La conversione nella tradizione giuridica hindu: salvezza e

La conversione nella tradizione giuridica hindu: salvezza e comunità
Domenico Francavilla
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Conversion in the Hindu legal tradition: salvation and community
The article aims to highlight some issues concerning the complex question of conversion in
Hindu law with reference to the Hindu conception of salvation and to the impact of conversion
on the application of Hindu personal law in modern India. It also points out some of the many
interactions between conversion and State policies based on caste, such as affirmative actions.
The understanding of being part of a specific community and religious tradition emerges as a
factor that connects soteriological and social aspects in the Hindu conception of conversion.
Keywords: conversion; India; Hinduism; caste; colonialism.
SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Concezioni della conversione: verità e salvezza. – 3.
Conversione e applicazione del diritto statale.
1. Introduzione
Il fenomeno della conversione è centrale nell’esperienza religiosa e può avere importanti
implicazioni giuridiche. Come altre religioni, l’induismo è portatore di un insieme di concezioni
relative alla salvezza e all’appartenenza comunitaria che determinano una specifica visione
della conversione. Nell’esperienza religiosa la conversione conduce a una profonda revisione
delle credenze, delle prassi e delle relazioni dell’individuo. Questo effetto riguarda non solo il
fedele che si converte ma anche la comunità nel suo complesso. Se la comunità religiosa di
destinazione può vedere positivamente, a certe condizioni, l’ingresso di nuovi credenti, la
comunità religiosa di partenza non può che vedere negativamente questo passaggio, soprattutto
quando si verificano conversioni di massa e quando vi sia il sospetto di conversioni forzate.
La possibilità di ingresso nell’induismo tramite la conversione è controversa. L’opinione
culturalmente dominante è che sia impossibile in realtà convertirsi all’induismo. Si nasce hindu
e un non hindu potrebbe divenire hindu solo rinascendo, nel gioco delle rinascite, all’interno di
una comunità hindu. Correlativamente, è culturalmente dominante l’opinione che il
proselitismo sia assente nell’induismo.
Ciò però confligge con il fatto che ci sono state e ci sono conversioni all’induismo, oltre
che nel contesto indiano anche in altre aree, ad esempio nel Sud-est asiatico e anche da parte di
occidentali, per quanto in termini quantitativi il fenomeno sia molto ridotto rispetto a quello
delle conversioni verso il buddhismo, che ha avuto una circolazione panasiatica, mentre
l’induismo rimane comunque una religione profondamente indiana, e che ha esercitato un
fascino molto maggiore sugli occidentali1.
Il punto è che l’induismo, come vedremo meglio, presenta un’estrema varietà interna ed
esistono molte visioni sulla possibilità di conversione. Se alcune parti dell’induismo ritengono
impossibile la conversione, altre includono rituali di purificazione ed ingresso nella comunità
attraverso riti specifici, e altre ritengono che l’ingresso nell’induismo sia possibile
semplicemente abbracciando le credenze e le pratiche del dharma2.
Nella complessa storia indiana ci sono stati invece molti fenomeni quantitativamente
significativi di conversioni dall’induismo ad altre religioni e in particolare al buddhismo,
all’islam e al cristianesimo. Per il buddhismo basti qui ricordare le due famose conversioni
dell’imperatore Ashoka e di Ambedkar. Il primo, imperatore Maurya, ha avuto un ruolo centrale
nella trasformazione del buddhismo in una civilizational religion e nella sua diffusione. Il
secondo, considerato il padre della Costituzione indiana, apparteneva allo strato più basso ed
emarginato nella gerarchia sociale indiana, quello degli intoccabili, e ha dato alla conversione
un significato anche politico. Spesso le conversioni al buddhismo sono state conversioni di
massa in chiave fortemente polemica nei confronti dell’induismo e del sistema delle caste. Visto
che la casta è propriamente hindu, l’abbandono dell’induismo è soprattutto rifiuto del sistema
delle caste e della ideologia che le accompagna, anche se sul piano pratico raramente queste
conversioni comportano un effettivo miglioramento sociale. Anche le conversioni all’Islam
rappresentano un fenomeno importante nella storia dell’India. L’Islam in India ha avuto una
componente importante in una élite non indiana ma l’Islam si è diffuso in India anche attraverso
le conversioni dall’induismo. Le conversioni al cristianesimo sono apparse particolarmente
1
2
Per una revisione del carattere non missionario dell’induismo si veda Sharma 1992.
Sul concetto di dharma si vedano, tra i molti, Lingat 2003 e Menski 2003.
problematiche nel periodo coloniale, a causa del proselitismo missionario e della soggiacente
missione civilizzatrice propria dei fenomeni coloniali.
Il rapporto tra le diverse religioni in India rimane una questione estremamente complessa
e le tensioni intercomunitarie sono spesso alimentate proprio dalle conversioni. L’articolo 25
della Costituzione indiana del 1949, entrata in vigore nel 1950, prevede il diritto di professare
la propria religione e il diritto di diffonderla (propagate), di spiegarne in contenuti. Il diritto al
proselitismo viene riconosciuto ma inteso in modo restrittivo. Nell’Assemblea Costituente
questo aspetto generò un ampio dibattito. Furono gli indiani cristiani a chiedere che questo
diritto fosse tutelato costituzionalmente e superarono la freddezza o le critiche aperte di altre
componenti della società indiana per un desiderio complessivo di andare incontro a questa
esigenza così fortemente manifestata dai cristiani indiani (Claerhout-De Roover 2005). Ma
certamente le tensioni relative alla questione del proselitismo non sono finite. È noto che alcuni
Stati dell’Unione indiana hanno promulgato leggi che regolamentando le conversioni. Non
entreremo in questo argomento, ma si può rimarcare come il dibattito su questa legislazione sia
una nuova manifestazione di aspetti cruciali per la comprensione dell’atteggiamento nei
confronti delle conversioni, sia sul piano culturale che su quello politico, che si sono manifestati
già in precedenza3.
La conversione come effetto del proselitismo è suscettibile di essere considerata frutto di
fenomeni di plagio, di condizionamento psicologico. È diffusa l’idea che le conversioni, in
particolare al cristianesimo, siano dovute a ospedali e scuole, a una speranza di riscatto sociale
nelle parti più deboli e socialmente svantaggiate della società. È sicuramente importante in
questa vicenda la componente politica del nazionalismo hindu, che in forme più o meno
esplicite, conduce una difesa dell’induismo come questione di identità nazionale4. Altro
elemento è quello del potenziale scontro con la comunità musulmana e del complesso di
minoranza della maggioranza hindu per cui, non dissimilmente da quel che accade in Europa,
può agire un timore di islamizzazione dell’India. L’induismo ha una fortissima componente
comunitaria e pubblica e la conversione difficilmente viene vista come esercizio di un libero e
intimo convincimento. Lo Stato è costretto a interessarsi delle conversioni se non altro perché
essere hindu o meno ha, come vedremo, importantissime implicazioni per l’applicazione dello
stesso diritto statale.
3
4
Si vedano Dudley Jenkins 2008 e Kim 2003.
Su questi fenomeni si veda Nussbaum 2007.
L’uscita dall’induismo e, in generale, il fenomeno delle conversioni in India non sono
quindi un tema marginale, visto che vanno al cuore di una serie di questioni che si collegano,
oltre che alla libertà religiosa, alla definizione stessa dell’induismo, alla struttura sociale delle
caste, al nazionalismo hindu e alla questione della unità nella diversità. Tenendo tutti questi
problemi sullo sfondo, questo contributo intende concentrarsi su due aspetti delle conversioni
nell’induismo, che per la loro centralità possono guidare nella comprensione anche di altri
aspetti. Il primo è quello della peculiarità delle idee di religione, verità e salvezza che sono
proprie dell’induismo; il secondo è quello delle implicazioni comunitarie e delle conseguenze
che le conversioni hanno nell’India di oggi sull’applicazione di norme statali.
2. Concezioni della conversione: verità e salvezza
La questione delle conversioni ha implicazioni comunitarie ma rimane prima di ogni altra
cosa una manifestazione della vita religiosa, di un radicale cambiamento personale
nell’adesione a nuove credenze e pratiche. La concezione che una religione ha della conversione
dipende strettamente dall’idea dell’esistenza di un’unica vera religione e via di salvezza o della
legittimità di più religioni e vie di salvezza. La pretesa monistica della verità della propria
religione conduce a un dovere di convincere altri della verità di questa religione al fine di dare
accesso anche agli altri a una via di salvezza che si considera l’unica valida. Questa concezione
non è però universale e il contrasto tra visioni indigene e visioni importate si è manifestato in
India in particolare nel periodo coloniale.
Claerhout e De Roover (2005) riportano alcune testimonianze della vicenda missionaria
cristiana nell’India coloniale. Di particolare interesse è la vicenda del missionario luterano
Bartholomeus Ziegenblag, che agli inizi del XVIII secolo compose un pamphlet intitolato
Abominable Heathenism, scritto in Tamil e destinato a convincere gli hindu del Tamil Nadu
della falsità delle loro credenze. Si tratta di un invito ad accettare il dono del cristianesimo e
liberarsi da colpa ed errore. Il missionario cristiano era molto colpito da tutto il ritualismo
brahmanico e dal pantheon delle divinità hindu, e naturalmente li considerava manifestazioni
di idolatria e di ignoranza teologica. Sente pertanto il dovere di convincere i brahmini del fatto
che la loro religione è falsa e che conviene loro convertirsi perché, se il loro fine è quello della
salvezza, allora potranno trovarla nel cristianesimo e non nella loro religione.
Lo stesso Ziegenblag pubblicò nel 1719 alcuni resoconti di dibattiti con brahmini locali
al fine di convincerli della falsità della loro religione. Particolarmente interessante è il resoconto
della risposta di uno di questi brahmini:
I believe all you say of God's Dealings with you White Europeans, to be true; but his
Appearances and Revelations among us Black Malabarians, have been quite otherwise:
And the Revelations he made of himself in this Land are as firmly believ'd here to be true,
as you believe those made in your Country: For as Christ in Europe was made Man: so
here our God Wischtnu was born among us Malabarians; And as you hope for Salvation
through Christ; so we hope for Salvation through Wischtnu: and to save you one way,
and us another, is one of the Pastimes and Diversions of Almighty God (Ziegenblag 1719,
4).
Secondo il brahmino la propria religione è antica/perenne e gli sembra strano che possa
essere considerata falsa, ma il tenore della sua risposta non è aggressivo. Infatti, non mette in
dubbio che il missionario possa trovare la salvezza nella sua religione ma semplicemente
afferma di poter trovare la salvezza nella propria religione. Emerge quindi l’idea centrale per
cui esistono molte vie di salvezza e che ognuno possa trovare la salvezza nella tradizione a cui
appartiene.
Su questa linea è interessante anche l’opinione di un funzionario della Compagnia delle
Indie Orientali, Alexander Dow, che scrive5:
Contrary to the practice of all other religious sects, they admit of no converts; but they
allow that every one may go to heaven his own way, though they perhaps suppose, that
theirs is the most expeditious method to obtain that important end. They chuse (sic) rather
to make a mystery of their religion, than impose it upon the world, like the
Mahommedans, with the sword, or by means of the stake, after the manner of some pious
Christians … It is, as we have already observed, a principle peculiar to the Hindoo
religion, not to admit of proselytes. But instead of being solicitous about gaining converts,
they always make a mystery of their faith. Heaven, say they, is like a palace with many
doors, and every one may enter in his own way (Dow 1768, 110-115).
Si veda Claerhout-De Roover 2005 per un’analisi più completa del pensiero di Dow e altre vicende
relative all’atteggiamento cristiano-coloniale.
5
Qui si evidenzia l’aspetto dell’assenza di proselitismo, sempre collegato all’idea
dell’esistenza di molte vie di salvezza. L’atteggiamento nei confronti delle altre religioni
riproduce l’atteggiamento hindu nei confronti del pluralismo interno. Sotto questo aspetto si
possono sottolineare alcune peculiarità della struttura dell’induismo.
Innanzitutto, la stessa definizione dell’induismo problematica. Il concetto moderno di
hindu è collegato a un processo culturale di costruzione dell’induismo come religione unitaria
che si è verificato in epoca relativamente recente, vale a dire nell’Ottocento. Questo processo è
stato condotto principalmente dall’orientalistica occidentale ma vi hanno preso parte anche
molti intellettuali indiani, e alla fine la categoria dell’induismo è divenuta effettivamente parte
di un modo comunemente accettato di definire la propria identità da parte degli stessi hindu, i
quali peraltro mantengono sempre un senso molto più specifico e articolato della loro
appartenenza.
Nel quadro degli studi indologici più recenti è stata messa in discussione la categoria
dell’induismo come religione osservando che sarebbe più corretto parlare di un fascio di
religioni che si riconoscono a vicenda o di una «unità socio-culturale»6. Come osserva Stefano
Piano (1996, 19-21):
È noto che con il termine “induismo” non si indica una religione, bensì un’intera cultura,
un modo di essere e di vivere, di vestirsi, nutrirsi, amare, morire, una serie di abitudini
quotidiane che si tramandano da millenni con scrupolosa tenacia in seno a una civiltà
tradizionale estremamente fedele al proprio passato … La parola induismo è …
un’invenzione degli occidentali, come lo è, anche se più antica, la parola India. Tale
parola è, per di più, inadeguata a esprimere la realtà religiosa dell’India hindu, in quanto
indica piuttosto un’unità socio-culturale che non una religione ... Nel grande
caleidoscopio di fedi e di tradizioni più o meno antiche che caratterizza l’India hindu si
possono individuare tre grandi principali religioni: la vaiṣava, la śaiva e la śākta …
Queste religioni, poi, si frammentano a loro volta in una serie assai numerosa e
complessa di singole “tradizioni” (sampradāya), che fanno capo a una precisa
successione di maestri religiosi … Tutti costoro sono hindū, ma lo sono parimenti anche
6
Per questo approccio allo studio dell’induismo si veda, in particolare, Sontheimer-Kulke 1989.
persone apparentemente prive di sentimenti religiosi e che d’abitudine non rispettano
nessuno dei precetti contenuti nei testi normativi della tradizione.
In altri termini, all’interno del grande contenitore dell’induismo esiste una pluralità di
tradizioni religiose autonome caratterizzate da proprie credenze, prassi e vie di salvezza.
L’induismo ha pertanto caratteri spiccatamente pluralistici ed è su questo sfondo che si può
comprendere anche l’atteggiamento nei confronti delle altre religioni.
Sotto altro profilo, bisogna anche considerare l’importanza dell’aspetto etnicocomunitario nell’induismo. Il termine hindū inizialmente si riferiva semplicemente alle
popolazioni che vivevano nella parte nordoccidentale del subcontinente indiano, attorno al
fiume Indo. Queste popolazioni avevano certamente delle credenze religiose, già differenziate,
ma l’essere hindu significava appartenere più che a una determinata religione a un complesso
etnico-culturale al cui interno potevano coesistere diverse fedi e diverse concezioni del mondo.
Il termine hindū è stato successivamente utilizzato principalmente per definire le popolazioni
del subcontinente indiano non appartenenti all’Islam o ad altre religioni nettamente
differenziate da quelle degli hindu.
Da quanto detto derivano due aspetti che sono ancora osservabili nell’India
contemporanea. In primo luogo, nell’identità hindu si mantiene una certa fusione tra aspetto
religioso, aspetto etnico e aspetto socio-culturale, per cui può capitare, ad esempio, che un
cristiano indiano veda se stesso anche come hindu per ragioni etniche e culturali, pur
appartenendo a una religione chiaramente distinta. In secondo luogo, la definizione di hindu
viene compiuta generalmente in termini negativi, per cui è considerato hindu chi non appartenga
espressamente ad un’altra religione o a una comunità, ad esempio di carattere tribale, che sia
chiaramente fuori dalla tradizione hindu. Inoltre, si può essere hindu pur non professando
nessuna religione e, anzi, pur essendo dichiaratamente atei. Da questo punto di vista si
comprende come la conversione possa assumere in questo contesto significati non del tutto
coincidenti con quelli propri delle religioni che pongono al centro l’aspetto della religiosità
individuale.
3. Conversione e applicazione del diritto statale
L’appartenenza all’induismo ha conseguenze estremamente importanti per il sistema
giuridico indiano. Infatti, nell’India di oggi è ufficialmente vigente, in materia di famiglia e
successioni, un sistema di diritti personali differenziati che si applicano ai cittadini indiani in
base alla loro appartenenza religiosa.
Dopo l’Indipendenza vi fu in India un esteso dibattito su quali provvedimenti adottare
per riformare il sistema del diritti personali. Questa applicazione del diritto su base personale,
che ha culturalmente radici antichissime nella tradizione giuridica indiana, era stato
istituzionalizzato nel periodo coloniale con l’introduzione del sistema dei listed subjects.
L’Assemblea costituente si trovò di fronte a una situazione particolarmente complessa. Molti
ritenevano che un diritto civile uniforme sarebbe stato l’incarnazione migliore del principio del
secularism indiano, segnando in modo netto la separazione del diritto dalla religione. D’altra
parte, procedere alla redazione del codice civile uniforme all’inizio della vicenda giuridica della
Repubblica indiana rappresentava sicuramente una prova molto impegnativa e molto
pericolosa, dato il rischio di aumentare la conflittualità sociale. Per questo motivo il progetto
venne abbandonato e venne adottata solo una norma costituzionale di carattere programmatico,
inserita nella parte dedicata ai directive principles, l’art. 44, in base al quale: «The State shall
endeavour to secure for the citizens a uniform civil code throughout the territory of India».
Se l’obiettivo dell’uniformità per tutti i cittadini indiani del diritto civile in materia di
statuto personale ‒ nelle altre materie l’uniformità esisteva già ‒ apparve troppo ambizioso, un
obiettivo che sembrò praticabile e si scelse di perseguire fu quello della semplificazione del
diritto hindu, che, anche singolarmente considerato, era caratterizzato da una notevole
complessità e mancanza di uniformità. In altri termini, la differenziazione giuridica tra hindu,
musulmani, parsi, ebrei e cristiani si riproduceva anche all’interno dello stesso diritto hindu,
che si applica a circa l’ottanta per cento della popolazione.
La riforma del diritto hindu venne compiuta con quattro atti legislativi che vengono a
volte indicati collettivamente, anche se in modo alquanto improprio, come Hindu code. Nel
1955 venne promulgato l’Hindu Marriage Act, e nel 1956 l’Hindu Minority and Guardianship
Act, l’Hindu Adoption and Maintenance Act e l’Hindu Succession Act. Queste leggi
rappresentano un tentativo di emendare e codificare le norme del diritto hindu vigenti.
Diventa quindi cruciale ai fini dell’applicazione di queste leggi capire chi sono gli hindu.
Queste leggi si applicano innanzitutto agli hindu per religione. Si applicano inoltre a buddhisti,
jainisti e sikh, visto che, ai fini dell’applicazione del diritto di famiglia e delle successioni, gli
appartenenti a queste religioni sono considerati hindu. In terzo luogo si applicano a tutti coloro
che non sono musulmani, ebrei, parsi o cristiani, e in via generale a tutti coloro che non provino
che ad essi si sarebbe applicato prima della legislazione in queste materie un diritto diverso. Da
questo punto di vista si può notare come l’applicazione del diritto hindu tenda ad avere un
carattere fortemente inclusivo.
Altra questione è chi debba essere considerato hindu. Lo stesso Hindu Marriage Act
fornisce a questo proposito una spiegazione nella quale si fa riferimento a nascita e conversione:
Explanation.- The following persons are Hindus, Buddhists, Jainas or Sikhs by religion,
as the case may be,- (a) any child, legitimate or illegitimate, both of whose parents are
Hindus, Buddhists, Jainas or Sikhs by religion; (b) any child, legitimate or illegitimate,
one of whose parents is a Hindu, Buddhist Jaina or Sikh by religion and who is brought
up as a member of tribe, community, group or family to which such parents belongs or
belonged; and (c) any person who is a convert or re-convert to the Hindus, Buddhist, Jaina
or Sikh religion.
Il punto fondamentale da tenere presente è quindi che in un sistema come quello indiano
attuale, in cui il diritto hindu è ufficialmente vigente e si applica su base personale, la
conversione all’induismo o dall’induismo ha importantissime conseguenze giuridiche. Infatti,
il diritto che si applica in materia di famiglia e successioni agli indiani hindu è diverso da quello
che si applica agli indiani musulmani, cristiani, ebrei, parsi.
Ad esempio, uno dei requisiti di un matrimonio hindu è la monogamia; il secondo
matrimonio è nullo e la bigamia è reato. Ciò non vale per gli indiani musulmani. In un sistema
del genere si possono generare molte questioni di difficile soluzione. Che cosa succede se un
uomo hindu si sposa con una donna hindu in base all’Hindu Marriage Act e successivamente,
senza sciogliere il matrimonio, si converte all’Islam? Il secondo matrimonio è nullo o valido?
Si è in tal caso imputabili del reato di bigamia? Un fenomeno che si riscontra è che le
conversioni in alcuni casi sono un fenomeno di opportunismo e, invece di rispondere a
un’intima convinzione religiosa, servono proprio a determinare l’applicazione di alcune regole
che determinano il risultato sperato7.
Per un’analisi dei molti problemi posti dalle conversioni si vedano i rapporti della Law Commission
of India, Preventing Bigamy via Conversion to Islam – A Proposal for giving Statutory Effect to Supreme
Court Rulings, n.227, 2009, e Conversion/reconversion to another religion - mode of proof, n. 235,
2010.
7
È inoltre interessante osservare che dal punto di vista del diritto hindu ufficiale un
matrimonio tra un hindu e una persona appartenente a un’altra religione non è un matrimonio
hindu. In questo limitato senso il diritto hindu esclude che uno dei due nubendi possa non essere
hindu. Bisogna però osservare innanzitutto che buddhisti, jainisti e sikh vengono considerati
hindu e, in secondo luogo, che ciò non significa che due persone di religione diversa non
possano sposarsi. Essi dovranno però fare ricorso a un diverso regime matrimoniale, che è
quello fissato nello Special Marriage Act, 1954. È anche degno di nota il fatto che la
conversione di uno degli sposi ad altra religione rappresenti causa di scioglimento del
matrimonio, ulteriore conferma dell’impatto delle conversioni sul diritto di famiglia.
Un altro ambito importante di interazione tra conversioni e alcune norme di diritto statale
riguarda il sistema delle caste. La Costituzione indiana riconosce in modo netto il principio di
eguaglianza seguendo i modelli occidentali. L’importanza del sistema delle caste nella struttura
sociale indiana ha portato l’Assemblea Costituente a fare espresso riferimento alla
discriminazione sulla base delle caste. L’art. 15, infatti, vieta la discriminazione sulla base non
solo di religione, razza, sesso, luogo di nascita, ma anche della casta. Colpisce che, nello stesso
articolo, espressamente si pone un divieto alle restrizioni per alcune persone per quel che
riguarda l’accesso a negozi, ristoranti, altri luoghi pubblici, pozzi e corsi d’acqua. Questa norma
riflette con precisione, per quanto in negativo, alcune norme che si trovano nei testi tradizionali
hindu sull’esclusione dal villaggio e sull’accesso ai corsi d’acqua. Nel sistema tradizionale, la
logica delle caste è una logica di purezza rituale, che ha come sua conseguenza necessaria
l’allontanamento fisico delle caste più basse e impure che potrebbero contaminare gli
appartenenti alle caste alte. In altri termini, il dovere di esclusione previsto nel diritto
tradizionale diventa nella Costituzione divieto di esclusione.
La questione che si pone è naturalmente quella dell’effettività di questo divieto nel
rapporto tra diritto statale e sistemi socio-giuridici locali, ma non va trascurata l’importanza
delle enunciazioni di principio. Il semplice fatto che vi sia nella Costituzione questa norma
contro la discriminazione in base alla casta è importante, indipendentemente dalle difficoltà che
possano sorgere nella realizzazione di una effettiva uguaglianza.
L’intoccabilità come fenomeno specifico si spiega nel quadro dello stesso sistema delle
caste e riguarda il caso di coloro che non appartengono semplicemente alle caste più basse ma
sono addirittura esclusi dallo stesso sistema delle caste a causa delle loro particolare impurità.
L’intoccabilità comporta anche nell’India di oggi conseguenze sociali fortissime di cui il diritto
non può non tenere conto. Proprio per questo è stata inserita una norma specifica con
riferimento all’intoccabilità, l’art. 17, in base al quale: «“Untouchability” is abolished and its
practice in any form is forbidden. The enforcement of any disability rising out of
“Untouchability” shall be an offence punishable in accordance with law».
L’art. 15(4) prevede che il principio di uguaglianza non possa essere inteso come un
ostacolo all’adozione di provvedimenti da parte dello Stato «for the advancement of any
socially and educationally backward classes of citizens or for the Scheduled Castes and the
Scheduled Tribes». Pertanto al divieto di discriminazione negativa si accompagna la possibilità
di una discriminazione positiva, che è un elemento molto importante nelle politiche pubbliche
indiane, con riferimento in generale ai gruppi sociali svantaggiati e, in particolare, ad alcune
comunità che, date le condizioni di grave discriminazione di cui sono state e continuano ad
essere oggetto, sono state incluse in appositi elenchi distinti a seconda che si tratti di caste
(Scheduled Castes) o tribù (Scheduled Tribes), visto che queste ultime non sono propriamente
parte del sistema delle caste. Queste politiche di discriminazione positiva consistono
principalmente in un sistema di quote riservate che promuove l’accesso alla pubblica
amministrazione e alle università8.
Visto che questa appartenenza di casta è comunque considerata un fenomeno religioso
collegato all’appartenenza all’induismo, che cosa succede se un hindu di casta molto bassa, al
quale si applicherebbero le disposizioni statali promozionali, per suo intimo convincimento
voglia convertirsi ad un’altra religione? La conversione comporta sicuramente l’uscita dalla
casta e quindi si pone il problema per il diritto statale della possibilità di accedere ai benefici
statali in caso di conversione. Sul punto, i giudici hanno cercato di avere un atteggiamento
molto pragmatico per cui riconoscono che in qualche misura la situazione di forte svantaggio
se rimane anche dopo la conversione –legittima ancora l’accesso a quei benefici.
In questo quadro si possono porre questioni ancora più complesse, relativamente al
fenomeno della riconversione. Le corti indiane si sono dovute pronunciare diverse volte su casi
complessi, come quello di un giovane appartenente a una famiglia di casta molto bassa che si
era convertita ad altre religione perdendo i benefici previsti per quella specifica casta dallo
Stato. Il figlio, che avrebbe potuto beneficiare del sistema delle quote riservate, si riconverte
all’induismo e vuole rientrare nella casta di origine della sua famiglia. La questione qui è quella
del ritorno all’induismo e assieme alla casta. Il principio stabilito dai giudici è che si possa
ritornare alla casta soltanto se si viene accettati, se la casta di origine dei genitori è disposta a
8
Sul punto, su cui esiste una vasta letteratura, si veda Dudley Jenkins 2010.
riaccoglie la persona al proprio interno. La conversione ha quindi effetti importanti per le
politiche statali di promozione delle caste più basse e sotto certi aspetti può interferire con la
libertà di religione.
In conclusione si possono collegare tutti questi problemi a dati più generali. Se la religione
ha a che fare con l’appartenenza comunitaria, allora essere in molti o in pochi segna una
differenza importante. Ciò porta a un dato antropologico primario, la paura dell’indebolimento
del gruppo e della sopraffazione da parte di altri gruppi. Non a caso, spesso le conversioni di
appartenenti alle caste basse assumono il significato di una ribellione a consolidati assetti di
potere basati sulla gerarchia sociale legittimata in termini religiosi e sono percepiti dalle altre
caste più alte come una minaccia. La comunità, a cui si appartiene per religione, è centrale nella
vita degli individui e determina la loro esistenza. Gli aspetti più propriamente religiosi relativi
ai caratteri dell’induismo e alla concezione della salvezza, che, come abbiamo visto, si
raggiunge all’interno di una specifica tradizione, si saldano con quelli più propriamente
sociologici dell’appartenenza di gruppo e, assieme, spiegano i molti significati che la
conversione acquista nel contesto hindu.
Domenico Francavilla
Università di Torino
Dipartimento di Giurisprudenza
[email protected]
Riferimenti bibliografici
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