
fenomeno e oggetto – ossia l’intenzionalità –, in base alla quale «tutti gli
oggetti e i riferimenti all’oggetto sono per noi ciò che sono solo in virtù
degli atti dell’intenzionare […] nei quali essi ci sono resi presenti […]
appunto come unità intenzionate» 15, e, sul versante neokantiano, da ciò
che si pone come l’inscindibile correlazione tra i diversi fatti culturali e
il piano unitario delle loro condizioni trascendentali di possibilità. Tanto
il fatto culturale quanto il vissuto intenzionale vengono infatti intesi dal
neokantiano e dal fenomenologo non come dati conclusi e definiti in una
oggettualità trascendente o sulla sua base, bensì come unità complesse,
correlativamente strutturate, frutto di successive stratificazioni di operazioni costitutive di ciò che nell’immanenza ‘appare’ come oggettualità
trascendente. Il correlativismo – intenzionale l’uno, trascendentale l’altro – è
allora la posizione fondamentale che permette di ricondurre neokantismo
e fenomenologia all’interno del paradigma kantiano: la svolta copernicana
insegna che la riflessione non deve tematizzare direttamente l’oggetto, ma
il modo in cui esso si dà nella nostra conoscenza, all’interno di un quadro
imprescindibilmente correlativistico. Una posizione audacemente sviluppata
dal neokantismo marburghese – nel quale la correlazione tra conoscenza e
oggetto di conoscenza diventa il primum rispetto ai correlati stessi, sicché
soggetto e oggetto si pongono come gli esiti dei processi complementari e inversi di soggettivazione e oggettivazione – e che informa in modo
essenziale i termini in cui la questione viene posta nella fenomenologia,
nella misura in cui si pone il compito di comprendere «come il mondo
oggettivo si costituisca nella coscienza con il suo indice di oggettività e
trascendenza» 16, pur con l’istanza di garantire la diversità e l’irriducibilità
dei momenti della correlazione. Facendo riferimento alla metodologia e
ai contenuti offerti dalla filosofia kantiana, nonché (se non soprattutto) ai
problemi che essa lascia insoluti, è allora possibile cogliere tanto la parentela
che lega neokantismo e fenomenologia, quanto gli elementi di innovazione
che i due indirizzi introducono e in forza dei quali essi si specificano e si
contrappongono.
Una significativa convergenza si registra nelle critiche mosse alla filosofia
di Kant e a certe sue interpretazioni. Lo si vede particolarmente nell’accusa
di sensismo in relazione alla teoria kantiana dell’affezione – in base alla
quale si chiama «sensibilità la recettività del nostro animo nel ricevere le
14
15
16
Husserl 1907, p. 12 (trad. it., p. 51).
Husserl 19132 (1901), vol. XIX/1, p. 48 (trad. it., vol. I, p. 308).
Brelage 1965, p. 116.
260
IL PRIMA E IL DOPO: DUE PROPOSTE INTERPRETATIVE
rappresentazioni, in quanto ne venga in qualche modo colpito [afficirt]» 17 –,
nonché nella denuncia dell’equivoco soggettivistico e psicologistico che
si annida in interpretazioni sostanziali delle forme a priori, come quella
offerta da Lange. In relazione al primo punto, come si è già visto, Cohen
scrive nella Logik der reinen Erkenntnis della «debolezza per il cui tramite
Kant è unito al suo secolo inglese», in base alla quale egli condividerebbe
alcune premesse «dell’empirismo sensistico e scientifico» 18, mentre Husserl
sostiene da parte sua che il «traviamento naturalistico-sensistico dell’intera
psicologia moderna fondata sull’esperienza interna […] ha arrestato la
filosofia trascendentale kantiana, la filosofia della rivoluzione copernicana,
dal corso della sua piena effettuazione» 19. Quanto all’interpretazione in
senso psico-fisiologico dell’a priori, se Husserl nei Prolegomeni inserisce
Lange nelle file degli psicologisti, Cohen molti anni prima aveva già chiarito
come la posizione dell’autore della Storia del materialismo segnasse una
ricaduta nel dogmatismo («se questi principi pretendono di valere a priori
all’interno dell’esperienza presupposta, non possono essere ricavati da un
mondo delle cose!» 20). Più in generale su entrambe le sponde si ha ben
chiaro che il grande problema lasciato aperto da Kant sta, con le parole di
Natorp, in quel «dualismo dei fattori conoscitivi» (intuizione della sensibilità ricettiva e concetto dell’intelletto spontaneo) che nella versione datane
da Kant «è semplicemente impossibile, se si deve prendere seriamente il
pensiero centrale del metodo trascendentale» 21.
Tenendo presente questa convergenza di neokantismo e fenomenologia nell’individuazione dei nuclei problematici all’interno della riflessione
kantiana, si può allora cogliere il senso generalissimo della loro contrapposizione, o meglio, della contrapposizione fra le strade intraprese dai due
indirizzi per superare le difficoltà kantiane e liberare la riflessione da ogni
possibile recrudescenza di modalità dogmatiche di pensiero. Richiamando
quanto Husserl scrive a Natorp in una celebre lettera già citata 22, si può
dire che il neocriticismo marburghese procede «dall’alto» del fatto della
scienza e ricompone il dualismo kantiano di estetica e logica col ricondurre
la prima nell’ambito della seconda, mentre la fenomenologia, in direzione opposta, sceglie di partire «dal basso» del vissuto di coscienza, nella
convinzione che il dualismo kantiano dei fattori conoscitivi possa essere
superato riportando la logica alle sue origini intuitive. Rispetto a Kant, il
17
18
19
20
21
22
Kant 17872 (1781), KGS III, p. 75 (trad. it., p. 125).
Cohen 19142 (1902), p. 27.
Husserl 1929, p. 262 (trad. it., p. 314).
Cohen 19102 (1877), p. 35 (trad. it., p. 40).
Natorp 1912 (b), p. 201.
Husserl a Natorp, 18 marzo 1909, in Husserl 1994, p. 110 s.
NEOKANTISMO E FENOMENOLOGIA
261
quale afferma che l’intelletto non può intuire nulla, né i sensi nulla pensare,
il tentativo marburghese è in un certo senso quello di far intuire l’intelletto 23, mentre la sfida accettata dalla fenomenologia è cercare di mostrare
come i sensi possano pensare. Entrambe le filosofie, dunque, distruggono
«l’equilibrio stabilito da Kant tra intuizione e pensiero» 24, connettendo
in senso operativo i centri nevralgici del paradigma kantiano: intuizioni e
concetti, sensibilità e intelletto in entrambe le prospettive vanno intesi come
titoli generali sotto cui confluiscono i diversi momenti in cui si articola la
costituzione dell’oggettività, sicché la ricomposizione di estetica e logica
trascendentali si pone come naturale conseguenza di questa operazione
che priva i «tronchi dell’umana conoscenza» delle sue radici sostanziali,
sciogliendole in processi costitutivi.
Si potrebbe pensare, tuttavia, che questa riconduzione di neokantismo
e fenomenologia all’interno del paradigma kantiano riesca felicemente con
la fenomenologia husserliana, mentre lo stesso invece non accada e non
possa accadere con la fenomenologia à la Scheler, nel quale si è sempre
ravvisato uno dei principali critici da parte realistica della ‘svolta’ che monacensi e gottinghesi deprecarono in Ideen I; Edith Stein racconta infatti
che «Scheler naturalmente era aspramente contrario alla svolta idealistica
e si esprimeva quasi con tono di superiorità» 25 nei confronti di Husserl.
Quanto ai rapporti via via più conflittuali tra i due, Spiegelberg scrive che
«la tensione era destinata a salire nel momento in cui Scheler, il quale aveva
lasciato l’atmosfera neokantiana di Jena, realizzò che Husserl, sempre più
attratto dal trascendentalismo kantiano, stava andando nella direzione
opposta» 26.
23
Non certo nel senso in cui Kant parla dell’intuizione intellettuale, atto che, come
è noto, non è compatibile con il criticismo. In proposito si veda quanto Ferrari 2003,
p. 67, scrive in riferimento a Cohen e alla sua logica dell’origine, che notoriamente «comincia con il pensiero»: «[…] ciò non comporta affatto […] che Cohen si affidi ad una
taumaturgica ‘creazione’ della realtà o a una sorta di attualismo fichtiano-gentiliano»,
poiché l’elevazione dell’intuizione spazio-temporale a categoria dell’intelletto va pur
sempre pensata come finalizzata alla fondazione del pensiero scientifico, in un quadro
che è sempre trascendentale e quindi mai immediatamente ontologico.
24
Holzhey 2001, p. 9.
25
Stein 19993, p. 236. Edith Stein ha contribuito non poco a far sì che l’immagine di
Scheler come filosofo delle essenze radicalmente avverso all’idealismo trascendentale si
depositasse e cristallizzasse nella ricezione del pensiero del filosofo; a questo proposito
si veda Stein 1932, p. 11, dove l’autrice scrive che non solo Scheler ha respinto l’idealismo trascendentale, «ma non ha nemmeno mostrato alcuna comprensione per l’intera
problematica della costituzione». Che le cose non stiano affatto così, che la valutazione
della Stein abbia mancato il bersaglio – e che proprio a partire dalla considerazione delle
opere giovanili sia possibile vederlo – è la tesi di questo studio. Sulla inadeguatezza della
valutazione steiniana di Scheler si veda Sepp 1998, p. 725 s.
26
Spiegelberg 1960, vol. I, p. 231.
ANTROPOLOGIA E METAFISICA
279
3.3. Il prima nel dopo
Per l’ultimo Scheler la metafisica si configura quindi come meta-antropologia, il cui nucleo propulsivo sta nella nozione di Mensch come geistiges
Lebewesen. Nel quadro concettuale dispiegato in questa fase tarda della
riflessione scheleriana cercherò ora di mostrare – a conclusione della presente indagine – la linea di continuità con i principali nodi teorici posti da
Scheler nella sua opera giovanile. Accettando il paradigma trascendentale,
si è visto come il giovane Scheler ne individui tuttavia il punto debole nello
iato che separa il piano trascendentale dell’esperienza possibile da quello
dell’esperienza reale. Se alla domanda trascendentale – che cosa rende
possibile l’oggettività conoscitiva, etica ed estetica? – Kant risponde con
una critica della ragione, tale risposta secondo Scheler è inadeguata: a
causa della concezione unilateralmente razionalistica, statica e finita dell’a
priori, la soluzione kantiana non riesce infatti a far fronte alla molteplicità
qualitativa e al divenire storico delle forme oggettivate di esperienza. Si
tratta quindi di correggere Kant sotto questo aspetto, anzitutto rifiutando
ciò che egli dà per scontato, ossia il concetto di «ragione». Un tentativo
in questo senso è stato compiuto dalla Scuola di Marburgo: alla domanda
che chiede che cosa rende possibile l’oggettività, i marburghesi rispondono infatti non con una critica della ragione, ma con una critica della
ragione oggettivata nella scienza. In questo modo ci si congeda dal mito
delle facoltà dell’anima, dal sostanzialismo si passa al funzionalismo, come
richiede il ‘mutato modo di pensare’ introdotto da Kant, e, per questa via,
l’indagine trascendentale viene vincolata a un fatto storico effettivamente
realizzatosi, il fatto della scienza matematica della natura. Il prezzo da
pagare, d’altro lato, è la perdita della capacità di spiegare la differenza
qualitativa dei fatti culturali, delle diverse forme di oggettività, tutte appiattite sul modello sicuro dell’oggettività scientifica, un’oggettività per di
più estirpata dal suo divenire storico e colta in una sua limitata espressione
280
IL PRIMA E IL DOPO: DUE PROPOSTE INTERPRETATIVE
(il newtonianesimo), almeno dal Cohen preso di mira da Scheler nel suo
scritto di abilitazione.
Nella sua opera giovanile Scheler tenta quindi a sua volta di andare con
Kant oltre Kant. Nei Beiträge kantianamente si chiede: «Che cosa rende
possibili i diversi modi dell’oggettività (oggettività conoscitiva e oggettività
etico-assiologica)»? La risposta la può dare una critica assiologica della
coscienza che, partendo dal fatto etico e da quello conoscitivo, risalga
alle loro diverse condizioni di possibilità in una «coscienza normale»
che va mostrata già attiva nella «sintesi vivente» della coscienza empirica. La psicologia trascendentale è il cuore di questa critica assiologica
della coscienza, perché a essa spetta il compito di discriminare nella vita
immediata di coscienza ciò che è fatto psicologico ed è riducibile alla
coscienza empirica da ciò che è organo assiologico e rimanda invece al
Normalbewußtsein. In seguito, rispetto alla domanda posta nei Beiträge
limitatamente a conoscenza e moralità, nello scritto sul metodo Scheler
amplia la domanda di partenza dell’indagine filosofica, chiedendosi: che
cosa rende possibile la Arbeitswelt intesa come l’insieme delle connessioni
generalmente riconosciute tra le opere della cultura umana? La risposta va data, per Scheler, elaborando una metafisica critica intesa come
filosofia dello spirito. Lo spirito è tuttavia un concetto problematico,
un’incognita del tutto indeterminata, e per questo la metafisica può essere
soltanto critica e non dogmatica. Questa metafisica richiede anzitutto una
critica noologica non più della coscienza, ma di una nozione più ampia
e complessa, quella di geistige Lebensform o Persönlichkeit: il metodo
noologico, in quanto metodo trascendentale-regressivo, dovrà partire dal
fatto complesso della Arbeitswelt e risalire alle condizioni a priori che la
hanno resa possibile realizzandosi concretamente in una forma spirituale
di vita; ma il metodo noologico non è solo trascendentale-regressivo, bensì,
al contempo, anche trascendentale-psicologico; esso è quindi attrezzato
per passare dalla critica noologica della geistige Lebensform alla metafisica
critica come filosofia dello spirito e per cogliere nella forma spirituale di
vita quelle determinazioni che possono essere attribuite all’incognita del
puro spirito. Se il punto debole della filosofia trascendentale è lo iato tra
esperienza possibile ed esperienza reale, il giovane Scheler assegna alla
psicologia trascendentale il compito di colmare questo iato. Essa infatti è la
disciplina che consente di cogliere il piano trascendentale delle condizioni
di possibilità a partire da unità processuali reali, viventi e storicamente
determinate come pretendono di essere la lebendige Synthese dei Beiträge
e la geistige Lebensform dello scritto sul metodo. Solo in tal modo il piano
trascendentale delle condizioni di possibilità potrà essere colto non in un
soggetto disincarnato, a-temporale e poco differenziato al suo interno
come la kantiana Vernunft, ma in un polo soggettivo unitario e complesso
ANTROPOLOGIA E METAFISICA
281
al contempo, che i Beiträge configurano come «coscienza normale» e lo
scritto sul metodo come «spirito».
Se si raffronta il quadro concettuale giovanile appena riassunto con la
riflessione antropologico-metafisica svolta da Scheler negli ultimi anni di
vita, le analogie balzano subito agli occhi: anzitutto la nozione di Mensch
vista in Die Stellung si pone in stretta linea di continuità con le nozioni
giovanili di lebendige Synthese e ancor più di geistige Lebensform; in secondo luogo, e di conseguenza, il ruolo e la posizione che l’ultimo Scheler
assegna all’antropologia filosofica sono lo stesso ruolo e la stessa posizione
che il primo Scheler assegna a quella che ho voluto definire psicologia
trascendentale. Per quanto riguarda il primo punto, nella nozione tarda di
Mensch mi sembrano infatti confluire quelle più parziali e astratte, nonché
soltanto abbozzate, di sintesi vivente e di forma spirituale di vita, mentre,
in relazione al secondo punto, l’antropologia filosofica presenta una forte
analogia ‘topologica’ con la psicologia trascendentale tentata nelle opere
giovanili. In Philosophische Weltanschauung, infatti, Scheler colloca l’antropologia filosofica in quanto meta-antropologia nel cuore della metafisica
e la concepisce come la disciplina che fa da trampolino dalla metafisica
dei problemi-limite delle scienze alla metafisica dell’assoluto: esattamente
la stessa posizione occupata dalla psicologia trascendentale nelle opere
giovanili, come è evidente soprattutto nello scritto di abilitazione sul metodo, laddove la psicologia trascendentale è la disciplina che prelude alla
metafisica critica, poiché consente di individuare nella geistige Lebensform
come correlato della Arbeitswelt ciò che può essere attribuito all’incognita
del Geist.
L’ultimo Scheler, si potrebbe dire, compie l’opera iniziata in gioventù
per colmare la distanza tra piano dell’esperienza possibile e piano dell’esperienza reale: traduce quindi la critica kantiana della ragione in una
critica meta-antropologica dell’uomo, non più di qualcosa che resta comunque solo accennato e quindi molto vago come la lebendige Synthese
o la geistige Lebensform delle opere giovanili, ma dell’uomo anzitutto
come essere vivente. L’antropologia filosofica si sostituisce quindi alla
psicologia trascendentale giovanile, non presupponendo più come dato
di partenza e ambito d’indagine un Bewußtsein, ma arrivando al Bewußtsein e al Selbstbewußtsein che l’uomo ha di sé in quanto portatore vitale
del Geist anzitutto a partire da un’analisi antropologico-biologica di quel
particolare essere vivente che è appunto l’uomo. Da antropologia, questa
disciplina filosofica si fa metantropologia, nel momento in cui considera
l’uomo nel suo essere inoggettivabile centro di molteplici atti e condizione
di possibilità dell’esperienza oggettiva. La considerazione meta-antropologica dell’uomo diventa quindi metafisica dell’assoluto, poiché consente
di attribuire per analogia al fondamento ultimo di ogni cosa, all’«essere
282
IL PRIMA E IL DOPO: DUE PROPOSTE INTERPRETATIVE
originario» [dem Urseienden] 96, quegli attributi di spirito e impulso che
si compenetrano in modo peculiare nel microcosmo-uomo come forma
spirituale di vita. Il riferimento all’opera giovanile e al confronto con Kant
e con il neokantismo consente in tal modo di comprendere come l’aspetto
forse più discusso della antropologia filosofica scheleriana, ossia il nesso
costitutivo che la lega alla metafisica, vada inteso anche, se non anzitutto,
alla luce del problema della giustificazione e fondazione dei diversi modi
dell’oggettività, nel quadro di una metafisica della quale si è fin troppo
trascurato di sottolineare la connotazione «critica» 97.
Ivi, p. 59 (trad. it., p. 134).
Cfr. Cusinato 1999, pp. 120-122, e soprattutto, sul nesso tra meta-antropologia
scheleriana e teoria della conoscenza, in una prospettiva che tiene conto della produzione
giovanile, Raulet 2002.
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