Sepe D., Onorati A., Folino F., Abblasio C. Associazione Il Filo dalla Torre AUTISMO E CRESCITA FAMILIARE ARMANDO EDITORE ASSOCIAZIONE IL FILO DALLA TORRE SEPE, Dario - ONORATI, Adriana - FOLINO, Fortunata - ABBLASIO, Corinna Autismo e crescita familiare ; Roma : Armando, © 2014 160 p. ; 21 cm. (Medico-psico-pedagogica) ISBN: 978-88-6677-594-2 1. Approccio PEIAD 2. Autismo e disabilità 3. Famiglie con figlio autistico CDD 300 © 2014 Armando Armando s.r.l. Viale Trastevere, 236 - 00153 Roma Direzione - Ufficio Stampa 06/5894525 Direzione editoriale e Redazione 06/5817245 Amministrazione - Ufficio Abbonamenti 06/5806420 Fax 06/5818564 Internet: http://www.armando.it E-Mail: [email protected] ; [email protected] 03-00-312 I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), in lingua italiana, sono riservati per tutti i Paesi. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, SNS e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI il 18 dicembre 2000. Le riproduzioni a uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume/fascicolo, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Via delle Erbe, n. 2, 20121 Milano, telefax 02 809506, e-mail [email protected] Sommario Capitolo 1: Famiglia, autismo e disabilità: una visione storica 1.1 Il genitore colpevolizzato: la “madre frigorifero” e i modelli psicoanalitici 1.2 La “famiglia disabile”: dall’orientamento “patologizzante” allo studio dei sistemi familiari 1.3 Il passaggio dal genitore colpevolizzato al genitore esperto: la coppia genitoriale come “corresponsabile” della terapia 1.4 Il modello di Psicologia della Salute: dal limite alla risorsa Capitolo 2: La nascita di un figlio autistico: il percorso evolutivo della famiglia 2.1 I momenti critici 2.2 Il processo di elaborazione del lutto 2.3 L’idealizzazione degli altri figli 2.4 I principali fattori di stress per la famiglia 2.5 Il processo di crisi, l’adattamento e le risorse facilitanti 2.5.1 L’attribuzione di significato agli eventi e la comprensione del problema 2.6 Il sostegno sociale 2.6.1 Il significato e la funzione del supporto sociale 2.6.2 Il supporto sociale nelle famiglie con un figlio autistico 7 7 12 18 19 27 27 29 32 34 37 41 46 46 50 Capitolo 3: La visione teorica del PEIAD 3.1 Il percorso di consapevolezza delle famiglie 3.2 L’autismo come opportunità di crescita per la famiglia 3.2.1 L’ascolto emotivo 3.2.2 L’armonizzazione dei sistemi 55 55 58 61 63 Capitolo 4: Il lavoro con la famiglia nell’approccio PEIAD 4.1 Il processo di Valutazione Familiare 4.2 Le Consulenze Familiari 4.2.1 Monitoraggio e lavoro di crescita nelle relazioni 4.2.2 Obiettivi a lungo termine ed impegno operativo 4.3 Il Gruppo di Crescita Familiare 69 69 76 78 82 83 Capitolo 5: Indagine esplorativa sulla qualità della vita di famiglie con un figlio autistico 5.1 Introduzione 5.2 Metodologia e campione 5.3 I risultati della ricerca 5.3.1 Le interviste ai genitori 87 87 87 92 111 Bibliografia 141 Nota sugli Autori 157 Capitolo 1 Famiglia, autismo e disabilità: una visione storica 1.1 Il genitore colpevolizzato: la “madre frigorifero” e i modelli psicoanalitici Nel momento in cui Kanner definisce l’autismo, nel 1943, iniziano a nascere ipotesi etiologiche, prettamente di natura psicologica, relative a questo disturbo: diversi studi evidenziano il ruolo delle relazioni precoci tra il bambino e le figure di riferimento, con particolare attenzione alla madre, come causa determinante dell’insorgenza dell’autismo. Già Kanner, dopo che Sullivan, nel 1931, sottolinea la natura interpersonale dei processi schizofrenici, descrive un determinato “profilo psicologico”, che sembra caratterizzare i genitori dei bambini con autismo. Fromm-Reichmann (1959) conia il termine di “madre schizofrenogena”, attribuendo, con questa etichetta, alle madri di bambini autistici, caratteristiche quali: aggressività, intrusività e dominanza eccessive, oltre che un profondo sentimento di insicurezza. Szurek (1956a) utilizza il termine “madre frigorifero” e i vari autori forniscono un’attenzione sempre maggiore alle caratteristiche e agli atteggiamenti parentali, oltre che alle dinamiche di interazione familiare, che vengono ipotizzate da molti, come fattori fondamentali e primari delle schizofrenie in generale e dell’autismo in particolare. Si arriva a ritenere la sindrome autistica come diretta conseguenza dei dinamismi familiari, che scaricano sul bambino i 7 propri potenziali patogeni e lo trasformano nell’oggetto privilegiato di spostamento delle fantasie e aspirazioni dei membri della famiglia (Foglio Bonda, 1987). Il bambino, non essendo in grado né di soddisfare né di allontanare da sé questi contenuti, ne subisce il peso, fino al punto da causare, in lui, profondi vissuti di inadeguatezza, incapacità, fallimento, paura dell’abbandono, tali da produrre condotte di rifiuto, estraneità, isolamento (Ibidem). Dunque, a partire dalle affermazioni di Kanner (1943), che riscontra nei genitori di bambini autistici da lui studiati un atteggiamento di “freddezza”, si sviluppa un’estesa letteratura sul tema del “genitore frigidaire” (Szurek, 1956b), caratterizzato da indifferenza, distacco, insensibilità, serietà, rigidità, austerità, incapacità di comunicare in maniera aperta e sincera, di sorridere e giocare con il proprio bambino (Foglio Bonda, 1987). Secondo l’autore, questi genitori, a causa delle proprie caratteristiche personali, non sono in grado di rapportarsi alla realtà del figlio, il quale viene, inconsapevolmente, utilizzato come bersaglio sul quale proiettare i propri conflitti, bisogni, desideri (Ibidem). Bettelheim è tra gli autori che maggiormente attribuiscono all’inadeguata interazione precoce madre-bambino un valore etiologico primario per la determinazione dell’autismo infantile. Nella sua opera La Fortezza Vuota (1967), Bettelheim afferma: Credo che la causa iniziale del ritiro autistico sia l’interpretazione corretta da parte del bambino dell’attitudine negativa, con la quale gli si accostano le figure più significative del suo ambiente (Bettelheim, 1967, p. 47, tr. it.). Bowen (1960) identifica, fra i genitori di bambini con autismo, una situazione di conflitto, che sistematicamente viene riversata sul figlio, il quale, ancora dipendente e immaturo, è utilizzato dal genitore più debole per affermare la propria autostima. Nella misura in cui il bambino percepisce che le proprie carenze e i propri limiti sono funzionali ad un miglior adattamento dei genitori, può inconsapevolmente decidere di continuare a comportarsi in modo funziona8 le alle loro esigenze, limitando il proprio sviluppo, la propria affermazione ed autonomia. Altri studiosi, osservando l’autismo da una prospettiva behaviorista, identificano, tra i fattori etiologici primari della sindrome, una situazione di stimolazione gravemente inadeguata che, da un lato, non sostiene l’esplorazione, le attività di autonomia, la capacità di critica e l’indipendenza del bambino, e dall’altro, favorisce la messa in atto di comportamenti remissivi, passivi, rinunciatari e difensivi (Foglio Bonda, 1987). Ferster (1961) e Leff (1968) affermano che i deficit comportamentali che caratterizzano il bambino con autismo sono conseguenti all’incapacità dei genitori di rinforzare, adeguatamente, le risposte di socializzazione e le altre condotte del bambino. Questa situazione impedisce al bambino di sostituire i rinforzatori biologici primitivi come l’alimento, gli abbracci, le carezze, ecc., con rinforzatori sociali condizionati, che sono fondamentali per l’acquisizione e lo sviluppo di molte condotte apprese. La teoria del “doppio legame” proposta dal gruppo di ricerca di Palo Alto (Bateson et al., 1956 e 1953; Watzlawick, Beavin e Jackson, 1967) per descrivere i modelli relazionali presenti nelle famiglie dei soggetti schizofrenici viene ripresa ed applicata ai casi di bambini con autismo. Il “doppio legame” (double bind) è una modalità di comunicazione imposta da un componente familiare, come ad esempio la madre, a cui l’altro non può opporsi. Colui che parla, comunica con un doppio messaggio contraddittorio nel suo contenuto, ma espresso a diversi livelli: ad esempio, un messaggio verbale associato ad un messaggio analogico (mimica, tono della voce, ecc.) di significato opposto, per cui uno nega necessariamente l’altro. Il bambino si trova, allora, in una situazione difficile, dalla quale non può liberarsi, per l’importanza vitale del mantenimento del rapporto, ma, allo stesso tempo, nell’impossibilità di dare una risposta adeguata, a causa dell’incongruenza dei messaggi. Marcelli (1999) afferma che la risposta “folle” non è che il tentativo disperato di soddisfare questo doppio legame. Il grande successo raggiunto, negli anni ’40-’50, dalle ipotesi 9 psicosociali e ambientali relative all’etiologia dell’autismo è dovuto, secondo Eisenberg (1971), almeno in parte, al fatto che, in quel periodo storico, esiste nell’ambito psicologico e psichiatrico una spiccata tendenza a privilegiare le ipotesi psicosociali, per spiegare l’origine di quasi tutti i disturbi comportamentali. Ad oggi, gli studiosi ritengono che lo stato attuale di conoscenze non consenta più di considerare seriamente l’ipotesi secondo cui fattori di questo tipo possono essere la causa primaria dell’autismo. Inoltre, ci si è resi progressivamente conto che le teorie relative ai dinamismi etiologici interazionali dell’autismo infantile sono condizionate da notevoli carenze metodologiche. Una delle principali critiche, avanzate nei confronti di tale ipotesi, riguarda la constatazione che a suo sostegno sono sempre utilizzate osservazioni ed analisi di interazioni familiari, realizzate dopo la manifestazione del disturbo nel bambino. Da ciò deriva l’impossibilità di essere certi che quanto viene osservato, in queste indagini, costituisca una causa o una conseguenza della patologia autistica o, persino, della “perturbazione emotiva iatrogena”, causata nei genitori dalla responsabilizzazione (e anche “colpevolizzazione”) che si sentono addossare da alcuni operatori (Shopler, 1971). Le altre critiche, che vengono mosse nei confronti dell’ipotesi interazionale dell’autismo, riguardano la difficoltà di comprendere in che modo anomalie di condotte parentali possano causare tanto precocemente e in maniera così decisa danni talmente gravi e pervasivi nello sviluppo di alcuni soggetti; considerando anche che, spesso, si tratta di anomalie relativamente poco gravi e, di frequente, presenti anche in genitori che non hanno figli con autismo. Viene dunque ipotizzato che le condotte parentali “devianti”, se presenti, siano più che la causa dell’autismo, una risposta alle anomalie comportamentali del figlio: poiché i bambini presentano disturbi nell’interazione, spesso anche nelle fasi precocissime dello sviluppo, i genitori possono percepire l’atteggiamento del figlio, quasi come un rifiuto nei loro confronti. La mancanza di contatto oculare, l’assenza di comportamenti anticipatori, il dialogo tonico alterato, l’indifferenza alla voce o ai ri10 chiami, ecc. sono tutte condotte che creano frustrazione nella madre, non offrendole nessuna delle gratificazioni attese dalla maternità. Il non riuscire a creare un rapporto con il bambino può impedire alla madre di rinunciare al figlio “fantasticato”. A tutto questo possono aggiungersi i sensi di colpa presenti e, a volte, rinforzati dalle affermazioni del medico, dello psicologo o degli operatori. Tenendo in considerazione questo quadro, è semplice comprendere la ragione di molti comportamenti inadeguati dei genitori. Le teorie che sostengono il ruolo patogeno primario della famiglia nei confronti dello sviluppo della sindrome autistica nel bambino hanno forti ripercussioni nelle pratiche terapeutiche adottate. Infatti, nei suoi primi contributi, Bettelheim sostiene la necessità di allontanare, completamente, il bambino autistico dall’ambiente familiare, per collocarlo in un ambito “totalmente terapeutico”, che favorisca la sua crescita, annullando i condizionamenti deleteri provenienti dalla famiglia. La famiglia viene, dunque, totalmente esclusa dalla vita e dalla terapia del bambino. A partire dagli anni ’60, s’inizia a comprendere come le variabili in gioco nell’insorgenza del disturbo siano numerose e che l’efficacia del trattamento è direttamente correlata con il grado e la qualità del coinvolgimento dei genitori (Foglio Bonda, 1987). I genitori, inizialmente accusati di essere la causa del problema, oggi sono valutati fattori indispensabili per assicurare l’efficacia di qualsiasi trattamento (Ekstein, 1980). E questo perché: • viene riconosciuta l’importanza che hanno nel determinare il cambiamento, i rinforzi, i modelli di comunicazione e di interazione presenti all’interno del sistema familiare; • si rileva come risultino più efficaci e duraturi gli apprendimenti che il bambino acquisisce nel suo ambiente familiare e sociale “naturale”, rispetto a quelli che avvengono nell’ambito “artificiale” della terapia; • i genitori possono sostenere lo sviluppo di determinate capacità del bambino, nei momenti precisi in cui la loro attuazione è necessaria o utile per soddisfare reali bisogni o esigenze del 11 soggetto, molto più di quanto non sia possibile agli altri operatori; • in generale, se i genitori hanno ricevuto un adeguato sostegno nell’elaborare i propri conflitti, paure, sensi di colpa, sono più motivati nell’insistere e perseverare, con pazienza, nell’attuazione dei programmi di recupero riguardanti il figlio, di quanto non lo siano, di per sé, gli altri operatori. Inoltre, progressivamente è emersa la consapevolezza che, oltre alla partecipazione attiva dei genitori, sull’intervento incidono anche gli atteggiamenti e i comportamenti che i fratelli, i nonni, gli altri familiari, gli insegnanti e i compagni, sviluppano nei confronti del bambino con autismo. Il programma terapeutico dovrà allora prevedere momenti di analisi e pianificazione delle forme più opportune, attraverso le quali promuovere in tutte queste persone un’adeguata comprensione del problema e dei comportamenti più utili, per favorire lo sviluppo delle abilità presenti nel bambino. Secondo Foglio Bonda (1987): Sono tre i presupposti essenziali che rendono concretamente possibile ed efficace l’azione terapeutica dei genitori: la loro reale disponibilità; il loro sviluppo personale e come coppia; e la loro formazione teorica e operativa specificamente riferita al tema dell’autismo (Foglio Bonda, 1987, p. 138). 1.2 La “famiglia disabile”: dall’orientamento “patologizzante” allo studio dei sistemi familiari Con lo sviluppo delle teorie che ipotizzano un’origine multifattoriale della sindrome, con particolare attenzione alle cause biologiche, lo studio delle famiglie di bambini autistici, si è andato ad inserire in un filone di ricerca più ampio, inerente l’analisi dei nuclei familiari, caratterizzati dalla presenza di un membro disabile in generale. L’ottica si è dunque spostata dall’analisi delle relazioni e delle disfunzioni presenti nel sistema familiare, intese come cause 12 della reazione autistica, allo studio delle stesse interazioni ed eventuali disfunzioni, considerate come reazioni dei familiari al disturbo del bambino. L’interesse scientifico per le dinamiche delle famiglie in cui è presente un figlio disabile è relativamente recente e circoscritto agli ultimi cinquant’anni. Risalgono, infatti, alla fine degli anni Cinquanta le prime opere scientificamente valide, che affrontano l’argomento della famiglia, in relazione alla disabilità (Dall’Aglio, 1994). Il primo approccio allo studio delle famiglie dei bambini con disabilità si può considerare “patologico”: esso può essere sintetizzato nella frase “l’handicap di un figlio rappresenta l’handicap della famiglia”, ipotesi secondo la quale un bambino con disabilità costituisce un fattore di stress ineliminabile, che incide negativamente sul benessere generale e sul funzionamento della famiglia. Secondo questi studi, la disabilità rappresenta una variabile, il cui peso non può essere modificato e dalla quale la famiglia risulta appesantita e penalizzata. La variabilità, nel danno alle famiglie, è considerata scarsa, perché i fattori omogenei sono considerati prevalenti rispetto alle possibili diversità. Prevale il concetto della uniformità delle famiglie con soggetti disabili, in base al quale viene data scarsa importanza alla variabilità delle patologie menomanti, alle diversità delle strutture familiari e alle stesse modificazioni che, di certo, si verificano con lo scorrere del tempo, in ogni sistema. Al contrario, considerare tale variabilità è di fondamentale importanza perché consente di non compiere eccessive generalizzazioni e astrazioni e di modulare una conoscenza in termini di più specifica aderenza ai casi concreti (Dall’Aglio, 1994). Bernard Farber è uno dei primi e più significativi studiosi nell’avvio di uno studio sistematico sulle famiglie in cui è presente un soggetto disabile. Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, Farber pubblica tre monografie (Farber, 1959; 1960; Farber e Jennè, 1963), prodotto di un ampio lavoro di ricerca in cui l’autore si pone i seguenti obiettivi: 13 • identificare le condizioni che influenzano gli effetti di un bambino “gravemente ritardato” sull’integrazione familiare; • analizzare quali sequenze di azioni e di strategie consentono di mantenere nel tempo l’integrità familiare; • studiare gli effetti della presenza del bambino disabile e degli stili comunicativi dei genitori sulla crescita dei fratelli. Secondo quest’autore, la nascita di un bambino con disabilità induce un blocco nel normale processo evolutivo della famiglia; tale arresto può minare l’integrazione coniugale tra i genitori, intesa come uniformità degli obiettivi e del sistema dei valori domestici, condivisione dei significati e dei ruoli parentali (Zanobini, Manetti e Usai, 2002). Oggi, il presupposto su cui si basano tali studi, i problemi metodologici presenti nel modello di ricerca utilizzato, oltre che la presenza di una certa tendenza a leggere i dati facendosi influenzare dal pregiudizio che la disabilità porti nelle famiglie sempre e comunque uno stato di sofferenza, fanno apparire questi studi come superati e inattuali, nonostante permanga il loro valore come spunto di tante ricerche successive (Zanobini, Manetti e Usai, 2002). Esiste, poi, un filone di studi che offre una lettura psicodinamica della relazione che si instaura fra il bambino disabile e la sua famiglia (con particolare riferimento alla diade madre-bambino) ed esplora le radici stesse del deficit, attraverso la lettura del significato che la debolezza mentale assume per i genitori stessi. Maud Mannoni nel 1964, con il suo libro L’enfant arriéré et sa merè, inaugura questo nuovo approccio allo studio del soggetto disabile e della sua famiglia. L’obiettivo, da cui muove il lavoro di questa autrice, è quello di offrire uno spazio ai risvolti psicologici dell’insufficienza mentale, opponendosi alla tendenza di offrire solo una visione medica del problema, che spinge ad identificare la persona con il deficit, e in base alla quale l’accanimento diagnostico e terapeutico di medici e genitori non lascia spazio ad uno sviluppo autonomo dell’individuo. Maud Mannoni desidera ascoltare il soggetto, per cogliere, attraverso il discorso suo e dei suoi genitori, il significato che per l’uno 14 o per gli altri ha assunto la debolezza mentale (Mannoni, 1964, pp. 151, tr. it.). Il merito di tale posizione è quello di aver contribuito ad una relativizzazione del concetto di ritardo mentale, inserendosi in quel filone di ricerca, che porta progressivamente alla consapevolezza della necessità di una integrazione fra la valutazione del quoziente intellettivo e informazioni relative al livello di comportamento adattivo del soggetto in relazione alle richieste ambientali (American Psychiatric Association, 1995; Ferri e Orsini, 2000). Tuttavia, gli studi della Mannoni offrono un’immagine della famiglia con disabilità come necessariamente patologica e conducono ad una lettura univoca dei percorsi familiari, dove la madre è portata a costruire con il figlio una relazione anomala, dovuta alla ferita narcisistica, causata dalla nascita di un bambino con disabilità. Secondo l’autrice, da un lato, l’angoscia e la depressione sono i vissuti emotivi che caratterizzano sempre le madri, e dall’altro il modo in cui le madri, solo apparentemente, colmano il vuoto rappresentato dalla nascita di un figlio disabile condiziona pesantemente il destino dei figli, per i quali diventa difficile riuscire a parlare di sé (Zanobini, Manetti e Usai, 2002). Esiste, inoltre, un certo numero di lavori, che, a partire da studi sulle caratteristiche delle famiglie in cui è presente un figlio con disabilità, fornisce interpretazioni dei comportamenti, degli atteggiamenti e delle risposte dei genitori, utilizzando concetti formulati in ambito psicanalitico, quali quelli di diniego, rifiuto, iperprotezione, ecc. (Ibidem). Il punto di partenza di questo approccio è l’assunto che la nascita di un bambino disabile causi nei genitori ansie, preoccupazione e sensi di colpa, che normalmente non si riscontrano quando il bambino è normale. Di fronte alla caduta di autostima, indotta da tale evento, e alla minaccia della propria identità sociale e personale, i genitori metterebbero in atto meccanismi di difesa che li porterebbero a negare l’evento stesso, rifiutando la diagnosi; o, al contrario, in alcuni casi, il rifiuto del bambino potrebbe essere mascherato da un coinvolgimento totale della famiglia nel problema 15 o da atteggiamenti di iperprotezione, che tra l’altro impedirebbero al bambino lo sviluppo di una propria identità personale (Crnic, Friedrich e Greenberg, 1983). Questo orientamento porta con sé i limiti dovuti ad una indebita generalizzazione effettuata su alcuni casi e all’applicazione di una griglia interpretativa rigida, che non necessariamente è quella corretta. Inoltre, il postulato di una basilare mancanza di accettazione da parte dei genitori porta molti operatori, ancora oggi, ad avere un atteggiamento colpevolizzante nei confronti delle famiglie: tutto ciò che dicono o fanno i genitori rischia di essere interpretato o come negazione del problema o come rifiuto del figlio ed eccessiva volontà di normalizzazione, in una logica dove l’ipotesi della non accettazione rappresenta sempre il filtro interpretativo di qualunque comportamento genitoriale (Zanobini, Manetti e Usai, 2002). Il percorso attraversato dai genitori, che da diversi studiosi è stato considerato come l’espressione di un processo di elaborazione del lutto, viene descritto da Zanobini, Manetti e Usai (2002) come il tempo necessario per mettere in funzione le proprie risorse emotive, cognitive e organizzative. In quest’ottica, anche la prevalenza, in determinati momenti, di risposte ansiose o, all’opposto, la tendenza a minimizzare i problemi può avere valenze positive: la prima può, infatti, aiutare ad attivarsi nei momenti di scoraggiamento e di calo di energia vitale; la seconda può consentire una graduale assunzione di informazioni e moderare l’effetto traumatico di una notizia carica di valenze negative (Ibidem). Ragionare esclusivamente in termini di accettazione o rifiuto significa offrire una lettura univoca e semplicistica dei comportamenti familiari e non considerare la possibile coesistenza di sentimenti e parametri di valutazione contrastanti (Zanobini, Manetti e Usai, 2002). L’idea dell’impatto necessariamente negativo della disabilità sulla vita dei genitori e dell’intera famiglia, ha, quindi, finito con il predominare l’intera letteratura sull’argomento. Come sottolinea Dall’Aglio: 16 Per molti anni l’handicap, nel suo impatto psicologico sulla famiglia è stato visto per lo più, e soprattutto dagli autori di lingua inglese, come uno stress, e gli atteggiamenti genitoriali sono stati per lo più inquadrati come una reazione allo stress (Dall’Aglio 1994, p. 31). Tale prospettiva si è sviluppata in un gran numero di lavori, che, partendo da presupposti simili, hanno dato luogo, tuttavia, ad esiti molto differenti, contribuendo, in parte, a modificare la visione della famiglia al cui interno è presente un soggetto disabile. Per chiarire qual è il percorso sviluppato da questi studi, si deve innanzi tutto precisare che cosa si intende con il termine “stress”. Esso è utilizzato, nel linguaggio quotidiano, per designare una situazione di disagio, tensione e affaticamento. Anche nella pratica medica, lo stress è identificato con una condizione di stanchezza dell’organismo. In realtà, Farnè (1999) ritiene che lo stress possa essere rappresentato come una medaglia a due facce, determinata dalla differenza esistente fra eustress e distress. Il primo è lo stress benefico: le ricerche dimostrano, infatti, che un grado ottimale di stress migliora lo stato di salute e affina le capacità di attenzione, di concentrazione, di apprendimento, di memoria e di risoluzione creativa dei problemi. Lo stress, dunque, contenuto entro certi limiti, è estremamente utile. L’altra faccia della medaglia è il distress, determinato da un continuo accumularsi di stimoli stressori che porta ad un’attivazione fisiologica e psichica eccessiva, imponendo all’organismo sforzi esagerati; ciò conduce dapprima ad un periodo di sopportazione-resistenza e, più avanti, ad un periodo di esaurimento e logorio. Quando si entra in questa fase compaiono ansia, tensione psichica e muscolare, disturbi funzionali e soggettivi (Farnè, 1999). La letteratura sullo stress connesso all’evento disabilità, negli anni ’80, considera il fenomeno soltanto in un’ottica negativa, fornendo una visione univoca e omogenea delle famiglie, che solo in parte tiene conto della variabilità interfamiliare e dei fattori che la influenzano, trascurando del tutto gli effetti positivi della disabilità sulla famiglia (Ianes, 1992). 17