Eros Roselli
USCIRE DAL GHETTO?
Riflessioni sulla riforma dei Conservatori
di musica a 15 anni dall’approvazione
della legge 508
ARMANDO
EDITORE
Sommario
Prefazione
Introduzione
9
13
Capitolo primo: Il vecchio ordinamento
1.1. Preparazione culturale e preparazione professionale
1.2. La cornice normativa
1.3. L’offerta formativa
1.4. Peculiarità della formazione musicale e autoreferenzialità
19
20
32
36
40
Capitolo terzo: Le criticità del sistema
3.1. L’inadeguatezza dei comportamenti in ambito istituzionale
3.2. Le difficoltà nell’aggiornamento dell’offerta formativa
3.3. I limiti dell’impianto normativo
3.4. Le inadempienze
115
116
129
138
152
Capitolo secondo: Il nuovo ordinamento
55
2.1. La legge 508/1999
59
2.2. La normativa derivata
68
2.2.1. Il D.P.R. 28 febbraio 2003 n. 132
71
2.2.2. Il D.P.R. 8 luglio 2005 n. 212
74
2.3. Il Processo di Bologna e il quadro di riferimento europeo
80
2.4. Il confronto con l’impianto normativo universitario
87
2.5. La nuova offerta formativa
93
2.6. Il nuovo profilo istituzionale: il problema dei corsi preaccademici 103
Conclusioni
Bibliografia
157
181
Prefazione
Come tutti sappiamo, nel dicembre del 1999 è avvenuto, grazie anche
a un pizzico di abilità e furbizia da parte del relatore, un fatto noto ai lettori di questo libro: la riforma del sistema musicale italiano attraverso la
legge 21 dicembre 1999, n. 508. Di questo evento storico se ne parla da
anni per vari e opposti motivi.
C’è chi ha visto e vede in questa riforma la fine irrimediabile di
un’epoca “felice”, che nonostante i difetti andava comunque salvata; c’è chi
al contrario lamenta l’incompletezza del processo che prevedeva una serie
di atti normativi, alcuni dei quali di grande rilevanza, nonché adeguamenti
stipendiali, ancora da realizzare.
Quel che non tutti sanno – e più passa il tempo e più l’oblio aumenta –
è che quella legge proveniva da una riflessione che partiva da molto lontano, già dalla fine dell’Ottocento.
Il libro di Roselli ripercorre bene la storia della legislazione che ha generato il Conservatorio moderno, ma ricorda anche le più significative riflessioni che all’epoca venivano pubblicate da parte di importanti
musicologici e uomini di cultura. Leggendo questo libro sorprenderà vedere come alcune idee scritte ottanta anni fa (all’epoca del Regio Decreto
n. 1945 del 1930) appaiano oggi molto attuali e assai corroboranti.
Come spesso avviene, di tutta la ricca discussione e riflessione che precede
una riforma, solo una parte rimane poi nei testi delle leggi. Altre priorità e
contingenze ispirano il legislatore nella stesura delle norme. Per questo è oggi
importante conoscere l’origine intellettuale dei provvedimenti che condizionano la vita anche del Conservatorio riformato e fanno comprendere il motivo
del persistere, molto resistente, di alcune abitudini culturali.
9
Questo libro narra la storia di una vera “rivoluzione” avvenuta quindici
anni fa, la cui forza dirompente sostanzialmente non è stata compresa né
dai suoi detrattori né fino in fondo dai suoi sostenitori. Il motivo di questo
risiede nel vizio di fondo della L. 508, che ha voluto rinnovare profondamente un sistema culturalmente ancora non pronto a recepire il messaggio, confidando che tale ritardo di maturazione potesse essere colmato
attraverso dei semplici provvedimenti normativi.
Si è così generata una situazione conflittuale, mal governata, che a partire dal basso ha invaso progressivamente tutti i livelli dell’organizzazione
conservatoriale fino a elevarsi a quella paralisi legislativa di cui oggi siamo
testimoni (basti pensare che il Consiglio Nazionale per l’alta formazione artistica e musicale è scaduto a dicembre 2012 e da allora non è stato più rinnovato).
L’assenza di consapevolezza delle ragioni culturali che ha generato tale
situazione, da parte di tutti i soggetti che a vario titolo lavorano nel sistema
AFAM, ha certamente contribuito a creare nei confronti della riforma sentimenti di rigetto, rivalsa, preoccupazione, speranze deluse.
Tutto il libro di Roselli ruota attorno a questa originale intuizione e analizza molto dettagliatamente e con grande competenza non solo la normativa del settore, ma anche come essa è stata recepita e interpretata nel lavoro
quotidiano del personale docente e amministrativo.
Il rischio che il sistema corre è che la stanchezza, dovuta alla mancanza
di prospettive, possa prendere il sopravvento rischiando di far naufragare
tutto quello che di buono è stato fatto nel nuovo secolo, pur tra mille difficoltà, anche grazie alle opportunità, prima sconosciute, fornite dalla riforma.
Ci sono momenti della storia nei quali trovano “epifanicamente” materializzazione testi di legge che sintetizzano anni di lunghe e travagliate discussioni. Non sono molti. Nel Novecento tre: 1918 (a guerra in corso),
1930 e 1999.
Il cosiddetto “vecchio ordinamento” (dall’umbertino Regio Decreto 108
del 1899, al Testo Unico D.lgs 297 del 1994) non è stato solo un lungo
elenco di norme e di circolari, ma un modo di essere, un modo di vivere la
missione del docente e del Conservatorio stesso. Roselli inquadra molto
bene il problema evidenziando alcuni costumi culturali caratteristici, come
10
per esempio quel senso di “proprietà” che il docente di disciplina “principale” pensava di avere sui propri allievi. Questa mentalità, non del tutto
oggi scomparsa, difficilmente trova linfa nell’organizzazione dei corsi riformati e nella vita accademica odierna.
Impietosamente, ma molto acutamente, vengono elencate nel terzo capitolo alcune criticità del sistema, facendo emergere aspetti molto rilevanti
che stanno alla base di quelle che generalmente vengono considerate “questioni prioritarie”, come il problema dell’equiparazione tra AFAM e l’università (siamo o non siamo istituti “superiori”?), della natura giuridica dei
corsi pre-accademici (sono legali o no?), del valore dei titoli accademici (a
cosa equivalgono?).
Non vi è risposta giuridica alle questioni: e giustamente Roselli non si
addentra nei labirinti infernali dell’interpretazione delle norme (spesso incomprensibili o contraddittorie). Alla base di tutti questi problemi, che presumibilmente rimarranno ancora a lungo irrisolti, l’autore analizza e mette
in evidenza le distanze incolmabili tra i diversi approcci culturali, quelli di
derivazione “storica” e quelli che scaturiscono dalla nuova visione che il
“Processo di Bologna” e la legge 508 hanno avviato.
Ma come “uscire dal ghetto” in cui il sistema si è da solo cacciato, anche
a causa di una pronunciata autoreferenzialità? Nell’ultimo capitolo Roselli
eleva la riflessione a un piano più generale. Partendo dal concetto di società
“liquido-moderna” (Zygmunt Bauman) mette il dito sull’impossibilità per
un sistema di “conservare la propria forma o di tenersi in rotta”. Ciò che
conta è la velocità, non la durata. Si può uscire quindi dalla situazione di
crisi governando i processi caratteristici della società contemporanea e imparando a usare strumenti idonei a gestire la “fluidità”. La grande tradizione formativa italiana rappresentata dal vecchio ordinamento ha
definitivamente concluso la propria storia e chi ancora non l’ha fatto deve
elaborare presto il lutto! Non si tratta di rinnegare il passato, ma di rigenerarlo nel nuovo contesto in modo che elasticamente possa continuamente
interagire con la realtà, confrontandosi con essa e ri-modificandosi.
La strada indicata da Roselli per completare la riforma non è quindi meramente un fatto riconducibile alla soluzione pratica di un generale problema economico o politico, ma è sostanzialmente una questione di
coscienza, volontà, capacità interpretativa.
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La lettura di questo libro è suggerita a tutti coloro che desiderano dedicarsi all’esercizio di rappresentante negli organi di gestione e di governo
di un Conservatorio, ma anche a tutti coloro che vogliono, andando fuori
pista, conoscere aspetti nuovi e diversi riguardanti la riforma dell’AFAM.
PAOLO TRONCON
Presidente della Conferenza
dei conservatori di musica
Febbraio 2015
12
Introduzione
“Lei cosa fa nella vita?” – “Suono in un’orchestra sinfonica” – “Ah,
complimenti, che bella cosa. E di lavoro cosa fa?”. Questa breve storiella,
piuttosto diffusa fra chi svolge una professione in ambito musicale, è utile
per introdurre uno dei temi essenziali che animano questo lavoro: l’immagine del musicista e il grado di integrazione che il ruolo collegato a questa
figura professionale assume nel contesto delle relazioni sociali, economiche e culturali nel nostro Paese.
La fenomenologia prevalente pare in effetti considerare il profilo psicologico e relazionale del musicista come un universo parzialmente sconosciuto, speciale, quasi che sia proprio di un soggetto estroso e
imprevedibile, insomma poco affidabile. Alla definizione e alla sopravvivenza di detto profilo hanno del resto offerto un importante contributo alcuni atteggiamenti culturali, attribuibili a importanti esponenti del mondo
musicale, che espressero, in una lunga fase del secolo scorso, un esplicito
desiderio di isolamento:
la musica, l’arte in generale, che agli inizi del secolo difende la propria posizione soggettiva e rifiuta di lasciarsi industrializzare, cade nell’isolamento, nell’estraniamento, tende al solipsismo. In quest’epoca, qualsiasi
artista che non accetti gli schemi cristallizzati della conservazione borghese,
sia pure modificandoli senza alterarli nella sostanza, ma tenda invece a
romperli radicalmente, mirando a nuove forme e a nuovi contenuti, si trova
escluso dalla società1.
1
Luigi Rognoni, La musicologia filosofica di Adorno, in Theodor Wiesengrund Adorno,
Filosofia della musica moderna, Torino, Einaudi 1980, p. XIV.
13
Associare a questo profilo la figura del docente di discipline musicali,
collocandola in un recinto separato, nel quale possa operare al riparo dalle
valutazioni di coloro che non hanno dimestichezza con la musica, risulta,
da questo punto di osservazione, quasi obbligata. Relazionarsi con persone
che utilizzano codici comunicativi in parte diversi rispetto ai nostri è sempre motivo di preoccupazione e produce con una certa frequenza equivoci
che possono essere alla base di contrasti difficilmente sanabili. Evitare confronti diretti risulta allora una scelta giustificata e rassicurante, oltre che di
ineccepibile spessore utilitaristico.
L’impressione è che queste due concomitanti predisposizioni (quella di
chi non ritiene di doversi occupare di una materia tanto sfuggevole e incomprensibile e quella di chi intende realizzare in autonomia un’attività
dalla netta impronta vocazionale) hanno di fatto reso possibile e funzionale un tipo di istituzione molto caratterizzato, il Conservatorio di musica,
cui appare possibile associare le connotazioni ben note del “ghetto”. Nel
corso della trattazione si cercherà di mettere a fuoco una serie di aspetti
che possono corroborare questa tesi, di capire da dove deriva l’immagine
così ipotizzata e da quanto tempo si è radicata.
È giusto precisare da subito che gli scopi del lavoro e le competenze
del suo autore non possono alimentare l’aspettativa di un’estesa ed esaustiva ricerca di carattere storiografico. Per collocare le riflessioni sul
momento attuale in un quadro storico comunque documentato e probante, è stato tuttavia necessario far ricorso a una letteratura non molto
ampia, comunque significativa, attraverso una serie di citazioni esemplificative.
Tenuto conto poi dell’importanza che assumono, per gli argomenti qui
trattati, le straordinarie novità intervenute in ambito legislativo, sono altrettanto infondate le speranze di trovare qui un’autorevole analisi di tipo
giuridico. Quando si è cercato di spiegare le ragioni che sono alla base di
talune innovazioni ordinamentali e si è dovuto ricorrere alla fonte normativa che ha dato loro vita, lo si è fatto citando qualificati scritti di altri autori o direttamente il testo della norma.
Il tipo di approccio che caratterizza questo lavoro non può che essere
quello di un docente che ha avuto l’occasione di osservare la realtà del sistema dell’Alta Formazione Artistica e Musicale dall’interno e da diversi
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punti di vista, anche ricoprendo incarichi direttivi o di rappresentanza, e che
desidera mettere a fuoco i connotati di un universo assai particolare, anche
cercando di spiegare i motivi che sono alla base di una serie di comportamenti professionali, da parte del personale docente, apparentemente incomprensibili.
Per quanto concerne le considerazioni sul profilo del professore di
materie musicali, costituisce ovvia e preventiva avvertenza lo specificare
quanto sia diversificato – al pari di ciò che avviene in fondo in tutti gli
ambiti professionali – il quadro delle competenze culturali e delle attitudini relazionali che caratterizza l’attività degli insegnanti negli istituti
superiori di studi musicali: il rischio di generalizzazioni tanto improprie
quanto fuorvianti è assai alto in un lavoro di analisi di questo tipo. È avvertito in pari misura il pericolo di tracciare con toni troppo corrosivi i
contorni del sistema formativo rimasto in vigore per tutto il ’900: esprimere un giudizio sinteticamente negativo su quell’epoca risulterebbe colpevolmente irrispettoso della tradizione musicale che ha dato lustro alla
nostra cultura e che è stata alimentata in primo luogo dai Conservatori di
musica.
Quello che si vuole qui dimostrare è come le circostanze generali e le
condizioni in cui si è sviluppato il sistema della formazione musicale accademica nel corso del ’900 hanno di fatto reso quantomeno fisiologico,
vorremmo dire paradigmatico, un certo modello di professione-docente –
definibile anche con connotati di carattere antropologico – che costituisce
in parte un ostacolo a un rinnovamento qualificante non solo dell’ordinamento degli studi musicali, ma anche della figura e del ruolo sociale del
musicista.
Il passaggio successivo sarà pertanto quello di dimostrare come la riforma dei Conservatori di musica, così come indotta dalla legge 508 del
21 dicembre 1999, indipendentemente dai limiti che vi si possono ravvisare e che si cercherà di mettere in evidenza, rappresenti un radicale momento di svolta, dalle conseguenze autenticamente rivoluzionarie che
mettono a repentaglio le più consolidate abitudini culturali e taluni comportamenti professionali del corpo docente, ritenuti ormai inalienabili.
Per far questo si avrà cura di approfondire – più attentamente di quanto
si farà rispetto all’ordinamento rimasto in vigore nel XX secolo – il qua15
dro normativo complessivo prodotto dalla riforma, per cercare di comprendere, nel confronto con il sistema previgente, il peso delle novità che
hanno investito il mondo della formazione musicale. Le difficoltà manifestatesi negli ultimi quindici anni per portare a compimento e far funzionare la riforma trovano ragione anche nelle prevedibili e comprensibili
resistenze erette di fronte alla profonda azione trasformatrice originata
in fondo dall’impostazione concettuale e culturale che ispira la 508 e che
è alla base del Processo di Bologna che fa da autorevole sfondo alla legge
di riforma.
La conclusione del percorso è affidata al tentativo di convincere il
lettore come in vero, nell’impedire alla riforma di attuarsi al meglio delle
sue potenzialità, si stia vanificando un’occasione preziosa e straordinaria per abbandonare definitivamente quell’immagine del musicista evocata all’inizio, per superare quindi quella fenomenologia dominante e –
per quanto involontariamente – deformante, a tutto vantaggio delle future generazioni di musicisti e del peso stesso della musica nel nostro
Paese.
Il confronto fra i due ordinamenti degli studi, con la sottolineatura dei
meriti e delle carenze di entrambi, comporterà il rischio, peraltro tollerabile, di vedersi collocato nello schieramento pro o contro la riforma. È un
rischio che corro. Mi preme tuttavia far presente che l’orientamento che
si cercherà di promuovere è quello di prescindere dalla valutazione delle
disposizioni normative in sé – che, com’è ovvio, possono risultare scadenti o inefficaci non per colpa propria ma per cattiva applicazione – per
delineare invece una prospettiva di cambiamento che la legge 508 e i regolamenti da essa derivati consentono di mettere in campo. Per far sì che
le trasformazioni di carattere ordinamentale e istituzionale producano effetti positivi, è necessario che l’attuazione delle norme e delle disposizioni sia accompagnata da una visione d’insieme che tenga conto della
specificità inalienabile della formazione musicale e del contesto non più
solo nazionale in cui essa va a operare. Da questa necessità trae in fondo
origine questo scritto, non certo per fornire una risposta definitiva alle domande ancora aperte, ma per offrire spunti di riflessione che permettano
al sistema di uscire da una situazione di disagio che dura ormai da troppo
tempo.
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Non si afferma nulla di inaudito quando si dice che in questi anni tanto
la formazione quanto la produzione musicale in Italia lamentano più di un
problema. La crisi in cui versano le orchestre di importanti teatri e fondazioni è da tempo sotto gli occhi di tutti2, i tagli che le amministrazioni locali sono costrette a deliberare, per la riduzione delle risorse a disposizione,
riguardano troppo spesso la programmazione culturale con riferimento
anche alle rassegne concertistiche. Non è questa la sede per discutere delle
ragioni di questa crisi e a chi vadano ascritte le maggiori responsabilità,
visto che gli argomenti in esame riguardano, come ormai dovrebbe apparire chiaro, la formazione più che la produzione. In ogni caso è evidente a
tutti che i due campi d’azione sono strettamente connessi e le difficoltà che
si manifestano in uno si ripercuotono inevitabilmente sull’altro.
Già nel 1984 il celebre direttore d’orchestra Sergiu Celibidache, nel
corso di una intervista concessa ad Angelo Foletto per la rivista «Musica
viva», ebbe modo di fotografare sinteticamente il quadro delle criticità denunciate, riuscendo ad associare l’attività delle orchestre con cui aveva lavorato a quanto conosceva dei Conservatori italiani. Le parole di
Celibidache tracciano uno scenario assai preoccupante, che il lettore può
autonomamente paragonare alla situazione di oggi:
Le orchestre italiane sono diventate cattive, la situazione musicale in genere
peggiora anno dopo anno. Ci sono meno talenti di casa e i teatri prendono
di tutto: vedo direttori che fanno carriera e non sanno il mestiere. Gli italiani sono i più musicali, ma i più ignoranti. I conservatori poi non fanno
che peggiorare il quadro: come potranno insegnare musica con coscienza
gli stessi professori d’orchestra che sono imprecisi, poco professionali e
menefreghisti?
Così si smarriscono le pure qualità italiane. Una volta si veniva da noi per
imparare il canto, oggi si va in America dove ci sono le scuole migliori e
la naturale tendenza alla virtuosità e all’emulazione ha fatto concentrare i
migliori insegnanti. E il vibrato all’italiana, elettrico e inconfondibile? Per
ascoltare qualcosa di simile dobbiamo aspettare gli israeliani delle nuove
generazioni. Noi continuiamo a fidarci della storia che sta alle nostre spalle,
2
Uno degli articoli di stampa più recenti, fra i numerosi che si sono occupati della questione negli ultimi anni, è quello firmato da Leonetta Bentivoglio, La musica è finita: viaggio tra le fondazioni liriche in difficoltà, “la Repubblica”, 23 settembre 2014.
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basandoci sull’incredibile capacità di “replica” che ci viene naturale. È un
bel peccato3.
Non compete a chi scrive sostenere se, a distanza di 30 anni, la situazione sia migliorata rispetto a quanto veniva descritto con una certa crudezza da Celibidache. Quello che interessa è prendere atto, laddove ce ne
fosse ancora bisogno, che la crisi denunciata produce un sensibile restringimento delle possibilità di impiego per i diplomati dei nostri Istituti musicali. Un quadro così asfittico ha un’inevitabile ricaduta sull’educazione,
con il rischio niente affatto remoto di mettere a repentaglio la stessa ragion
d’essere dell’Alta Formazione Musicale, indirizzata per naturale vocazione
alla preparazione dei futuri professionisti.
Da troppo tempo assistiamo a un costante disinteresse, da parte della
classe politica, nei confronti dei Conservatori di musica riformati con la
legge 508 del 1999: gli esempi saranno citati nel corso del libro. Osservare
impotenti e inerti questa deriva non è moralmente né professionalmente
accettabile; non lo merita la parte sana che lavora con assoluta qualità e
passione negli Istituti musicali italiani, ma soprattutto non lo meritano le
generazioni di studenti che, con coinvolgente passione, desiderano affidare
alla musica il proprio futuro professionale, a dispetto delle difficoltà che
sono loro poste di fronte. Il contributo che questo libro vuole offrire è
quello di gettare un sassolino nello stagno della riforma, vittima di quell’inaccettabile indolenza e neghittosità. Gli spunti che sono qui proposti
hanno l’obiettivo di definire organicamente il quadro complessivo del
nuovo ordinamento e l’ambizione di dare un senso compiuto alle cose che
lì vengono proposte. La speranza neanche troppo nascosta è quella di invitare chi opera negli istituti di formazione musicale a contrastare, ognuno
secondo le proprie facoltà, le colpevoli negligenze menzionate.
EROS ROSELLI
3
Angelo Foletto, Sergiu Celibidache: la tenacia e l’intransigenza di un mistico della
musica, in http://heinrichvontrotta.blogspot.it/2005/10/sergiu-celibidache-la-tenacia-e.html
L’uso del virgolettato, o del corsivo che viene riportato, in questa come in tutte le altre
citazioni, è fedele al testo originale.
18
Capitolo primo
Il vecchio ordinamento
Quello che viene correntemente definito “vecchio ordinamento”
(d’ora in avanti VO) è il sistema di istruzione musicale vigente nei Conservatori di musica italiani dal 1930 (quando venne approvato il Regio
Decreto 11 dicembre 1930 n. 1945 che normava l’istruzione musicale) al
2011, anno in cui ogni Istituto Superiore di Studi Musicali (ISSM)1 ha
adottato il proprio regolamento didattico, la cui emanazione, ai sensi dell’art. 14 del D.P.R. 8 luglio 2005 n. 212 (uno dei provvedimenti attuativi
previsti dalla legge di riforma n. 508 del 21 dicembre 1999), determina
di fatto e di diritto il passaggio al nuovo ordinamento. In conseguenza
dell’art. 12 del succitato D.P.R., in applicazione di quanto già previsto
all’art. 7 della legge 508/1999, ogni ISSM consente agli studenti ammessi ai corsi di VO prima dell’entrata in vigore del regolamento didattico la possibilità di completare il percorso secondo la previgente
normativa. Per questo motivo, tutt’oggi troviamo ancora nelle Istituzioni
studenti iscritti al VO, che conserveranno tale status fino al termine del
proprio iter formativo.
Prima di vedere i contenuti che specificano la struttura formativa
come delineatasi nei provvedimenti legislativi intercorsi durante il XX
secolo, è interessante ricostruire, in maniera sintetica, il dibattito che preLa definizione di “Istituto Superiore di Studi Musicali” la si trova nella legge 508 del
21 dicembre 1999. L’art. 2 comma 2 trasforma infatti i Conservatori di musica, l’accademia nazionale di danza e gli Istituti musicali pareggiati in Istituti Superiori di Studi Musicali e Coreutici.
1
19
cedette l’emanazione di quei provvedimenti, prioritariamente incentrato
sul peso da assegnare alla formazione culturale intesa in senso più ampio
in un tipo di istituto pensato, già da prima del ’900, a vocazione tecnicoprofessionale.
1.1. Preparazione culturale e preparazione professionale
Il confronto fra le diverse posizioni assunte in merito all’importanza di
una più qualificata e diversificata preparazione culturale nel percorso degli
studi musicali in Conservatorio è assai vivace e ricco di contributi già a
partire dall’inizio del XX secolo. Si può dire, senza dubbio, che esso rappresenti uno degli argomenti più dibattuti, se non il più dibattuto, nella letteratura prodotta in relazione alla necessità di una riforma degli studi
musicali. La stessa approvazione del Regio Decreto del 1930, che rappresenta il riferimento normativo principale per il VO, fu preceduta da un’ampia discussione anche e soprattutto su questo tema, che vide impegnati
importanti musicisti e musicologi2.
Cercare affermazioni di insigni esponenti del mondo musicale novecentesco nelle quali trovare conferma di quanto fosse sentita l’esigenza di
una migliore preparazione culturale dei musicisti non è in fondo impresa
ardua. Su «La voce», importante rivista italiana di cultura e di politica fondata da Giuseppe Prezzolini e da Giovanni Papini, nel 1909 Ildebrando
Pizzetti ebbe occasione di affermare che
I regolamenti ora vigenti nei nostri Istituti Musicali, sulla ammissione dei
giovani e sugli esami, sono l’espressione di incredibili errori pedagogici e
didattici. Essi impediscono la selezione dei giovani atti agli studi musicali
dagli inetti; essi favoriscono la produzione – chiamiamola così – di pro-
2
Un esame attento e ben documentato del dibattito che attraversò gli anni che precedettero l’emanazione del Regio Decreto 11 dicembre 1930 si trova in Orazio Maione, I Conservatori di musica durante il fascismo, Torino, De Sono 2005. Uno sguardo,
cronologicamente ancora più ampio, sulla letteratura prodotta dall’Unità d’Italia in poi con
riferimento alla formazione musicale lo si può trovare in Carlo Delfrati, Interrogare il passato, marzo 2013, in http://www.musicheria.net.
20
fessionisti incapaci e ignoranti; essi facilitano l’immorale esercizio di favoritismi e protezionismi a qualunque professore voglia usarne3.
E più avanti egli insiste:
Per rendere le Scuole musicali italiane degne non già di stare a pari delle
straniere – le quali non bisogna credere vivano una vita molto più sana e vigorosa e utile delle nostre – ma degne dell’Italia quale noi la vogliamo, bisogna oggi, per prima cosa, che noi – noi giovani musicisti italiani – ci
diciamo francamente quali sono i nostri errori e le nostre colpe (anche il non
far nulla è una colpa) e quale dev’essere il nostro compito del presente e
dell’avvenire. […] Per la nostra vergogna, di analfabeti ce n’è ancora molti
in Italia, […] oggi, per ammettere i giovani in Conservatorio, si chiede proprio solamente che essi non siano analfabeti4.
Il musicista e musicologo Guido Pannain nel 1919, intervenendo sulla
necessità di modernizzare la formazione musicale, facendo riferimento alla
proposta di riforma di Giacomo Orefice di cui si parlerà di qui a breve, si
assume la responsabilità di dire:
Il maestro Orefice parla di riforme da apportarsi anche all’insegnamento
della storia della musica: ma di quale storia si può parlare a un uditorio di
analfabeti d’ufficio, quali sono gli allievi delle scuole musicali italiane?5.
Già negli anni che stiamo qui rievocando, l’impressione è che il confronto
fra chi invoca una maggiore incidenza della preparazione culturale e chi non
ne ravvisa al contrario la necessità veda due schieramenti contrapposti nei
quali militano da una parte compositori, musicologi o direttori d’orchestra e
dall’altra gli interpreti (cantanti e strumentisti). Invero tale ipotetica schematizzazione non corrisponde del tutto al vero: se le citazioni finora qui riportate sono riferite infatti al pensiero di compositori o musicologi – pensiero
che qualche strumentista in carriera avrebbe potuto ritenere affetto da una
Ildebrando Pizzetti, I nostri Istituti Musicali, in «La voce», I, 37, 26 agosto 1909.
Ibidem.
5
Guido Pannain, La Musica e l’Università, Napoli, Casa editrice Sebezia 1919, p. 12.
3
4
21
sorta di atavico snobismo culturale – un altro riferimento ci conduce a Luigi
Forino, illustre violoncellista che fu anche direttore del Conservatorio di Buenos Aires. In una pubblicazione del 1930 egli afferma che
è vergognoso che un esecutore d’orchestra, per modesto che sia, non sappia scrivere quattro parole senza errori di ortografia, di grammatica o di
sintassi e non sappia le più elementari nozioni di storia e geografia6.
Nel clima culturale di inizio ’900, non si può negare quanto fosse centrale l’argomento in discussione. La querelle fra chi sostiene che “troppa
cultura rovina il musicista” e chi dichiara che “troppa ignoranza rovina il
musicista” – ovviamente lontana dall’essere chiusa ancora ai giorni nostri
– rappresenta una questione tanto annosa quanto di assoluta attualità, sulla
quale, con neanche troppo indiretto collegamento con gli stessi scopi di
questa pubblicazione, saremo chiamati a tornare.
Pare doveroso tenere distinti, a questo proposito, due piani di lettura rispettivamente appartenenti alle diverse epoche di cui ci occuperemo: se
negli anni ’30, a causa del basso livello di alfabetizzazione della popolazione italiana, per formazione culturale degli allievi dei Conservatori di
musica si intendeva spesso formazione su materie di carattere generale (italiano, storia, geografia...), ai giorni nostri, colmate le lacune di scolarizzazione più elementari, la necessità di una preparazione culturale più solida
va intesa come maggior rilievo da assicurare ai campi dell’indagine musicale (analisi formale, storia della musica, storia della prassi esecutiva...).
Questa precisazione ci aiuta a collocare meglio la posizione di Luigi Forino: nel libretto citato infatti, al paragrafo intitolato Istruzione complementare7, oltre a mettere in luce, come abbiamo visto, le inaccettabili
carenze culturali degli “esecutori d’orchestra”, egli, facendosi interprete di
un orientamento da sempre piuttosto condiviso, pone al centro dell’attenzione la formazione tecnica strumentale che non deve essere troppo condizionata dalla frequenza delle materie complementari.
Luigi Forino, Come si studia nei Conservatori di musica. Considerazioni e proposte,
Roma, Edizione dell’Annuario Musicale 1930, p. 24.
7
Ivi, pp. 19-26.
6
22
Per affrontare l’argomento dalla parte della regolamentazione degli
studi musicali, facciamo adesso un passo indietro e iniziamo col ricordare
che uno dei regolamenti scolastici più datati, il Primo regolamento degli
studj pel Conservatorio di Musica del 19088, adottato dall’allora Istituto di
Milano, disegnava il profilo degli studi musicali in maniera sostanzialmente pratico-professionale, escludendo una serie di insegnamenti di carattere teorico-speculativo (relativi alla filosofia, alla letteratura, alla
matematica e alle scienze fisiche) che caratterizzavano invece l’offerta del
Conservatoire di Parigi cui le scuole di musica – incluso l’istituto meneghino – si ispiravano per la definizione del proprio assetto didattico. Questa era risultata – e tale rimarrà – l’impostazione vincente in tutti gli istituti
nazionali.
Nonostante i Conservatori di musica avessero quindi da tempo consolidato la propria fisionomia come scuole a prevalente vocazione tecnico-professionale, a distanza di qualche decennio essi manifestavano
evidenti difficoltà nel produrre risultati all’altezza delle aspettative. Riprendiamo ancora le parole di Luigi Forino che, a tale proposito, confermano come
dai nostri conservatori non solo non escono grandi esecutori concertisti,
ma (soprattutto per quanto riguarda gli archi e i fiati), neppure gli elementi
necessari ad alimentare le nostre orchestre. […] Neppure le scuole pianistiche portano a maggiori risultati perché, dato l’immenso numero di studenti […], i risultati delle affollatissime classi non sono davvero troppo
confortanti, ché assai raramente escono dalle nostre scuole pianisti esecutori che possono reggere al confronto degli stranieri.
Son lontani i tempi in cui grandi strumentisti italiani rendevano gloriosa
l’arte strumentistica italiana in tutto il mondo. Oggi c’è, come si dice in
gergo finanziario, un forte deficit commerciale9.
Si faceva largo l’opinione secondo cui un’impostazione avara di formazione culturale in senso ampio fosse una delle cause principali della crisi del
sistema, ravvisabile anche dalla carente quantità e qualità dei professionisti
8
9
Cfr. Orazio Maione, op. cit., p. 6.
Luigi Forino, op. cit., pp. 5-6.
23
di musica che uscivano dagli istituti. Una buona e autorevole parte del
mondo musicale italiano si era convinta che rimanere esclusi, per una serie
di aspetti di forma e di sostanza, dalla vita culturale voleva dire perdere rispetto e considerazione. Per riprendere le parole di Giorgio Sanguinetti:
il vero problema della musica nell’Italia post-unitaria era la sua esclusione
dalla sfera della cultura. Il futuro della musica si giocava sulla possibilità
di farla entrare in questo dominio: altrimenti, quest’arte sarebbe stata sempre più marginalizzata10.
Come giustamente viene fatto notare,
quello dell’incultura dei musicisti era un problema che agli inizi del Novecento venne preso seriamente in considerazione dai musicisti stessi. Non
altrettanto, purtroppo, si può dire dell’altro corno del problema, cioè l’ignoranza della musica da parte della cultura «alta». […] la musica era esclusa
dal novero delle conoscenze obbligatorie per una persona colta. Nel disinteresse totale dalla cultura accademica, le uniche istituzioni che avrebbero
potuto incentivare la cultura della musica […] sarebbero stati i Conservatori: ma anche in questo campo i Conservatori si mostravano drammaticamente arretrati, tant’è vero che, salvo qualche eccezione, la cultura musicale
tra Otto e Novecento si sviluppò in sedi extra-istituzionali11.
Il disinteresse del mondo accademico, la marginalità di cui già soffriva
la cultura musicale in quell’epoca dà l’idea dell’esistenza di forme di isolamento già delineate e probabilmente già con una storia alle spalle.
Una delle conseguenze originate dai limiti che caratterizzavano il sistema degli studi musicali fu l’esigenza, avvertita da molti musicisti – con
particolare riferimento a compositori, direttori d’orchestra e musicologi –,
di completare adeguatamente la propria formazione all’estero. Uno dei musicologi più qualificati vissuti fra il XIX e il XX secolo, Luigi Torchi, ebbe
Giorgio Sanguinetti, La formazione dei musicisti italiani (1900-1950), in Guido Salvetti, Maria Grazia Sità (a cura di), La cultura dei musicisti italiani nel Novecento, Milano,
Guerini 2003, p. 15.
11
Ivi, p. 16.
10
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modo di perfezionare gli studi a Lipsia dopo la formazione in patria. A proposito del tema oggetto di questo paragrafo, Torchi riconosceva tanto la validità della preparazione professionale assicurata dai Conservatori di musica
quanto la carenza di una più qualificata formazione culturale. Nel 1902, infatti, egli scrive:
L’istituto del Conservatorio, che alcuni […] voglion vedere come prodotto
della troppa maturità e forse del regresso della musica italiana, da arte diventata esercizio e accademia, ha reso tuttavia […] i suoi benefizi, e di esso
può giovarsi ancora, come per il passato, la vita artistica del paese12.
Tuttavia
L’istituto del Conservatorio non traversa oggi la fase migliore della sua esistenza; esso vegeta e non risponde a fini artistici, e questo autorizza l’opinione che l’intero suo complesso dovrà essere radicalmente alterato. […]
in breve il dilemma [si pone] nettamente così: o riforma radicale dei Conservatorii di musica o la loro chiusura, visto che esso (sic) sono inutili, anzi
dannosi, come focolari della peggiore specie di proletariato13.
Con un particolare interesse rivolto alla Scuola di Composizione, ma
senza trascurare riferimenti ad altre Scuole strumentali o al canto, in maniera inequivocabilmente esplicita così prosegue Torchi:
Dell’indirizzo moderno degli studii nel Conservatorio è parte indispensabile la cultura generale, che […] si concreta nella scuola di storia della musica e di musicologia […] e nella scuola di letteratura italiana. Allo studente
si offre con ciò il mezzo di esplicare il suo ingegno in forme svariate […].
A lui ne derivano saldi convincimenti; le sue energie si acuiscono, si moltiplicano le sue probabilità di successo in campi inesplorati e che pure nascondono tanti e sì grandi tesori. […] Or bene, mentre l’importanza di
questa cultura musicale è generalmente riconosciuta – all’estero, nelle Università forse più ancora che nei Conservatorii, come ad esempio in Ger-
12
Luigi Torchi, L’educazione del musicista italiano, «Rivista Musicale Italiana», IX, 14, 1902, pp. 888-889.
13
Ivi, p. 889.
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mania, nell’America del Nord e in Inghilterra […]; in Italia, nei nostri Conservatorii, l’unico suo rifugio, essa langue, è piuttosto guardata con certa
diffidenza, fatte poche onorevoli eccezioni, quando non è contrariata più o
meno apertamente, seguendo con ciò un vecchio pregiudizio, per cui si
crede che essa porti un carico soverchio e nocivo alla mente e alla fantasia
dell’artista. […] Ma, siamo giusti, il vero, il grande artista di tutti i tempi
non è forse il risultato di questa duplice fonte di energie: l’ingegno e la cultura? È l’educazione molteplice e plurilaterale che lo forma e lo distingue;
e così avviene anche pel musicista. […] Nell’attuale stato di cose l’organizzazione della cultura musicale e il contenuto artistico di questa organizzazione non concordano; di qui il presente malessere dei Conservatorii
e la necessità della loro riforma14.
Fra chi si spese per richiedere una preparazione culturale più ampia nei
Conservatori di musica non si può non ricordare Giacomo Orefice, docente
di Composizione presso il Conservatorio di Milano, il quale scrive, nel
1918, un articolo intitolato significativamente Conservatorio o Università
musicale?15. Nel suo intervento Orefice esordisce lamentando l’inadeguatezza dei Conservatori rispetto alle “imprescindibili necessità dell’ora presente”16, considerato che detti istituti
continuano a rimanere semplicemente scuole di educazione degli organi
vocali o di insegnamento dell’uno e dell’altro strumento. Non sono invece
affatto – o sono in misura troppo insufficiente – quello che dovrebbero essere: scuole di musica; scuole di coltura musicale17.
Il seguito dell’analisi di Orefice è incentrato sulla disamina dei programmi della Scuola di Composizione allora vigenti, che lui conosce evidentemente da vicino, avanzando anche una dettagliata proposta di
modifica dei contenuti didattici. A partire dalla riforma degli studi di Composizione, ritenuti la “spina dorsale del nuovo organismo didattico”18, si
Ivi, pp. 899-900.
Giacomo Orefice, Conservatorio o Università musicale?, «Rivista Musicale Italiana»,
XXV, 3-4, 1918, pp. 461-480.
16
Ivi, p. 461.
17
Ibidem.
18
Ivi, p. 476.
14
15
26
potrebbe arrivare a una “trasformazione radicale di tutto il Conservatorio”19, grazie alla quale si dovrebbe finalmente superare quella che ai suoi
occhi appare un’inaccettabile divisione della formazione musicale in cellule separate, rappresentate dalle diverse Scuole strumentali o di canto.
Facendo un riferimento niente affatto indiretto alla possibilità di considerare in alternativa, per la formazione strumentale/vocale, l’istruzione privata, Orefice giunge quindi a formalizzare la sua proposta di cambiamento
dell’istituzione-Conservatorio che vale la pena di esporre usando le parole dell’autore:
In modo inverso precisamente a quello che è oggi praticato, la musica, nella
sua più ampia significazione ed essenza, dovrebbe essere lo studio principale del Conservatorio. Tutti gli altri – canto, violino, pianoforte, la composizione stessa – dovrebbero divenire materie complementari.
Può darsi (e non è lecito neppure asserirlo con certezza) che si uscirebbe dal
Conservatorio provvisti di minore virtuosità tecnica; ma non si uscirebbe
più, come oggi, sprovvisti di coltura musicale. E virtuosi, se necessario, si
può diventare, in un anno o due, anche fuori del Conservatorio; mentre la
coltura musicale non si rifà più quando, usciti dal Conservatorio, assillano
le esigenze della professione e della vita […].
Elevato così il Conservatorio a scuola di coltura musicale, ne seguirebbe logicamente che lo potesse frequentare anche chi non intenda fare della musica una professione.
Parlo della grande massa dei dilettanti, che si ha l’abitudine di considerare
come quantità trascurabile, o peggio, mentre sono essi che formano l’opinione pubblica musicale del paese; […] Elevare questa coltura dei dilettanti equivale quindi a elevare l’arte. Equivale, anzi, a concedere all’arte le
sue ragioni di vita. […]
Se noi vogliamo, perciò, un’Italia musicale non indegna delle sue gloriose
tradizioni, e che sappia tener fronte alla prepotente invadenza dell’arte straniera, non dobbiamo contare sull’individuo, e aspettare la rivelazione messianica del genio, che dovrà rialzare le sorti della nostra musica. Non
dobbiamo contare sull’individuo, ma sulla elevazione della coltura musicale della massa.
Questa elevazione […] si otterrà […] sicuramente colla scuola; coll’insegnamento della musica nei Conservatorî, non più limitato a pochi musici19
Ivi, p. 477.
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sti, ma esteso alla portata di tutti. Colla trasformazione, in una parola, del
Conservatorio in Università musicale20.
L’innegabile potenziale rivoluzionario della posizione di Orefice meritava senz’altro lo spazio che gli è stato riservato. Quella proposta, d’altro
canto, costituì in quegli anni uno spunto assai fecondo di riflessione e dibattito, che portò, in ultima analisi, alla costituzione di due schieramenti
contrapposti: uno a favore della tesi di Orefice, l’altro contrario, radunatosi
in misura maggioritaria attorno alla posizione di Ildebrando Pizzetti, il più
influente interlocutore per la classe politica del Ventennio.
Il limite obiettivo, che impedì alla proposta di trasformazione del Conservatorio in Università musicale di affermarsi, consisteva in effetti in un
profilo troppo radicale, che mise in allarme la maggior parte dei musicisti italiani – segnatamente gli strumentisti –, preoccupati dal timore di smarrire il
valore di una tradizione strumentale che aveva comunque prodotto risultati
di assoluto rilievo. Il timore di trasformare i Conservatori di musica in “università popolari per dilettanti” prese il sopravvento. Ricorda Giorgio Sanguinetti quanto acuto e pertinente fu, a questo proposito, l’intervento del
direttore della «Critica musicale», Luigi Parigi, che mise in luce la debolezza
fondamentale della proposta di Orefice: “l’idea che il dissidio tra prassi e
cultura musicale possa essere sanato eliminando la prassi”21:
la cultura si scinde per noi oggi in problema duplice: di pensiero e di espressione, l’efficacia pratica dell’uno non potendo raggiungersi che a traverso
l’altra.
La rieducazione al pensiero esige che ci spogliamo dell’abito empirico della
superficialità sforzandoci di ripensare criticamente tutti i soggetti, alti e
umili che entrano a far parte dell’attività musicale, per riannodarli spiritualmente fra loro in modo da riavere una totalità di vita.
[…] non si vorrà pretendere che se ci manca l’abito filosofico si possa di
punto in bianco trattar filosoficamente.
Qui dunque si rinunzia alla pretesa di far fare al nostro spirito uno sbalzo
brusco e più modestamente (ma con maggiore efficacia) ci si accontenta di
fargli rifare in senso inverso la strada sbagliata, riconducendolo dall’espe20
21
28
Ivi, pp. 478-479.
Giorgio Sanguinetti, op. cit., p. 31.
rienza empirica al pensiero filosofico. Specialmente rimettendo sott’occhio
i limiti estremi degli argomenti, la portata generale, presentandoli insomma
nella totalità particolare, e nella condizione reciproca. Sarà il primo passo
per tornare a considerare in sintesi; in quel modo, cioè, che fa sentire la necessità di ricorrere ai problemi fondamentali o, come altri li chiama, ai
«problemi teorici» dai quali infine ritrae forza di vita la pratica stessa22.
La radicalizzazione del confronto non portò fortuna ai sostenitori della
necessità di un maggior spessore culturale nella formazione musicale. La
conclusione del dibattito portò infatti al varo del Regio Decreto n. 1945
del 1930, che confermava il profilo di un’istituzione sostanzialmente tecnico-professionale, profilo che rimase immutato fino alla fine del ’900.
Il dibattito non si esaurì tuttavia con l’emanazione di detto decreto,
tant’è vero che gli interventi di commento sulla neonata riforma non mancarono di ritornare sul tema di fondo. Ben schierato, in questo dibattito,
si collocò Mario Giulio Fara, musicologo, etnomusicologo, docente di storia della musica e bibliotecario presso l’allora Liceo musicale “Rossini”
di Pesaro. Nel 1932, a proposito dell’appena approvata riforma degli studi
musicali, così si esprime:
Che i vecchi programmi fossero piccoli stretti opachi stagnanti muffiti, sarà
benissimo se c’è chi lo afferma; […] i grandi artisti saltano fuori con qualunque programma d’insegnamento e anche senza e che questi sono fatti per
le mediocrità. […] vediamoli un po’ da vicino questi nuovi programmi che,
secondo alcuni, ci aprono una strada bella.
La storia della musica, intanto, salirà in più alta cattedra. D’ora in avanti il
cantante, il suonatore di contrabbasso e di tromba dovranno sapere discorrere di musica greca, di neumi, del terzo suono di Tartini […]. Non so con
quale vantaggio dell’arte, perché non so se la Grisi Mario Bottesini Brizzi,
tanto per citare, avrebbero saputo discorrere di così interessanti cose e perché non credo che sapendolo avrebbero saputo far meglio nella loro arte di
ciò che non abbiano saputo fare senza avere studiato con i nuovi programmi23.
Luigi Parigi, Illustrazione, «La Critica musicale», II, 1919, pp. 1-2.
Giulio Fara, I nuovi programmi nei Conservatori, «Rivista Musicale Italiana»,
XXXIX, 1932, p. 168.
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