Sole 24 Ore - Marsilio Editori

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n. 294
Il Sole 24 Ore
DOMENICA - 25 OTTOBRE 2015
27
L’aforisma
Letteratura
scelto da: Gino Ruozzi
Pace: quello per cui tutti combattono.
Eric Jarosinski (Nein. Un manifesto, Marsilio, Venezia 2015)
poesia d’oggi
a cura di Paolo Febbraro
Una notte di proiezione di un film dei giovani registi tedeschi
Nella notte ho stramaledetto Dio veramente e con folle rabbia,
una lava rossa e nera che mi saliva dal profondo delle viscere.
Avevo ordinato alla portoghesina Ino un toast
e l’avevo mangiato di gusto prima che mi venisse su dal profondo
l’ira e lo sconforto.
Avevo visto un film della Germania Pallida Madre
L’enigma di Kaspar Hauser del regista Werner Herzog
uno dei giovani tedeschi della Germania Pallida Madre
(è stato tolto loro il finanziamento dal Governo della Germania
Federale e l’hanno dato ai costruttori di flippers
e ai Circoli Cittadini dove si gioca il danaro e si balla
ogni tanto colle vacche Signore dei Signori, quelle
cui puzza l’alito cretino delle ascelle e del cervello.
Nella notte avevo stramaledetto Dio nella notte della notte.
E nella notte ripetevo quello che avrei scritto giunto a casa,
e giunto a casa nel cortile pensai di essere pugnalato alle spalle
mentre orinavo e cercavo in cielo la luna che non c’era
perché sprofondata di prima sera sotto la linea dell’orizzonte.
Questa è una delle tante poesie che devo scrivere
che devono urlare dalle gole dei padri nelle gole dei ragazzi
che le grideranno dappertutto lungo le strade del Duemila
affinché si piangano i vivi di sangue e di anima che sono morti
e si decapitino i morti perché siano seppelliti senza la testa.
L’AUTORE
Umberto Bellintani è nato a San Benedetto Po (Mantova), il 10 maggio 1914. Studia in un istituto d’arte e sogna di fare lo scultore. Prigioniero in Germania dopo l’8 settembre, nel dopoguerra insegna dapprima disegno e poi s’impiega come segreta­
rio scolastico. L’esordio poetico in volume avviene con Forse un viso tra mille
(Vallecchi 1953), cui farà seguito E tu che m’ascolti (Mondadori 1963). Ha notevoli consensi e viene inserito in autorevoli antologie. Eppure decide per un lunghissimo silenzio editoriale, interrotto solo quando raccoglie in volume una scelta dal primo libro e per intero il secondo, aggiungendo una selezione delle poesie inedite scritte fino al 1992. È Nella grande pianura, volume curato da Maurizio Cucchi, dalla cui terza sezione è tratto il testo qui presentato, risalente quasi certamente agli anni Settanta, dato il riferimento al celebre film di Herzog del 1974. Nello stesso 1998 appare anche Canto autunnale (Perosini), a cura di Italo Bosetto. Mentre si rinno­
vano gli apprezzamenti e l’attenzione della critica, Bellintani muore il 7 ottobre 1999.
(tratto da Nella grande pianura)
Mondadori 1998
umberto bellintani
NOTA DI LETTURA
Fra le tante notevoli poesie che Bellintani ci ha dato e a lungo ci ha nascosto, ce n’è una, assai breve, che può essere accostata come una chiosa a quella qui prescelta: «Ho preso una mosca / e l’ho portata al ragno, / più per vedere la cosa / che per pietà del ragno. // La cosa la so da sempre / e l’ha permessa Dio. / Momenti col cuore in pace / momenti che sgozzo Dio». Nel poeta mantovano la devozione alle quotidiane
sconfitte dei marginali e dei “piccoli” non è mai crepuscolarismo e ripiegamento, ma limpida indagine dell’assoluto, desiderio travolgente di verità dura. Per questo, spesso Dio è un’ipotesi colpevole, un fantasma responsabile e fuggitivo, un leopar­
diano «brutto poter». Nei versi lunghi di questa Notte di proiezione ci sono parole che si ripetono percussivamente, l’indignazione è prevaricante e ossessiva, la mente
viene ottenebrata (o anzi, violentemente liberata) dalla crassa ignoranza dei più: resta l’impellenza dello scrivere, un sogno di resurrezione, la vendetta da consuma­
re in futuro contro i decapitati, coloro il cui cervello non è degno di dormire col corpo.
parlare della poesia
julio ramón ribeyro
La terza voce di Brodskij
Il genere dell’intervista, oltre ai versi e ai saggi, è
l’altra forma letteraria in cui il poeta si espresse.
Nelle splendide «Conversazioni» spiega i pilastri
della sua saggezza: l’estetica è madre dell’etica
di Serena Vitale
X
: «Qual è la sua specialità?».
Brodskij: «Sono poeta. Poeta e
traduttore».
X: «Chi ha stabilito che è un
poeta? Chi l’ha inclusa nella
categoria dei poeti?».
Brodskij: «Nessuno (in tono non provocato­
rio). E chi mi ha incluso nel genere umano?».
X: «Lei ha studiato?».
Brodskij: «Che cosa?».
X: «Ha studiato per diventare poeta? Non ha
neppure cercato di finire le superiori, dove preparano... dove insegnano...».
Brodskij: «Non pensavo... non credevo che la
poesia venisse dall’istruzione».
X: «E da cosa, allora?».
Brodskij: «Penso che... (perplesso) che venga
da Dio...».
Cito dalla prima intervista di Iosif Brodskij. Risale al 18 febbraio 1964, quando il giudice popolare E. A. Savel’eva lo interrogò in un tribunale di Leningrado. Da quel processo e dalla successiva
condanna (Anna Achmatova: «Che biografia
stanno preparando per il nostro ragazzo dai capelli rossi! Neanche l’avesse commissionata») ebbero inizio gli eventi che consegnarono il poeta al
mito: eroe del dissenso, reietto, ebreo errante,
Ovidio, Odisseo che non farà ritorno a Itaca... La
morte prematura (1996, a 56 anni) sigillò dolorosamente la leggenda cui il protagonista aveva
sempre opposto una resistenza feroce.
Anche nelle interviste. Tutte quelle rilasciate
nel corso della sua vita riempirebbero, probabilmente, quattro o cinque volumi. Le Conversazio­
ni adelphiane presentano oggi in italiano, con
due aggiunte, una scelta pubblicata (2002) negli
Usa. Disposte in ordine cronologico, le interviste
coprono un quarto di secolo, dal ’70 al ’95, l’età
dell’esilio, del premio Nobel, della nomina a Uni­
ted States Poet Laureate.
Consanguineo a quello dei suoi magnifici
essais, il genere dell’intervista costituisce la terza forma letteraria in cui Brodskij si espresse.
Forma imposta inizialmente dalla cronaca,
dall’interesse che subito destò nella società occidentale il fuggiasco (involontario) dall’Urss,
così diverso dagli altri esuli nel rifiuto di atteggiarsi a martire, di esibire le proprie ferite:
«L’identità del poeta dovrebbe essere costruita
sulle strofe e non sulle catastrofi». Col tempo si
riconobbe in lui il grande - aggettivo che non
poteva essere pronunciato in sua presenza se a
lui riferito - che «nel nero velluto della notte sovietica» (per nulla casuale citazione da Mandel’štam, il «figlio della civiltà» che occupa un posto altissimo nel pantheon di Brodskij) aveva
restituito alla poesia russa il discorso metafisico, riportandola ad altezze vertiginose.
Con gentilezza, attenzione, perfino generosità,
Brodskij rispondeva a chi - giornalisti, letterati,
studiosi - voleva sapere di lui, della sua vita e della
sua arte, del suo Paese. Soltanto una volta, con una
compatriota (Conversazioni esclude le interviste
rilasciate ai russi, e non è un male assoluto) si spazientì: «Dicono che siate una persona arrogante e
inaccessibile, soprattutto con i vostri fratelli emigrati...». Brodskij (indispettito): «Sarà, eppure il
mio telefono squilla come se lo avessero inventato
inquieto | Iosif Brodskij (24 maggio 1940­ 28 gennaio 1996) ieri. Non so quante persone vedo al giorno. Chiudo
la porta in faccia solo ai mascalzoni riconosciuti».
Cento, mille volte, spiegò agli interlocutori i pilastri della sua audace saggezza: l’estetica è madre
dell’etica, il linguaggio della poesia ha uno statuto
metafisico, è la lingua a usare l’essere umano e non
il contrario, rime e forme metriche sono cose giuste e nobili, maestre di disciplina, mentre il verso
libero («libero da cosa?», e il tono della voce si faceva per un attimo aggressivo) è un indecente striptease che obbliga le poesie ad andare nude per il
mondo. Spiegò che cosa fossero in Urss il Samizdat, una kommunalka, una clinica psichiatrica.
Diede ragione delle proprie preferenze in poesia,
prosa, musica, pittura, chiosò magistralmente
l’opera dei poeti da lui più amati.
Per rispondere cento, mille volte a domande
come «a che età ha cominciato a scrivere versi?», «qual è la funzione della poesia?», «cosa ricorda del processo?», «come era Anna Achma-
tova?» eccetera, è necessaria una grande pazienza. La pazienza di Giobbe, e non è solo un
modus dicendi: sulle tracce dell’amatissimo
Šestov, Brodskij abbandonò presto le lezioni
del «professor publicus ordinarius Hegel» per
dare ascolto al «filosofo privato Giobbe». Imparò la giustificazione per absurdum del dolore,
che non è «violazione della regola», l’irrazionale giustificazione della sofferenza («soltanto la
misura della perdita / rende i mortali pari a Dio»
recita un verso del 1972)... Qui è necessario fermarsi: costringere Brodskij in una Anschauung
univoca, definita e finita, fosse pure «la filosofia
del disagio» da lui evocata a proposito di Marina
Cvetaeva o quella «della sopportazione» in cui
si riconosceva, sarebbe irrispettoso nei confronti di un pensiero erratico, inquieto (la sua
aspra musica risuona più nitidamente che altrove nelle Conversazioni, con gli intervistatori,
con la Musa, con se stesso), pronto a smentirsi di
#lezionidamore
«M
i chiedo chi fosse il
pazzo che per primo
inventò il bacio», scrive Jonathan Swift a
proposito di uno dei comportamenti umani – e animali – che più hanno suscitato domande, interesse e sospiri in romanzieri e
poeti, ma anche in psicologi, biologi, e persino neuroscienziati.
Leggendo le poesie di Marziale (40 d.C
- 104 d.C.), che di basia sono ricche quasi
a ogni verso, verrebbe da pensare che sia
lui il formidabile autore di una tale invenzione, se non fosse che dagli studi degli
antropologi sappiamo che le prime fonti
letterarie sui baci risalgono a ben prima:
ai testi vedici indiani scritti in sanscrito
intorno al 1500 a.C. Come sosteneva
Charles Darwin verso fine '800, nel saggio intitolato L'espressione delle emozioni nell'uomo e negli animali, che troviamo citato nel divertente libro della
biologa Sheril Kirshenbaum The Science
of Kissing, la tendenza “al bacio” – o a
comportamenti al bacio assimilabili –
sembra innata e universale.
Che una scienza del bacio si possa o meno davvero realizzare, di certo i baci di Marziale possono dirci molto su un argomento
così impalpabile e difficile da circoscrivere
come i rapporti umani, le relazioni sociali,
le nostre emozioni. Si tratti di baci d'amore,
saluti affettuosi o importune smancerie tra
conoscenti e “clienti zelanti”.
Poeta riflessivo e pungente, che riversa
nei suoi fulminanti epigrammi chiari influssi epicurei, riguardo ai paradossi
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Iosif Brodskij, Conversazioni, a cura di
Cynthia L. Haven, traduzione di Matteo
Campagnoli, Adelphi, Milano,
pagg. 314, € 20,00
eshkol nevo
Twittabilissimi baci di Marziale
di Armando Massarenti
colpo come a raggelarsi in folgoranti paradossi.
Pronto anche a concedersi qualche gustosa
mistificazione. Nel quarto libro delle Storie, lì dove descrive la Scizia, Erodoto parla di un’antica e
misteriosa popolazione, i «Budini»: «Abitano
una terra ricoperta interamente di alberi... tutti
hanno occhi azzurri e capelli rossi». Brodskij aggiunse: «... e sono completamente sbalorditi dalla loro stessa lingua» («The Yowa Review»), inventando, regalandoci un autoritratto finalmente luminoso - i pochi sparsi nella sua poesia sono
decentrati, obliqui, opachi -, quasi felice.
Velenosa quanto meritata fu invece la domanda-trabocchetto che rivolse al corrispondente di «Moskovskie novosti» Dmitrij Radiševskij, responsabile di un «colossale abbaglio»: «È vero - gli aveva chiesto - che la poesia
fiorisce nei Paesi in cui più brutale è la repressione della libertà dello spirito?»... Parlando ormai
d’altro, Brodskij gli chiese a sua volta: «Avete letto Šestov? No? Avete fatto male. Dovreste leggere
Sulla bilancia dello sradicamento», contaminando i titoli di due celebri libri del filosofo russo,
Sulla bilancia di Giobbe e Apoteosi dello sradica­
mento. L’intervistatore intervistato cadde nella
trappola e nell’articolo riportò il falso titre­valise.
Finiti i tempi dell’orgoglio e dell’esaltazione,
nella “nuova” Russia una per ora ristretta cerchia
di snob neosovietici (tra loro molti suoi ex amici e
ammiratori) oggi mette di nuovo sotto processo
Brodskij, a volte riecheggiando - inconsciamente?
- il Solženicyn che nel 1999 sentenziava: « rionfo di
una gelida razionalità... Ginnastica intellettualistica e retorica... Brodskij non ha mai toccato il vasto suolo russo... Quando viveva nel suo Paese non
ha dato alcun solido giudizio politico, soltanto:
“Non mi occupo del benessere altrui”» eccetera.
Con il recentissimo Brodskij tra noi (Mosca, maggio 2015, in russo, arrivato alla quinta edizione) Ellendea Proffer Teasley - vedova di Carl Proffer,
mentore-editore americano del poeta e suo carissimo amico - ha preteso di ricostruire «l’uomo in
carne e ossa»: un inverosimile Brodskij «arrogante, villano, carrierista, scalatore sociale», spudorato millantatore nel raccontarsi agli intervistatori.
«Come andare in estasi per il poeta che s’è scoperto essere un farabutto?», s’interrogano ora, esultanti, alcuni mediocri appassionati di antichi pettegolezzi. Così il mito di Brodskij si arricchisce di
un’estrema ipostasi: Orfeo sbranato dai Pigmei.
dell'amore Marziale si addentra in dilemmi che già conosciamo da Catullo, ribaltandone però spesso il senso, con spregiudicatezza e ironia. Ecco alcuni epigrammi: «Io non ti amo, o Sabidio, e non
posso dirtene la ragione: ti posso dire solo
questo, che non ti amo»; «Ho scritto a Nevia, ma lei non mi ha risposto: dunque
non mi si concederà. Penso però che ha
letto ciò che le ho scritto: dunque mi si
concederà»; «O Galla, tu lo prometti sempre, ma non ti dài mai a me che ti prego. Se
dici sempre il falso, ora ti prego, o Galla,
dimmi di no». Ma è quando si arriva ai ba-
sia che ci accorgiamo in che senso Marziale, del bacio, ha elaborato una vera e propria “filosofia”. Prima regola: non datene
a mezza bocca, controvoglia (piuttosto,
evitate del tutto di baciare!). Bene i baci
umidi «di vecchio falerno e coppe», baci
malinconici, certo, ma in cui si condivide
con l'amante il vino versato. Basia mille,
cioè in quantità? Per Marziale meglio pochi baci, ma buoni, vigorosi e appassionati: «Non voglio tutti i baci che Lesbia diede
all'armonioso Catullo, da lui pregata.
Chiede pochi baci chi può contarli». Sempre alla larga, invece, dai baciatori mole-
sti: «Roma ti dà tanti baci, appena tornato... quanti non ne diede Lesbia a Catullo.
Ti baciano tutti i vicini di casa e l'irsuto colono con la sua bocca che sa di capro...
Non è possibile sfuggire ai baciatori, che
ti vengono incontro in ogni momento».
Infine, come sappiamo anche dalle moderne neuroscienze, l'odore è importante.
Ma non c'è mirra, aroma profumato o balsamo che tenga, se nel bacio dell'amato si
intuisce la “presenza” di un altro: «Cosa
potrò pensare del profumo di mirra dei
tuoi baci e del fatto che hai sempre uno
strano odore? Tu, o Postumo, hai sempre
un buon odore, e la cosa desta in me sospetti. Non ha un buon odore, o Postumo,
chi ha sempre un buon odore». Ecco distillato da Marziale, poeta dei baci, anche il
profumo della gelosia.
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martedì con il sole
Ogni martedì (il 3 novembre, Cartesio) con «Il Sole 24 Ore» sono in edicola (a € 5,90 + il prezzo del quotidiano) le Lezioni d’amore dei grandi filosofi, tratte dai classici Utet, curate e introdotte da Armando Massarenti
marziale
epigrammi d’amore
Dopo 16 settimane, migliaia di tweet
e innumerevoli interazioni, prosegue
la collana della «Lezioni d’amore» che attinge al patrimonio dei classici Utet
per insegnare, grazie alle parole dei grandi maestri del passato, a prendersi cura delle proprie passioni.
#LezioniDAmore è l’hashtag lanciato da @TwitSofia_It insieme alla Domenica (@24Domenica) e a Utet (@UtetLibri), Alla fine della serie un premio ai migliori tweet prossime uscite
7 03/11/2015
Cartesio, Le passioni dell’anima
7 10/11/2015
Apuleio, Amore e Psiche
7 17/11/2015
Voltaire, Non amatevi troppo
7 24/11/2015
Cantico dei Cantici
I cocci e i pezzi
di Giulio Busi
E
r mettere le cose in chiaro, bisogna cominciare dai cocci. Rotti in mille pezzi,
sparsi a terra - attenti a non tagliarvi.
«L’America non è Israele, you must un­
derstand, in America le famiglie sono come i cocci di un vaso e non come i pezzi di un puzzle».
Non è una differenza da poco, perché un vaso in
frantumi si può solo buttare mentre un puzzle,
se proprio volete, potreste anche farcela, a ricostruirlo. Soli e perduti di Eshkol Nevo è un rompicapo all’israeliana, di quelli che ti fanno lavorare
per giorni e poi, come d’incanto, sembra siano
sempre stati così, ogni tessera al posto giusto.
Una cittadina sperduta, dal nome altisonante, «Città dei Giusti». Un posto qualunque, anzi un po’ peggio, poiché nessuno ci
vuole abitare, a causa di una storia di tombe
profanate. Falsa la storia, vera la maledizione,
finché un giorno un lunatico benefattore
americano (quelli dei cocci) regala una bella
somma al municipio, per la costruzione di un
miqveh, il bagno rituale dove le donne s’immergono per purificarsi, dopo il ciclo e il parto. Non occorre dire che anche il miqveh è destinato a restare vuoto, se non che, pagina dopo pagina, Nevo lo riempie di fantasmi, desideri, paure. Vi ricordate il salmo? «Salvami, o
Dio, che giunta mi è l’acqua alla gola... Sono
sceso in fondo all’acqua, la corrente mi travolge». Il bagno è inutile, il salvatore lontano, e
anche l’ortodossia religiosa dei protagonisti
s’intorbida di dubbi. Pezzo dopo pezzo, il puzzle si ricompone. Perfetto, nitido, scorato.
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A spasso
nel mondo
interrotto
di Vittorio Giacopini
S
i muove come un Dante (tabagista) tra
i beati e gli appesi e gli addannati. Julio
Ramón Ribeyro, attorno ai cinquant’anni, attraversava ormai le strade di
Parigi come se fosse l’unico ancora in status viatoris, e il solo vivo, al cospetto di presenze
(sfuggenti)giàassegnateaundestinobloccato
– l’eternità – e prive di autentica esistenza, e di
spessore. In una pagina di queste eccezionali
Prosas Apatridas tale sensazione di estraneità
assoluta e irrevocabile è espressa, anzi proprio
scolpita, alla perfezione. Non si sente superiore Ribeyro, ma abbandonato. «Ho l’impressionesemprepiùnettacheilmondosistiaprogressivamente spopolando… per strada non
incontriamo altro che sagome, figure, simboli…». I frammenti, i flash abbaglianti, le riflessioni, le illuminazioni raccolte in Scritti Apolidi
nascono da questa condizione di estrema (e
rassegnata) distanza da un mondo di occasioni, incontri, sogni e progetti e confusi ideali già
al tramonto. Come Dante, Ribeyro non giudica nessuno ma si imbatte soltanto in chi ha già
subìto un giudizio finale, e non ha più storia.
Vale per gli altri, anime ferme in status reci­
pientis pro meritis, ombre bloccate; vale – in
parte – anche per lui, ed è doloroso.
Scritti apolidi fa di questa sensazione finale
di spaesamento un metodo e un programma
dilavoro.«Vivereinmezzoaifantasmi»,muoversi in un mondo interrotto dove «le persone
disuccessocercanoeincontranosololepersone di successo e i falliti sono falliti»: da questa
situazione, Ribeyro trae l’occasione per ripensare al suo lavoro di scrittore (e di uomo) senza
illusioni. Apatridas non tanto perché scritte in
esilio ma perché inascrivili a un genere preciso, e senza uno schema (non sono né racconti,
né pagine di diario, né aforismi) queste prose
rappresentano forse una forma arrischiata di
confessione ma senza concessioni all’intimismo. Ribeyro è un disperato allegro, e un disilluso. La verità è che tra i “fantasmi” che incontra e in cui si imbatte di continuo ce n’è uno che
gli appare allo specchio, ogni mattina. È una
questione di età e un modo per restare onesti e
non barare. Sarebbe sciocco negare l’evidenza, prendersi in giro: «a una certa età….la vita
comincia a sembrarci insulsa, lenta, sterile,
senza attrattive, ripetitiva, come se ogni giorno non fosse che il plagio del precedente».
Giorni allora vissuti come “plagio” di altri giorni, ripetizioni. Da scrittore – da uomo che lavora«alpuntodiconvergenzatravisibileeinvisibile» – Ribeyro parte da questo smacco per
tentareunbilanciotraperditeeprofitti(edèun
azzardo). A differenza di troppi autori di argute sentenze e stucchevoli aforismi, Ribeyro fa
sul serio, tremendamente. Scrive pensando e
pensa scrivendo (non capita a tutti) e muove
sempre dal quel luogo appartato e inafferrabile dove arte e esistenza si incrociano e smentiscono,divergonoesiscontrano,sisovrappongono. Nella forma difforme dello scritto “apolide” - un enigma - cerca «l’unico modo... per
comunicare con lo scrittore che è dentro di
me».Perfarlo,habisognodibereedifumare(e
di pensare). «Dopo qualche bicchiere, lui
emerge. E sento la sua voce… un po’ monocorde. La registro e cerco di trattenerla finché non
diventa sempre più confusa e finisce per
scomparire quando mi ritrovo ad affogare in
un mare di nausea, tabacco e bruma». La verità, è che il Ribeyro di Scritti Apolidi è un uomo
allegro (e disperato) che vive la sua vita di individuo e di scrittore ormai nella scissione (tra sé
e i suoi Io passati, e tra sé e gli altri). La grandezza del libro sta nel fare di questo scacco l’occasione di un consuntivo lucido e spietato. C’è
un’energia quasi mistica e allucinata e amara e
senza luce in queste pagine, e chi le voglia leggere come un florilegio di massime e precetti
sappia che sbaglia strada e di grosso, perde
tempo. Di collezionisti di perle di saggezza prêt­à­porter, di parassiti della letteratura e
dell’arte è pieno il mondo. Ribeyro non si rivolge a loro; neppure li dedesta, d’altra parte. Si limita a ignorarli, questi fantasmi.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Eshkol Nevo, Soli e perduti, traduzione
dall’ebraico di O. Bennet e R. Scardi, Neri
Pozza, Vicenza, pagg. 264, € 17,50
Julio Ramon Ribeyro, Scritti apolidi, La
Nuova Frontiera, Roma, pagg. 131, € 15,00
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