UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI FEDERICO II FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN GIURISPRUDENZA TESI DI LAUREA IN DIRITTO PROCESSUALE PENALE L’UDIENZA CAMERALE NEL PROCEDIMENTO DI PREVENZIONE PATRIMONIALE Relatore Ch.mo Prof. GUIDO PIERRO Candidato ALDO CIMMINO Matr. 991/006881 Anno Accademico 2011/2012 A Giovanni S., Marco, Ciro, Carlo B., Antonio, Michelangelo, Giovanni A., Carlo E., e a tutti gli altri ragazzi della cooperativa sociale“Il Tappeto di Iqbal” per avermi insegnato il peso del dire e la concretezza del fare, “cercando nello stomaco” lo spettacolo della vita… Il fenomeno (della mafia N.d.A.), evidentemente, non può essere considerato soltanto sul piano della prevenzione e della repressione dei reati ma, come è stato messo in luce nel ricordato dibattito parlamentare e nelle mozioni approvate da questa Camera, occorre una politica volta ad eliminare le condizioni che favoriscono lo sviluppo del fenomeno mafioso: una politica che dia ordine ai fatti economici, che organizzi e programmi lo sviluppo, che riduca lo spazio del «liberismo selvaggio» Atti Parlamentari, Camera dei deputati, n. 1581 La Torre ed altri, 31 marzo 1980 INDICE SOMMARIO Introduzione .................................................................................................................. 1 CAPITOLO I L'EVOLUZIONE NORMATIVA DELLA PREVENZIONE PENALE 1. L’origine della prevenzione penale: la “Legge Pica” ..............................................5 2. Il Ventennio fascista ................................................................................................ 6 3. L’entrata in vigore della Costituzione Repubblicana .............................................11 3.1 Il principio della responsabilità penale personale ............................................................ 11 3.2 Il principio della presunzione di non colpevolezza .......................................................... 15 3.3 Il principio di libertà dell’iniziativa economica privata e il diritto alla proprietà privata 18 4. La prevenzione personale. Dalla “persona pericolosa” agli “indiziati di appartenere ad associazioni mafiose” ............................................................................................. 24 5. L’associazione di tipo mafioso e il contrasto patrimoniale alle mafie. Entra in vigore la “Legge Rognoni – La Torre” ....................................................................... 28 6. Le stragi politico-mafiose dei primi anni ‘90 ......................................................... 32 7. La risposta della società civile. L’associazione “Libera” e la legge del riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie .......................................................................... 34 8. I provvedimenti introdotti durante la XVI legislatura. L’Agenzia Nazionale, il “pacchetto sicurezza” e il codice della legislazione antimafia e delle misure di prevenzione ................................................................................................................. 36 I 8.1 Le novità introdotte dal nuovo Codice Antimafia ............................................................ 38 CAPITOLO II FONDAMENTO E NATURA GIURIDICA DELLE MISURE DI PREVENZIONE Premessa .....................................................................................................................48 1. Le ratio delle misure di prevenzione in generale ................................................... 50 2. Natura giuridica delle misure di prevenzione .........................................................54 2.1 La distinzione tra misure di prevenzione e sanzioni penali ............................................. 54 2.2 Misure di prevenzione e misure di sicurezza ................................................................... 60 3. Le categorie della pericolosità sociale tra codice penale e legge della prevenzione.63 3.1 La pericolosità qualificata ex lege 575/1965.................................................................... 70 3.2 L’associazione di tipo mafioso......................................................................................... 79 3.3 Il concetto di appartenenza............................................................................................... 88 4. La natura giuridica della misura del sequestro antimafia ....................................... 97 5. La natura giuridica della misura della confisca antimafia .................................... 102 II CAPITOLO III LE INDAGINI PRELIMINARI ALLA PROPOSTA E LE CARATTERISTICHE DELLA PROVA INDIZIARIA 1. Le indagini patrimoniali........................................................................................ 106 2. La natura giuridica delle indagini patrimoniali..................................................... 108 3. I soggetti del procedimento di prevenzione patrimoniale: gli organi inquirenti... 110 4. Le fonti probatorie utilizzabili e i mezzi di ricerca della prova ............................ 115 5. La prova indiziaria ................................................................................................ 125 6. Il falso problema dell’inversione dell’onere probatorio .......................................133 CAPITOLO IV L'UDIENZA CAMERALE NEL PROCEDIMENTO DI PRIMO GRADO E NEI GRADI DI IMPUGNAZIONE 1. La competenza territoriale del giudice.................................................................. 140 2. Il decreto di fissazione dell’udienza e l’invito a comparire .................................. 143 3. L’istruzione probatoria ......................................................................................... 145 4. Gli speciali poteri d’indagine del Tribunale ......................................................... 147 5. Le nullità del procedimento di prevenzione ......................................................... 148 6. La pubblicità dell’udienza camerale ..................................................................... 151 7. Il giudizio di impugnazione .................................................................................. 160 8. L’udienza camerale d’innanzi alle sezioni di Corte d’Appello ............................ 163 III 8.1 (segue) L’opposizione nelle forme dell’incidente di esecuzione ................................... 166 9. L’udienza camerale d’innanzi alle sezioni della Corte di Cassazione .................. 169 Conclusioni ............................................................................................................... 172 Appendice di approfondimento: intervista a Franco la Torre figlio di Pio e presidente di Freedom, Legality and Rights in Europe (Flare) .................................................. 177 Bibliografia ............................................................................................................... 182 GIURISPRUDENZA CONSULTATA ...................................................................187 Giurisprudenza Costituzionale .................................................................................. 187 Giurisprudenza di Legittimità ................................................................................... 189 Giurisprudenza di Merito .......................................................................................... 192 Giurisprudenza della Corte EDU .............................................................................. 195 IV Introduzione Sin dagli albori della legislazione antimafia si è puntati al contrasto ai patrimoni di origine illecita. Si capì, sin dal 1982, che la dimensione economica delle consorterie mafiose fosse il vero cuore pulsante delle stesse. Si era infatti compreso che “il vero tallone d’Achille delle organizzazioni mafiose è costituito dalle tracce che lasciano dietro di se i grandi movimenti di denaro, connessi alle attività criminose più pericolose”. L’analisi di queste tracce, nell’ormai consolidata opinione degli operatori del diritto, consentirebbe alla magistratura, “di costruire un reticolo di prove obiettive, documentali, univoche, insuscettibili di distorsioni, e foriera di conferme e riscontri ai dati emergenti dall’attività probatoria di tipo tradizionale”1 Anche l’allora Prefetto Emanuele De Francesco, Alto commissario per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa, pose l’accento sulle coordinate economico-finanziare delle organizzazioni mafiose, soffermando l’attenzione sul rilievo sociale delle nuove misure di prevenzione. Rilievi, avvertiva De Francesco, che permisero al legislatore di ridefinire tale istituti giuridici come immersi in una realtà ora caratterizzata dall’operazione legislativa del 1982, di forgiare ex novo “i termini realistici di attività mafiosa e di mafioso, in quanto interdipendenti con certe sfere valutarie, finanziarie e imprenditoriali, che appunto caratterizzano una parte deteriore della società nazionale ed internazionale”.2 Non più, dunque, quelle coordinate politiche e sociali tendenti a classificare la povertà, il degrado ed il disordine sociale che ne derivava, come parametri della pericolosità, bensì l’accumulazione spregiudicata e irrefrenabile di ricchezze, fondate su attività illecite, rappresentavano, e rappresentano tutt’oggi, l’indice principale che rileva sotto il profilo della pericolosità sociale giuridicamente intesa nell’ambito della prevenzione antimafia. 1 G. FALCONE – G. TURONE, tecniche di indagine in materia di mafia, in AA.VV., Riflessioni ed esperienze sul fenomeno mafioso, in Quaderni del Consiglio Superiore della Magistratura, Anno 1983, p. 46 2 E. DE FRANCESCO, in M. DI RAIMONDO, Lineamenti delle misure di prevenzione, CEDAM, 1983, in prefazione, p. X 1 Il dato certo è il passaggio da una nozione di pericolosità, legata ad una valutazione, quasi “lombrosiana”, delle situazioni di marginalità e dunque di estrema povertà ( si ricordi che i termini utilizzati dalla primissima legislazione sulla prevenzione ricomprendono aggettivi come “oziosi”, “vagabondi”, “manutengoli” composti in “banda armata la quale vada scorrendo le pubbliche vie o le campagne per commettere crimini o delitti”)3 causa di eclatanti disfunzioni dell’ordine pubblico (legate appunto alle scorrerie nelle pubbliche vie o nelle campagne) ad una nozione di pericolosità sociale legata alla dimensione economico-finanziaria dei grandi investimenti. I patrimoni accumulati illecitamente, le attività delle “imprese mafiose”, che prosperano sui territori in quanto fortificate dal potere politico-mafioso, in grado di sbaragliare la concorrenza, e di esercitare il potere forte di intimidazione sul territorio circostante e sulle altre attività economiche che lecitamente, e faticosamente, incarnano quel principio costituzionale della libertà dell’attività di impresa, devono essere sottratti mediante la forza dello Stato. Tale ablazione, neanche può essere considerata incostituzionale proprio alla luce di quelle norme della Costituzione che sono state, nel corso della storia delle misure di prevenzione patrimoniali, più volte assunte violate, in virtù dell’applicazione delle misure patrimoniali antimafia, poste alla loro stessa tutela. Le misure di prevenzione patrimoniale sono, infatti, a tutela di quei principi della Carta Costituzionale cristallizzati negli artt. 41 e 42 Cost., in virtù dei quali è riconosciuta libera l’iniziativa economica privata e viene tutelata e garantita la proprietà privata. Le norme costituzionali ora richiamate, però, specificano inoltre che tali beni giuridici, meritevoli di tutela, non possono essere in contrasto con l’utilità sociale, con la dignità umana, la libertà, la sicurezza. Era inevitabile, allora, che il legislatore ponesse sotto la lente di ingrandimento il reale problema, che non poteva essere semplicisticamente rappresentato da soggetti che “scorrono le pubbliche vie” bensì è la “nuova visione economico-imprenditoriale che la mafia ha ormai fatto propria, con messa in essere di tecniche sofisticate 3 Art. 1, legge 15 agosto 1863, n. 1409, c.d. “Legge Pica” 2 riconducibili al circuito degli istituti di credito, del monopolio degli appalti, dell’acquisizione in subappalto, a mezzo di prestanome, della realizzazione di importanti opere pubbliche, del traffico internazionale di stupefacenti talvolta con produzione propria, nonché tutti i connessi reati tributari e valutari”.4 Con la proposta dell’Onorevole Pio La Torre, di cui oggi ricorre il trentennale da quel 30 aprile 1982, quando anche l’organizzazione criminale “cosa nostra” decise il suo assassinio politco-mafioso, si sposta l’asse dell’azione preventiva e repressiva da quello che era stato l’andamento tradizionale di “inseguire i poveracci” all’illecito arricchimento delle organizzazioni mafiose. Le grandi risorse economico-finanziarie, accumulate illecitamente mediante la forza di intimidazione delle organizzazioni mafiose, connotano la vera essenza della pericolosità sociale e la vera fonte per la realizzazione di azioni criminogene. La prevenzione penale, dunque, si innesta sui comportamenti di spregiudicata accumulazione delle ricchezze che è, allo stesso tempo, causa ed effetto dell’egemonia delle mafie. È causa in quanto consente il radicarsi delle organizzazioni criminali sul territorio ma è anche effetto del loro operato, in quanto provento di reato. Il lavoro che segue, quindi, si propone di analizzare, dal punto di vista della disciplina processuale penale, l’iter per l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali antimafia alla luce del nuovo Codice delle leggi antimafia, approvato con il decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. L’analisi prende le mosse dall’evoluzione normativa della profilassi penale e in particolare dalla “Legge Pica” del 1863 sino alle primissime definizioni giuridiche del fenomeno mafioso, con l’approvazione della legge 31 maggio 1965, n. 575 e poi, definitivamente, con l’approvazione della legge 13 settembre 1982, n. 646 nota come la legge Rognoni – La Torre. Con tale provvedimento viene introdotto il reato di associazione mafiosa, mediante le disposizioni contenute nell’art. 416bis c.p., ma soprattutto vengono introdotte le prime disposizioni in materia di misure di prevenzione patrimoniale, accanto alle già 4 S. P. FRAGÓLA, Le misure di prevenzione, CEDAM, 1992, p. 34 3 previste misure di prevenzione personali contemplate dalla legge 27 dicembre 1956, n. 1423. La legge in esame introduce anche significative modifiche alle leggi 1423/1956 e 575/1965 specialmente per quel che concerne il procedimento applicativo delle misure predette. In seguito, l’approvazione della legge 31 marzo 2010, n. 50 di conversione del d.l. 4 febbraio 2010, n. 4, che ha istituito l’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, e del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, che ha introdotto il Codice delle leggi antimafia, licenziato dal Governo, delegato con legge 13 agosto 2010, n. 136, sono state introdotto nuove e più incisive modifiche specialmente per quel che concerne lo statuto dell’udienza nell’ambito del giudizio d’appello e quello innanzi le sezioni della Corte di Cassazione. Da qui, l’interesse ad esaminare l’argomento dell’udienza camerale nel procedimento di prevenzione patrimoniale, in quanto luogo giuridico per la realizzazione di quelle garanzie tipiche richieste nell’ambito di un procedimento penale, atteso il carattere giurisdizionale penale del relativo procedimento e non amministrativo così come parte della dottrina e della giurisprudenza hanno sostenuto per un periodo. I tentativi di demolizione della costituzionalità delle misure di prevenzione, sia personali che patrimoniali, si sono abbattuti, com’era ovvia che accadesse, sulla struttura del procedimento per l’applicazione delle misure stesse e dunque sul momento processuale dell’udienza. Dai poteri, d’ufficio, d’indagine e acquisizione degli atti, riservati al Giudice, nella fase dell’istruzione probatoria, anche durante il giudizio d’innanzi le sezioni di Corte di Appello, al problema, fittizio, della cosiddetta inversione dell’onere della prova, sino alla questione, affrontata dalla Corte costituzionale, della pubblicità dell’udienza camerale, oggi espressamente prevista dal Codice delle leggi antimafia in tutti i gradi del giudizio di prevenzione. Riconoscere la costituzionalità del procedimento di prevenzione patrimoniale significa riconoscere la compatibilità costituzionale delle misure di prevenzione, finalizzate alla sottrazione dei patrimoni alle mafie che rappresenta uno degli aspetti più importanti nell’ambito della lotta alle mafie. 4 CAPITOLO I L’EVOLUZIONE NORMATIVA DELLA PREVENZIONE PENALE 1. L’origine della prevenzione penale: la “Legge Pica” La prevenzione penale fa ingresso, nel nostro Ordinamento giuridico, con la prima legge di pubblica sicurezza, risalente al periodo storico dell’Italia Unita. La cosiddetta “Legge Pica”, dal nome del deputato pugliese che la propose, fu promulgata il 15 agosto 1863. In essa sono ben visibili alcuni aspetti che successivamente caratterizzeranno gli istituti odierni della prevenzione penale, primo tra tutti, l’individuazione di un preciso ambito della pericolosità sociale. La “legge Pica”, recante: Procedura per la repressione del brigantaggio e dei camorristi nelle provincie infette, era la prima legge speciale dello Stato Unitario, che conferiva al Governo la facoltà di infliggere, previa approvazione di una Giunta presieduta dal Prefetto e composta dal presidente del Tribunale, dal sostituto procuratore del Re e da due consiglieri provinciali,5 la pena del domicilio coatto agli oziosi, ai vagabondi, ai camorristi, ai manutengoli e alle persone sospette.6 Sia la pena prevista, che le categorie alle quali si applica verranno in parte riprese dalla legge fondamentale in materia di prevenzione personale, la n. 1423/56. È interessante notare, inoltre, come questo provvedimento del nuovo Stato italiano non solo fosse l’antesignano dei moderni provvedimenti sulla prevenzione, ma anche precursore dell’attuale reato associativo previsto dal nostro codice penale vigente. La legge Pica aveva cosi introdotto, per la prima volta in una norma, la qualifica generica di camorrista. “Si introduceva già, 142 anni fa, l’ipotesi di un reato-genere (quello del camorrista), che sarà poi ripreso dal famoso articolo 416bis dell’attuale 5 Art. 5 della legge 1409/1863, cosiddetta “Legge Pica” In origine era individuato l’ambito proprio del vagabondaggio e dell’oziosità. Successivamente con l’introduzione della “Legge Pica”, l’applicazione della pena del domicilio coatto si applica anche a soggetti definiti “manutengoli e camorristi”. Cosi disponeva, infatti, l’art 5 legge 1409/1863: “Il Governo avrà inoltre facoltà di assegnare per un tempo non maggiore di un anno un domicilio coatto agli oziosi, a’ vagabondi, alle persone sospette, secondo la designazione del Codice penale, non che ai camorristi, e sospetti manutengoli dietro parere di Giunta composta del Prefetto, del Presidente del Tribunale, del Procuratore del Re, e di due Consiglieri Provinciali”. 6 5 codice penale vigente, che prevede pene per gli appartenenti ad associazioni mafiose e camorristiche”.7 Non meno importante fu la considerazione che si ebbe del fenomeno del “camorrismo” come “un potere parallelo e alternativo rispetto alla sovranità dello Stato, sia sul terreno del monopolio della violenza e dell’ordine sociale, che sul piano dell’amministrazione di essenziali funzioni statali: la tutela dell’ordine pubblico e della convivenza civile, l’esazione dei tributi fiscali”.8 Con le successive leggi di pubblica sicurezza, emanate tra il 1865 e il 1871, in particolare la legge 6 luglio 1871, n. 294 di modifica delle legge Pica, verranno disciplinati, in modo più rigoroso, alcuni istituti come il domicilio coatto e l’ammonizione. 2. Il Ventennio fascista In un contesto, come quello fascista, emerge la figura del Prefetto Cesare Mori e la sua esperienza siciliana. Nonostante i sui metodi di lotta alla criminalità organizzata sono ancor oggi oggetto di discussione, non manca chi li definisce appunto “mafiosi”, fu il primo, in tale contestualità storica, a portare avanti un’azione di contrasto dura ed efficace tanto da fargli meritare l’appellativo di “Prefetto di Ferro”. Dunque, Mori, adotta, contro i mafiosi delle Madonie, una linea dura, quasi una sfida a chi fosse più mafioso. “Cardine di tutta la sua strategia – infatti – fu l’instaurazione di una competizione per l’onore con mafiosi siciliani da svolgere in parte sul loro stesso terreno, in parte fidando sulla superiorità militare e organizzativa dello Stato”.9 È il 20 ottobre 1925, quando il “Prefetto di Ferro” fa il suo ingresso a Palazzo dei Normanni10 con pieni poteri e un decalogo che riassume il suo piano d’azione contro la mafia. 7 In G. DI FIORE, La Camorra e le sue storie, UTET, 2006, p. 69 In F. BARBAGALLO, Storia della camorra, LATERZA, 2010, pp. 29 ss. 9 In P. ARLACCHI, La mafia imprenditrice, IL SAGGIATORE, 2007, p. 38 10 Attualmente sede dell’Assemblea regionale siciliana 8 6 Tra gli obiettivi individuati da Mori vi è anche quello di “ripristinare il normale sviluppo di tutte le sane attività produttive dell’isola, specie quella agricola, costituendo nel rinnovato movimento dei legittimi interessi una delle maggiori controspinte ad eventuali ritorni al passato”.11 Ma nel suo decalogo, si legge, c’è anche l’obiettivo di suscitare nella popolazione locale quel sentimento di ribellione in modo da “creare per la malvivenza un ambiente ostile e per la mafia una spinta espulsiva.”12 Mori, dunque, si convince dell’assoluta necessità, per sconfiggere il fenomeno mafioso a quei tempi, di dover condurre un’azione di carattere sociale, da un lato, ma soprattutto quella di carattere economico. Non solo isolare il fenomeno dal punto di vista economico, favorendo le lecite attività produttive, ma andando, anche, a colpire la mafia nei suoi interessi. In effetti, quella di Mori, è certamente una guerra psicologica che egli intraprende in quanto convinto delle radici «hobbesiane» del potere mafioso: “se i siciliani hanno paura dei mafiosi – afferma Mori – li convincerò che io sono il mafioso più forte di tutti” 13 dichiarò ai suoi collaboratori. Nonostante questo presupposto di partenza, il suo intervento, contro i mafiosi delle Madonie, risultò essere comunque incisivo, proprio perché caratterizzato dall’idea che si dovessero andare a colpire gli interessi dei mafiosi. L’assedio di Cangi fu dunque l’occasione, per il Prefetto Mori, di mostrarsi “più mafioso dei mafiosi” ma con l’avallo della forza dello Stato; rappresentò anche l’opportunità di scorgere i sintomi di un comportamento mafioso, che si sarebbe poi consolidato nel tempo, caratterizzato dal prioritario obiettivo di difendere gli interessi economici illeciti. Così, dopo aver circondato e occupato militarmente il paese di Cangi, correva l’anno 1926, Mori diede a questi ultimi 12 ore di tempo per lasciare i loro nascondigli e costituirsi. L’azione di polizia non ottenne alcun successo di rilievo fino a che Mori non cominciò a mettere in pratica il suo proposito di dimostrarsi il «più mafioso di tutti». 11 A. PETACCO, Il Prefetto di Ferro, MONDADORI, 1975, p. 92 Ivi p. 91 13 Ivi p. 119 12 7 La sua prima trovata consiste nel far spargere la voce che gli ostaggi di Cangi stanno subendo ogni sorta di maltrattamenti. Il trucco funziona solo in parte. Con un decreto – successivamente – egli ordina il sequestro di tutti i beni appartenenti ai banditi. Il sequestro viene compiuto in pieno giorno con grande pubblicità in modo che la cosa non sfugga a nessuno.14 Mori dunque intuisce un passaggio fondamentale, che ormai la “nuova mafia” postbellica aveva compiuto, e cioè il suo sistema di valori aveva spostato l’ asse dal concetto di onore a quello di ricchezza e anzi ci fu una sostanziale identificazione tra onore e ricchezza. Dunque l’onore, che contraddistingueva gli uomini e le donne di mafia, si otteneva attraverso i possedimenti ed il successo economico. Non più i maltrattamenti alle “donne dei banditi” facevano uscire allo scoperto i capi delle cosche, ma bensì il colpo mortale ai loro interessi economici. Gli eccellenti risultati del “Prefetto di Ferro” a nulla valsero, però, e furono cancellati nel preciso momento in cui i gerarca fascisti cominciarono a comprendere che Mori “faceva sul serio” e che non si sarebbe fermato all’ala militare dell’organizzazione bensì sarebbe andato a colpire gli interessi economici e le collusioni dei referenti politici della mafia militare. Tant’è vero che, non solo il prefetto Mori fu “promosso” e mandato via dalla Sicilia, ma certamente le sue intuizioni non furono accolte in un progetto organico di legislazione antimafia. Questa verità è in parte contestata da chi osserva che in ogni caso, al di là dell’operato del “Prefetto di Ferro” si deve considerare la posizione “filo-proprietaria di Mori. È vero, invece, che il regime non amava il consolidarsi di personalità in periferia; tuttavia il prefetto rimase in carica per cinque anni, arco di tempo ben superiore alla media del periodo.”15 Ad ogni modo si deve considerare, che nel periodo della legislazione fascista, la materia della prevenzione personale era disciplinata dal testo unico delle leggi di pubblica sicurezza approvato con r.d. 6 novembre 1926, n. 1848, che introduceva la 14 15 A. PETACCO, Il Prefetto di Ferro cit., p. 103-104 In S. LUPO, Storia della mafia, DONZELLI, 2004, p. 224 nota 42 8 misura dell’ammonizione e il successivo T.U.L.P.S. (Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza) del 1931 che prevedeva la nuova misura del confino in luogo della precedente ammonizione. In questi provvedimenti appariva chiaramente l’intento del regime fascista, da un lato di estendere, in via ordinaria, l’applicazione delle misure di prevenzione anche a soggetti che in qualche modo si ponessero in contrasto con gli ordinamenti politici dello Stato, dall’altro di amministrativizzare il procedimento per l’applicazione delle misure personali, cosi da sottrarre lo stesso a quelle fondamentali garanzie che solo in sede giurisdizionale potevano e possono essere effettivamente salvaguardate. In merito al primo caposaldo della legislazione fascista, va sottolineato l’introduzione del concetto di “pericolosità politica” che permetteva dunque di ricomprendere, nelle categorie di soggetti destinatari delle misure di prevenzione personale, oltre che gli oziosi e i vagabondi abituali validi al lavoro e non provvisti di mezzi di sussistenza (o sospettati di vivere abitualmente con i proventi ottenuti dalla commissione di delitti), anche soggetti definiti, dall’opinione pubblica, come pericolosi socialmente e pericolosi per gli ordinamenti politici dello Stato. O soggetti diffamati, coloro cioè che sono definiti dall’opinione pubblica come colpevoli di determinati reati anche quando, nell’ambito del procedimento penale, siano stati assolti da una sentenza di proscioglimento secondo la formula della insufficienza di prove.16 Inoltre, introducendo la misura del confino si dilatava oltremodo la definizione delle categorie assoggettabili a tale misura fino a colpire qualunque attività od opinione politica avversa al regime. Il secondo cardine, su cui si imperniava la prevenzione fascista, era quella dell’amministrativizzazione delle procedure di applicazione al fine di garantire un migliore controllo dello strumento preventivo e indirizzarlo verso ben determinati fini politici. Di fatti, cadeva la competenza del presidente del tribunale di irrogare la misura dell’ammonizione e subentrava quella di una Commissione Provinciale17. 16 Regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, art. 164 in Supplemento alla Gazz. Uff., 26 giugno, n. 146 L’applicazione della misura del confino era riservata alla discrezionalità della Commissione Provinciale, composta dal Prefetto che la convocava e la presiedeva, dal Procuratore del Re, dal 17 9 Per quanto concerne la prevenzione di carattere patrimoniale, anche di questa il regime fascista si servì per combattere i dissidenti politici. Successivamente con l’approvazione del r.d. 18 giugno 1931, n.773 recante: Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, si introduceva la confisca dei beni sociali delle associazioni, enti o istituti che avessero svolto attività contraria ai dogmi dell’ideologia fascista.18 Dunque ne consegue che la prevenzione è ancora un tema fortemente legato ad un problema di “ordine pubblico”, tra l’altro, nel periodo in esame, nozione estesa anche ad aspetti politico-ideologici che, andando per loro natura in senso inverso all’ideologia fascista, avrebbero di per se denotato problemi di “ordine pubblico”. In tale contesto, l’unico risultato da raggiungere è esclusivamente quello di ripristinare lo status quo precedente ad eventi che avessero sconvolto “l’ordinato vivere civile” senza garantire effettivi interventi preventivi volti a testimoniare, anche, una maggiore consapevolezza dello Stato, relativamente all’origine e alle cause di problemi sociali come quelli di connotazione mafiosa. Questore, dal Comandante Provinciale dell’Arma dei Carabinieri e da un Ufficiale Superiore della Milizia Fascista (artt. 186 e 168). La proposta del confino veniva formulata dal Questore competente per territorio, sulla base delle risultanze di polizia. 18 Così disponeva l’art. 210 del r.d. 773/1931successivamente dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte Costituzionale con sentenza 26 giugno 1967, n. 114: “1) Salvo quanto è disposto nell’articolo precedente, il prefetto può disporre con decreto, lo scioglimento delle associazioni, enti o istituti costituiti od operanti nel regno che svolgono una attività contraria agli ordinamenti politici costituiti nello Stato. 2) Nel decreto può essere ordinata la confisca dei beni sociali. 3) Contro il provvedimento del Prefetto si può ricorrere al Ministro dell’interno. 4) Contro il provvedimento del Ministro non è ammesso ricorso nemmeno per motivi di illegittimità. 10 3. L’entrata in vigore della Costituzione Repubblicana L’esame delle norme della Costituzione, entrate in vigore il 1 gennaio 1948, quelle che durante l’esperienza applicativa delle leggi della prevenzione antimafia sono state più volte oggetto di giudizio d’innanzi alla Corte Costituzionale, è funzionale a individuare gli estremi costituzionale degli istituti giuridici del sequestro e della confisca antimafia. Molti sono stati i dubbi di costituzionalità sollevati con riferimento ad alcuni fondamentali principi della Carta costituzionale in relazione alle misure di prevenzione patrimoniale del sequestro antimafia e della conseguente misura ablativa definitiva della confisca, dai principi previsti dall’art. 27 della Costituzione, al principio della libertà dell’iniziativa economica privata, previsto dall’art. 41 della Costituzione, al principio della proprietà privata ex art. 42 Cost. L’analisi, dunque, delle norme costituzionali ha lo specifico obiettivo di sottolineare la compatibilità costituzionale di tali misure con i parametri costituzionale richiamati. Da qui il bisogno di analizzare la copiosa giurisprudenza costituzionale che, puntualmente, ha contribuito a diramare dubbi di costituzionalità sia nell’ambito della prevenzione personale che in quello della prevenzione patrimoniale. 3.1 Il principio della responsabilità penale personale Decisivo è stato il contributo della giurisprudenza della Corte Costituzionale nell’affermare la piena costituzionalità delle misure di prevenzione rispetto al dettato dell’art. 27 della Costituzione. Tale norma, sancisce che la responsabilità penale è personale. Non solo. L’art. 27 comma 1 della Costituzione, infatti, va oltre l’affermazione della penale responsabilità personale. Un concetto che lega personalità del reato e condizione psicologica di chi lo commette. E dunque “l’assunto che, nel sancire il carattere “personale” della responsabilità penale, i costituenti intendessero porre, quanto meno, l’esigenza di un legame psicologico – e non meramente “causale” – tra fatto e autore, risulta confermato, quando si consideri che l’ordinamento conosce numerose ipotesi in cui, pur non 11 essendo il fatto realizzato “di mano propria” da un soggetto […] esso gli viene attribuito, appunto in base all’esistenza di un legame di ordine psicologico, che lo renda proprio del soggetto”.19 Su tale profilo, indipendentemente dall’analisi della compatibilità costituzionale delle misure di prevenzione antimafia, la Consulta si era già espressa specificando il senso dell’art. 27 Cost. Dapprima indicando un’esigenza di chiarezza che l’ordinamento deve garantire ai consociati. Ed ecco perché la Corte costituzionale specifica che “per precisare ancor meglio l'indispensabilità della colpevolezza quale attuazione, nel sistema ordinario, delle direttive contenute nel sistema costituzionale vale ricordare non solo che tal sistema pone al vertice della scala dei valori la persona umana (che non può, dunque, neppure a fini di prevenzione generale, essere strumentalizzata) ma anche che lo stesso sistema, allo scopo d'attuare compiutamente la funzione di garanzia assolta dal principio di legalità, ritiene indispensabile fondare la responsabilità penale su <congrui> elementi subiettivi. La strutturale <ambiguità> della tecnica penalistica conduce il diritto penale ad essere insieme titolo idoneo d'intervento contro la criminalità e garanzia dei c.d. destinatari della legge penale. Nelle prescrizioni tassative del codice il soggetto deve poter trovare, in ogni momento, cosa gli é lecito e cosa gli é vietato: ed a questo fine sono necessarie leggi precise, chiare, contenenti riconoscibili direttive di comportamento.il principio di colpevolezza e, pertanto, indispensabile, appunto anche per garantire al privato la certezza di libere scelte d'azione: per garantirgli, cioè, che sarà chiamato a rispondere penalmente solo per azioni da lui controllabili e mai per comportamenti che solo fortuitamente producano conseguenze penalmente vietate”.20 Rispetto a tale profilo sembra difficile non ammettere come l’applicazione delle misure di prevenzione nei confronti di preposti che non siano stati, come previsto dalla legislazione di prevenzione, indiziati di appartenere ad associazioni mafiose, ma che risultino essere compartecipi di iniziative criminose, in materia di 19 20 C. FIORE, Diritto Penale. Parte Generale, volume secondo, UTET, 2003, p. 376 Corte costituzionale, 24 marzo 1988, n. 364 12 intestazione fittizia di beni, allo specifico scopo di eludere la normativa vigente in tema di misure di prevenzione antimafia, sia costituzionalmente rispettosa dell’art. 27 Cost. Dunque l’azione di chi volontariamente “presta” il proprio nome al fine di eludere la normativa antimafia e, quindi, agevolare l’attività criminosa per trarre profitti o vantaggi ingiusti, per se o per altri, non può non essere classificata come un’azione penalmente rilevante e perfettamente addebitabile al soggetto che la compie. Non a caso, infatti, i giudici costituzionali hanno ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d’Appello di Palermo con riferimento all’applicazione di misure ablatorie, quali la misura di prevenzione della confisca antimafia, nei confronti di soggetti, che come precisa la Corte, appaiono “sostanzialmente incolpevoli”.21 A tale proposito, chiaramente, si è espressa la Sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Napoli. In un decreto di confisca la Corte territoriale analizza il fondamento giuridico della motivazione alla base della quale è possibile desumere la cosiddetta intestazione fittizia di beni che sono sostanzialmente nella disponibilità del prevenuto. La Corte territoriale, infatti, stabilisce che “con riferimento agli elementi da cui desumere tale disponibilità, la giurisprudenza di legittimità ha fornito alcune indicazioni affermando che, nel caso di beni intestati formalmente a terzi, della 21 Corte costituzionale, 20 novembre 1995, n. 487 nel cui Considerato in diritto si legge: Una misura, quindi, destinata a svolgere nel sistema una funzione meramente cautelare e che si radica su un presupposto altrettanto specifico, quale è quello del carattere per così dire ausiliario che una certa attività economica si ritiene presenti rispetto alla realizzazione degli interessi mafiosi. In una simile prospettiva, ci si avvede allora agevolmente di come i titolari di quelle attività non possano affatto ritenersi "terzi" rispetto alla realizzazione di quegli interessi, considerato che è proprio attraverso la libera gestione dei loro beni che viene ineluttabilmente a realizzarsi quel circuito e commistione di posizioni dominanti e rendite che contribuisce a rafforzare la presenza, anche economica, delle cosche sul territorio. Alla scelta, dunque, di svolgere una attività che presenta le connotazioni agevolative di cui innanzi si è detto, logicamente si sovrappone la consapevolezza delle conseguenze che da ciò possono scaturire, consentendo pertanto di escludere quella situazione soggettiva di "sostanziale incolpevolezza" sulla quale il giudice a quo si è attestato per dedurre le prospettate censure. Ove, quindi, all'esito della temporanea sospensione dall'amministrazione dei beni, emergano elementi atti a far ritenere che quei beni siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego, e si appalesi quindi per questa via ormai realizzata una obiettiva commistione di interessi tra attività di impresa e attività mafiosa, ben si spiega, allora, la funzione e la legittimità del provvedimento ablatorio, giacchè gli effetti che ne scaturiscono si riflettono sui beni di un soggetto certamente non estraneo nel quadro della complessiva gestione del patrimonio mafioso, che a sua volta rappresenta, in ultima analisi, l'obiettivo finale che la confisca mira a comprimere. 13 disponibilità può essere data prova anche mediante indizi, purché gravi, precisi e concordanti; devono essere forniti elementi fattuali idonei a costituire la prova indiretta dell’assunta riferibilità del bene al proposto. Va, altresì, ricordato che la Suprema Corte, proprio nell’affermare il suddetto principio, ha rimarcato la distinzione operata dal legislatore tra terzi intestatari estranei e terzi che abbiano vincoli latu sensu di parentela o di convivenza con il proposto, evidenziando che non è senza significato la distinzione che fa il comma 3 dell’art. 2bis, l. 575/65, fra persone che hanno vincoli con il proposto, sicché è più accentuato il pericolo della fittizia intestazione e più probabile l’effettiva disponibilità da parte del medesimo, e persone diverse dal coniuge, dai figli e dai conviventi infraquinquennali.”22 In altro provvedimento, la Corte napoletana affronta nuovamente il problema della intestazione fittizia dei beni a terzi e della cosiddetta disponibilità indiretta dei beni del proposto. Secondo il Tribunale di Napoli, la cosiddetta disponibilità indiretta “sussiste nell’ipotesi in cui, al di là della formale intestazione del bene ad un terzo diverso dalla persona del proposto, quest’ultimo ne sia l’effettivo fruitore, potendo indisturbatamente determinarne la destinazione o l’impiego. Con l’uso dell’avverbio “indirettamente”, infatti, il legislatore ha inteso chiaramente prevenire ogni possibile elusione della norma sino a ricomprendere beni che, seppur fittiziamente intestati a terzi, facciano parte del patrimonio del proposto o comunque siano da lui utilizzati. La predetta disponibilità non deve, dunque, concretizzarsi in istituti giuridici, essendo sufficiente che l’indiziato possa di fatto poter utilizzare i beni, anche se appartenenti ad altri, come se fosse il vero proprietario (non a caso in dottrina si ricorre al concetto della disponibilità uti dominus) con l’ulteriore precisazione che, secondo alcune pronunce della S.C., nei confronti del coniuge, dei figli e dei conviventi, siffatta disposizione è presunta senza necessità di specifici accertamenti, dal momento che l’art. 2bis della legge n. 575/1965 considera separatamente dette 22 Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 23 giugno 2003, dep. 27 giugno 2005, Reg. Gen. M.P. n. 136/99 + 44/05 + 105/05, Reg. Dec. n. 184/05 “A”, Pres. Cozzi, Rel. La Posta 14 persone rispetto a tutti coloro per i quali, invece, devono risultare gli elementi di prova circa le disponibilità concrete da parte dell’indiziato”.23 3.2 Il principio della presunzione di non colpevolezza Rispetto alla presunzione di non colpevolezza, sancita dall’art. 27, comma 2 Cost., si accentuano i toni di un’incompatibilità costituzionale delle misure di prevenzione patrimoniali e del correlativo procedimento di applicazione. Al riguardo, non mancano indirizzi dottrinari che accusano l’intero sistema della prevenzione antimafia, perché in tale sistema sarebbe insita la violazione dei contenuti di garanzia della presunzione di non colpevolezza. La critica parte dalla considerazione che “sulla base di presunzioni si possa disporre il sequestro, prima, e poi la confisca dei beni. Le presunzioni sono l’esatto contrario del principio di non colpevolezza ed esse non possono avere cittadinanza nemmeno nel procedimento di prevenzione”.24 Sullo specifico problema interviene altra parte della dottrina che pone in luce la relazione tra presunzione della illecita provenienza dei beni, oggetto del procedimento di prevenzione patrimoniale, presupposto di applicazione delle misure stesse, e principio della presunzione d’innocenza costituzionalmente tutelato. Secondo parte di questa dottrina, allora, non c’è un dubbio di costituzionalità. 23 Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 14 dicembre 2010, Reg. Gen. M.P. n. 112/09, Reg. Dec. n. 302/2010, Pres. Del Balzo, Rel. Mazzeo In tale provvedimento la Corte territoriale illustra dettagliatamente quali sono gli indizi per i quali ritiene di poter sostenere la cosiddetta disponibilità indiretta del proposto a fronte di beni di ingente valore economico intestati formalmente a coloro che hanno, con il proposto stesso, vincoli latu sensu di parentela. La Corte napoletana, infatti, afferma, nell’ambito del provvedimento in esame, che in ordine ai beni sottoposti al vaglio giudiziario, questi debbano essere ritenuti solo formalmente intestati al fratello del proposto: “quest’ultimo – scrive la Corte – come già detto, così come il padre (nonché la defunta madre per il periodo di riferimento) e l’odierno proposto hanno presentato dichiarazioni dei redditi che, per la loro assoluta inconsistenza, risultano inidonee già al semplice soddisfacimento delle esigenze di ordinaria amministrazione del nucleo familiare: a fronte di ciò […] non solo ha acquistato […] un appezzamento di terreno di mq. 4195 in un’annualità in cui risulta dichiarato un reddito imponibile di soli 834,59 […]. Ad ulteriore conforto delle tesi prospettate vi è la circostanza che non risulta che da parte del sottoposto o di terzi familiari siano stati operati disinvestimenti di sorta tali da giustificare la disponibilità dei capitali innanzi specificati […]. Concludendo, può ragionevolmente ritenersi, in assenza da parte del proposto e dei suoi familiari di redditi che possano apparentemente giustificare investimenti immobiliari ed imprenditoriali di tali proporzioni, che i capitali impiegati derivano dagli illeciti profitti del proposto, reale detentore del potere dispositivo”. 24 L. FILIPPI, Il procedimento di prevenzione patrimoniale, CEDAM, 2002, pp. 66 ss. 15 Non ci sarebbero insanabili contrasti di coerenza costituzionale se si considera che “le misure in esame sono fondate sulla presunzione dell’origine illecita del patrimonio giustificata dalla qualità di indiziato di mafiosità e dalla sproporzione, ma non si ritiene tale presunzione in contrasto con il principio di colpevolezza e la presunzione di innocenza, perché questi principi non si applicherebbero alle misure preventive (tale presunzione, invece, è ritenuta in contrasto con i principi costituzionali in questione, laddove si vuole fondare su di essa una condanna penale)”.25 Le stesse argomentazioni sono riprese dalla Corte costituzionale quando afferma, in una sua sentenza, pronunciata in seguito alla questione sollevata dal Tribunale di Milano che ravvisava la sostanziale incostituzionalità dell’art.1 della legge 1423/1956 per violazione dell’art. 27 della Costituzione, che debba ritenersi “infondata la questione di legittimità costituzionale in riferimento all'art. 27 della Costituzione. Ed infatti, il richiamo all'art. 27 non é pertinente alla detta questione, perché tale articolo, nelle disposizioni a cui le ordinanze – del Tribunale ricorrente [NdA.] – si riferiscono, riguarda la responsabilità penale e importa la presunzione di non colpevolezza dell'imputato fino alla condanna, mentre le misure di prevenzione, pur implicando restrizioni della libertà personale, non sono connesse a responsabilità penali del soggetto, né si fondano su la colpevolezza, che é elemento proprio del reato”.26 Vero è che le norme oggetto del giudizio di costituzionalità riguardano la prevenzione personale ma in considerazione del rapporto di accessorietà tra misure di prevenzione personali e quelle patrimoniali e poi successivamente, con le riforme del 2009, il rapporto a livello valutativo tra le misure stesse, risulta chiaro che la legittimazione costituzionale delle prime incide pesantemente su quella delle seconde. Va inoltre sottolineato che l’ordinamento giuridico non è certamente estraneo a meccanismi che possano essere definiti come eccezionalmente derogativi rispetto ai principi fondamentali di cui si tratta. 25 F. CASSANO, (a cura di), Le misure di prevenzione patrimoniali dopo il “pacchetto sicurezza”, NELDIRITTO, 2009, p. 63 26 Corte costituzionale 23 marzo 1964, n. 23 16 Un confronto, invero, è possibile con la categorie delle misure cautelari. Queste si applicano sulla considerazione di condizioni generali, quali “i gravi indizi di colpevolezza, senza i quali nessuna persona può essere sottoposta a misura cautelare, e la mancanza di una causa di giustificazione, di non punibilità, di estinzione del reato e della pena che si ritiene possa essere applicata”.27 Inoltre è necessaria l’analisi delle specifiche esigenze cautelari. Allorquando il giudice per le indagini preliminari (se ovviamente la fase presa in considerazione è quella delle indagini preliminari altrimenti è competente il giudice che procede) in virtù della richiesta del pubblico ministero, debba decidere sull’applicazione della misura cautelare, che, dunque, rappresenta un’anticipazione della restrizione di diritti fondamentali, prima che il soggetto sottoposto alle indagini sia riconosciuto effettivamente colpevole, deve valutare, appunto la sussistenza delle specifiche esigenze cautelari espressamente previste dalla legge, come ad esempio quella della pericolosità sociale della persona alla quale si applica la misura. A ben vedere, dunque, questo ragionamento non si discosta poi tanto da quanto la legge espressamente prevede per l’applicazione delle misure di prevenzione. Anche queste, infatti, sono soggette a specifiche condizioni di applicabilità che devono essere valutate dal giudice allorquando sia avanzata la richiesta dall’organo proponente. Dunque le specifiche esigenze costituzionali vengono sacrificate allorché sia necessario applicare una misura cautelare personale, come la custodia in carcere, ovvero una misura cautelare reale, per la quale, tra l’altro, “al massimo rigore previsto per le cautele personali fa da controaltare un rigore meno significativo per quelle reali”.28 Nonostante questo, “la funzione sostanziale della custodia cautelare riceve alla fine il sugello legislativo” specialmente in riferimento alla “finalità incentrata sulle esigenze di tutela della collettività a fronte della pericolosità dell’imputato desunta dalla sua personalità e dalle circostanze del fatto”.29 27 G. RICCIO – G. SPANGHER, La procedura penale cit., p. 227 Ivi, p. 279 29 G. BRANCA (a cura di), Commentario della Costituzione, Rapporti civili (artt. 24-26), ZANICHELLI, 1991, pp. 199 ss. 28 17 Evidente, allora, è da ritenersi la stessa natura argomentativa per quel che concerne le specifiche finalità a cui mirano le misure di prevenzione personali e patrimoniali. 3.3 Il principio di libertà dell’iniziativa economica privata e il diritto alla proprietà privata Come risulta evidente, le misure di prevenzione patrimoniali incidono su due aspetti costituzionalmente garantiti che concernono l’iniziativa economia privata, ex art. 41 Cost., e il diritto alla proprietà privata, tutelato dall’art. 42 Cost. Entrambe le norme sono finalizzate a offrire, ai consociati, tutele effettive che concernono le scelte economiche di ciascun cittadino. Sebbene, quindi, tali scelte non possono essere sindacate dallo Stato, in quanto rientrano nell’ambito di quelle libertà che la Costituzione garantisce a tutti i cittadini, sembra ovvio che gli artt. 41 e 42 Cost., però, prevedessero limiti invalicabili a difesa di quella stessa libertà che, in via di principio, viene riconosciuta ai cittadini; e cioè quelli della utilità e funzione sociale dei beni giuridici in esame. Come a dire, se non è lo Stato, inteso come “complesso di autorità, cui l’ordinamento attribuisce formalmente il potere di emanare e di applicare le norme ed i comandi, mediante i quali lo Stato fa valere la sua supremazia”30, ad influenzare le scelte in campo economico, non potrà certamente influenzarle la supremazia di qualche altro potere che non può non essere definito occulto, proprio come accade per quanto riguarda le organizzazioni criminali di stampo mafioso. Ed invero l’art. 41 della Costituzione sancisce espressamente, al comma 1, che “l’iniziativa economica privata è libera”; al comma 2 specifica che “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo di arrecare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Se questi, dunque, sono i parametri costituzionali che vengono in considerazione, appare evidente come l’applicazione di una misura di prevenzione patrimoniale a soggetti che, essendo ritenuti indiziati di appartenere ad associazioni mafiose, abbiano anche la disponibilità di ingenti ricchezze, nonché la proprietà di attività 30 T. MARTINES, Diritto Costituzionale, GIUFFRÈ, 2003, p. 100 ss. 18 imprenditoriali, si incastri perfettamente nel quadro costituzionale in funzione di tutela di quei beni giuridici richiamati espressamente dalla Carta Costituzionale. Afferma la dottrina, che “è facile osservare come la gestione mafiosa di attività imprenditoriali sconvolga le condizioni che assicurano la libertà di mercato e di iniziativa economica e la funzione sociale della proprietà privata, si da violare gli artt. 41 e 42 della Costituzione. In verità – prosegue questa parte della dottrina – sono gli aspetti imprenditoriali che conferiscono al fenomeno mafioso quella dimensione nazionale e internazionale che gli viene ormai universalmente riconosciuta dal momento che la mafia, nelle sue manifestazioni più attuali, si insinua insidiosamente e surrettiziamente nel tessuto economico dei Paesi in cui opera, ponendosi al confine con la criminalità economica e finanziaria e superando così ogni schema regionale e ogni delimitazione territoriale”.31 Anche gli accertamenti condotti dai giudici di merito, hanno confermato come tali infiltrazioni provochi “turbolenze” influenzando direttamente le scelte imprenditoriali dei produttori non inseriti nei circuiti dell’economia criminale e contro i quali fare fronte pena la fuoriuscita dal mercato.32 Su tali argomenti si è espressa anche la Corte. In una prima ordinanza, risalente al 1987, la Consulta non fa altro che dichiarare la inammissibilità della questione sollevata, in riferimento alla violazione dell’art. 41 31 F. CASSANO, Misure di prevenzione patrimoniale e amministrazione dei beni. Questioni e materiali di dottrina e giurisprudenza, Teoria e pratica del diritto, Diritto e procedura penale, GIUFFRÈ, 1998, pp. 15 ss. 32 Interessante quanto attestano i giudici di merito in relazione alle confische che colpirono, alla fine degli anni ’90, moltissime imprese produttrici di calcestruzzo molto attive nella ricostruzione delle zone campane devastate dal terremoto, in Irpinia, del 23 novembre 1980. Scrivono i giudici della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Napoli che la “So.Ge.Me. Bitum Beton S.p.a.”, (impresa del calcestruzzo nata direttamente dall’iniziativa “imprenditoriale” degli esponenti del clan Nuvoletta, operante tra Quarto di Napoli e Marano di Napoli, N.d.R.) otteneva importantissime commesse […] e la cosa – scrivono ancora i giudici della prevenzione – non poteva non allarmare, non già per valutazioni di ordine etico, quanto piuttosto per i più prosaici risvolti di ordine economico, la Calcestruzzi S.p.a., la Cal.co.bit. S.r.l. e la Maione calcestruzzi S.p.a., che erano prima dell’ingresso sul mercato della So.Ge.Me. Bitum Beton S.p.a., le società titolari delle tre maggiori aziende produttrici di calcestruzzo operanti nel napoletano e che poste, di fronte alla nuova realtà, per neutralizzare le turbolenze indotte nel mercato dai metodi «spregiudicati» e dalla «violenta» ascesa della società concorrente, non trovarono di meglio che consorziarsi ad essa, costituendo nell’ottobre 1982 il Consorzio dei produttori di calcestruzzo preconfezionato di Napoli […]”. Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 23 settembre 1992, Proc. n. 19/89 + 141/90 + 198/90 + 152/91 M.P., Reg. decreti 305/1992, Pres. Peluso, Est. Celentano. 19 Cost., da parte della norma contenuta nell’art.10 della legge 575/1965, per quel concerne la mancata previsione, secondo il giudice a quo, di un termine di durata che possa mettere in condizioni, l’autorità giudiziaria, di riesaminare l’effettività della situazione di pericolosità. In tale ordinanza si legge, infatti, che “alla Corte costituzionale viene sostanzialmente richiesto di operare un'integrazione del sistema normativo, con la indicazione di limiti temporali degli effetti di cui si tratta, e di attribuzione di poteri al giudice penale; una integrazione cioè che implica scelte discrezionali fra più soluzioni possibili, il che compete in via esclusiva al legislatore”.33 L’anno successivo la Consulta pronuncia una nuova ordinanza nella quale la norma denunciata, in riferimento all’art. 41 della Cost., è, tra le altre, ancora l’art. 10 della legge 575/1965. In tale provvedimento la Corte affronta la questione affermando, questa volta, la sostanziale compatibilità della logica di prevenzione, in riferimento a misure ablatorie di carattere patrimoniale, con il dettato costituzionale del principio di libertà di iniziativa economica. La Corte, infatti, afferma che “l'estensione delle misure antimafia ad alcune delle categorie di persone socialmente pericolose previste nella legge n. 575 del 1965, nella parte in cui ciò comporterebbe l'applicazione a queste ultime di sanzioni amministrative accessorie, quali la decadenza da provvedimenti lato sensu ampliativi della loro sfera di iniziativa economica, non appare irragionevole, essendo dettata dalla medesima ratio di impedire, anche in relazione alle predette fattispecie, l'eventuale ingresso nel mercato del denaro ricavato dall'esercizio di attività delittuose o di traffici illeciti”.34 Stesso ragionamento opera la corte in una successiva ordinanza nella quale, questa volta, ad essere denunciate sono le norme contenute negli artt. 10 ter e 10 quater della legge 575/1965. Anche in quest’occasione, la Corte, afferma la piena costituzionalità delle misure patrimoniali. 33 34 Corte costituzionale (Ord.), 3 dicembre 1987, n. 450 Corte costituzionale (Ord.), 16 giugno 1988, n. 675 20 Afferma che “la norma appare costituzionalmente legittima, in quanto é di tutta evidenza che essa tende a colpire, non solo il prevenuto, ma anche quei soggetti la lesione dei cui interessi economici è giustificata dal fatto che, per aver essi acconsentito a svolgere attività economiche in comune con la persona che, a causa dell'appartenenza ad associazioni criminali e sottoposta a misure di prevenzione, e presumibile che siano a conoscenza di tali circostanze, dato il contesto sociale in cui agiscono”.35 Non solo, ma i giudici costituzionali aggiungono che “l'ordinanza di rimessione, nel formulare tale censura, non tiene conto del motivo ispiratore della norma denunciata, la quale, volendo impedire agli appartenenti alla criminalità organizzata di gestire, seppure indirettamente, attività economiche, tende a sminuire il loro ruolo eversivo nella società e ciò proprio a tutela dei diritti fondamentali indicati nel secondo comma dell'art. 41 della Costituzione (pur citato nella stessa ordinanza di rinvio) e in conformità al criterio dell'utilità sociale, cui non corrisponde certo lo svolgimento di iniziative economiche presuntivamente collegate ad attività criminali”.36 In una sentenza del 1992 la Consulta non fa altro che ribadire tali argomentazioni. La questione sollevata, questa volta, è in riferimento alla fattispecie incriminatrice prevista dall’art. 708 c.p. (possesso ingiustificato di valori). Rispetto a tale norma, sottolinea il giudice a quo, non sarebbe concepibile una norma, come l’art.708 c.p., che sanzionasse il possesso di denaro o altre ricchezze di cui non si riesca a dimostrare l’illegittima provenienza, poiché questo possesso sarebbe costituzionalmente garantito dall’art. 42 della Cost. Su tali censure, dapprima, l’Avvocatura Generale dello Stato sottolinea come la proprietà, e dunque il possesso, in quanto situazioni giuridicamente protette, non sono di per se stesse situazioni in grado di vietare la possibilità, per lo Stato, di sanzionare i modo illegittimi della loro acquisizione. La Corte, inoltre, sottolinea come tale profilo sia intimamente collegato alla prevenzione antimafia ritenendo che, al di là della correttezza delle argomentazioni svolte dal giudice a quo, “non può non sottolinearne anche l'attualità delle molteplici 35 36 Corte costituzionale (Ord.), 9 marzo 1989, n. 105 Ibidem 21 e mutevoli forme con le quali «lo svolgimento di iniziative economiche» viene a collegarsi «ad attività criminali». In questa medesima linea ispiratrice la Corte ha dichiarato la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionali di alcune disposizioni relative alle misure di prevenzione, in quanto poste a salvaguardia della genuinità dei traffici economici e della corretta osservanza delle regole del mercato. É stato rilevato infatti, che «la ratio» di queste disposizioni consiste «nell'impedire, anche in relazione alle predette fattispecie, l'eventuale ingresso nel mercato del denaro ricavato dall'esercizio di attività delittuose o di traffici illeciti»”.37 Con tale pronuncia la Corte sottolinea la legittimità costituzionale della norma dell’art.708 c.p. in riferimento all’art. 42 Cost. richiamando, così, quella delle misure di prevenzione patrimoniali antimafia, utilizzate come parametro giuridico di raffronto. Dall’ottica visuale della dottrina tale problema di costituzionalità appariva ormai superato. Autorevole dottrina, infatti, ha specificato come le misure di prevenzione patrimoniale, al contrario, ritrovino ampia copertura costituzionale sia con riferimento all’art. 41 Cost. che all’art. 42 Cost. Non solo, la dottrina, già allora, riteneva che tali problemi di costituzionalità fossero stati superati, “sicché gli eventuali persistenti dubbi di legittimità conseguono, oggi, solo al vincolo di stretta dipendenza tra applicabilità della misura patrimoniale e applicabilità di quella personale, posto che le obiezioni di legittimità che tradizionalmente involgono queste ultime finiscono inevitabilmente col riverberarsi sulle prime.”38 Anche tale dubbio è stato abbondantemente dissipato in seguito all’introduzione, nel nostro ordinamento giuridico, dei c.d. “pacchetti sicurezza” del 2009 che hanno, appunto, introdotto il principio di applicazione disgiunta delle misure patrimoniali da quelle personali. Quanto all’art. 42 della Cost. (sul diritto alla proprietà privata), è evidente, dunque, che diritti di rango costituzionale richiedano un elevato livello di tutela. È, però, anche vero che la stessa norma costituzionale prevede il limite della funzione sociale 37 38 Corte costituzionale, 19 novembre 1992, n. 464 F. CASSANO, Misure di prevenzione patrimoniale cit., p. 13 22 del diritto di proprietà. Corollario di tale impostazione è chiaramente l’atteggiamento di un ordinamento giuridico che preveda delle deroghe al diritto stesso quando questo si ponga in contrasto con la sua funzione sociale prevista dalla Costituzione. Ecco perché non si può dubitare della costituzionalità delle misure di prevenzione patrimoniale anche sotto questo specifico profilo. Anche in questo caso è intervenuta la giurisprudenza della Consulta grazie ad un’ordinanza di remissione del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. In tale ordinanza il Tribunale, infatti, solleva la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2ter della legge 575/1956 nella parte in cui non prevede che le misure ablative patrimoniali possano essere applicate anche nei confronti di beni la cui titolarità riguardi soggetti defunti (problema, anche questo, superato con le riforme del 2008 – 2009). Il ragionamento del Tribunale si pone in un’ottica di pieno rispetto delle esigenze costituzionali previste dall’art. 42 Cost. secondo cui “la garanzia della proprietà in tanto varrebbe in quanto possa assolvere la propria funzione sociale che consiste nella sua capacità di favorire e incrementare lo sviluppo di altri diritti costituzionalmente protetti. Ma se ciò non avviene, e se anzi si verifica la " mortificazione " di quella funzione, il diritto di proprietà diviene antisociale e ne viene meno la ragione di tutela, una valutazione, questa, rispetto alla quale risulta ininfluente la circostanza della esistenza in vita dell'interessato, proprio perchè si tratta di una antisocialità che segue il bene”.39 La Corte dichiarerà, poi, la inammissibilità della questione sollevata in quanto l’ordinanza di remissione del giudice a quo proponeva una vera e propria scelta di politica criminale che non rientra nelle competenze della Corte Costituzionale. 39 Corte costituzionale, 8 ottobre 1996, n. 335 23 4. La prevenzione personale. Dalla “persona pericolosa” agli “indiziati di appartenere ad associazioni mafiose” È dal secondo dopoguerra in poi che il nostro ordinamento giuridico vede la progressiva formazione di una legislazione antimafia anche se piuttosto disorganica. Tale disorganicità è dovuta al fatto che, nonostante la storia ormai secolare delle organizzazioni criminali, la normativa antimafia è il risultato di una politica legislativa “emergenziale”. Le disposizioni di legge in materia sono il frutto, dunque, di un’azione parlamentare caratterizzata dall’urgenza e dalla necessità dello Stato, di rispondere alle stragi di mafia che hanno caratterizzato una stagione particolarmente triste della storia del nostro Paese. Vengono quindi predisposti una serie di provvedimenti che cominciano a delineare i caratteri proprio della criminalità di tipo mafioso, dalla definizione delle persone pericolose, fino alla codificazione dell’associazione di tipo mafioso e l’introduzione delle misure di prevenzione personali e patrimoniali. Sono sopratutto quest’ultime a rappresentare il vero punto di svolta di tutta la normativa antimafia. Le misure di prevenzione patrimoniali, rappresentano infatti la capacità dello Stato di colpire le ingenti ricchezze che le organizzazioni criminali accumulano illecitamente, il vero cuore pulsante della criminalità mafiosa. L’iter che giunge a tale risultato parte dall’introduzione, nel nostro ordinamento giuridico, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, recante: Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità.40 L’originario testo dell’art. 1 della legge in esame, prevedeva ben cinque categorie di soggetti destinatari della diffida del questore e del conseguente avvertimento di 40 “Le misure di prevenzione entrano ufficialmente a far parte del nostro sistema penale del controllo sociale con la legge 27 dicembre 1956, n. 1423, introdotta nel nostro ordinamento giuridico con lo scopo di «giurisdizionalizzare», almeno nei momenti salienti, il procedimento di applicazione di un complesso di misure, fino ad allora rimesse in buona parte alla discrezionalità dell’autorità di PS.” In C. FIORE, Diritto Penale. Parte Generale cit. 24 mutare condotta, pena l’applicazione, nei loro confronti, delle misure di prevenzione personali.41 Il nuovo testo dell’art. 1, interamente modificato dalla legge 3 agosto 1988, n. 327, ne prevede soltanto tre: “coloro che debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che siano abitualmente dediti a traffici delittuosi”, “coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivano abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose”, “coloro che per il loro comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica”. Dunque, come si osserva dal dettato normativo, il legislatore introduce precisi e tassativi parametri comportamentali, garantendo un momento valutativo che si basi esclusivamente sugli elementi di fatto, scongiurando la possibilità che il provvedimento della misura personale, potesse essere annoverato tra quelli ispirati alla cultura del sospetto. Le modifiche introdotte dalla legge del 1988 sono, d’altronde, in linea con una certa giurisprudenza costituzionale, la quale ha ritenuto autorevolmente che è da escludersi, in riferimento ai numeri 2, 3 e 4 dell’articolo 1 della legge n. 1423 del 1956, che “le misure di prevenzione possano essere adottate sul fondamento di semplici sospetti, richiedendosi invece, un’oggettiva valutazione dei fatti da cui risulta la condotta abituale e il tenore di vita della persona o che siano manifestazioni concrete della sua proclività al delitto, e siano state accertate in modo da escludere valutazioni puramente soggettive e incontrollabili da parte di chi promuove o applica le misure di prevenzione”.42 41 Cosi disponeva l’art. 1 della legge 1423/1956: “Possono essere diffidati dal questore: 1) gli oziosi e i vagabondi abituali, validi al lavoro; 2) coloro che sono abitualmente o notoriamente dediti a traffici illeciti; 3) coloro che per la condotta o il tenore di vita debba ritenersi che vivano abitualmente, anche in parte, con il provento di delitti o con il favoreggiamento o che, per le manifestazioni cui abbiano dato luogo, diano fondato motivo di ritenere che siano proclivi a delinquere; 4) coloro che, per il loro comportamento siano ritenuti dediti a favorire o sfruttare la prostituzione o la tratta delle donne o la corruzione dei minori, ad esercitare il contrabbando, ovvero ad esercitare il traffico illecito di sostanze tossiche o stupefacenti o ad agevolarne dolosamente l’uso; 5) coloro che svolgono abitualmente altre attività contrarie alla morale pubblica e al buon costume”. 42 Corte costituzionale, 4 Marzo 1964, n. 23 25 La stessa Corte, nel 1980, ha poi dichiarato la illegittimità costituzionale del n. 3 dell’articolo 1 che non descrive, infatti, ne una o più condotte, né alcuna “manifestazione” cui riferire un accertamento giudiziale. Quali “manifestazioni” vengono in rilievo, è rimesso al giudice già sul piano della definizione della fattispecie, prima che su quello dell’accertamento. I presupposti di “proclività a delinquere”- continua la Corte Costituzionale - non hanno qui alcuna autonomia concettuale del giudizio stesso. La formula legale non svolge la funzione di un’autentica fattispecie di individuazione dei casi ma offre agli operatori uno spazio di incontrollabile discrezionalità”.43 La legge del 1956 introduce, dunque, il principio della “pericolosità comune” in base alla quale ai soggetti descritti si possono applicare le misure di prevenzione personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ed a cui può seguire l’obbligo di soggiorno.44 A distanza di nove anni dalla legge 1423, viene introdotta, nel nostro ordinamento giuridico, la legge 31 maggio 1965 n. 575 recante: Disposizioni contro la mafia.45 In questo modo gli strumenti delle misure di prevenzione personali vengono estesi ai soggetti indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso in ragione della loro pericolosità (questa volta “qualificata” in conseguenza dell’appartenenza all’associazione di tipo mafioso). La novità dalla normativa del 1965 risiede, in particolare, in un inasprimento del regime di prevenzione nei confronti dei soggetti definiti mafiosi. Non solo vengono estese al Procuratore della Repubblica presso il tribunale nel cui circondario dimora la persona, le facoltà già previste in capo al Questore, ma si prevede che le misure applicate siano quelle della sorveglianza speciale della 43 Corte costituzionale, 16 dicembre 1980, n. 177 Cosi recita l’art. 3 della legge 1423/1956: “1) Alle persone indicate nell’art. 1 che non abbiano cambiato condotta nonostante l’avviso orale di cui all’articolo 4, quando siano pericolose per la sicurezza pubblica, può essere applicata nei modi stabiliti negli articoli seguenti, la misura di prevenzione della sorveglianza speciale della pubblica sicurezza. 2) Alla sorveglianza speciale può essere aggiunta, ove le circostanze del caso lo richiedano, il divieto di soggiorno in uno o più Comuni o in uno o più Province. 3) Nel caso in cui le altre misure di prevenzione non sono ritenute idonee alla tutela della sicurezza pubblica può essere imposto l’obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di dimora abituale comune”. 45 il titolo della legge verrà modificato dall’entrata in vigore dei c.d. “pacchetti sicurezza” approvati durante la XVI legislatura. In particolare l’art. 2 comma 5, del legge 94/2009 prevede che: “ il titolo della legge 31 maggio 1965, n. 575, è sostituito dal seguente: “Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere”. 44 26 pubblica sicurezza, congiuntamente al soggiorno obbligato ( cade quindi il carattere di accessorietà di tale misura previsto invece dalla precedente legge del 1956). L’applicabilità della normativa antimafia viene estesa dall’approvazione della legge 22 maggio 1975 n. 152 recante: Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico. Il provvedimento in esame, noto come “Legge Reale”, dal nome del suo proponente e Ministro Guardasigilli, Oronzo Reale, prevede, agli articoli 1846 e 1947, l’applicazione delle misure di prevenzione a nuove tipologie di pericolosità e a tipologie previste dalle precedenti leggi. L’ordinamento giuridico, dunque, avverte l’esigenza di differenziare le condotte criminogene e di specificare il carattere mafioso di queste. Tuttavia le norme introdotte con la legge 575/1965, pur facendo riferimento agli indiziati di appartenere ad associazioni mafiose, non definiscono i caratteri propri dell’ associazione di stampo mafioso. Durante il periodo di prima applicazione di tali norme, infatti, si riscontra una sostanziale impossibilità al raggiungimento di risultati concreti. Si riscontra, cioè, nell’attività di contrasto alla criminalità mafiosa, un difetto strutturale dell’impianto normativo fino a quel momento predisposto. Una realtà, quella di fine anni ’70, emblematicamente rappresentata “dal ghigno beffardo di tanti boss mafiosi graziati con la formula dell’insufficienza di prove. 46 L’art. 18, comma 1 della legge 152/1975 prevede: “ le disposizioni della legge 31 maggio 1965, n. 575, si applicano anche a coloro che: 1) operanti in gruppi o isolatamente, pongano in essere atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti a sovvertire l’ordinamento dello Stato, con la commissione di uno dei reati previsti dal capo I, titolo IV, del libro II del codice penale o dagli articoli 284, 285, 286, 306, 438, 439, 605 e 630 dello stesso codice; 2) abbiano fatto parte di associazioni politiche disciolte ai sensi della legge 20 giugno 1952, n. 645 e nei confronti dei quali debba ritenersi, per il loro comportamento successivo, che continuino a svolgere una attività analoga a quella precedente; 3) compiano atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti alla ricostituzione del partito fascista ai sensi dell’articolo 1 della citata legge n. 645 del 1952, in particolare con l’esaltazione o la pratica della violenza; 4) fuori dai casi indicati nei numeri precedenti, siano stati condannati per uno dei delitti previsti nella legge 2 ottobre 1967, n. 895, e negli articoli 8 e seguenti della legge 14 ottobre 1974, n. 497, e successive modificazioni, quando debba ritenersi, per il loro comportamento successivo, che siano proclivi a commettere un reato della stessa specie col fine indicato nel precedente n. 1” 47 L’art. 19, comma 1 della legge 152/1975 prevede: le disposizioni di cui alla legge 31 maggio 1965, n. 575, si applicano anche alle persone indicate nell’articolo 1, numeri 2), 3) e 4) della legge 27 dicembre 1956, n. 1423”. 27 O – quando proprio andava male – spediti a bordo d’un barcone nelle minuscole isole di Linosa o Filicudi per quel soggiorno obbligato che non avrebbe intralciato i loro traffici più di tanto”.48 5. L’associazione di tipo mafioso e il contrasto patrimoniale alle mafie. Entra in vigore la “Legge Rognoni – La Torre” Alla definizione delle caratteristiche proprie dell’associazione mafiosa, non che alla necessità di introdurre provvedimenti di prevenzione di carattere patrimoniale, si giungerà solo diciassette anni più tardi, con l’approvazione della legge 13 settembre 1982 n. 646 recante: Associazione a delinquere di tipo mafioso e disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale. La legge 646, meglio nota come “Legge Rognoni – La Torre”49, può essere considerata come una vera e propria svolta legislativa, in materia di contrasto alla criminalità organizzata. Non solo l’introduzione, nel nostro codice penale vigente, del già citato articolo 416bis50, che identifica il fenomeno criminoso della mafia come fenomeno unitario e a se stante,51 autonomamente perseguibile in quanto tale ed indipendentemente dalla 48 In S. LODATO, Trent’anni di mafia, BUR, 2006, p. 7 Anche questo provvedimento è frutto del carattere emergenziale che connota la maggior parte del quadro normativo antimafia. Fu infatti approvata soltanto dopo l’assassinio del segretario regionale siciliano del P.C.I. e membro della Commissione parlamentare antimafia, non che proponente della stessa legge 646, l’onorevole Pio La Torre, e del suo collega Rosario Di Salvo, il 30 aprile 1982 in Via Generale Turba a Palermo e successivamente del Prefetto di Palermo, il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, assassinato il 3 settembre 1982 nella strage di Via Carini a Palermo, in cui persero la vita anche la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo. 50 L’art. 416bis c.p. da ultimo modificato dal d.l. 23 maggio 2008, n. 92 convertito in L. 24 luglio 2008, n. 125 (cosiddetto “pacchetto sicurezza”) è rubricato “Associazioni di tipo mafioso anche straniere”. Al primo comma prevede: “Chiunque fa parte di un’associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone è punito con la reclusione da sette a dodici anni”. Il successivo terzo comma specifica le caratteristiche proprie dell’associazione mafiosa e cosi dispone: “L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgano della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto la gestione o comunque in controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per se o per altri ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a se o ad altri in occasione di consultazioni elettorali”. 51 “La definizione del delitto di associazione di tipo mafioso è data con riferimento alla mafia per la precisa identità sociologica e giuridica che questo sodalizio ha assunto”. (Cass., VI, 10 luglio 1984, n. 713); La Suprema Corte di Cassazione ha inoltre ritenuto, sancendo definitivamente l’autonomia di tale delitto, e dunque la sua perseguibilità, dalla commissioni di altri reati, che: “La forza di intimidazione dell’associazione mafiosa consiste nella capacità di suscitare terrore scaturente 49 28 commissione di singoli delitti, ma anche il sequestro e la confisca “antimafia” fornivano alla magistratura adeguati strumenti giudiziari di contrasto alla criminalità mafiosa.52 In sintesi i caratteri che contraddistinguono questo provvedimento legislativo possono essere cosi riassunti; da un lato l’introduzione delle misure di prevenzione patrimoniali, dall’altro il tentativo dell’isolamento del sistema economico territoriale dell’indagato che si realizza attraverso la codificazione di disposizioni che prevedono, per il soggetto accusato, la decadenza o la sospensione di licenze, iscrizioni e concessioni di cui dispone. Tutto questo viene reso possibile in quanto la legge 646/1982 prevede la formazione di un elenco generale degli enti e delle amministrazioni legittimati a disporre le licenze, iscrizioni e concessioni prescritte prevedendo, in capo a tali soggetti, la responsabilità di recidere qualunque rapporto con chi risulta essere assoggettato a misure di prevenzione patrimoniali. Il provvedimento in esame, oltre a definire dettagliatamente l’ambito di applicazione della legge 575/1965,53 introduce in quest’ultima gli articoli 2bis, 2ter e 2quater. Queste integrazioni cambiano radicalmente la strategia di contrasto, imperniandola sull’asse patrimoniale. Le innovazioni introdotte dagli articoli di legge sopra citati possono essere cosi sintetizzati: viene assicurato il collegamento tra l’ambito della prevenzione dall’associazione in quanto tale, la quale, pertanto dev’essere dotata di specifica potenzialità a ingenerare uno stato di sudditanza psicologica, indipendentemente dal compimento di particolari atti di violenza o minaccia, tant’è che la forza intimidatrice fa parte del patrimonio dell’associazione di tipo mafioso”. (Cass., I, 15 dicembre 1986, n. 14134) 52 Le innovazioni introdotte dal provvedimento legislativo, noto come “Legge Rognoni-La Torre”, furono determinanti ai fini del lavoro d’istruzione svolto dal Pool Antimafia di Palermo costituito dai giudici Antonino Caponnetto, Leonardo Guarnotta, Giuseppe Di Lello, Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. Il pool istruì cosi il “Maxiprocesso” contro i vertici di Cosa Nostra siciliana. Il più imponente procedimento giudiziario che la storia conosca, si apre a Palermo il 10 febbraio 1986 con circa 474 imputati. Si conclude, il 16 dicembre 1987, con 19 ergastoli e 2665 anni di carcere inflitti. Nonostante l’omicidio del giudice Antonio Scopelliti, che avrebbe dovuto sostenere l’accusa in Corte di Cassazione, con chiari scopi intimidatori, il 30 gennaio 1992 la Suprema Corte conferma gli ergastoli del “Maxiprocesso”. 53 Viene infatti modificato, dall’art. 13 legge 646/1982, l’art. 1 legge 575/1965 che cosi disponeva, prima delle modifiche introdotte dal d.l. n. 92/2008 convertito con legge n. 94/2008 e dal d.l. n. 4/2010 convertito con legge n. 50/2010 : “La presente legge si applica agli indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, alla camorra o ad altre associazioni, comunque localmente denominate, che perseguono finalità o agiscono con metodi corrispondenti a quelle delle associazioni di tipo mafioso”. 29 patrimoniale e quello della prevenzione personale stabilendo, il legislatore, che: “Il procuratore della repubblica o il questore competente a richiedere l'applicazione di una misura di prevenzione procedono, anche a mezzo della polizia tributaria della Guardia di Finanza, ad indagini sul tenore di vita, sulle disponibilità finanziarie e sul patrimonio, anche al fine di accertarne la provenienza, delle persone nei cui confronti possa essere proposta una misura di prevenzione perché indiziate di appartenere ad associazioni di tipo mafioso”.54 Le indagini di cui all’art. 2bis vengono, poi, estese anche nei confronti dei familiari del soggetto indiziato di appartenere ad associazione mafiosa che può disporre direttamente o indirettamente dei beni che saranno oggetto del procedimento di prevenzione. Ma le innovazioni introdotte dal legislatore del 1982 riguarda la fissazione dei primi criteri identificativi della prevenzione patrimoniale. Si prevedono, infatti, quello dei “sufficienti indizi” e della “prova della legittima provenienza dei beni”. L’art. 2ter della legge 646/1982, statuisce che il Tribunale anche d’ufficio, dispone il sequestro dei beni di cui il soggetto indiziato di appartenere ad associazione mafiosa possa disporre direttamente o indirettamente sulla base di sufficienti indizi, come la notevole sperequazione tra il tenore di vita e l’entità dei redditi, apparenti o dichiarati e dunque si ha motivo di ritenere che siano frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. Successivamente, nel caso in cui dei beni sequestrati “non sia stata dimostrata la legittima provenienza” il Tribunale dispone il provvedimento definitivo di confisca.55 Infine per quanto attiene alle procedure esecutive del sequestro di cui all’art. 2ter, si rinvia alle norme del codice di procedura civile in tema di pignoramento presso il debitore o presso il terzo. Tali provvedimenti, in sede di applicazione, danno importanti risultati tant’è che il profilo investigativo, nell’ambito delle indagini patrimoniali, si intreccia e si salda 54 55 Art. 2bis comma 1 della legge 575/1965 introdotto dall’art. 14 della legge 646/1982 Art. 2ter comma 3, legge 575/1965 introdotto dall’art. 14 della legge 646/1982 30 con quello della prevenzione patrimoniale in significative regioni d’Italia come la Campania, la Calabria, la Puglia e la Sicilia. A partire dal 1982, i beni confiscati si fanno sempre più numerosi ed in questo contesto che si avverte la necessità di un intervento riformatore del legislatore al fine di delineare maggiormente i contorni del “dopo-confisca”. A parte un generico riferimento alla custodia, la precedente legislazione non si occupava in modo soddisfacente dell’amministrazione e gestione di beni sequestrati e confiscati. In questo contesto viene infatti approvato il decreto legge 14 giugno 1989, n. 230 convertito con modificazioni in legge 4 agosto 1989, n. 282 recante: Disposizioni urgenti per l’amministrazione e la destinazione dei beni confiscati ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575. Il d.l. 230 prevede una serie di disposizioni volte ad approntare una prima strategia di amministrazione e gestione dei beni sottratti alla criminalità organizzata. L’art. 1 d.l. 230/1989 prevede innanzitutto che i beni confiscati ai sensi della legge 575/1965 siano devoluti allo Stato; ma l’innovazione più rilevante è introdotta dal successivo art. 2 dal quale emerge la figura dell’amministratore giudiziario nominato dal Tribunale con lo stesso provvedimento con cui l’autorità giudiziaria nomina il giudice delegato e dispone il sequestro dei beni. Secondo quanto dispone l’art 2septies della legge 575/1965, introdotto dal d.l. 230/1989, l’amministratore deve provvedere alla custodia, conservazione e amministrazione dei beni sequestrati anche al fine di incrementare, quando risulta possibile, la redditività degli stessi. La disposizione in esame è il segno di un tentativo che il legislatore compie al fine di rendere più articolata ed organica l’azione dello Stato nella sottrazione dei patrimoni alle mafie. Non solo, quindi, provvedimenti che assicurino il sequestro e la confisca, ma anche iniziative legislative volte a garantire un rientro nella società di beni sottratti con violenza alla stessa. Successivamente la legge 19 marzo 1990, n. 55 recante: Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altri gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale, estese il sistema delle misure di prevenzione 31 patrimoniali ad altri reati come le estorsioni, i sequestri di persona a scopo di estorsione, il riciclaggio, il contrabbando, il traffico di sostanze stupefacenti e l’usura. 6. Le stragi politico-mafiose dei primi anni ‘90 Negli anni 1992-1993 l’organizzazione mafiosa siciliana denominata “cosa nostra” risponde pesantemente alle condanne inflitte dalla Corte d’Appello di Palermo e agli ergastoli confermati dalla Suprema Corte di Cassazione che chiude, il 30 gennaio 1992, il “Maxiprocesso”. Le risposte mafiose, concretizzatesi nella strage di Capaci56, spingono il Governo all’approvazione del d.l. 8 giugno 1992, n. 30657 e, successivamente alla strage di Via D’Amelio58, alla sua conversione in legge 7 agosto 1992, n. 356 recante: Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa. Questi provvedimenti, irrigidiscono l’impianto repressivo del contrasto alla criminalità. La legge di conversione prevede una serie di disposizioni volte: all’inasprimento del regime carcerario con il divieto di concessione di benefici per gli appartenenti alla criminalità organizzata,59 alla introduzione di nuove misure per la protezione di coloro che collaborano con la giustizia,60 ad introdurre modifiche in materia di prevenzione patrimoniale61. 56 Nella strage persero la vita, il 23 maggio 1992, Giovanni Falcone, la moglie, Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro 57 cosiddetto “decreto anti-criminalità” 58 Nella strage persero la vita, il 19 luglio 1992, Paolo Borsellino e gli agenti della scorta, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina 59 Art. 15 D.L. 306/1992 convertito in L. 356/1992 60 Artt. 13 ss. del D.L. 306/1992 convertito in L. 356/1992. In particolare la proficua collaborazione del boss pentito Tommaso Buscetta, condotta da Giovanni Falcone, che permise alla magistratura di scrutare l’intera organizzazione segreta di “Cosa Nostra”, aveva aperto la cosiddetta “stagione del pentitismo” rivelando la fondamentale utilità di coloro che collaborano con la giustizia nelle indagini di mafia. 61 In particolare il d.l. 306/1992 introduce gli artt. 3quater e 3quinquies della legge 575/65 che prevedono rispettivamente: a) ulteriori indagini, da compiersi anche a mezzo della Guardia di Finanza, e sospensione dell’amministrazione di beni utilizzabili, quando sussistono elementi per ritenere che determinate attività economiche anche imprenditoriali siano direttamente o indirettamente sottoposte alle condizioni di assoggettamento e intimidazioni di cui all’art. 416bis c.p.; b) essendo la sospensione un provvedimento temporaneo, il tribunale deve, dopo 15 gg. o revocare il 32 Ancora modifiche vengono apportate dal d.l. 20 giugno 1994, n. 399 convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1994, n. 501. L’art. 2 della presente legge infatti introduce l’art. 12sexies del d.l. 306/1992. La norma in esame introduce la categoria della confisca, cosiddetta, “allargata” che va ad affiancare la confisca antimafia di prevenzione. L’istituto introdotto dall’art. 12sexies cit., infatti, prevede le ipotesi particolari di confisca in casi di condanna o applicazione della pena su richiesta di cui all’art. 444 del codice di procedura penale per determinati reati62. In questi casi “è sempre disposta la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica”.63 Il citato art. 12sexies, inoltre, prevede che a questi casi di confisca si applichino le disposizioni previste dalla legge 575/1965 e successive modificazioni, in materia di gestione e amministrazione dei beni garantendo anche per questa tipologia di confisca l’applicabilità delle successive disposizioni che verranno introdotte dalla legge 109/1996. Anche le sentenze della Corte costituzionale contribuiscono a modificare l’apparato legislativo di prevenzione. In particolare con la sentenza n. 487 del 1995, la Consulta ha sancito la incostituzionalità dell’art. 3-quinquies, secondo comma, della legge 575/1956 nella parte in cui non prevede che avverso il provvedimento di confisca possano proporsi le impugnazioni previste e con gli effetti indicati nell’art. 3-ter, secondo comma, della stessa legge. provvedimento di sospensione ovvero disporre la confisca dei beni dei quali si ritiene siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. 62 I delitti previsti dal 12-sexies del d.l. 306/1992 sono quelli previsti dagli artt. 416bis, 629, 630, 644, 644bis, 648, 648bis, 648ter del codice penale nonché dall’art. 12quinquies, comma 1, (rubricato trasferimento fraudolento di valori) del d.l. 306 cit. ovvero per i reati previsti dagli artt. 73 e 74 del T.U. delle leggi in materia di sostanze stupefacenti e psicotrope. 63 Art. 12sexies d.l. 306/1992 33 7. La risposta della società civile. L’associazione “Libera” e la legge del riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie Nel periodo di forte contrasto giudiziario alla mafia, nel quale persero la vita decine di uomini dello Stato, finalmente si registra una prima risposta della società civile a questo stato di cose. Nel 1995, infatti, nasce, in Italia, l’associazione antimafia “Libera”64 che comincia subito la sua attività organizzando una campagna di raccolte firme e raccogliendo circa un milione di firme che sottoscrissero la bozza di iniziativa di legge popolare che sarebbe poi diventata la c.d. legge del riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie. La proposta riguardava una legge che potesse regolare compiutamente la fase successiva al provvedimento della confisca definitiva. Ma quali erano le sorti che avrebbero avuto i beni definitivamente confiscati alla criminalità organizzata? Quali soggetti istituzionali sarebbero stati responsabili delle loro sorti? Quali soggetti sarebbero stati i destinatari di tali beni e come sarebbero stati amministrati? A tutte queste domande doveva rispondere un eventuale disegno di legge che effettivamente vide la luce il 7 marzo 1996 con l’approvazione della legge n. 10965 recante: Disposizioni in materia di gestione di beni sequestrati o confiscati. Modifiche alla legge 31 maggio 1965, n. 575, e all'articolo 3 della legge 23 luglio 64 L’associazione "Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie" nasce il 25 marzo 1995 con l'intento di sollecitare la società civile nella lotta alle mafie e promuovere legalità e giustizia. Attualmente Libera è un coordinamento di oltre 1500 associazioni, gruppi, scuole, realtà di base, territorialmente impegnate per costruire sinergie politico-culturali e organizzative capaci di diffondere la cultura della legalità. La legge sull'uso sociale dei beni confiscati alle mafie, l'educazione alla legalità democratica, l'impegno contro la corruzione, i campi di formazione antimafia, i progetti sul lavoro e lo sviluppo, le attività antiusura, sono alcuni dei concreti impegni di Libera. Libera è riconosciuta come associazione di promozione sociale dal Ministero della Solidarietà Sociale. Nel 2008 è stata inserita dall'Eurispes tra le eccellenze italiane. 65 La legge 109/1996 viene approvata direttamente dalla Commissione Giustizia in sede deliberante, secondo la procedura consentita solo per i provvedimenti ritenuti di particolare importanza ed in grado di raccogliere un consenso unanime. Rispetto però alla proposta portata avanti dal mondo dell'associazionismo presenta alcune significative differenze. Prima tra tutte l'eliminazione della parte dedicata all'uso sociale dei beni confiscati ai corrotti, stralciata e mai più ripresa; e poi la limitazione a tre anni di attività del fondo prefettizio che dovrebbe gestire le risorse per i progetti di sostegno all'utilizzo dei beni confiscati. 34 1991, n. 223. Abrogazione dell'articolo 4 del decreto-legge 14 giugno 1989, n. 230, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 1989, n. 282. Le norme introdotte dalla legge 109/1996 disciplinano, dettagliatamente, le conseguenze della confisca definitiva. Viene innanzitutto sancito che i beni confiscati sono devoluti allo Stato che si occupa dell’amministrazione degli stessi attraverso l’amministrazione finanziaria e in particolare l’Agenzia del Demanio66. La legge 109 cit. parla poi di beni mobili, anche personali, non costituiti in azienda e di titoli di cui è consentita la vendita anche mediante trattativa privata, non antieconomica, e di beni immobili e aziendali per i quali è prevista altra procedura. In particolare gli immobili possono essere mantenuti a patrimonio dello Stato per finalità di giustizia, ordine pubblico e di protezione civile; oppure possono essere trasferiti al patrimonio del Comune, sul cui territorio il bene confiscato insiste, per essere destinato, dall’amministrazione comunale stessa, a finalità istituzionali o sociali. Il Comune, secondo le norme della legge 109, può amministrare direttamente il bene ovvero assegnarlo in concessione a titolo gratuito, ad esempio sulla base di un contratto di comodato d’uso gratuito67,a comunità, ad enti, ad organizzazioni di volontariato, a cooperative sociali o a comunità terapeutiche e centri di recupero e cura di tossicodipendenti. Per quanto concerne i beni aziendali, sempre secondo la legge 109, possono essere destinati all’affitto, se sussistono buone probabilità di continuazione dell’attività economica o comunque di risanamento della stessa. Altrimenti tali beni sono soggetti alla vendita per corrispettivi non inferiori a quelli stimati dal competente ufficio del territorio del Ministero delle Finanze. 66 Attualmente mediante l’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata costituita con D.L. 4 febbraio 2010, n. 4, convertito in legge 31 marzo 2010, n. 50. 67 Sulla base dell’esperienza realizzata nella Regione Campania, in particolare per quanto riguarda un bene sequestrato e confiscato nel Comune di Castellammare di Stabia, in provincia di Napoli, per il quale è stato stipulato un contratto di comodato d’uso gratuito (protocollo n. 25 del 16 aprile 2007) tra l’associazione “Casa della Pace e della Nonviolenza” e il Consorzio “Sole” (Sviluppo Occupazione Legalità Economica) della Provincia di Napoli. Soggetto istituzionale, quest’ultimo, che riunisce numerosi Comuni campani al fine di rendere più efficace e sicura l’azione delle amministrazioni comunali, specialmente quelle territorialmente minori, nella gestione e nel riutilizzo dei beni sottratti alla camorra. 35 8. I provvedimenti introdotti durante la XVI legislatura. L’Agenzia Nazionale, il “pacchetto sicurezza” e il codice della legislazione antimafia e delle misure di prevenzione La disciplina, risulta oggi mutata, specialmente nei riferimenti all’Agenzia del Demanio e al Commissario straordinario del Governo per la gestione e la destinazione dei beni confiscati ad organizzazioni criminali,68 a seguito di nuovo provvedimenti introdotti dal Governo della XVI Legislatura. In particolare il d.l. n. 4 del 4 febbraio 2010, convertito con legge 31 marzo 2010, n. 50, recante: Istituzione dell'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. L’organismo introdotto dalla legge n. 50, è di diritto pubblico è ha il compito di agevolare e velocizzare i procedimenti di amministrazione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati. Ritornando più propriamente alla prevenzione patrimoniale, gli ultimi provvedimenti, in ordine di tempo, che hanno inciso sulle misure di prevenzione patrimoniali, sono i cosiddetti “pacchetti sicurezza”, approvati tra il 2008 e il 2009. Il decreto legge 23 maggio 2008, n. 92 recante: Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica, convertito con legge 24 luglio 2008, n. 125 all’art. 10 comma 3, ha introdotto l’art 6bis della L. 575/1965, dispone che: le misure di prevenzione personali e patrimoniali possono essere richieste e applicate disgiuntamente. Le misure patrimoniali possono essere disposte anche in caso di morte del soggetto proposto per la loro applicazione. Nel caso la morte sopraggiunga nel corso del procedimento esso prosegue nei confronti degli eredi o comunque degli aventi causa. 68 Cosi dispone, infatti, l’art. 7, comma 2, della L. 50/2010: 2) A decorrere dalla nomina di cui all'articolo 2, comma 2, cessa l'attività del Commissario straordinario per la gestione e la destinazione dei beni confiscati ad organizzazioni criminali e vengono contestualmente trasferite le funzioni e le risorse strumentali e finanziarie già attribuite allo stesso Commissario, non che, nell'ambito del contingente indicato al comma 1, lettera a), le risorse umane, che restano nella medesima posizione già occupata presso il Commissario. L'Agenzia subentra nelle convenzioni, nei protocolli e nei contratti di collaborazione stipulati dal Commissario straordinario. L'Agenzia, nei limiti degli stanziamenti di cui all'articolo 10, può avvalersi di esperti e collaboratori esterni. 36 Inoltre, l’applicabilità della legge recante le “Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere” viene estesa anche ai soggetti ricompresi nell’art. 51, comma 3-bis, c.p.p. Il provvedimento datato 2009 (legge 15 luglio 2009, n. 94 recante: Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) è invece foriero di novità specialmente sul versante interpretativo per quanto attiene ai dubbi lamentati dagli operatori circa le possibilità previste dal “pacchetto sicurezza” del 2008, di applicazione disgiunta delle misure patrimoniali da quelle personali. In siffatto quadro legislativo si inserisce l’ultimo intervento normativo ad opera del legislatore del 2010 che ha sentito l’esigenza di razionalizzare la normativa antimafia, in particolare emanando la legge delega 13 agosto 2010, n. 136 recante: piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in materia di normativa antimafia. Dei sedici articoli che compongono la legge 136 cit., l’art. 1 sembra essere quello rilevante in quanto delega al Governo, l’emanazione di un codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, attraverso un metodo distinto in tre fasi: a) ricognizione di tutta la normativa antimafia (contenuta nelle varie discipline, penali, processuali e amministrative, ivi compresa quella già contenuta nei codici penale e di procedura penale); b) armonizzazione della normativa di cui alla lettera a); c) coordinamento della normativa di cui alla lettera a) con le disposizioni introdotte dalla legge 136 citata; d) infine, l’adeguamento della normativa italiana alle disposizioni adottate dall’Unione europea. Dall’analisi della legge in esame, emergono, inoltre, alcuni criteri direttivi come la possibilità di dissociare l’azione di prevenzione patrimoniale da quella personale e soprattutto affrancare l’azione di prevenzione patrimoniale dalla previa valutazione, e quindi anche in sua assenza, di quel presupposto soggettivo richiesto per l’applicazione di una misura di prevenzione personale e cioè la pericolosità sociale. Non di meno il legislatore del 2010 richiede che vengano definite organicamente le categorie destinatarie delle misure di prevenzione oltre che, in ambito procedurale, di 37 garantire la possibilità di celebrare l’udienza pubblicamente e non in camera di consiglio nel caso il soggetto proposto ne faccia esplicita richiesta. Maggiore attenzione viene posta ai terzi che sono coinvolti nel procedimento di prevenzione patrimoniale. L’art. 1 della legge 136 citata, infatti, a partire dal punto f), impone direttive al fine di disciplinare in modo dettagliato i rapporti dei terzi con il procedimento di prevenzione oltre che la tanto discussa materia dei diritti dei terzi su beni che sono oggetto del sequestro e della confisca di prevenzione. 8.1 Le novità introdotte dal nuovo Codice Antimafia Con il decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, recante: Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, fa ingresso, nell’Ordinamento giuridico italiano, quello che è stato più volte salutato e definito come Codice Antimafia. La legge delega 13 agosto 2010, n. 136, infatti, era stata emanata con l’ambizioso obiettivo di armonizzare il complesso di leggi e disposizioni “antimafia” e dunque la normativa penale, processuale penale ed amministrativa in tema di lotta alla criminalità organizzata. Se pur con questi presupposti, il prodotto legislativo, attualmente in vigore, rappresenta, ridimensionando dunque la portata della stessa delega, un “codice delle misure di prevenzione (cui sono dedicate gran parte dei 120 articoli del testo) in cui sono inserite le norme sulla documentazione antimafia e su alcuni organismi antimafia”.69 Il progetto legislativo di un “Codice” che potesse riunire e coordinare le molteplici norme in tema di prevenzione e repressione del fenomeno mafioso rappresentava un’esigenza fortemente avvertita dopo un trentennio di legislazione antimafia. Dal 1982 al 1993, infatti la produzione normativa, in campo di lotta alle organizzazioni criminali, si registra forsennata e frenetica. 69 F. MENDITTO, Codice Antimafia, commento organico, articolo per articolo, al D.Lgs. 6 settembre 2011, n.159, SIMONE, 2011, in Prefazione. 38 Un susseguirsi di provvedimenti, tutti caratterizzati da connotazioni emergenziali, che disegnano un quadro volto a svelare una cultura della politica legislativa decisamente intempestiva e inidonea, dal punto di vista della prevenzione dei fenomeni di criminalità di tipo mafioso. Sino a giungere ai tempi odierni con una serie di interventi che dal 2008 al 2012 hanno fortemente inciso soprattutto sull’assetto delle misure di prevenzione antimafia tanto, appunto, da indurre gli esperti a definire, l’attuale Codice Antimafia, come codice delle misure di prevenzione. Si manifesta, dunque, tutta l’insoddisfazione di un progetto ambizioso, che avrebbe dovuto prevedere una riorganizzazione dei numerosi interventi normativi che si sono susseguiti nel tempo sia in materia penale e processuale penale, che in quella delle misure di prevenzione sia personali che patrimoniali. Viene dunque approvato un Codice delle leggi antimafia che, secondo gli operatori del diritto, manifesta numerosi limiti. Per quanto concerne la materia penale, infatti, si sottolinea che “non viene esercitata la delega per la redazione di un testo unico delle norme contenute nel codice penale, nel codice di procedura penale e nelle leggi speciali. L’assenza di principi e criteri direttivi (presenti solo per le misure di prevenzione) e la difficoltà di raccogliere una pluralità di disposizioni, induceva ad inserire nel codice solo dieci norme penali, estrapolandole da diversi testi normativi, ignorando le gravi conseguenze di ordine interpretativo e applicativo derivanti da tale operazione”70. Cosi come gli operatori del diritto sottolineano che, nell’ambito delle misure di prevenzioni sia ravvisabile, invece, un eccesso di delega, omesse regolamentazioni, mancato coordinamento di disposizioni, finanche, errori.71 Non meno significativa la mancanza di applicazione della delega in tema di esecuzione delle misure di prevenzione patrimoniali, e segnatamente della confisca di prevenzione, nei confronti di beni localizzati in territorio estero.72 70 Ivi, p. 10 Ibidem 72 Art. 1, comma 3, lett. b), n.2, legge 136/2010, cosi dispone: “prevedere, in relazione alle misure di prevenzione della confisca dei beni, che (…) la confisca possa essere eseguita anche nei confronti dei beni localizzati in territorio estero”. 71 39 Tale mancanza è resa ancor più grave se si considera che la competenza delegata al Governo, in questa specifica materia, appare funzionale per l’attuazione delle decisione quadro 2006/783/GAI del Consiglio dell’Unione Europea in materia di applicazione del principio di reciproco riconoscimento delle decisioni di confisca.73 Non va dimenticato, infatti, che le istituzioni europee su tali profili hanno preso una posizione molto chiara. Oltre alla decisione quadro del 2006 deve essere segnalata anche quella precedente che specificamente si riferisce alla confisca di beni, strumenti e proventi di reato. Tale decisione, identificata come decisione quadro 2005/212/GAI, ha tra i suoi obiettivi specifici quello di assicurare, non solo che tutti gli Stati membri adottino norme che disciplinino, seppur con i dovuti distinguo, le misure di confisca, ma che sia anche normativamente disciplinato il meccanismo dell’onere probatorio relativamente all’origine dei beni detenuti da una persona che risulta condannata per un reato connesso alla criminalità organizzata.74 Da ultimo il Parlamento Europeo si è espresso con una Risoluzione che ha radicalmente mutato l’approccio delle istituzioni europee al fenomeno della criminalità organizzata. Di fatto la Risoluzione testé richiamata, richiede interventi di notevole portata, come l’urgente predisposizione di una legislazione europea sul riutilizzo dei proventi di reato a scopi sociali, il rafforzamento della cooperazione tra Stati finalizzata al pieno riconoscimento, e dunque alla relativa esecuzione all’estero, degli ordini di sequestro e confisca. Interventi, questi, che mirano a rafforzare, a livello europeo, lo strumento delle misure di prevenzione di carattere patrimoniale ritenuto più che idoneo a tutelare il diritto della libera iniziativa economica e della libera concorrenza. 73 All’Art. 1 della decisione 2006/783/GAI, rubricato “Scopo” si legge: “Scopo della presente decisione quadro è stabilire le norme secondo le quali uno Stato membro riconosce ed esegue nel suo territorio una decisione di confisca emessa da un’autorità giudiziaria competente in materia penale di un altro Stato membro”. 74 Specificamente il punto 10) della decisione quadro 2005/212/GAI, stabilisce che: Obiettivo della presente decisione quadro è assicurare che tutti gli Stati membri dispongano di norme efficaci che disciplinino la confisca dei proventi di reato, anche per quanto riguarda l’onere della prova relativamente all’origine dei beni detenuti da una persona condannata per un reato connesso con la criminalità organizzata. 40 Questa impostazione, allora, riconosce piena legittimazione delle misure patrimoniali anche all’interno del Trattato istitutivo delle Comunità europee. La Risoluzione 2012/2309 (INI) del 25 ottobre 2011, allora, rappresenta un impostazione dell’istituzione europea di rilevante importanza anche dal punto di vista del profilo culturale e sociale. Si deve considerare, infatti, che il provvedimento in esame considera come obiettivo primario dell’Unione europea, quello di creare uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne nel quale il crimine organizzato è, anzitutto, riconosciuto, prevenuto e combattuto. Non solo, ma la Risoluzione assume come presupposto che la finalità ultima della criminalità organizzata è quella economico-imprenditoriale.75 La mancanza del legislatore italiano delegato, allora, si iscrive in una più ampia deficienza, specialmente se si considera, come dimostra il quadro europeo, che il suo inadempimento “si risolve in un grave vulnus al contrasto delle basi economiche della criminalità organizzata transnazionale, ormai dotata di molteplici strumenti di investimento di ingenti capitali in territorio straniero”.76 Molte le riflessioni che si sono concentrate sul nuovo Codice Antimafia, specialmente da parte di quella società civile organizzata, costituita da professionisti, che hanno sentito l’esigenza di manifestare e di porre all’attenzione del Governo e del legislatore le incongruenze del nuovo testo normativo. Alcune di esse sembrano incompatibili anche con quelle interpretazioni giurisprudenziali che avevano garantito, nel corso del tempo, un’applicazione costituzionalmente legittima delle norme che disciplinano il procedimento di applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali. Nell’ambito della conferenza organizzata a Roma, dal “Centro di studi ed iniziativa culturali, Pio La Torre”, il 7 luglio 2011, furono prese in esame molte disposizioni del nuovo codice sottolineando anche le difficoltà inerenti l’interpretazione delle stesse norme. 75 Su tale punto la Risoluzione si esprime in modo chiaro ed univoco. Il punto D) della Risoluzione 2012/2309 (INI) infatti afferma che: “l'azione della criminalità organizzata è finalizzata e si basa sulla realizzazione del profitto economico e dunque un'efficace azione di prevenzione e contrasto a tale fenomeno deve concentrarsi sull'individuazione, il congelamento, il sequestro e la confisca dei proventi di reato”. 76 A. BALSAMO – C. MALTESE, Il Codice Antimafia, GIUFFRÈ, 2011, p. 8 41 Su tale punto infatti, dai lavori di quella conferenza, emerse la volontà del “Centro Pio La Torre” di richiedere audizione alla Commissione giustizia delle Camere che avrebbero poi dovuto rendere il loro parere al Governo. La finalità di questa audizione, che si inserisce in un processo di democrazia partecipata da parte della società civile, sarebbe stata quella di presentare considerazioni e proposte redatte dal “Centro studi Pio La Torre” con il contributo di esperti.77 Tra gli interventi dei vari relatori emerse dunque l’esigenza di una profonda rivisitazione della normativa che da li a poco sarebbe stata approvata, specialmente in considerazione di un denunciato scollamento tra il testo normativo approntato dal legislatore delegato e l’esperienza giurisprudenziale stratificatasi nel tempo. Non tutte le novità introdotte dal Codice Antimafia, infatti, sembrano essere aderenti alla realtà del procedimento di prevenzione per l’applicazione delle misure patrimoniali; anzi alcune di esse sembrano addirittura limitare l’efficacia delle misure stesse. Si pensi, a tale proposito, alla norma contenuta nell’art. 24, comma 2, d.lgs. 159/2011.78 Tale norma introduce quello che gli esperti hanno definito il “termine breve” previsto per l’emanazione del provvedimento di confisca, che “potrebbe tuttavia risultare di fatto incompatibile con le esigenze probatorie e di difesa del procedimento di prevenzione (si pensi alle indagini bancarie, alle perizie contabili, alle rogatorie internazionali, alle audizioni di decine di collaboratori di giustizia in località protette) e con le esigenze di approfondimento e di garanzia sottese al procedimento di prevenzione, tenuto anche conto dell’attuale carico di lavoro dei tribunali”.79 77 Come risulta da un articolo di Vito Lo Monaco, presidente del “Centro Studi Pio La Torre” pubblicato su “ASud’Europa”, settimanale di politica, cultura ed economia realizzato dal Centro Studi e iniziative culturali “Pio La Torre” – Onlus. Anno 5 – Numero 25 – Palermo 4 luglio 2011 78 Art. 24, comma 2, dispone: “Il decreto di confisca può essere emanato entro un anno e sei mesi dalla data di immissione in possesso dei beni da parte dell’amministratore giudiziario. Nel caso di indagini complesse o compendi patrimoniali rilevanti, tale termine può essere prorogato con decreto motivato del tribunale per periodi di sei mesi e per non più di due volte (…)”. 79 G. CHINNICI, (2011), “A garanzia della libertà imprenditoriale e del libero mercato”, Narcomafie, XVIII (12), p. 31 42 In attuazione di uno specifico punto della legge delega,80 la disciplina in esame è censurabile per più aspetti. Invero un termine era già previsto dalla precedente disciplina contenuta nell’art. 2ter, comma 3 della legge 575/1965. Tale norma, infatti, stabiliva che “nel caso di indagini complesse il provvedimento può essere emanato anche successivamente, entro un anno dalla data dell’avvenuto sequestro; tale termine può essere prorogato di un anno con provvedimento motivato del tribunale” Si evince, dunque, dall’esame della precedente disciplina legislativa, che “il sequestro di prevenzione ha un efficacia limitata ad un anno dalla sua esecuzione, prorogabile per uguale periodo”81 L’oggetto del termine risulta essere dunque l’efficacia del provvedimento di sequestro e non il provvedimento di confisca come invece emerge dalla formulazione della nuova disciplina. D’altra parte la Cassazione ha espressamente previsto, anche se in riferimento alla precedente normativa, che il legislatore “ha ritenuto di introdurre un termine di efficacia del sequestro, quale istituto dettato da finalità acceleratorie volto a circoscrivere la possibilità di emettere sine die un provvedimento patrimoniale ablatorio, ma destinato per sua stessa natura ad operare soltanto nel caso in cui, per ragioni inerenti alla complessità delle indagini, tale provvedimento venga emanato con atto successivo al decreto di applicazione della misura di prevenzione personale”.82 Così, sebbene complessivamente il termine da considerare sia quello di anni 2 e mesi 6, tanto da indurre a considerare un termine più lungo della precedente previsione legislativa (che prevedeva un termine complessivo di anni 2), di fatto risulta pregiudizievole per la concreta possibilità di apprensione dei beni oggetto del procedimento di prevenzione patrimoniale. 80 Art. 1 comma 3, lett. a), punto 8.2: “prevedere in relazione al procedimento di applicazione della misura di prevenzione:… che il sequestro perda efficacia se non viene disposta la confisca entro un anno e sei mesi dalla data di immissione in possesso dei beni da parte dell’amministratore giudiziario e, in caso di impugnazione del provvedimento di confisca, se la Corte d’Appello non si pronuncia entro un anno e sei mesi dal deposito del ricorso”. 81 L. FILIPPI, Il procedimento di prevenzione patrimoniale, CEDAM, 2002, p. 229 82 Cass., Sez. II, 2 marzo 2006, n. 7616 43 Proprio su tale profilo, per fare un esempio, si è soffermato il “Dipartimento di studi europei e della integrazione internazionale – Dems”, dell’Università degli Studi di Palermo. L’Osservatorio su confisca, amministrazione e destinazione dei beni e delle aziende, infatti, ha prodotto alcune proposte correttive al Codice Antimafia. La proposta numero 7 del documento datato, 18 febbraio 2011, infatti, prevede un testo che sia anche compatibile con il contenuto della legge delega.83 Quest’ultima è espressione della preoccupazione, bene esplicitata nella legge delega, di disciplinare dettagliatamente il termine di efficacia del sequestro; “ma nel trasferire detto termine nella disciplina delegata, si è finito, purtroppo, con il determinare un travisamento. Infatti mentre il legislatore delegante si era limitato a specificare che, allo spirare del termine, si sarebbe dovuto produrre solo l’effetto della perdita di efficacia del sequestro, il testo dell’art. 24 è inspiegabilmente modulato nel senso che solo entro il termine in oggetto si potrebbe emettere il decreto di confisca”. Dunque il documento, elaborato dall’ateneo palermitano, per quel che concerne limitatamente la proposta ora esaminata, mette in risalto un eccesso di delega in cui è incorso il legislatore delegato. Si contesta, allora, la scelta legislativa della previsione di un termine che, siffatto, contrasta con le esigenze di approfondimento connesse alla ricostruzione di ingenti patrimoni spesso caratterizzati da meccanismi di mimetizzazione finanziaria. Si ritiene infatti che “la scelta legislativa non appare condivisibile per le gravissime ricadute, in punto di accelerazione del procedimento, al solo fine di evitare la scadenza del termine, inducendo il Giudice ad assumere comunque una decisione, anche sulla base di accertamenti sommari che contrastano con la natura stessa del procedimento di prevenzione; d’altra parte non sfugge che il termine di rappresenta 83 Tale proposta tenta di modificare l’attuale formulazione dell’art.24 allo scopo di riportare l’attenzione non sul termine entro il quale deve essere emanato il provvedimento di confisca, bensì su quello di efficacia del sequestro. Di fatto si legge nel proposto modificato art. 24 che: “Il sequestro perde di efficacia se la confisca non viene disposta entro un anno e sei mesi dalla data di immissione in possesso dei beni da parte dell’amministratore giudiziario. (…).” 44 obiettivamente un incentivo al ricorso a pratiche dilatorie da parte del proposto con l’obiettivo della perdita di efficacia della misura patrimoniale”.84 A ben vedere, infatti, anche la Corte Costituzionale, approfondendo altro profilo, sottolineò come la confisca fosse caratterizzata da tecniche di approfondimento volte alla ricostruzione di enormi patrimoni. La Corte, escludeva, per esempio, già la possibilità di subordinare la confisca alla durata, addirittura, della misura personale, in quanto “del tutto diversi sono i criteri di commisurazione della durata della sorveglianza speciale rispetto ai profili implicati dalle indagini patrimoniali. Gli accertamenti si muovono difatti su piani diversi, come diversi sono i presupposti sostanziali da appurare e da verificare per poter addivenire alle misure”.85 C’è chi propende, addirittura, per l’illegittimità costituzionale della norma prevista dall’art. 24 del T.u. delle leggi antimafia. Tale indirizzo sarebbe orientato dalla considerazione di partenza per la quale, la precedente disciplina legislativa (art. 2ter della legge 575/1965) prevedeva ugualmente tale termine di durata del sequestro, ma la giurisprudenza si era assestata su interpretazioni restrittive, circoscrivendo il campo di applicazione di tale norma, all’ipotesi marginale del sequestro eseguito successivamente all’applicazione di misura di prevenzione personale. Chiarissima, su tale punto, la Cassazione che infatti afferma che “il termine annuale, eventualmente prorogabile di un altro anno, previsto dal citato art. 2ter, comma 3 e decorrente dal provvedimento di sequestro, riguarda, infatti, esclusivamente il caso in cui il provvedimento di confisca sia emanato “successivamente”, e cioè dopo la applicazione della misura personale, e la conseguente perenzione della misura allo scadere del termine è subordinata a tale condizione”.86 Con l’ingresso della nuova normativa del 2011, tale termine è stato esteso a tutte le ipotesi di sequestro con la conseguente efficacia preclusiva e la decadenza prevista dalla norma in esame. 84 A. CISTERA et al., Commento al Codice Antimafia, MAGGIOLI, 2011, p.67 Corte costituzionale, 28 dicembre 1993, n. 465 86 Cass., Sez. II, 2 marzo 2006, n. 7616 85 45 Cosi, se i primi interpreti, delle norme del T.u. delle leggi in materia di criminalità mafiosa, hanno ritenuto che il nuovo sistema introducesse un termine per l’emanazione del provvedimento di confisca, scaduto il quale al giudice sarebbe preclusa la possibilità di pronunciare il provvedimento definitivo della confisca, altri propendono per una definizione di incostituzionalità della norma causata da una conversione della vicenda cautelare in questione di merito, in lampante violazione della legge delega 136/2010 con la quale il legislatore delegante affidava al Governo la redazione del T.u. delle leggi antimafia.87 Ma questo è soltanto un esempio delle criticità che affliggono il testo del decreto legislativo. Non va dimenticato, infatti, che le nuove disposizioni normative riguardano anche la fase dei giudizi di impugnazione, con l’introduzione di un nuovo statuto dell’udienza camerale nel giudizio di appello, prevedendo termini perentori di durata del giudizio d’innanzi alle sezioni di Corte d’Appello. Il Codice Antimafia, inoltre, introduce il principio di pubblicità dell’udienza camerale. Aspetto, questo, più volte censurato da dottrina e giurisprudenza specialmente in riferimento all’asserita incostituzionalità di previsioni normative che non dessero la possibilità, alle parti, di chiedere la celebrazione pubblica dell’udienza. La novella del 2011, quindi, anche in seguito agli interventi della Corte EDU e della Corte Costituzionale, ha espressamente previsto il diritto di pubblicità dell’udienza camerale, sia nei giudizi di primo grado d’innanzi al Tribunale collegiale, sia in 87 Per una più completa definizione della prospettiva problematica, dalla quale prende le mosse il ragionamento, si rinvia a, P. GRILLO, Durata massima del sequestro di prevenzione e provvedimento di confisca dopo il d.lgs. n. 159 del 2011, http://www.penalecontemporaneo.it/materia/6-/-/-/1388durata_massima_del_sequestro_di_prevenzione_e_provvedimento_di_confisca_dopo_il_d_lgs__n__1 59_del_2011/#, il quale afferma che: “L'estensione dell'efficacia caducatoria del mancato rispetto del termine a tutte le altre ipotesi procedimentali (esemplificando: proposte per contestuale applicazione di misura di prevenzione personale e patrimoniale; proposte di applicazione di misura patrimoniale disgiunta da quella personale ) ed al procedimento di appello, in quanto non ricognitiva della precedente disciplina, può ritenersi conforme alla delega solamente se supera anche il vaglio della verifica riguardante la direttiva n. 8.2. Ed è evidente che il delegante aveva in mente una disciplina diversa da quella precedente; infatti, con inequivocabile terminologia, faceva attenzione a limitare gli effetti del mancato rispetto del termine, predisponendo una sanzione di inefficacia della misura cautelare,ininfluente sul merito. Ciò aveva un senso: attenuando la drastica sanzione prevista dalla disciplina precedente, il legislatore intendeva estenderne la portata a tutti i procedimenti. Era, però, chiaro che una norma conforme alla delega non poteva trasformare, se non violando la delega stessa, una vicenda cautelare in una questione di merito, di presupposti della confisca”. 46 quelli nel grado d’appello d’innanzi alle sezioni di Corte d’Appello, quando il prevenuto, o il suo difensore, ne faccia espressamente richiesta. Il d.lgs. 159/2011, con il quale viene approvato il c.d. Codice Antimafia, è anche foriero di importanti abrogazioni di disposizioni precedenti. L’art. 120 del Codice, infatti, abroga sia la legge 27 dicembre 1956, n. 1423, che la legge 31 maggio 1965, n. 575. Un ulteriore dato che conferma quanto gli operatori del diritto hanno affermato sull’opportunità di definire tale testo normativo, piuttosto che un Codice Antimafia, un Codice delle misure di prevenzione. 47 CAPITOLO II FONDAMENTO E NATURA GIURIDICA DELLE MISURE DI PREVENZIONE Premessa Va preliminarmente notato che tra le misure di prevenzione personali e quelle patrimoniali v’è un legame dal punto di vista valutativo. Sebbene la legge 125/2008 ha introdotto il principio di applicazione disgiunta,88 in virtù del quale la misura di prevenzione patrimoniale può essere irrogata indipendentemente dall’applicazione della misura di prevenzione personale, non va dimenticato che la valutazione della pericolosità sociale, che è alla base per qualsiasi richiesta di applicazione della misura personale ex lege 1423/1956, è indispensabile anche in riferimento all’applicazione delle misure patrimoniali. Il Tribunale, dunque, dovrà necessariamente valutare la sussistenza di quei requisiti di ammissibilità richiesti dalla legge perché possa essere comminata una misura di prevenzione personale. Se tali requisiti sussistono, ma per alcune ipotesi, anch’esse previste dalla legge, non si è potuto procedere all’applicazione di una misura personale, questo non preclude l’applicazione della misura patrimoniale, sempre che sussistano i relativi presupposti e previo accertamento della sussistenza della pericolosità sociale del soggetto proposto. Questi profili sono inoltre confermati dalla giurisprudenza di merito, nella interpretazione sistematica delle norme, in virtù della quale si fa, infatti, chiaro riferimento al collegamento, a livello valutativo, tra misure personali e patrimoniali.89 88 Cosi statuisce l’art. 2bis, comma 6bis, della L. 575/1965: Le misure di prevenzione personali e patrimoniali possono essere richieste e applicate disgiuntamente. Le misure patrimoniali possono essere disposte anche in caso di morte del soggetto proposto per la loro applicazione. Nel caso la morte sopraggiunga nel corso del procedimento esso prosegue nei confronti degli eredi o comunque degli aventi causa. 89 In particolare: Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc .18 maggio 2010, Reg. Gen. M.P. 198/98 e 21/05, Pres. Menditto, p. 24, dove nelle conclusioni del 48 Tale rilievo impone di sindacare la natura giuridica, e i conseguenti aspetti di costituzionalità, delle misure di prevenzione personali al fine di garantire il ragionamento logico, da censure che investendo le misure personali ricadano anche su quelle patrimoniali, che sulla possibile sussistenza delle prime, in parte, si fondano. Tribunale espressamente si afferma: “Ne consegue che in presenza dei relativi presupposti (di cui all’art 2-ter, commi 2 e 3) potranno applicarsi le misure patrimoniali (sequestro e confisca), anche indipendentemente dall’applicazione della misure personale, non solo nelle fattispecie legislativamente previste, ma in ogni ipotesi in cui, pur in presenza di persona pericolosa o che è stata pericolosa, non può farsi luogo alla misura personale ovvero questa non sia più in atto”. Ancora a p. 25 dello stesso provvedimento si legge: “si può affermare che le misure di prevenzione patrimoniali divengono strumento di ablazione in favore dello Stato dei beni frutto dell’attività illecita della persona pericolosa, pur se non può farsi luogo alla misura di prevenzione personale (o questa è cessata), sempre che i presupposti della misura personale – pericolosità del soggetto (anche se non più attuale) – e di quella patrimoniale (commi 2 e 3 dell’art. 2-ter) siano accertati”. Ancora: Tribunale Civile e Penale di Roma, Sezione per l’applicazione delle Misure di Prevenzione per la sicurezza e la pubblica moralità, cc. 5 dicembre 2005, Reg Gen. M.P. n. 134/2005, Pres. Taurisano, p. 22, dove nelle osservazioni della Corte si afferma: “la confisca, invero, è prevista nell’ambito dello specifico procedimento di prevenzione: ne segue, in linea di massima, le regole; ha per presupposto la pericolosità del soggetto-destinatario di misure di prevenzione vere e proprie, ancorchè non eseguite o non eseguibili; è diretta, per altro, a differenza della misura di prevenzione personale a sottrarre i beni, in via definitiva alla disponibilità dell’indiziato di appartenere ad associazione di tipo mafioso: ancorchè tale risultato sia conseguibile all’esito definitivo della prevista procedura. Su questi presupposti, pertanto, è esatto che non si può prescindere dalla valutazione obiettiva di una concreta pericolosità”. Ancora: Tribunale Ordinario di Roma, Sezione Misure di Prevenzione, cc. 9 aprile 2009, dep. 8 giugno 2009, Reg. Gen. M.P. n. 293/2008, Reg. Dec., 164/09, Pres. Lo Surdo, Est. Casa, p. 5, dove nelle osservazioni del Collegio si legge: L’esito positivo del giudizio di qualificata probabilità dell’appartenenza di Zappia all’associazione di tipo mafioso, facente capo ai Rizzuto, consente al Colleggio di poter passare, pacificamente e tranquillamente, all’esame delle richieste di natura patrimoniale avanzate dal P.M.” 49 1. Le ratio delle misure di prevenzione in generale È innegabile che la norma penale sia connotata da una dimensione garantistica. La dimostrazione di questa affermazione risiede nella considerazione che la protezione penale, alla quale sono assoggettati i beni e gli interessi giuridici meritevoli di tutela, implica logicamente che il legislatore si faccia carico di approntare anche quei rimedi idonei ad evitare l’offesa di questi beni ed interessi. Secondo Pietro Nuvolone, infatti, “questo fine viene perseguito sia attraverso la norma-comando sia attraverso la norma-garanzia stricto sensu: attraverso la normacomando nella prospettiva dell’intimidazione, e quindi della prevenzione generale; attraverso la norma-garanzia nella prospettiva della prevenzione speciale. Il concetto di prevenzione è , quindi, correlativo a quello di diritto penale”.90 Così lo scopo della prevenzione è quello di integrare il sistema penale nella considerazione che, la protezione dei beni giuridici meritevoli di tutela, non può essere delegata esclusivamente alla funzione repressiva della pena che svolge pure una funzione deterrente, specialmente però in riferimento alla commissione di nuovi reati. Ed è ancora Nuvolone che nella relazione introduttiva al IX Convegno di studi “E. De Nicola” svoltosi ad Alghero nel 1974, afferma che “prevenire il reato è un compito imprescindibile dello Stato che si pone come un prius rispetto alla potestà punitiva”. In effetti questa impostazione teorica può essere considerata come fondamento di tutte le misure di sicurezza, confermata poi anche dagli orientamenti della Corte Costituzionale che, definisce quell’esigenza di sicurezza come “situazione nella quale sia assicurato ai cittadini, per quanto è possibile, il pacifico esercizio di quei diritti di libertà che la Costituzione garantisce con tanta forza. Sicurezza si ha quando il cittadino può svolgere la propria lecita attività senza essere minacciato da offese alla propria personalità fisica e morale; è “l'ordinato vivere civile , che è indubbiamente la meta di uno Stato di diritto, libero e democratico”. 91 La Consulta, infatti, ha ancora sostenuto che, proprio in riferimento alle norme 90 P. NUVOLONE, Misure di prevenzione e misure di sicurezza, in Enciclopedia del diritto, vol. XXVI, GIUFFRÈ, 1976, p. 632 91 Corte costituzionale, 14 giugno 1956, n. 2 50 contenute nella legge 1423/56, le limitazioni apportate ad alcuni principi riconosciuti dalla Costituzione, “sono informate al principio di prevenzione e di sicurezza sociale, per il quale l'ordinato e pacifico svolgimento dei rapporti fra i cittadini deve essere garantito, oltre che dal sistema di norme repressive dei fatti illeciti, anche da un parallelo sistema di adeguate misure preventive contro il pericolo del loro verificarsi nell'avvenire”.92 Tanto l’assetto della dottrina quanto quello giurisprudenziale è ulteriormente confermato dalle norme della Costituzione Repubblicana. L’art. 2 Cost., infatti, espressamente sancisce: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sia personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Il successivo art. 3, comma 2 Cost. 93 richiama proprio quel compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale. Tale dato normativo giustifica, di fatto, l’esigenza preventiva dello Stato. Richiamando, infatti, “gli ostacoli di ordine economico e sociale”, la Costituzione individua immediatamente quelle cause, che già nei secoli precedenti ai tempi odierni, hanno connotato le forme più gravi di criminalità. La dimensione sociale, dunque, è il punto di partenza per definire la materia preventiva come argine a tutto quel complesso di devianze che ostacolano lo sviluppo della personalità umana. Le misure di prevenzione non, dunque, come norme del sospetto ma come rimedi legislativi efficaci per la realizzazione delle finalità costituzionali dello Stato. Ne si può negare che l’esigenza preventiva si giustifichi anche in virtù di quanto disposto dell’art. 13 Cost. che “ammette, da un punto di vista generale, e non già solo con riferimento a un processo penale in corso, che l’autorità giudiziaria possa prendere provvedimenti restrittivi della libertà personale”.94 92 Corte costituzionale, 5 maggio 1959, n. 27 “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. 94 P. NUVOLONE, Misure di prevenzione cit., p. 634 93 51 Dunque, stante il dettato costituzionale, in via di principio, la libertà personale è inviolabile e tale diritto può essere derogato soltanto in virtù di un provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria, nei soli casi e modi previsti dalla legge. Inoltre, l’art. 13 citato descrive un particolare potere dell’autorità di Pubblica Sicurezza consistente nell’adottare provvedimenti restrittivi della libertà personale; potere che trova il suo fondamento nella coesistenza di due requisiti costituzionali: l’essere, il provvedimento restrittivo della libertà, giustificato da circostanze di necessità e d’urgenza nei casi tassativamente previsti dalla legge; l’essere il provvedimento restrittivo della libertà, adottato dall’autorità di P.S., convalidato, ex post, dall’autorità giudiziaria. L’impianto costituzionale, dunque, mette in luce come la prevenzione sia un compito endemico dell’ordinamento giuridico anche rispetto ad un diritto inviolabile, quale quello della libertà personale, sottolineando, ancora una volta, come la sola azione repressiva sia inadeguata a garantire quell’esigenza di sicurezza sociale che costituisce una legittima pretesa di ciascun cittadino. Proprio la norma dell’art. 13 Cost., dunque, prevede che la libertà è un diritto inviolabile ma, nello stesso tempo, apre alla possibilità di limitazioni che siano disposte con atto motivato dell’autorità giudiziaria, nei soli casi e modi tassativamente indicati dalla legge. La Corte costituzionale infatti ha confermato questa impostazione affermando che “l’art 13 riconosce per ciò stesso la possibilità di tali restrizioni in via di principio”.95 Anche gli artt. 16 e 17 della Costituzione prevedono rispettivamente, che ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale salvo le limitazioni previste dalla legge per motivi di sanità o di sicurezza (art.16) e che le riunioni in pubblico possono essere vietata dall’autorità soltanto per comprovati motivi di sicurezza (art.17). Infine l’art. 25, comma 3 della Costituzione esplicitamente riconosce le misure di sicurezza. Tutto questo manifesta chiaramente l’esigenza, propria dell’ordinamento giuridico, di garantire la sicurezza pubblica dei cittadini per la salvaguardia degli stessi e delle istituzioni democratiche dello Stato. 95 Sentenza n. 27/1959 cit. 52 Mediante le misure di sicurezza, espressamente previste dalla Costituzione, ma anche mediante istituti giuridici che garantiscono tale fine, in considerazione di una differenza strutturale propria delle misure di sicurezza che le rendono, rispetto a quelle di prevenzione, forse meno efficaci dal punto di vista della soddisfazione di quell’esigenza di sicurezza propria dell’ordinamento. Ne si può tacere che il tema della sicurezza trovi residenza anche nell’ambito delle norme internazionali. L’articolo 5 della “Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”, è infatti rubricato: “Diritto alla libertà e alla sicurezza”.96 Anche la “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo”, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1984, parla di sicurezza sociale all’art. 22.97 Certo è da riconoscere che l’istituto in esame non ha un passato edificante dal punto di vista degli odierni principi fondamentali dello Stato, sebbene la sua genesi sia assai precedente alla nascita della nostra Costituzione Repubblicana. Non si può infatti negare che lo strumento della prevenzione personale nasce come mezzo mediante il quale operare una purificazione della società da quei soggetti ritenuti, sulla base del sospetto, pericolosi. Prova ne sia il dettato dell’art. 5 della “Legge Pica” che espressamente utilizza l’espressione “persone sospette” come identificativo di una fattispecie legale astratta alla cui stregua prevedere l’applicazione, nel caso di specie, della misura personale del domicilio coatto. La misura preventiva personale, dunque, si sviluppa a partire da una serie di provvedimenti, quelli di polizia, aventi carattere repressivo e successivamente mascherati come provvedimenti preventivi. A dimostrazione di quanto affermato si può addurre il tema dei meccanismi di applicazione delle cosiddette pene straordinarie in luogo di quelle ordinarie. “Il presupposto (dell’applicazione N.d.A.) consisteva nell’esistenza di indizi di 96 Cosi recita l’art. 5 della Convenzione Europea: “Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza”. 97 Così recita l’art. 22 della Dichiarazione Universale: “Ogni individuo, in quanto membro della società ha diritto alla sicurezza sociale”. 53 colpevolezza che, se supportati dalla confessione dell’imputato, avrebbe portato alla condanna di una pena grave (in genere la morte)”.98 Se però la confessione non fosse stata mai resa, anche in seguito agli innumerevoli tentativi di tortura, non seguiva il proscioglimento dell’imputato ma, sulla base di un giudizio probabilistico e, quindi, supportato dall’esistenza del sospetto di reità, si sarebbe irrogata una pena meno grave come il bando o la detenzione. Siamo dunque di fronte alle primordiali fonti della prevenzione penale, ma che cominciano a mettere in luce alcuni profili critici: il sospetto e un fondamento probatorio attenuato rispetto all’accertamento della colpevolezza, affrontati dalla giurisprudenza della Consulta, nel tentativo di offrire un quadro costituzionalmente accettabile delle norme che disciplinano la profilassi criminale. 2. Natura giuridica delle misure di prevenzione 2.1 La distinzione tra misure di prevenzione e sanzioni penali Se storicamente le misure di prevenzione si sono connotate come previste da quel sistema di “leggi del sospetto” che contrastano con i principi fondamentali dello Stato di diritto, è inevitabile che tali rilievi, che affliggono la maggior parte della dottrina, innanzitutto si riflettano sul piano del diritto penale. Già nell’impostazione teorica pre-illuministica s’era avvertita l’esigenza di ancorare, l’irrogazione di una sanzione penale, non solo al nesso di causalità tra comportamento tenuto e l’evento realizzatosi ma anche in riferimento ad un atteggiamento psicologico giuridicamente rimproverabile. Tutto questo si amplifica con il consolidarsi dei principi propri dello Stato di diritto e conseguentemente della funzione di garanzia della legge penale: si è puniti esclusivamente sulla base di un comportamento che obiettivamente sia penalmente rilevante. Ed è tale una condotta che integri oggettivamente gli estremi di una fattispecie incriminatrice prevista dalle norme penali. 98 D. PETRINI, in Quaderni del Consiglio Superiore della Magistratura, “Nuove forme di prevenzione della criminalità organizzata: gli strumenti di aggressione dei profitti di reato e le misure di prevenzione”, Frascati, Anno 1998, Numero 104, p. 13 54 Siamo nell’ambito del “principio di tipicità” dell’azione penale in virtù del quale “il legislatore, nel prevedere un reato, descriva, sulla base dell’esperienza comune, un processo della realtà, in modo tale che, quando esso in concreto si verifichi, sai agevolmente riconoscibile la sua corrispondenza all’azione vietata dalla legge sotto la minaccia della pena; così da scongiurare fin dove è possibile l’arbitrio del giudice e dell’interprete”.99 Questa impostazione della dottrina, pacifica per quanto attiene al profilo penalistico, pone, invece, criticità se rapportato al sistema della prevenzione in riferimento al quale, secondo le posizioni maggioritarie della dottrina100 sarebbe costituzionalmente illegittimo per violazione dei principi costituzionali della tassatività e tipicità della fattispecie legale. Dunque le misure di prevenzione si inseriscono nel sistema penale in funzione teleologica. Le finalità, infatti, consistono nell’impedire la commissione del primo delitto ovvero, nel caso delle misure di sicurezza, impedire la recidiva. 99 C. FIORE, Diritto Penale. Parte Generale, volume primo, UTET, 2003, p. 71 Sul punto cfr. P.V. MOLINARI – U. PAPADIA, Le misure di prevenzione nella legge fondamentale, nelle leggi antimafia e nella legge antiviolenza nelle manifestazioni sportive, GIUFFRÈ, 2002, pp. 14 ss. che descrive le principali posizioni critiche della dottrina, che sebbene superate grazie all’entrata in vigore della legge 327/1988 gli autori ritengono che vadano comunque riferite per quella parte delle posizioni che restano ancora valide. In particolare si prenda in considerazione la posizione di Mortati che pur ritenendo le misure di prevenzione consentite dall’art 13 della Cost. sostiene il contrasto della normativa allora in vigore con l’impianto costituzionale per l’eccessiva discrezionalità nella determinazione dei soggetti. Si rileva poi che le critiche più vivaci possono essere ritrovate negli atti del IX Congresso di studi “Enrico De Nicola”, organizzato dal Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale, tenutosi in Alghero dal 26 al 28 aprile 1974 sul tema delle misure di prevenzione. Il riferimento è alla posizione espressa da Nuvolone che pur sostenendo la doverosità costituzionale della prevenzione del reato tuttavia ha rilevato che l’articolo 1 della legge 1423/1956 prevede una serie di fattispecie che si riferiscono a comportamenti che di per se costituiscono reati ma difficilmente accertabili per l’impossibilità di raggiungere la prova piena. Dunque anche Nuvolone, in questa circostanza, rileva il contrasto con il principio di legalità e tassatività. Esprime ancora una posizione critica Mantovani, sebbene gli autori specificano che è precedente all’approvazione della legge 327/1988, che ha affermato che la prevenzione ante delictum è costituzionalmente legittima, anzi doverosa e comunque praticamente necessaria, in quanto di fronte alle moderne associazioni criminali, lo Stato non può privarsi, a priori, della possibilità di ricorrere alle misure di prevenzione, anche se restrittive della libertà, “sicché il problema si sposta sulla individuazione di misure che siano scientificamente e tecnicamente adeguate e costituzionalmente corrette”, evitando che il diritto della prevenzione venga a costituire “un diritto punitivo di sospetto”. Per Fiandaca, che avverte che anche tra le tesi che propendono per la costituzionalità del sistema preventivo, tuttavia sottolineano quantomeno la problematicità della legittimazione teoricocostituzionale delle misure personali, rileva inoltre che il difetto di legittimità costituzionale non sarebbe, addirittura, neanche controbilanciato da una verificata idoneità delle misure preventive a raggiungere le finalità prospettate dallo stesso sistema preventivo. Non è da meno Petrini, autore del testo “La prevenzione inutile. Illegittimità delle misure di praeter delictum” (Jovine, 1996). Già dal titolo della sua opera palesa la contrarietà ad un sistema di misure di prevenzione. 100 55 Ma non possono definirsi, le misure di prevenzione, come aventi natura penale in considerazione del fatto che tali misure non si applicano sulla base della correlazione “violazione del comando – responsabilità – castigo”. Infatti l’applicazione della sanzione penale segue l’accertamento giurisdizionale della realizzazione del fatto tipico, previsto dalla norma penale come reato, l’irrogazione di una misura di prevenzione si baserebbe, invece, sull’accertamento di “sintomi di un pericolo e come tali, essendo riferibili al caso concreto, difficilmente possono essere indicati, se non genericamente, in una norma legislativa”.101 Dunque la distinzione tra pene e misure di prevenzione concerne proprio il carattere di obiettiva conoscibilità degli elementi che sono valutati dal giudice per la conseguente applicazione degli istituti. Se, da un lato, l’applicazione della sanzione penale è garantita dalla previsione di un sistema che si inserisce nel quadro costituzionale, in virtù proprio di quella predeterminazione legale delle fattispecie e dei caratteri che connotano l’azione criminosa, nel caso delle misure di prevenzione questa predeterminazione legale sembra venir meno. La conseguenza di questa impostazione teorica porta a ritenere la sussistente violazione del principio di stretta legalità102 previsto dall’art. 25 Cost. da parte del sistema di misure di prevenzione. Se si considera poi che tale principio si sostanzia, nella regola di tassatività e determinatezza della fattispecie penale,103 queste ultime sarebbero, dunque, in contrasto innanzitutto con tale regola. Proprio, però, in riferimento a questo aspetto, va segnalato che il Nuvolone pone il problema della certezza del diritto, risolvendolo attraverso il rilievo della diversità di 101 P. NUVOLONE, Misure di prevenzione cit., p. 633 Il principio di legalità trae origine direttamente dal pensiero giuridico di matrice illuministica. Il primo testo della storia che prevede tale principio è la “Magna Charta Libertatum” inglese che all’articolo 39 sanciva che: “Nessun uomo libero sarà arrestato, imprigionato, multato, messo fuori legge, esiliato o molestato in alcun modo, né noi useremo la forza nei suoi confronti o demanderemo di farlo ad altre persone, se non “per legale iudicium parium suorum vel per legem terrae”. A questa antica formula è oggi riconosciuto essenzialmente valore civile ma molto più vicina all’essenza giuridica dell’attuale principio di legalità, “nullum crimen, nulla poena sine lege” le enunciazioni delle Dichiarazioni dei diritti di Filadelfia del 1774 a seguito del primo “Congresso Continentale” in piena guerra di indipendenza americana, nelle Costituzioni di singoli stati Nordamericani e nelle Dichiarazioni dei diritti emanate al tempo della Rivoluzione Francese. 103 Secondo la dottrina penalistica, infatti, la portata del principio di legalità si sostanzia nell’enunciazione di quattro regole generali: 1) la riserva di legge; 2) la regola della tassatività e determinatezza della fattispecie legale; 3) il divieto di interpretazione analogica; 4) l’irretroattività della legge penale. 102 56 struttura che inevitabilmente connota il contenuto stesso del principio or ora richiamato. L’insigne autore, infatti, sostiene che proprio nell’ambito delle misure di prevenzione, la certezza sia tale in riferimento “alle premesse legislative generali, di criteri di giudizio validi per l’ordinamento giuridico, di finalità che l’ordinamento giuridico riconosce.”104 Ed è ancora Nuvolone ha sottolineare come la certezza del diritto, in questo caso, “sia la certezza nelle premesse, negli indici e nelle garanzia di univocità di un giudizio finalisticamente orientato a collegare il presente al futuribile nell’ambito di un’evoluzione criminologicamente rilevante”.105 Si evidenzia, dunque, che anche il sistema preventivo è caratterizzato da misure che sono espressamente previste dalla legge e che si applicano nei casi da questa previsti, sulla base di situazioni soggettive di pericolosità i cui indici sono tassativamente indicati dalla legge, in conseguenza di un procedimento giurisdizionale. Anche le pronunce della Corte costituzionale sono confermative di quest’ultima impostazione teorica. Per quanto attiene ciò che si riferisce alla giurisdizione, non si può trascendere da quanto autorevolmente sostenuto dai giudici costituzionali allorché sentenziarono sulla questione di legittimità sollevata dal Tribunale di Napoli con ordinanza emessa il 12 luglio 1971. La questione riguardava, infatti, la presunta incostituzionalità dell’articolo 11 della legge 1423/56 che prevede la interruzione del termine di decorrenza della misure preventiva personale della sorveglianza speciale nel caso in cui il soggetto sottoposto alla misura commetta un reato e riporti successivamente condanna. Termine che ricomincia a decorrere dal giorno nel quale è scontata la pena. Secondo l’interpretazione sostenuta dal giudice a quo, tale norma sarebbe stata in contrasto con la Costituzione in considerazione del fatto che si sarebbe tradotta in un’automatica reiterazione della misura originariamente inflitta come conseguenza immediata della condanna, indipendentemente da una pronuncia del giudice di merito. 104 105 P. NUVOLONE, Misure di prevenzione cit., p. 633 Ibidem 57 La questione sollevata è stato il pretesto perché la Consulta affrontasse il tema della comparazione tra misure di prevenzione e sanzioni penali dal punto di vista processuale e procedimentale. Si legge, infatti, nella relativa sentenza che “se pure la formula del secondo comma (dell’art. 11 N.d.A.) della legge (1423/56 N.d.A.) sancisce l'automatismo della reiterazione della sorveglianza, l'accertamento dell'esistenza delle condizioni perché tale meccanismo possa e debba funzionare è indubbiamente di stretta competenza del magistrato”106. Proseguendo nella lettura della decisione, inoltre, la Consulta afferma che “i criteri generali, regolanti l'applicazione delle misure di prevenzione, segnatamente desumibili dal complesso delle disposizioni di cui agli artt. da 1 a 4 della legge in esame (1423/56 N.d.A.), sono conformi al rispetto del citato principio costituzionale (si fa riferimento all’art 13 della Cost. che pretende che gli atti limitativi della libertà personale siano adottati, con motivazione dall’autorità giudiziaria N.d.A.). Invero l'adozione delle misure stesse è affidata all'autorità giudiziaria, attraverso un procedimento in cui operano i principi fondamentali del processo penale, dalla contestazione dell'accusa, all'esercizio del diritto di difesa, al doppio grado di giurisdizione, al divieto di “reformatio in peius” in difetto di impugnazione del pubblico ministero”107. Fermo restando il principio dell’autonomia tra processo penale e procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione, con questa decisione la Corte Costituzionale opera un ragionamento comparativo al fine di ritenere garantiti quei diritti fondamentali che come nel processo penale, anche nell’ambito del procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione meritano garanzia e tutela. Con altra importante e successiva decisione108 la Consulta ribadisce che la legittimità costituzionale del sistema di misure di prevenzione, essendo queste limitative, a 106 Corte costituzionale, 9 gennaio 1974, n. 3 Corte costituzionale, 9 gennaio 1974, n. 3 108 Il riferimento è alla sentenza 22 dicembre 1980, n 177 con la quale la Corte Costituzionale segna un importante indirizzo interpretativo prevedendo quindi l’esigenza di un intervento del legislatore volto a modificare le categorie di soggetti alle quali si possono applicare misure preventive, previste dall’art.1 della legge 1423/1956. 107 58 diversi gradi di intensità, della libertà personale, discenda necessariamente tanto dal rispetto del principio di legalità, quanto dalle garanzie proprie della giurisdizione. Questo implica, secondo la Corte, che l’applicazione delle misure di prevenzione, sebbene ancorate ad un giudizio prognostico, ha come presupposto necessario le fattispecie di pericolosità descritte tassativamente dalla legge. Non si può quindi dubitare che anche nell’ambito del procedimento di prevenzione, la prognosi di pericolosità poggi su presupposti di fatto previsti dalla legge e dunque suscettibili di accertamento giurisdizionale. Il problema principale risulta essere, allora, quello relativo al sufficiente o insufficiente grado di determinatezza della descrizione degli indici di pericolosità, ad opera del legislatore. Da qui la Corte chiarisce che, ai fini della determinatezza della fattispecie legale, non è necessario che la previsione normativa abbia ad oggetto una singola condotta ovvero una pluralità di condotte. Ciò che risulta rilevante è “il comportamento o contegno che un individuo ha nei confronti del mondo esterno, come risulta - specificano i giudici costituzionali - dalle sue azioni od omissioni”. Tutto quanto espresso dalla Corte sembra, per altro, coerente con quanto detto in decisioni precedenti. Nel tentativo, infatti, di offrire una lettura costituzionale del sistema di prevenzione, le decisioni della Consulta affrontano la natura stessa delle misure di prevenzione, per quanto attiene ai profili di tassatività della fattispecie di prevenzione che, Modifiche che saranno poi apportate allorché fu approvata la legge 327/1988. Di fatto la Consulta, in questa decisione, ribadisce la legittimità costituzionale del sistema di misure di prevenzione, riconoscendo quindi l’esigenza che questo sia ancorato a quei principi fondamentali che connotano il sistema penale e in virtù di questo riconoscimento, però, sancisce la illegittimità costituzionale dell’art. 1 n. 3 della legge 1423/1956 nella parte in cui prevede che misure di prevenzione possono essere applicate a coloro che “ per le manifestazioni cui abbiano dato luogo, diano fondato motivo di ritenere che siano proclivi a delinquere”. Sulla definizione della proclività a delinquere infatti la Corte afferma: “La disposizione di legge in esame (a differenza ad esempio di quella di cui al n. 1 del medesimo art. 1), non descrive, infatti, né una o più condotte, né alcuna "manifestazione " cui riferire, senza mediazioni, un accertamento giudiziale. Quali "manifestazioni" vengano in rilievo è rimesso al giudice (e, prima di lui, al pubblico ministero ed alla autorità di polizia proponenti e segnalanti) già sul piano della definizione della fattispecie, prima che su quello dell'accertamento. I presupposti del giudizio di "proclività a delinquere " non hanno qui alcuna autonomia concettuale dal giudizio stesso. La formula legale non svolge, pertanto, la funzione di una autentica fattispecie, di individuazione, cioè, dei "casi " (come vogliono sia l'art. 13, che l'art. 25, terzo comma, Cost.), ma offre agli operatori uno spazio di incontrollabile discrezionalità. 59 rapportata a quella penale peccherebbe di vaghezza, ponendo a rischio i diritti fondamentali. In virtù, quindi, della natura stessa delle misure di prevenzione, la Corte sottolinea come “nella descrizione delle fattispecie il legislatore debba normalmente procedere con criteri diversi da quelli con cui procede nella determinazione degli elementi costitutivi di una figura criminosa, e possa far riferimento anche a elementi presuntivi, corrispondenti identificabili” 109 però sempre a comportamenti obiettivamente . Ad ulteriore conferma di questo orientamento della Corte può essere addotto quanto sancì nell’ordinanza 12 marzo 1976, n. 64.110 2.2 Misure di prevenzione e misure di sicurezza La dottrina tradizionale distingue due tipologie di misure a carattere preventivo: le misure post delictum e le misure ante delictum. Sia le prime che le seconde hanno come obiettivo la finalità preventiva, ma i presupposti della loro applicazione sono sostanzialmente diversi. Per le misure post delictum intendiamo, infatti, le misure di sicurezza che sono espressamente previste dalla Costituzione e disciplinate dagli articoli 199 a 240 del codice penale. I requisiti della loro applicazione consistono nella necessità di essere, le misure di sicurezza, specificamente stabilite dalla legge e applicate nei casi da questa preveduti (requisito oggettivo dell’applicazione) ma soprattutto, per quello che interessa nel confronto sistemico con le misure di prevenzione, le misure di sicurezza “possono essere applicate soltanto alle persone socialmente pericolose, che abbiano commesso un fatto preveduto dalla legge come reato”.111 Il dettato del codice penale, dunque, inserisce un requisito di natura soggettiva che non è richiesto per l’applicazione delle misure di prevenzione. 109 Corte costituzionale, 4 marzo 1964, n. 23 Con tale ordinanza la Corte costituzionale richiama la precedente sentenza n. 76 del 1970 con la quale “questa Corte ha, tra l'altro, dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2 della citata legge n. 1423 del 1956, in riferimento a parecchie norme della Costituzione, tra cui gli artt. 13, 16 e 25” 111 Art. 202 c.p. 110 60 Le misure di sicurezza tendono ad impedire che l’autore di un reato, ritenuto pericoloso sulla base di un giudizio probabilistico, possa commettere nuovi reati. A tale proposito l’art. 203 c.p.112 definisce la nozione di pericolosità, condizione prevista dal precedente art. 202 c.p. Dunque, la commissione di un reato è condizione di applicabilità delle misure di sicurezza ma, da questa, prescinde totalmente l’applicazione delle misure di prevenzione. Quest’ultime, previste essenzialmente dalla legge n. 1423/1956 e dalla legge n. 575/1965 e successive integrazioni e modificazioni, si applicano a soggetti che sulla base di fatti sono ritenuti pericolosi o indiziati di appartenere ad associazioni mafiose, dunque ignorando il requisito della preventiva commissione di un reato. Ciò che dunque accumuna i due istituti giuridici è il requisito della pericolosità del soggetto. Caratteristica che però viene estrapolata mediante criteri valutativi diversi ma che non hanno rappresentato, almeno inizialmente, un ostacolo per tentare la strada della comparazione giuridica tra misure di sicurezza e misure di prevenzione, cercando di estendere a quest’ultime la copertura costituzionale, espressamente prevista per le misure di sicurezza, dell’art. 25 della Costituzione. Confermativa di questa tendenza la pronuncia113 della Consulta, che fonda la ratio delle misure di prevenzione, con la quale si considera che, oltre al requisito della pericolosità sociale sulla quale si fonda tanto la misura di sicurezza quanto quella di prevenzione, anche le misure previste dalla Costituzione in qualche modo prescinderebbero dal reato in considerazione del fatto che la pena è già stata irrogata 112 Cosi recita l’articolo 203 c.p. : “Agli effetti della legge penale, è socialmente pericolosa la persona, anche se non imputabile (96-97) o non punibile, la quale ha commesso taluno dei fatti indicati nell’articolo precedente, quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati. La qualità della persona socialmente pericolosa si desume dalle circostanze indicate nell’articolo 133.” 113 Sentenza n. 27/1959 cit. : “É ben vero che le misure di sicurezza in senso stretto si applicano dopo che un fatto preveduto dalla legge come reato sia stato commesso (art. 202 Cod. pen.), e quindi per una pericolosità più concretamente manifestatasi; ma poiché le misure di sicurezza intervengono o successivamente all'espiazione della pena, e cioè quando il reo ha già per il reato commesso soddisfatto il suo debito verso la società, ovvero (a parte le ipotesi di cui agli artt. 49 e 115 Cod. pen.) in casi nei quali il fatto, pur essendo preveduto dalla legge come reato, non é punibile, bisogna dedurne che oggetto di tali misure rimane sempre quello comune a tutte le misure di prevenzione, cioè la pericolosità sociale del soggetto”. 61 a causa della commissione di un precedente reato, sicché la misura di sicurezza avrebbe finalità preventiva rispetto alla commissione di altri reati. Una successiva decisione114 della Corte, poi, sottolinea la necessità di ritenere operanti i principi del processo ordinario anche nell’ambito del processo di sicurezza e dunque, la Corte, esclude che questi non debbano ritenersi validi anche per il processo di prevenzione. 114 Il riferimento è alla sentenza 25/03/1975, n. 69, con la quale, la Corte, dapprima afferma che le misure di prevenzione “trovano causa, al pari di quelle di sicurezza, nella pericolosità socialecriminale, si attuano attraverso la parziale interdizione sociale del soggetto e tendono al recupero sociale del medesimo all’ordinato vivere civile”. Constata, successivamente, che “nel procedimento di sicurezza debbono ritenersi operanti, per logica necessaria estensione, le parallele disposizioni dettate per quello ordinario, nei limiti in cui le disposizioni stesse risultino, con prudente interpretazione, compatibili con la peculiare struttura, con l'oggetto e con le finalità dello speciale giudizio per l'applicazione delle misure di sicurezza (si vedano anche la sent. n. 168 del 1972 e la sent. n. 110 del 1974). Questi principi non possono non valere anche nel processo di prevenzione per il quale, giova ricordare, a riprova, che è già stata ritenuta necessaria come già in quello di sicurezza l'assistenza del difensore (si veda sent. n. 76 del 1970)”. 62 3. Le categorie della pericolosità sociale tra codice penale e legge della prevenzione. Un confronto, tra misure di sicurezza e misure di prevenzione, è possibile partendo anche dalla descrizione delle categorie della pericolosità sociale prevista dal codice penale e dalla legge n. 1423/1956. Il codice penale identifica tre specie di categorie della pericolosità:115 il delinquente abituale, quello professionale ed infine il delinquente per tendenza. Tali categorie criminogene si basano sul comportamento del reo che è sostanzialmente recidivo. Ne deriva, come immediata conseguenze, che questa parte del sistema specialpreventivo, nel quale le misure di sicurezza pure si inscrivono, rispetti il principio di legalità costituzionalmente garantito, individuando fattispecie bene determinate in base alle quali le misure di sicurezza sono irrogate dall’autorità giurisdizionale. Fattispecie che devono la loro tipizzazione al fatto che il legislatore le ha ancorate alla precedente commissione di un reato da parte del soggetto destinatario della misura. Sebbene, dunque, le misure di prevenzione trascendano completamente dalla valutazione della previa commissione del reato, il sistema preventivo prevede comunque una tipizzazione della pericolosità sociale. La legge fondamentale, infatti, così come risulta modificata dalla legge n. 327/1988, riporta tre categorie di soggetti che possono essere sottoposti all’applicazione delle misure di prevenzione116. Dalla lettura delle norme della legge fondamentale, risulta quindi che è persona pericolosa quella che, sulla base di un giudizio prognostico e rivolto al futuro, probabilmente commetterà un fatto previsto dalla legge come reato contro la sicurezza e la moralità pubblica. La definizione, giustamente, ampia dei beni giuridici meritevoli di tutela, nasce dall’esigenza di non poter, se non in modo arbitrario e ingiustificato, ridurre il concetto di sicurezza, a baluardo della sola incolumità fisica. 115 Gli artt. 103, 105 e 108 c.p. sono rispettivamente rubricati: “Abitualità ritenuta dal giudice”; “Professionalità nel reato”; “Tendenza a delinquere”. 116 Art.1 della legge 1423/1956 63 Se è vero, infatti, che la Costituzione “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”117, allora bisogna attribuire al termine sicurezza “il significato di situazione nella quale sia assicurato ai cittadini, per quanto è possibile, il pacifico esercizio di quei diritti di libertà che la Costituzione garantisce con tanta forza. Sicurezza si ha quando il cittadino può svolgere la propria lecita attività senza essere minacciato da offese alla propria personalità fisica e morale; è “l'ordinato vivere civile , che è indubbiamente la meta di uno Stato di diritto, libero e democratico”.118 Ecco emergere i connotati della cosiddetta “pericolosità sociale comune”. Stando, infatti, cosi le cose, è chiaro che risulta pericoloso colui che, con il suo agire, si preveda che possa mettere a repentaglio quei beni giuridici meritevoli di tutela secondo le definizioni del legislatore. Coloro, quindi, che “sono pericolosi per la sicurezza pubblica o pubblica moralità” sono soggetti ai quali possono essere applicate le misure di prevenzione personale. Anche in rispetto di quel dettato costituzionale che vuole “la libertà di movimento” un diritto fondamentale soggetto a restrizioni “solo per motivi di sanità o sicurezza”119 Così, la previsione concerne sia la commissione di fatti-reato, che la commissione di azioni che violino la libertà sessuale, al pudore sessuale e all’onore, che si concretino in azioni contrarie alla sicurezza e alla sanità pubblica. Ne consegue che la “pericolosità sociale” delle misure di prevenzione si ricava da un’analisi complessiva che investe da un lato la sfera della semplice immoralità, dall’altro la predisposizione al delitto e la conduzione di una presunta vita delittuosa. Il Tribunale, quindi, è chiamato ad esaminare la categoria dell’antisocialità nel suo complesso sulla base di elementi sintomatici o rivelatori della pericolosità che sono necessariamente precedenti al momento della valutazione ma che consentono all’autorità giudiziaria di giustificare la necessità di un particolare controllo da parte dell’autorità di pubblica sicurezza. 117 Art. 2 Cost. Corte costituzionale, 14 giugno 1956, n. 2 119 Art. 16 Cost. 118 64 Emerge, dunque, tutta la difficoltà di definire i limiti costituzionali entro cui inserire le misure di prevenzione perché sfuggano all’obiezione di difetto di legalità e tassatività della previsione legislativa. In relazione a tali principi, infatti, dapprima Pietro Nuvolone afferma la necessità di considerare la certezza del diritto in riferimento alle premesse legislative generali, considerando anche le finalità che l’ordinamento giuridico riconosce (retro 2.1). Per Nuvolone, allora, le misure di prevenzione non hanno come presupposto la certezza giuridica integrale (in presenza della quale, evidentemente, il giudice sarebbe costretto all’applicazione della pena e non della misura preventiva), ma si riferiscono ad una certezza giuridica iniziale, sviluppando poi una previsione futuristica. Quest’ultima è il luogo dove far valere appieno il ragionamento della costituzionalità delle misure di prevenzione personali. Tale ambito è individuato dalle modifiche introdotte dalla legge del 1988 specialmente rispetto a quelle norme che hanno innalzato il livello garantistico della previsione normativa, prevedendo, che la pericolosità sociale, di cui all’art. 1 della legge del 1956, sia ritenuta esistente, ai fini dell’applicazione delle misure di prevenzione, sulla base di elementi di fatto. L’espressione in esame, che certamente allontana quelle fattispecie di mero sospetto così duramente criticate dalla dottrina, è stata oggetto di critica inversa nella misura in cui si consideri che, l’introduzione della valutazione degli “elementi di fatto”, sia stata bollata come mero indirizzo legislativo a carattere puramente teorico. Questa parte della dottrina, infatti, sostiene che il rigoroso rispetto della tecnica legislativa prevista dal nuovo articolo 1 della legge 1423/1956 costringerebbe il giudice della prevenzione ad accertare cosi tanti elementi di fatto da rendere appunto necessaria l’applicazione di una sanzione penale. Come a dire che, o si realizzano le condizioni, garantiste, dell’applicazione della pena, o altrimenti vi si rinuncia incorrendo, irrimediabilmente, nelle fattispecie di mero sospetto chiudendo cosi un circolo vizioso che ad altro non potrebbe portare se non ad una dichiarazione di incostituzionalità delle misure di prevenzione personali. Contrario a tale impostazione teorica è Ettore Gallo, il quale afferma l’esistenza di 65 una “zona grigia”, luogo in cui svolgere quel ragionamento giuridico intermedio tra sospetto e accertamento della penale responsabilità. Gallo, dunque, è sostenitore di un passaggio intermedio che, ne si può classificare come atteggiamento puramente soggettivo e incontrollabile (sospetto), ne tanto meno è possibile definirlo come idoneo al raggiungimento di un accertamento pieno che convinca il giudice, in modo non arbitrario, della responsabilità del soggetto. Tale passaggio intermedio consiste nella valutazione di circostanze indizianti che, nonostante non siano, secondo le definizioni del legislatore, gravi, precise e concordanti, e che congiuntamente alla valutazione della incertezza quasi pari a zero della premessa maggiore del sillogismo indiziario, non consentano una pronuncia sulla responsabilità, tuttavia, sono “circostanze di fatto, oggettive e controllabili, che, incapaci di provare di per se stesse la commissione di un delitto, sono però sufficienti a fondare ragionevolmente le opinioni concernenti le situazioni di cui ai nn. 1, 2 e 3 del nuovo art.1 della legge”.120 Dunque da un lato la pericolosità sociale, requisito soggettivo delle misure di sicurezza, è tale di un soggetto quando è probabile che quest’ultimo, autore di un precedente fatto previsto dalla legge come reato, commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati. Dall’altra la pericolosità sociale, requisito soggettivo per l’applicazione delle misure di prevenzione, è tale del prevenuto quando è probabile che quest’ultimo commetta un fatto preveduto dalla legge come reato. Ma tale giudizio prognostico si basa su elementi di fatto, la cui valutazione permette al giudice della prevenzione di ritenere che il prevenuto sia pericoloso per la sicurezza pubblica o per la pubblica moralità. 120 E. GALLO, voce: Misure di prevenzione, in Enciclopedia giuridica Treccani, vol. XXII, Roma, 1996, p. 7. nella quale Gallo espone la teoria del sillogismo indiziario che si basa su “una premessa maggiore che è un’affermazione di massima tratta dall’esperienza comune, questa come tale non può avere carattere di certezza. La premessa minore, invece, è rappresentata dalla circostanza indiziante, che deve essere rigorosamente accertata in fatto: e ciò perché se fosse dubbia l’illazione conseguente a due premesse dubbie non potrebbe che portare ad un risultato necessariamente dubbio. Ne consegue che il procedimento logico-indiziario, dev’essere ripudiato se non presenta nella massima tratta dall’esperienza comune (premessa maggiore) un margine di dubbio quanto più possibile vicino allo zero: e se le circostanze indizianti (premessa minore), rigorosamente provate in fatto, non sono cosi numerose e decisive da rendere il riferimento logico tra le due premesse (illazione) assolutamente inequivoco nel senso della responsabilità penale”. 66 In quest’ultimo caso la pericolosità è intesa in senso più ampio, sebbene la legge definisca comunque i limiti della valutazione di pericolosità, ancorandola alle fattispecie previste dal richiamato art.1 della legge fondamentale. Del resto autorevole dottrina conferma, per le misure di sicurezza, gli stessi aspetti, eventualmente problematici, delle misure di prevenzione che sono accomunate dall’ambito special-preventivo, sottolineando che “la misura di sicurezza si fonda su una certezza giuridica di partenza sui dati indizianti e su un giudizio ipotetico sul futuro”121. Appare evidente l’importanza della previa valutazione dei cosiddetti requisiti soggettivi di applicazione delle misure preventive. Requisiti che rappresentano il cardine attorno al quale ruota il sistema della prevenzione personale di cui va valutata, scrupolosamente, da parte dell’autorità giudiziaria procedente, l’attualità. Di chiara evidenza, allora, la garanzia che circonda l’applicazione della misura preventiva personale. Da un lato le puntuali definizioni del legislatore, per quanto concerne la descrizione delle fattispecie criminogene integranti gli estremi della pericolosità sociale derivante dall’appartenenza dei soggetti ad una delle categorie previste dall’art.1 della legge 1423/56; dall’altra l’obbligo, che incombe sull’autorità giudiziaria, di accertare l’attualità della stessa. Infatti, “ne consegue che non può applicarsi la misura di prevenzione personale se la pericolosità sociale non è attuale, perciò idonea a giustificare un controllo da parte degli organi della pubblica sicurezza: se la pericolosità non è attuale non vi è nulla da prevenire e non occorre alcuno specifico controllo. Il principio, riconosciuto dal legislatore (cfr. l’art. 7, comma 2 della legge numero 1423 del 1956, secondo cui la misura è revocata quando è cessata la causa che l’ha determinata), è applicato dalla giurisprudenza che richiede l’imprescindibile accertamento dell’attualità della pericolosità sociale 121 F. MANTOVANI, Diritto Penale, Parte Generale, CEDAM, 2009, p. 835 67 quale presupposto dell’applicazione della misura, se pur con diverse modalità seconda delle categorie soggettive interessate”.122 Tale impostazione è poi confermata dalla giurisprudenza di merito.123 Nell’analisi dei provvedimenti, pronunciati dalla Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione del Tribunale di Napoli, si nota come il Collegio osserva che preliminare all’applicazione di qualunque misura preventiva, tanto personale quanto patrimoniale, è la valutazione della pericolosità sociale, attuale, del proposto. Il Collegio, quindi, precisa che “qualunque sia l’ambito di estensione soggettivo – infatti – (rispondente, comunque, ai criteri dell’art. 3 della Costituzione), il presupposto imprescindibile per l’applicazione della misura personale è rappresentato dalla pericolosità sociale della persona”.124 Contrariamente, i giudici della prevenzione, concludono affermando che in mancanza di presupposti soggettivi che giustifichino l’applicazione di dette misure, comunque erogate a danno del proposto, ne deve essere dichiarata la revoca cosi come prevista dall’art. 7 della legge. 1423/1956.125 Addirittura, nell’ipotesi in cui venisse dichiarata la revoca dei provvedimenti preventivi, la Suprema Corte di Cassazione ha addirittura previsto la irrilevanza penale, con efficacia “ex tunc”, dei comportamenti del preposto che siano stati contrari alle prescrizioni previste nel decreto del Tribunale.126 122 F. MENDITTO, Le misure di prevenzioni patrimoniali dopo le leggi 125/08 e 94/09: “standards probatori, motivazione del provvedimento, applicazione disgiunta della misura personale e profili di compatibilità costituzionale.” In Atti de “Incontro di studi organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura; Corso Rosario Livatino: “Il contrasto patrimoniale alla criminalità organizzata: indagini prove ed accertamento processuale”, Roma 7-9 marzo 2011 123 In particolare: Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 16 giugno 2009, Reg. Gen. M.P. n. 352/04 e 95/08 Pres. Est. Menditto; Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 15 giugno 2010, Reg. Gen. M.P. 150/02 e 30/04 Pres. Cozzi, Est. Menditto; Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 27 ottobre 2010, Reg. Gen. M.P. 132/02, Pres. Est. Menditto. 124 Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 15 giugno 2010, Reg. Gen. M.P. 150/02 e 30/04, Pres. Cozzi, Est. Menditto p. 2 125 Cosi recita l’art. 7 L. 1423/1956: “Il provvedimento stesso, su istanza dell'interessato e sentita l'autorità di pubblica sicurezza che lo propose, può essere revocato o modificato dall'organo dal quale fu emanato, quando sia cessata o mutata la causa che lo ha determinato”. L’identica formulazione, oggi, è confluita all’interno dell’art. 11 del Codice delle leggi antimafia. 126 Cass. Pen., Sez I, n. 44601 del 1 dicembre 2008 , che espressamente sancisce: “La revoca, ex tunc, dalla misura di prevenzione, comporta, laddove il giudicabile deve rispondere della trasgressione delle relative prescrizioni, l'immediata declaratoria della insussistenza del fatto ai sensi dell'art. 129 c.p.p. in relazione all'art. 609 c.p.p., comma 2. 68 Per quanto concerne l’analisi dell’attualità della pericolosità sociale, la Sezione per l’applicazione delle Misure di Prevenzione del Tribunale di Napoli afferma che “l’attualità della pericolosità può essere desunta anche da fatti remoti purché siano univoco indice della persistenza del comportamento antisociale; ma quanto più tali elementi sono lontani nel tempo, rispetto al momento della formulazione del giudizio, tanto più è doverosa e necessaria, in mancanza di ulteriori comportamenti antidoverosi, la puntuale esplicitazione delle ragioni che fanno ritenere che gli effetti di tali elementi incidano sulla valutazione della personalità del soggetto in modo tale da farne dedurre l’attuale pericolosità”.127 In un altro provvedimento la Sezione sottolinea l’eventuale paradosso dell’applicazione di una misura personale laddove mancasse l’attualità della pericolosità. Afferma infatti, la Sezione, che “se la pericolosità non è attuale non vi è nulla da prevenire e non occorre alcuno specifico controllo”.128 La medesima impostazione è confermata dalla giurisprudenza di legittimità. Nella lettura congiunta di due provvedimenti, infatti, si nota come la Corte di Cassazione abbi inteso che “presupposto per l'applicazione di misure di prevenzione è la pericolosità sociale, che deve avere il requisito dell'attualità, essendo evidente che irrilevanti sarebbero le pregresse manifestazioni di pericolosità sociale ove non si riscontrassero, al momento di applicazione della misura, quei sintomi rivelatori della persistenza del soggetto in comportamenti antisociali che impongono una particolare vigilanza”.129 La Suprema Corte, allora, ribadisce, in successiva sentenza, che “Ai fini dell'applicazione o del mantenimento delle misure di prevenzione, il requisito della pericolosità sociale deve essere attuale; esso, quindi, non può essere desunto da fatti remoti, ancorché accompagnati da informazioni negative degli organi di polizia, quando tali informazioni non pongano Gli è che, se la revoca produce l'effetto della caducazione ora per allora degli obblighi imposti dal giudice della prevenzione, "come se non fossero mai stati stabiliti", di conseguenza non è in radice possibile configurare la loro trasgressione”. 127 Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 16 giugno 2009, Reg. Gen. M.P. 352/04 e 95/08, Pres. Est. Menditto, p. 4 128 Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 15 giugno 2010, Reg. Gen. M.P. 150/02 e 30/04, Pres. Cozzi, Est. Menditto 129 Cass. Pen. Sez. I, 11 Novembre 1991, n. 3866, Rv. 188804 69 in rilievo ulteriori, specifici elementi atti a dimostrare la sussistenza del detto requisito”130 3.1 La pericolosità qualificata ex lege 575/1965 Diverso è l’ambito di applicazione delineato dalla legge 575/1965 che, stante il disposto dell’art.1, come modificato da recenti interventi normativi ad opera dei cosiddetti “pacchetti sicurezza”131, si applica “agli indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, alla camorra, alla ‘ndrangheta o ad altre associazioni, comunque localmente denominate, che perseguono finalità o agiscono con metodi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso nonché ai soggetti indiziati di uno dei reati previsti dall’articolo 51, comma 3bis, del codice di procedura penale ovvero del delitto di cui all’articolo 12quinquies, comma 1, del decreto legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356”132. Il testo che conosciamo dell’allora art. 1 della prima legge antimafia, è quindi il risultato dell’azione di vari interventi legislativi che ne hanno, nel tempo, modificato il campo di applicazione, estendendolo a categorie che non erano previste in precedenza ma che, nella valutazione del legislatore, sono da riconsiderarsi in un più 130 Cass. Pen. Sez. I, 16 marzo 1992, n. 499, Rv. 189506 L’art. 1 della legge in esame era stata precedentemente modificata dalla legge 13 settembre 1982, n. 646. Successivamente è intervenuto il legislatore con legge 24 Luglio 2008, n. 125, di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 e la legge 15 luglio 2009, n. 94. 132 Stante l’approvazione del nuovo Codice Antimafia, previsto nel “Piano straordinario contro le mafie” con legge delega n. 136/2010, varato dal Governo il 3 agosto 2011, e approvato con d.lgs. n. 159/2011, il novero dei soggetti destinatari è previsto all’art. 16 del Codice Antimafia che cosi dispone: “1. le disposizioni contenute nel presente titolo si applicano: a) ai soggetti di cui all’art. 4 b) alle persone fisiche e giuridiche segnalate dal comitato per le sanzioni delle Nazioni Unite, o ad altro organismo internazionale competente per disporre il congelamento di fondi o di risorse economiche, quando vi sono fondati elementi per ritenere che i fondi o le risorse possano essere dispersi, occulti, o utilizzati per il finanziamento di organizzazioni o attività terroristiche, anche internazionali”. 2. Nei confronti dei soggetti di cui all'articolo 4, comma 1, lettera i), la misura di prevenzione patrimoniale della confisca può essere applicata relativamente ai beni, nella disponibilità dei medesimi soggetti, che possono agevolare, in qualsiasi modo, le attività di chi prende parte attiva a fatti di violenza in occasione o a causa di manifestazioni 12 sportive. Il sequestro effettuato nel corso di operazioni di polizia dirette alla prevenzione delle predette manifestazioni di violenza é convalidato a norma dell'articolo 22, comma 2”. 131 70 organico scenario di strumenti giurisdizionali di contrasto alle mafie e alla delinquenza mafiosa in forma organizzata ed associata; proprio in considerazione delle trasformazioni che, nel tempo, hanno caratterizzato il fenomeno delinquenziale mafioso. In altre parole, fattispecie criminose, non originariamente previste, si sono man mano rivelate come reati finalizzati alla realizzazione degli illeciti obiettivi propri delle associazioni mafiose ma anche denotanti particolari indici di pericolosità sociale la quale non può essere semplicemente definita “comune”, in considerazione del potere economico-criminale che ne deriva. In quest’ottica, allora, non si può negare che reati come quelli previsti dagli artt. 600, 601, 602 e 630 (rispettivamente “Riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù”, “Tratta di persone”, “Acquisto e alienazione di schiavi”, “Sequestro di persona a scopo di estorsione”) del c.p., possono trovare pratico riscontro, ad esempio, nella gestione e nello sfruttamento della prostituzione che è attività, tra le altre, che caratterizza un aspetto degli affari mafiosi. Inoltre tali fattispecie penali sono comunque inserite, organicamente, nella previsione dell’art. 416, sesto comma del c.p. che prevede il reato di associazione per delinquere finalizzata alla realizzazione dei delitti sopra citati. Se ne ricava, chiaramente, un’estensione del campo di applicazione dell’ allora articolo 1. Ancora rientra, in quest’estensione, la previsione del legislatore, di ricomprendere, nel citato articolo 1, i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416bis c.p. ovvero al fine di agevolare le attività illecite delle associazioni di tipo mafioso. Vanno ricompresi anche i delitti di cui all’art. 74 del d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309 che prevede il delitto di associazione per delinquere finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, oltre che le previsioni dell’art. 239quater del d.p.r. 23 gennaio 1973, n. 43, per quanto concerne l’associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri (TLE). Tutte queste fattispecie criminose rientrano nell’ambito di applicazione della legge del 1965 in virtù delle modifiche apportate dall’art 10 della legge 125/2008, di conversione del decreto legge 92/2008 recante: “Misure urgenti in materia di 71 sicurezza pubblica”, che ha previsto il richiamo all’art. 51 comma 3bis del c.p.p. cioè di quei delitti che sono di competenza del Procuratore della Repubblica distrettuale. Per quanto concerne poi le previsioni del citato art. 12quinquies del decreto legge 306/1992, tale norma prevede il delitto del “Trasferimento fraudolento e possesso ingiustificato di valori anche al fine di agevolare taluni reati previsti dagli artt. 648 (“Ricettazione”), 648bis (“Riciclaggio”), 648ter (“Impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita”) c.p. L’indiziato, allora, può essere anche colui che “fiancheggia” l’associazione criminale. Si tratta del cosiddetto “prestanome” in capo al quale si realizza un’attribuzione fittizia di beni. Una strategia che, inizialmente, ha permesso, alle organizzazioni criminali, di eludere alla misura ablatoria della confisca. Con queste estensioni, invece, “ il prestanome sarà passibile della misura di prevenzione personale e del sequestro e confisca dei beni risultati nella sua diretta disponibilità e/o anche di quelle altre utilità eventualmente trasferitegli per ricompensarlo del ruolo prestato della fittizia attribuzione”133 A queste modificazioni si aggiungano poi quelle che riguardano il titolo della legge 575/1965 che adesso reca: “Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere” (ad opera della legge 94/2009) e quelle che hanno apportato cambiamenti letterali alla rubrica dell’art. 416bis c.p. oltre a prevedere nell’ultimo comma le parole “ ‘ndrangheta” e “straniere”.134 Dal complesso degli interventi normativi, sopra citati, emerge, dunque, la qualificazione soggettiva che integra gli estremi di quel requisito soggettivo fondamentale, per l’applicazione della misura preventiva anche patrimoniale, che è la “pericolosità qualificata”. 133 A. BALSAMO - V. CONTRAFATTO - G. NICASTRO, Le misure patrimoniali contro la criminalità organizzata, GIUFFRÈ, 2010, p. 62 134 la precedente rubrica “Associazione di tipo mafioso” è stata sostituita dall’attuale “Associazioni di tipo mafioso anche straniere” ad opera della legge 125/2008. Anche l’ultimo comma del 416bis c.p. ora prevede che “le disposizioni del presente articolo si applicano anche alla camorra, alla ‘ndrangheta e alle altre associazioni, comunque localmente denominate, anche straniere, che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso”. 72 E tale qualificazione soggettiva è propria di quell’individuo che, sulla base dei presupposti, tassativamente previsti dalla legge, risulti essere indiziato di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, alla camorra, alla ‘ndrangheta o ad altre associazioni, comunque localmente denominate, che perseguono finalità o agiscono con metodi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso. Ciò che emerge, dalla lettura della normativa vigente, è quindi la previsione di una presunzione del legislatore, relativamente al presupposto soggettivo, del requisito richiesto per l’applicazione della misure preventiva patrimoniale. Non più, dunque, alle persone “che debbano ritenersi pericolose per la sicurezza pubblica o la pubblica moralità”135 ma questa volta le misure di prevenzione (anche patrimoniali) si applicheranno ai soggetti che risultino essere “indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso”136 ricomprendendo, dunque, il reato associativo sia esso di tipo mafioso, finalizzato al contrabbando TLE ovvero allo spaccio di sostanze stupefacenti. Dal confronto, cosi, delle due definizioni previste, rispettivamente dalle leggi 1423/56 e 575/1965, si nota la perdita dell’aggettivo pericoloso. Ma non del concetto. La legge del 1965, infatti, ipotizza un tipo di pericolosità, appunto qualificata, che è insita nel concetto stesso di appartenenza all’associazione di tipo mafioso. Da questo punto di vista, sebbene dall’interpretazione letterale delle norme vigenti se ne ricavi una sostanziale equiparazione delle forme associative (di tipo mafioso, dedite al contrabbando TLE ovvero allo spaccio di sostanze stupefacenti) anche in punto di valutazione circa l’attualità della pericolosità qualificata che ne deriverebbe, va precisato un indirizzo certamente più attenuato della giurisprudenza di merito laddove si precisa che “quanto all’attualità della pericolosità sociale nei confronti delle persone riconosciute indiziate di appartenenza ad associazione dedita al contrabbando TLE (ovvero allo spaccio di sostanze stupefacenti) non possono trovare acritica applicazione i principi elaborati in tema di indiziato di appartenenza 135 136 Cosi l’art. 2 della legge 1423/1956 Cosi l’art. 1 della legge 575/1965 73 ad associazione di stampo mafioso per cui si afferma generalmente una presunzione di perdurante pericolosità”.137 Il Collegio napoletano, quindi, sottolinea come sia necessario graduare, fornendo un’interpretazione coerente del dato normativo, l’intensità della pericolosità e dunque della sua attualità anche in considerazione della natura e della operatività dell’associazione stessa. Stando cosi le cose, una pericolosità qualificata “perdurante” caratterizza, inevitabilmente e incontrovertibilmente, il soggetto affiliato alla cosca mafiosa. “Questo approccio ermeneutico, trova la sua vera forza nella considerazione che ordinariamente (secondo cioè l’id quod plerumque accidit, che deve sostanziare tutti i ragionamenti presuntivi) il rapporto che si instaura tra il sodalizio mafioso e l’adepto, che ne diviene parte, è tendenzialmente perpetuo”.138 La Cassazione si esprime su tale profilo in maniera evidente, affermando proprio che “in tema di applicazione delle misure di prevenzione nei confronti di soggetti indiziati di appartenenza a un'associazione di tipo mafioso, la valutazione richiesta al giudice deve essere fondata su specifici elementi sintomatici della partecipazione di una persona a un sodalizio criminale “qualificato”: appartenenza, questa, che di per sé implica una latente e permanente pericolosità sociale del soggetto. Ne consegue che, al fine di escludere l'attualità di tale pericolosità ,occorre acquisire il recesso personale da quella organizzazione o la disintegrazione di questa”.139 La diversa concezione della pericolosità, allora, influisce anche sulla valutazione della sua attualità. Se, infatti, la pericolosità comune, requisito soggettivo per l’applicazione delle misure previste dalla legge del 1956, è legata a comportamenti criminogeni svincolati da fenomeni sociali complessi ed organizzati, come quello delle organizzazioni criminali, è evidente che “l’indiziato di appartenere ad associazione di tipo mafiosa”, al di là dei suoi comportamenti penalmente rilevanti che si possono sostanziare nella commissione di singoli delitti come l’omicidio, ovvero la 137 Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 20 ottobre – 5 novembre 2010, dep. 09 dicembre 2010, Reg. Gen. M.P. n. 333/04 e 219/05, Reg. Decreti n. 276/2010/A, Pres. Est. Menditto, p. 43 138 A. BALSAMO - V. CONTRAFATTO - G. NICASTRO, Le misure patrimoniali cit., p.68 139 Cass. Pen., Sez. I, 30 maggio 1995, n. 2019, Rv. 201459 74 corruzione, ovvero ancora nello scambio elettorale politico-mafioso, esprime di per se una qualificazione soggettiva per la quale “il requisito della pericolosità è necessariamente implicito nell’appartenenza del soggetto proposto ad un’organizzazione mafiosa.”140 Dunque il legislatore richiede che il giudice accerti l’esistenza dei requisiti soggettivi previsti dalla legge 575/1965 e s.m.i, ma non anche l’attualità di quei comportamenti penalmente rilevanti e che giustificano un controllo attuale dell’autorità di P.S. (come previsto nella prevenzione alla pericolosità c.d. comune) in quanto è da ritenersi che una volta “dimostrata, infatti, l’appartenenza del soggetto alla mafia, non risulterebbe più necessaria alcuna particolare motivazione del giudice in punto di attuale pericolosità, potendo essere esclusa tale pericolosità solo nel caso di recesso dall’associazione, di cui andrebbe acquisita positivamente la prova”.141 E questo varrebbe anche per l’ipotesi dei “concorrenti esterni” alle consorterie mafiose.142 Va, infatti, sottolineato che la Cassazione ha distinto, sul piano tecnico, la condotta dell’appartenenza da quella della partecipazione, ritenendo quest’ultima un atteggiamento di continuità, alla consorteria criminale, che seppur non integrante il fatto-reato tipico dell’associazione a delinquere di stampo mafioso (secondo la definizione dell’art. 416bis c.p.), risulta pur sempre funzionale agli interessi dell’organizzazione criminale e dunque del tutto denotante quella pericolosità sociale specifica che sottende al trattamento prevenzionistico. Per tale motivo la Cassazione ha ritenuto l’applicabilità “delle misure di prevenzione anche a quanti "appartengano" ad un sodalizio mafioso, non in qualità di partecipi, ma di concorrenti esterni; posto, fra l'altro, che un discrimine sul punto finirebbe per risultare del tutto irragionevole proprio sul piano dello scrutinio della pericolosità qualificata, essendo su questo terreno significativo il contributo fattuale al sodalizio, piuttosto che qualsiasi nominalistico riferimento al titolo giuridico in forza del quale 140 F. FIORENTIN (a cura di), Le misure di prevenzione, GIAPPICHELLI, 2006, p.293 Ibidem 142 Cass., Sez VI, 15 settembre 2008, D.L. in CED Cass., n. 241251 141 75 la fattispecie incriminatrice speciale può essere astrattamente applicabile a quel soggetto”.143 La S.C., però, prosegue specificando che “se poi, come nella specie, l'extranens risulti così stabilmente coeso, più che con singoli personaggi, con la struttura stessa del sodalizio, operando in consapevole sintonia con gli obiettivi perseguiti dalla associazione, nel quadro di un programma di "affari" di primario risalto per la stessa associazione, v'è quanto basta per ritenere più che adeguatamente suffragato lo scrutinio di sufficienza “indiziaria” in ordine alla “appartenenza” mafiosa del proposto ed alla connessa delibazione in punto di pericolosità qualificata”.144 La giurisprudenza di Legittimità ha inoltre sottolineato come, in tema di applicazione delle misure di prevenzione personale ai sensi della legge 575/65, deve emergere il dato “di una pericolosità qualificata, anche in rapporto di attualità temporale, del proposto, che deve ancorarsi a un sostrato indiziario che disegni un quadro di ragionevole probabilità dell’appartenenza del proposto stesso ad associazioni di tipo mafioso.”145 La Suprema Corte chiarisce, inoltre, che “in tema di misure di prevenzione, l’appartenenza ad un’associazione per delinquere di tipo mafioso implica di per se stessa una latente e permanente pericolosità del soggetto. Conseguentemente – sottolinea la S.C. – per poter ritenere cessata l’attualità della pericolosità, occorre acquisire prova certa e rigorosa del recesso di quegli dal sodalizio criminoso”146 Sul punto anche la giurisprudenza di merito della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Napoli, conferma tale indirizzo della dottrina. 143 Cass., Sez. II, 2 marzo 2006, n. 7616 Ibidem 145 Cass., Sez. II, 16 dicembre 2005, n. 1023, Rv. 233169, Canino, in Ced. 146 Cass., Sez. V, 20 ottobre 1993, n. 3268, Rv. 196297, P.M. in proc. Alfano, in Ced, più recentemente Cass. Sez. VI sent. n. 114 del 23/11/2004 dep. 5/1/2005 Rv. 231448 con la quale il Supremo Collegio ha specificato che: “ai fini dell'applicazione di misure di prevenzione nei confronti di appartenenti ad associazioni mafiose, una volta che detta appartenenza risulti adeguatamente dimostrata, non è necessaria alcuna particolare motivazione del giudice in punto di attuale pericolosità, posto che tale pericolosità potrebbe essere esclusa solo nel caso di recesso dell'interessato dall'associazione, del quale occorrerebbe acquisire positivamente la prova, non bastando a tal fine eventuali riferimenti al tempo trascorso dall'adesione o dalla concreta partecipazione ad attività associative”. 144 76 Non si può negare, infatti, che la pericolosità debba essere l’oggetto di un giudizio che si basi su particolari comportamenti dai quali si possa desumere una pericolosità concreta ed attuale e non semplicemente potenziale e che vada, dunque, “a giustificare un controllo attuale dell’autorità di P.S.” Ma nell’ambito delle categorie soggettive di cui all’art.1 della legge 575/1965, la giurisprudenza citata sottolinea che ai fini dell’affermazione della pericolosità sociale del proposto, qualificata dalla sua appartenenza ad un’associazione di tipo mafioso, è necessario e sufficiente l’esistenza di un fatto noto dal quale poter desumere, mediante un “ragionamento” logico di tipo indiziario, l’appartenenza del singolo ad un’associazione secondo la definizione giuridica ex art. 416bis c.p. Afferma ancora il Tribunale che “quanto all’attualità della pericolosità sociale nei confronti delle persone riconosciute indiziate di appartenenza ad associazione mafiosa (categoria originaria dell’art. 1 della legge numero 575 del 1965), si sottolinea che si afferma generalmente una presunzione di perdurante pericolosità”.147 Il Tribunale, inoltre, specifica che per l’applicazione delle misure preventive (personali e patrimoniali), ai soggetti che risultano essere indiziati di appartenere ad associazioni di tipo, si dovrà procedere ad una scrupolosa valutazione della sussistenza dei requisiti soggettivi previsti dalle norme vigenti; dell’esistenza, cioè, dell’associazione di tipo mafiosa venuta in considerazione nel caso di specie, e quello dell’appartenenza del proposto alla suddetta associazione di tipo mafioso. Va chiarito che alla luce del nuovo Codice Antimafia risultano definitivamente abrogate, tanto la legge 1423/1956 quanto la legge 575/1956. Di conseguenza le categorie soggettive ricomprese dai due diversi provvedimenti legislativi, sono stati codificati all’art. 1 e all’art. 4 del Codice delle leggi antimafia. 147 Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 27 ottobre 2010, Reg. Gen. M.P. n. 132/02, Pres. Est. Menditto, pp. 4-5. La stessa interpretazione viene ripresa dal Collegio in altre pronunce come, sul punto dell’attualità, cfr. Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 15 giugno 2010, Reg. Gen. M.P. n. 150/02 e 30/04, Pres. Cozzi, Est. Menditto; Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 7 febbraio 2009, dep. 23 febbraio 2009, Reg. Gen. M.P. n. 131/02, 154/03, 159/06, 64/08, 210/08, Pres. Menditto; Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 19 dicembre 2007, Reg. Gen. M.P. n. 246/99 e 11/07, Pres. Cozzi, Est. Menditto. 77 Tuttavia tali modificazioni non consentono di ritenere inficiato il ragionamento testè esposto, in considerazione del fatto che l’opera del legislatore, in tale ambito, procede ad una mera ricognizione delle disposizioni contenute nelle leggi abrogate. Vale la pena sottolineare che l’unica innovazione, in tale contesto, è rappresentata dall’estensione dell’applicazione delle misure patrimoniali alle categorie soggettive originariamente previste dall’art. 1 della legge 1423/1956 e adesso ricomprese nell’art.1 del d.lgs. 159/2011 ed espressamente richiamate in sede di applicazione delle misure di prevenzione di carattere patrimoniale, originariamente non soggette a tale misura ablatoria. Risulta utile delineare, comunque, i caratteri fondamentali della pericolosità qualificata. Sebbene infatti le norme contenute nel Codice delle leggi antimafia abbiano, di fatto, soppresso tale distinzione, in virtù della quale, in origine, le misure di prevenzione patrimoniali avevano come soggetti destinatari, i soli che risultassero essere indiziati di appartenere ad associazioni mafiose, ed oggi invece le misure di carattere patrimoniale, come detto in precedenza, sono applicabili ad un novero più ampio di soggetti, tuttavia la distinzione tra le categorie della pericolosità, cosiddetta comune e quelle della pericolosità cosiddetta qualificata rilevano, per esempio, ai fini dell’applicazione dell’istituto dell’amministrazione giudiziaria dei beni personali. Tale misura, prevista dall’art. 33 del Codice delle leggi antimafia, infatti non si applica ai soggetti di cui all’art. 4 comma 1, lett. a) e b) e segnatamente “agli indiziati di appartenere alle associazioni di cui all’articolo 416bis c.p.”, e “ai soggetti indiziati di uno dei reati previsti dall’art. 51 comma 3bis, del codice di procedura penale ovvero del delitto di cui all’art. 12quinques, comma 1, del decreto legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n.356”. La misura in esame prevede, infatti, che il Tribunale può aggiungere, all’applicazione di una delle misure personali anche quella dell’amministrazione giudiziaria dei beni personali. Sono però esclusi i beni destinati all’attività professionale o produttiva del soggetto sottoposto al procedimento. Inoltre, a norma dell’art. 33 comma 3 del Codice delle leggi antimafia, la misura in esame può essere disposta per un periodo non superiore ad anni 5 e rinnovata per 78 ulteriore periodo di anni 5 se sussistono, ancora, le condizioni che ne hanno giustificato l’originaria emanazione. Da ciò deriva che l’opportuna distinzione tra pericolosità qualificate e comune, rileva ai fini dell’applicazione di detta misura, ai soli soggetti ritenuti portatori di pericolosità comune. Tale scelta, del legislatore, infatti è giustificata “dalla costatazione che tale strumento non pare, […], utile allo scopo di inibire alle menzionate compagini criminali la gestione di patrimoni frutto di attività illecite”.148 3.2 L’associazione di tipo mafioso “L’esistenza di un’associazione di tipo mafioso è pregiudiziale rispetto all’essere un soggetto indiziato di appartenervi”. L’accertamento dell’esistenza di un’organizzazione criminale da parte del Tribunale, deve essere compiuto ai fini dell’applicazione delle misure di prevenzione cosi come prevista dalla legge 575/1965149. Sebbene vada ricordata l’autonomia tra il processo penale ed il procedimento di prevenzione (che ha un’ovvia ricaduta anche sul profilo probatorio del procedimento di prevenzione rispetto a quello del processo penale), si deve sottolineare che dal punto di vista dell’individuazione, in concreto, della fattispecie criminosa, di cui all’art. 416bis c.p., i due procedimenti coincidono. Nell’ambito del procedimento di prevenzione ex lege 575/65 è necessario assumere la prova “dell’esistenza di una associazione di tipo mafioso, in una qualsiasi delle forme che può assumere secondo il dettato dell’art. 416bis c.p.”150 148 L. FILIPPI - M.F. CORTESI, Il Codice delle misure di prevenzione, GIAPPICHELLI, 2011, p. 91 L’art. 1 della legge 575/1965, infatti prevedeva l’applicazione delle misure agli indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, alla camorra alla ‘ndragheta o altre associazioni comunque localmente denominate. Attualmente vige l’art 4 del D.lgs. 159/2011 (Codice Antimafia) che prevede infatti l’applicabilità delle misure agli indiziati di appartenere alle associazioni di cui all’articolo 416bis c.p. 150 In: Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 15 giugno 2010, Reg. Gen. M.P. 150/02 e 30/04, Pres. Cozzi, Est. Menditto, p. 4, e in altri provvedimenti della sezione precedentemente citati che mostrano un indirizzo giurisprudenziale consolidato per quanto attiene l’accertamento dell’esistenza dell’associazione mafiosa oltre che le relative modalità di acquisizione. 149 79 La definizione dell’associazione mafiosa ha rappresentato, certamente, un compito ostico per la dottrina, specialmente in tempi antecedenti l’introduzione della specifica fattispecie criminosa prevista dalla c.d. “legge La Torre – Rognoni”. Se, precedentemente al 1982, quello della mafia era considerato “un fenomeno complesso, non ben definibile”151 se non come un fenomeno “inafferrabile” e dunque, difficilmente delineabile dal punto di vista razionale oltre che giuridico, comportando un’ovvia censura di carenza di tassatività e la conseguente insufficienza della definizione atta a giustificare la restrizione della libertà personale, successivamente al 1982, tali censure, inevitabilmente, cadono. La legge 646/1982, infatti, introducendo, nel nostro ordinamento giuridico, il reato di “associazione di tipo mafioso”, compie un’operazione di cristallizzazione, non di un fenomeno evanescente e “inafferrabile”, bensì di un preciso comportamento antisociale, individuandone i tratti tipici di chiara rilevanza penale e connessi al controllo del territorio e dell’economia. Le attività delle organizzazioni criminali sono dunque riconosciute come in netta contrapposizione ai compiti e alle funzioni che la Costituzione attribuisce all’organizzazione dello Stato. La definizione giuridica delle associazioni di tipo mafioso, dunque, “tiene conto – grazie anche al lavoro di documentazione svolto dalla prima Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno mafioso in Sicilia costituita con legge 20 dicembre 1962, n. 1720 – dei metodi usati di regola da coloro che ne fanno parte, e dei fini che mediante quei metodi vengono perseguiti”.152 I rilievi della Commissione Parlamentare d’inchiesta degli anni ’60 confluirono, in prima battuta, nel testo della legge 575/1965. Se, dunque, il legislatore aveva già sentito l’esigenza di individuare, nella prima legge antimafia, un più specifico ambito di applicazione, significa che nello stesso tempo ha ritenuto esistenti delle condotte che, destando un maggior allarme sociale rispetto alle fattispecie di pericolosità descritte già nel 1956, dovessero essere, non solo, suscettibili dell’applicazione delle misure di prevenzione personali ma che 151 P. NUVOLONE, voce: Misure di sicurezza e misure di prevenzione cit., p. 645 E. GALLO, voce: Misure di prevenzione, in Enciclopedia giuridica Treccani, vol. XXII, Roma, 1996, p. 13 152 80 quest’ultime dovessero essere applicate anche in assenza del preventivo avviso orale del questore di cui all’art. 4 della legge 1423/1956.153 Il legislatore avverte l’esigenza di definire le condotte come mafiose e i loro autori come appartenenti alle associazioni mafiose, ma in assenza di una definizione giuridica del fenomeno stesso, i provvedimenti legislativi in esame vengono inevitabilmente ad essere sottoposti a dura critica, proprio perché manchevoli di quel profilo tipico della determinatezza della fattispecie penale che esclude l’atteggiamento discrezionale dell’interprete. Tanto è vero che tra le parole di Nuvolone si legge che “quello della mafie è un fenomeno complesso, non ben definibile: è un modo di vivere, di comportarsi, in virtù di occulti vincoli di solidarietà. E non necessariamente la mafia esprime se stessa attraverso veri e propri delitti. Questa inafferrabilità del fenomeno rende praticamente impossibile una definizione razionale: esso si coglie più che altro a livello intuizionistico, emozionale. Il che è un pò poco per individuare una premessa di fatto, che serva di fondamento per un ragionamento giuridico, e in particolare per l’applicazione di misure restrittive della libertà personale.”154 Dunque, Nuvolone denuncia, non solo la mancanza di una precisa definizione della fattispecie in esame ma addirittura, sottolinea, come il legislatore del 1965 abbia impostato il discorso della prevenzione su una presunzione di pericolosità, relativa agli indiziati di appartenere ad associazioni mafiose. Presunzione che quindi prescinderebbe dall’accertamento della pericolosità prevista dalla legge 1423/56.155 153 Cosi recita, infatti, l’art. 2 della legge 575/1965: “Nei confronti delle persone indicate all’articolo 1 possono essere proposte dal procuratore nazionale antimafia, dal procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo di distretto ove dimora la persona, dal questore o dal direttore della Direzione investigativa antimafia, anche se non vi è stato il preventivo avviso, le misure di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e dell’obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di dimora abituale, di cui al primo e al terzo comma dell’articolo 3 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, e successive modificazioni”. 154 P. NUVOLONE, voce: Misure di sicurezza e misure di prevenzione cit., p. 645 155 “(…) si deve anche prescindere dall’accertamento relativo alla pericolosità per la sicurezza pubblica e la pubblica moralità, perché la legge, nella sua apodittica impostazione, sembra presumere la pericolosità degli indiziati di appartenere ad associazioni mafiose”. P. NUVOLONE, voce: Misure di sicurezza e misure di prevenzione cit., p. 645 81 Successivamente, il legislatore, però, definisce il reato di associazione di stampo mafioso assoggettando alla pena colore che la promuovono, la dirigono o ne fanno parte. A questo punto diventa fondamentale, nel ragionamento giuridico del procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione, la prova dell’esistenza del sodalizio criminale. Quest’ultimo non è più un fenomeno inafferrabile. Non si tratta di indagare un piano “intuizionistico o emozionale” ma di dare prova dell’esistenza di quegli estremi, previsti dalla legge, che integrino concretamente quelle condotte penalmente rilevanti che il codice penale definisce come il delitto di associazioni di tipo mafioso. Su questi profili, infatti, si attestò la discussione parlamentare in occasione della presentazione del progetto di legge d’iniziativa dei deputati, primo firmatario l’onorevole Pio La Torre, con il quale si sarebbe introdotto, per l’appunto, il reato di cui abbiamo detto. La discussione del 5 agosto 1982, a Commissioni riunite, si incentrò principalmente sulla definizione del reato associativo. Si cercò di delineare le caratteristiche tipiche dell’associazione mafiosa, avvalendosi delle definizioni della giurisprudenza e quelle della dottrina, intervenute fino a quel momento, per distinguere, in modo chiaro ed efficace, la nuova fattispecie incriminatrice da quella dell’associazione per delinquere, già contemplata dall’art. 416 c.p. Norma per la quale, sono gli stessi deputati della Commissione in sede legislativa a rilevarlo, “si arriva puntualmente nei processi di mafia all’assoluzione per insufficienza di prove”.156 Il confronto, tra i deputati delle Commissioni riunite, Interni e Giustizia, affrontarono, non senza perplessità, la difficile opera di definizione dell’associazione mafiosa, sulla base anche di avvenimenti della realtà precedente, che fino a quel momento avevano dato chiare indicazioni di un fenomeno operante sul territorio con una notorietà criminale ormai evidente. 156 Atti parlamentari, Camera dei Deputati, Legislatura VIII, Lavori in commissione, Commissioni riunite, Sede legislativa, seduta del 5 agosto 1982, p. 35 82 Proprio sul concetto di notorietà, si focalizza l’attenzione probatoria della Sezione misure di prevenzione del Tribunale allorquando è chiamata a soddisfare l’esigenza di provare l’esistenza dell’associazione mafiosa alla quale si presume che il proposto sia indiziato di appartenervi. Ma procediamo con ordine ripercorrendo le tappe del ragionamento del legislatore. Per primo, espresse perplessità, l’onorevole democristiano, Carlo Casini, che basandosi sul dato letterale della norma dell’art. 416bis, criticava la definizione della fattispecie delittuosa temendo incidenze sulla certezza del diritto. Ravvisava la difficoltà di definire giuridicamente la mafia, ma nello stesso tempo evidenziava dubbi circa l’apparato strutturale della norma in esame. In particolare la critica del Casini si soffermava sulla necessità di comprendere l’essenza dell’associazione mafiosa alternata, secondo l’interpretazione del Casini, tra l’essere, l’associazione, formatasi per commettere delitti ovvero l’essere, l’associazione, formatasi per commettere uno scopo delittuoso senza compiere, prima del raggiungimento di questo fine, altri delitti. È chiaro che queste riflessioni avevano una rilevanza non soltanto teorica, posto che ciò che si andava a discutere, in Commissione, altro non era che la definizione dei requisiti oggettivi per i quali la magistratura avrebbe proceduto poi a contestare, alle soggettività responsabili, il nuovo reato. Dunque il Casini emendava la proposta di legge, in ordine alla formulazione dell’art. 416bis c.p., evidenziando chiaramente le preoccupazione sopra accennate, con queste parole: “In altri termini, o l’associazione mafiosa è un’associazione che, per i mezzi che usa o per il fine che si propone è criminale e intende commettere delitti, oppure è un’associazione che nel proprio piano non prevede la commissione di reati”.157 Atteggiamento mentale, quello del Casini, ancora chiaramente legato alla definizione del reato di associazione per delinquere e tradito della affermazione, riportate dai resoconti stenografici, in base alle quali avrebbe senso definire un’associazione mafiosa se ricondotta nell’alveo dell’associazione per delinquere, definendone le modalità e senza far riferimento ad azioni altre dalla commissione dei delitti. 157 Atti parlamentari cit. p. 37 83 Alle contestazioni del Casini risponde Francesco Martorelli, relatore per la IV Commissione Giustizia, sottolineando che il testo dell’articolo è finalizzato alla immediata individuazione di un’associazione mafiosa, ravvisando la necessaria distinzione dalla norma del già citato art. 416 c.p. proprio perché tale norma ha maglie troppo larghe attraverso le quali può sfuggire il caso dell’associazione mafiosa”.158 Quello che sfugge, infatti, alla definizione del reato di “associazione per delinquere” è la circostanza che, rileva ancora il Martorelli, “è l’esistenza stessa dell’associazione, infatti, che permette di imporre determinati comportamenti al fine di controllare attività economiche o altro”.159 Ma il Martorelli si spinge oltre enucleando quello che sarà poi alla base dell’apparato “strutturale – strumentale” dell’associazione mafiosa. Afferma il Relatore della IV Commissione: “L’associazione mafiosa ha lo scopo di esercitare un controllo su un’intera area produttiva o su un’attività economica valendosi di un dato essenziale, cioè la forza intimidatrice del vincolo mafioso che è alla base di tutto quello che abbiamo detto”.160 Il presupposto, e questa rappresenta la vera svolta nella definizione giuridica del reato associativo di stampo mafioso, è sempre quello della forza intimidatrice del vincolo associativo che potrebbe anche non concretarsi in vere e proprie figure criminose. Da questa linea programmatica si discosta, invece, il deputato radicale Marco Boato (il partito radicale sarà tra i massimi oppositori, in aula, all’approvazione della “legge La Torre – Rognoni” perché ritenuta troppo poco garantista) che con la proposta di emendamento aveva sostanzialmente tentato, ancora una volta, di riportare questo tentativo innovatore, della definizione del reato di mafia, nei canoni dell’associazione per delinquere ex art. 416 c.p. Illuminanti diventano, a questo punto della discussione, le considerazioni di Pierluigi Onorato che ricordano come sia importante, al fine di garantire l’efficienza dell’intervento del legislatore rispetto al fenomeno mafioso, che la definizione 158 Ivi, p. 39 Ivi, p. 40 160 Ibidem 159 84 giuridica metta in condizione, i magistrati, di “perseguire il reato associativo come reato commesso da coloro che si associano sia al fine di controllare un’attività economica, sia ai fini che non rientrano esattamente nella formula del delitto individuale di violenza privata”.161 Dunque a margine di questa incompleta ricostruzione del dibattito parlamentare, ma che pone in evidenza i maggiori ragionamenti operati dalla forze politiche dell’epoca, si giunge alla conclusione evidente che, prima di tutto, l’associazione mafiosa rappresenta quella categoria delittuosa finalizzata, non necessariamente alla commissione di delitti, ma al raggiungimento di profitti ingiusti e di controllo economico-territoriale. In secondo luogo viene messo in evidenza quello che è lo strumento essenziale delle organizzazioni criminali, e cioè la forza intimidatrice del vincolo associativo. Quest’ultimo aspetto incide notevolmente, come sottolineato in precedenza, sul tema della prova dell’esistenza del sodalizio criminoso. Non si può infatti negare che l’iter parlamentare abbia condotto ad un punto fermo di notevole importanza per gli operatori del diritto. Ciò è rappresentato dal fatto che la forza intimidatrice del vincolo associativo rappresenta quel requisito “strutturale – strumentale” dal quale prendere le mosse, perché si possa avviare il procedimento probatorio che conduce all’accertamento della penale responsabilità. Con questo si vuole sottolineare come il pilastro, su cui poggia la fattispecie ex art. 416bis c.p., sia proprio quella forza intimidatrice dalla quale scaturiscono le condizioni di assoggettamento e omertà. La forza, e le condizione che ad essa sono collegate, non rappresentano le modalità di realizzazione della condotta penalmente rilevante. Sono esse stesse elementi strutturali della fattispecie in esame. Questo non può che riflettersi, inevitabilmente, anche sul livello probatorio inerente la condizione degli appartenenti alle associazioni mafiose per i quali, evidentemente, non è richiesta la necessaria realizzazione della commissioni di ulteriori delitti. Eventualmente, l’esecuzione di questi, saranno valutati come comportamenti atti a 161 Ivi, p. 45 85 consolidare ulteriormente quella forza intimidatrice che comunque rappresenta “l’ in se del vincolo associativo”.162 La dottrina ha però chiarito che non è sufficiente uno sfruttamento solo potenziale della forza d’intimidazione; laddove per potenziale debba intendersi, sempre secondo la dottrina, la pura e isolata intenzione di avvalersi della forza di intimidazione stessa. Dunque da un lato si chiede che sia accertata la forza intimidatrice del vincolo associativo, non necessariamente rappresentata da quelle condotte tipiche previste dalle norme del codice penale, dall’altra si esclude che possa esserci lo sfruttamento solo potenziale della stessa. La soluzione, per meglio comprendere il ragionamento giuridico che sottende alla definizione del reato associativo di stampo mafioso, è rappresentato da quella definizione, dottrinaria, che ha individuato la categoria della “carica intimidatoria autonoma” in forza della quale “anche mancando la prova di tali atti [di intimidazione ovvero di violenza N.d.A.], l’elemento della «forza intimidatrice» sia comunque desumibile aliunde da circostanze atte a dimostrare la capacità di incutere timore propria dell’associazione in quanto tale: una capacità ricollegabile alla «pubblica memoria» della sua pregressa attività sopraffattrice”.163 Sul concetto, dell’organizzazione mafiosa, di non fare “ruomre”, cioè di esprimere se stessa indipendentemente dalla commissione di particolari reati, è argomento affrontato anche da autori come Gaetano Mosca che, nel disquisire sullo “spirito della mafia”, rileva che se dovessimo “considerare per mafioso solo colui che per spirito di mafia ha commesso un reato, od è almeno capace di commetterlo, allora i Siciliani che, come dicono gli italiani del nord, sono «affiliati alla mafia», diventano una scarsa minoranza”164. Sebbene ironiche, le affermazioni del Mosca sono indicative di una tendenza culturale e sociale che poi di fatto è stata recepita dal legislatore che, mediante l’esame di dottrina e giurisprudenza, con l’attento e scrupoloso apporto della sociologia, ha di fatto tradotto normativamente quell’atteggiamento tipico 162 G. TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, GIUFFRÈ, 2008, pp. 116, ss. Ivi, p. 118 164 G. MOSCA, Che cosa è la mafia, LATERZA, 2002, pp. 12, ss. 163 86 dell’associazione mafiosa che ancora il Mosca afferma concretarsi in quel binomio “massimo prestigio e guadagno illecito – minor sforzo delittuoso”. Ed è sempre Mosca che enuclea la strategia mafiosa rilevando che “esse [le associazioni mafiose N.d.A.], hanno inventato all’uopo una vera tecnica del delitto, per la quale non rifuggono dal reato più atroce, dall’assassinio per agguato, quando ciò è necessario per salvare l’associazione […] ma nei casi ordinari s’industriano di violare il meno possibile il codice penale”.165 Dunque non è necessaria la consumazione di delitti da parte di tutti i singoli associati all’organizzazione mafiosa ma sarà invece fondamentale che a questa si possa associare una carica autonoma d’intimidazione diffusa che deriva a sua volta da “una sufficiente «fama» di violenza e di potenzialità sopraffattrice.”166 L’espressione “fama di violenza” è dunque da ricollegarsi a quelle consorterie mafiose che hanno acquisito nel tempo uno status, per così dire, di “delinquenza storica”, per le quali, “ l’esperienza giudiziaria insegna che la carica intimidatoria autonoma si presenta di regola come elemento già perfettamente formato”.167 Si ritorna, allora, a quel punto concettuale di “notorietà del fenomeno” che la magistratura di prevenzione adotta nei provvedimenti, applicativi delle misure di prevenzione, quando deve attestare l’esistenza dell’associazione mafiosa alla quale il preposto è indiziato di appartenere. A dimostrazione di quanto detto, la Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Napoli dichiara, relativamente ad alcuni casi di specie, che “l’esistenza di tale associazione deve ormai ritenersi annoverabile tra i fatti notori”.168 Nello stesso provvedimento il Collegio precisa anche che “ l’esistenza di una stabile e feroce associazione di tipo camorristico […] è ormai fatto noto, accertata, inoltre, con numerose sentenze, anche irrevocabili, oltre che con l’adozione di decreti 165 Ivi, pp. 31, ss. G. TURONE, Il delitto di associazione cit., p. 121 167 Ivi, pp. 125, ss. 168 Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 19 dicembre 2007, Reg. Gen. M.P. n. 246/99 e 11/07, Pres. Cozzi, Est. Menditto, p.4 166 87 applicativi di misure di prevenzione emessi da questo Tribunale nel tempo”.169 In altri provvedimenti, lo stesso Collegio, riconferma questo stesso orientamento.170 3.3 Il concetto di appartenenza “la valutazione richiesta al giudice deve essere fondata su specifici elementi sintomatici della partecipazione di una persona a un sodalizio criminale” La dottrina si è, necessariamente, soffermata sulla definizione giuridica di “appartenenza”. Già Pietro Nuvolone rilevava alcune difficoltà interpretative sia relativamente alla definizione dell’associazione mafiosa, sia relativamente al concetto di appartenenza ad essa. Rileva infatti, l’autore, che “la fattispecie soggettiva, presupposto delle misure di prevenzione [ex lege 575/1965 N.d.A.], è soltanto la qualità di indiziato di appartenere ad associazioni mafiose, prescindendosi completamene dalla dalle situazioni descritte nell’art. 1 della legge del 1956”171. Si tratta però di stabilire che cosa si intenda per associazione mafiosa ( le riflessioni del Nuvolone, infatti, sono precedenti all’entrata in vigore della legge 646/1982 che introduce il reato di associazione di tipo mafioso). 169 Ivi, p. 8 Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 15 giugno 2010, Reg. Gen. M.P. 150/02 e 30/04, Pres. Cozzi, Est. Menditto, pp. 8, ss., nel quale elenca tutti i provvedimenti dai quali desumere pienamente l’esistenza dell’associazione camorristica di cui si tratta. L’elenco, infatti, riprende sia provvedimenti emessi dalla stessa Sezione Misure di Prevenzione ma anche le ordinanze applicative di custodia cautelare emesse dal Gip del Tribunale di Napoli, le sentenze del Tribunale di Napoli che attestano le faide e le contrapposizioni camorristiche locali e sulla base di questo elenco, di provvedimenti acquisiti, conclude, il Collegio, affermando che “Senza ripercorrere compiutamente i ponderosi elementi di fatto indicati nei citati provvedimenti dell’autorità giudiziaria, può in questa sede darsi per certa l’esistenza dei ricordati gruppi criminali[…]”; lo stesso dicasi anche per: Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 27 ottobre 2010, Reg. Gen. M.P. n. 132/02, Pres. Est. Menditto; Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 20 ottobre - 5 novembre 2010, dep. 09 dicembre 2010, Reg. Gen. M.P. n. 333/04 e 219/05, Reg. Decreti n. 276/2010/A, Pres. Est. Menditto, pp. 45, ss., nel quale il Collegio afferma espressamente che: “all’esistenza dell’associazione dedita al contrabbando di TLE, […],può darsi per notoria perché attestata da numerosi provvedimenti dell’autorità giudiziaria e riconosciuta in molteplici decreti emessi da questo Tribunale”. 171 P. NUVOLONE, voce: Misure di sicurezza e misure di prevenzione, in Enciclopedia del Diritto, vol. XXVI, GIUFFRÈ, Milano, 1976 p. 645 170 88 Nuvolone, infatti, esclude che possa essere parificata all’associazione per delinquere altrimenti ravvisa che sarebbe necessario l’avvio di un processo ordinario e non un procedimento di prevenzione e sottolinea che l’appartenenza all’associazione mafiosa trasferisce, al partecipante, la qualità della mafiosità da considerarsi aggravante del reato attualmente previsto dall’art. 416 c.p. Proprio per questo motivo Nuvolone ritiene di dovere sottolineare che “l’appartenenza ad associazione mafiosa, essendo un’aggravante dell’associazione per delinquere, è chiaro che la qualità di mafioso aggiunge qualcosa alla quantitas criminis di un’associazione per delinquere che esiste di per se, in base ad altri elementi costitutivi”172. In verità già la Suprema Corte era intervenuta, con massime, contribuendo a stratificare un indirizzo giurisprudenziale il cui senso ritroviamo nella definizione di cui all’art. 416bis c.p. La Cassazione, infatti, statuendo sui concetti giuridici di associazione mafiosa ed appartenenza ad essa, sottolineava, innanzitutto, come il termine mafia non fosse legato esclusivamente ai fenomeni siciliani localmente definiti. Infatti le norme della legge 575/1965 si riferiscono ad un fenomeno inteso come esteso sul tutto il territorio nazionale e per questo motivo non può avere importanza la particolarità della denominazione del raggruppamento, espressione del fenomeno associativo, in considerazione del fatto che ormai le denominazioni localistiche sono state sostituite dal termine mafia. Ma la Suprema Corte afferma qualcosa di più. Essa si spinge anche ad una prima definizione dell’apparato strutturale del futuro delitto di associazione mafiosa, specificando che “per 'associazione mafiosa', agli effetti dell'art 1 legge 31 maggio 1965, n 575, deve intendersi ogni raggruppamento di persone che, con mezzi criminosi, si proponga di assumere o mantenere il controllo di zona, gruppi, o attività produttive attraverso l'intimidazione sistematica e l'infiltrazione di propri membri in modo da creare una situazione di assoggettamento 172 P. NUVOLONE, voce: Misure di sicurezza e misure di prevenzione cit., p. 645 89 e di omertà che renda impossibili od altamente difficili le normali forme di intervento punitivo dello stato”.173 Sono dunque gli appartenenti a questo sistema, così delineato, suscettibili delle misure ex lege 575/1965 prima e 646/1982 successivamente. Dunque questo è un primo tentativo, della giurisprudenza di legittimità, di sgomberare il campo della definizione giuridica del fenomeno mafioso, da congetture legate alla cultura del sospetto e della indeterminatezza. Ed è evidente come gli effetti benefici di questa operazione interpretativa si riflettano anche sull’individuazione dei soggetti destinatari delle misure antimafia. Cioè di coloro che appartengono alla mafia. Ma torniamo, per un istante, al ragionamento del Nuvolone. L’illustra autore, infatti, accennava ad “aggravanti” dell’associazione per delinquere. In effetti furono proprio quelle a dare la spinta al legislatore perché riconoscesse quel qualcosa in più aggiunto alla quantitas criminis dell’associazione di cui all’art. 416 c.p. come lo stesso Nuvolone aveva osservato. Tali “aggravanti” si manifesteranno successivamente con numerosi omicidi eccellenti di stampo mafioso. Le organizzazioni criminali, in particolare la consorteria mafiosa siciliana denominata “Cosa Nostra”, da avvio ad una tremenda stagione stragista (dal 1982 al 1993), attaccando sistematicamente le istituzioni dello Stato, colpendo direttamente i suoi rappresentanti. Anche l’ispiratore dell’art. 416bis c.p. cadde sotto i colpi stragisti della mafia. E sarà necessario un’ulteriore “eccidio eccellente” per scatenare la reazione del legislatore. Successivamente, infatti, alla strage del 1982, nella quale perse la vita il Prefetto di Palermo, Carlo Alberto Dalla Chiesa, i massimi quotidiani nazionali del Settembre di quello stesso anno, riportano un’attività frenetica del Parlamento italiano che si sarebbe poi conclusa con l’approvazione, in tempi brevissimi, della legge 13 settembre 1982, n. 646 o meglio conosciuta come “legge La Torre – Rognoni”. Il testo legislativo, in esame, comporta modifiche alla legge 575/1965. 173 Cass. Sez. I, 12 novembre 1974, dep. 13 giugno 1974, Ord. n. 1709, Rv. 130222, Pres. Scardia, Est. De Castello, Imp. Serra 90 In particolare, la definizione dell’appartenenza all’associazione mafiosa non è oggetto di grande discussione, nel dibattito parlamentare, come riportato dai resoconti stenografici dell’epoca.174 Questo sta ad indicare, finalmente, la pacifica relazione tra la fattispecie incriminatrice ex art. 416bis c.p. e la qualificazione soggettiva di colui che fa parte dell’associazione di tipo mafioso. Di conseguenza anche la lettera dell’allora art. 1 della legge 575/1965, ora sostituito dall’art. 4 del Cod. Antimafia, non destava più preoccupazioni circa il concetto di appartenenza ad un fenomeno precedentemente non giuridicamente definito e ancora troppo legato ad un piano esclusivamente “sociologico”. Semmai il dibattito si incentra sullo standard probatorio che vuole, per giustificare l’applicazione delle misure preventive antimafia, l’indizio di tale appartenenza. Il tema è discusso sia in dottrina che in giurisprudenza. Il punto di partenza del Nuvolone è caratterizzato da un imprescindibile interrogativo con il quale l’autore si chiedeva: “cosa si vuol prevenire se non si sa con sicurezza se ci si trova davanti a persona appartenente a un’associazione mafiosa e se la legge non ci dice neppure per cosa intende per associazione mafiosa?”175 Con l’introduzione della legge 646/1982, che definisce con certezza chi c’è davanti all’autorità giudiziaria e a quale fenomeno socio-giuridico appartiene, la quaestio iuris è da focalizzarsi sull’apparato probatorio del sistema prevenzionistico in base al quale l’autorità giudiziaria riconosce il soggetto preposto come appartenete ad un’associazione di tipo mafioso e dunque suscettibile dell’applicazione della misura di prevenzione (personale e patrimoniale). Ciò che interessa in questa sede, d’altronde, non è tanto identificare se il soggetto appartenga al fenomeno mafia piuttosto che ad altro fenomeno previsto da norme penali di parte speciali, posto che tale profilo è stato affrontato nel precedente paragrafo. 174 Atti parlamentari, Camera dei Deputati, Legislatura VIII, Lavori in commissione, Commissioni riunite, Sede legislativa, seduta di martedì 7 settembre 1982, p. 61 175 P. NUVOLONE, voce: Misure di sicurezza e misure di prevenzione cit., p. 645 91 L’argomento da affrontare, a questo punto, è con quale standard probatorio il giudice della prevenzione riconosce il preposto come appartenente all’associazione di tipo mafioso. In tale profilo, infatti, si sostanzia una delle differenze principali tra procedimento di prevenzione e processo penale. Precisa infatti Bertoni, che partendo dalla premessa della autonomia del procedimento di prevenzione rispetto a quello penale, si deve concludere che la diversità investa necessariamente il collegamento probatorio tra soggetto e fatto, nel senso che il termine “indiziato”, riferito alla circostanza oggettiva di appartenenza all’associazione mafiosa, è caratterizzato da un minor grado di prova.176 Infatti, nel processo penale è richiesta la prova della penale responsabilità di un soggetto. Cioè è prescritto che “il giudice deve operare un accertamento mediante un procedimento logico di ricostruzione, di quella serie di fatti storici che appaiano rilevanti per decidere se vada o meno applicata la sanzione penale all’imputato, in relazione all’accusa descritta nell’imputazione formulata dal pubblico ministero, all’atto dell’azione penale”.177 Ovvero tale accertamento potrebbe comunque essere raggiunto sulla base di “un elemento il quale dimostri, magari anche in maniera estremamente attendibile, un fatto che però di per se non è sufficiente a condurre ad un accertamento […], si tratta di dati – cioè – che solo se collegati fra di loro attraverso un procedimento logico, risultano convergenti a dimostrare, sulla base dell’esperienza comune e su di un piano probabilistico, il fatto che si deve provare”.178 Dunque gli indizi, per avere effetto probante nell’ambito dell’istruzione dibattimentale, che rappresenta la sede processuale fisiologica per la formazione della prova, cioè, perché da essi possa desumersi l’esistenza di un fatto, devono essere gravi, precisi e concordanti, secondo il disposto normativo dell’art. 192 c.p.p. Se, dunque, questa è la struttura processuale penale, l’ambito della prevenzione si discosta da questa cristallizzazione normativa per affidarsi ad altra che puntualmente 176 Sul punto cfr. P.V. MOLINARI – U. PAPADIA, Le misure di prevenzione cit., p. 436 G. RICCIO – G. SPANGHER, La procedura penale, ESI, 2002, p. 427 178 Ivi, p. 428 177 92 stabilisce i criteri in base ai quali si forma la “prova” nel procedimento di prevenzione. Non v’è dubbio che, nel procedimento in esame, il legislatore abbia previsto un abbassamento della soglia probatoria. Se questo è vero, altrettanto è vero, però, che non si possa parlare di procedimento basato sulla cultura del sospetto. Tali accuse nascono infatti dalla considerazione che, basandosi il procedimento di prevenzione antimafia sulla categoria degli indiziati di appartenere alla mafia, indizi per i quali non è richiesta la valutazione ex art. 192 c.p.p., dunque se ne ricavava la sostanziale incostituzionalità di tale procedimento per l’aspetto indicato. Già Ettore Gallo sostiene che non sia credibile, in ogni caso, l’identità tra sospetto e indizio e afferma che, comunque, “non si può più parlare oggi di «sospetto (di appartenenza all’associazione) del sospetto (di associazione rivolta a commettere illeciti o delitti)», sia perché, non di sospetto si tratta, sia perché l’associazione di tipo mafioso non è più un’entità inafferrabile ed incerta sostanziata di sospetti di attività delittuosa, ma una pregnante realtà criminosa descritta da una norma penale”179. Inoltre lo stesso autore opera una sintesi tra i due opposti orientamenti della dottrina maggioritaria180 che fa oscillare il pendolo della verità tra elementi assimilabili ai 179 E. GALLO, voce: Misure di prevenzione cit., p. 15 In particolare sul punto cfr. P.V. MOLINARI – U. PAPADIA, Le misure di prevenzione cit., pp. 436 ss., Una specificazione significativa viene enunciata dal Bricola che esclude di fatto che la ipotesi previste dall’art. 416bis c.p. possa riferirsi al concetto di “partecipazione”, essendo imperniata su notazioni modali e di scopo, enunciate nel terzo comma della norma in esame, che caratterizzano la partecipazione e dunque l’essenza stessa dell’associazione. Sulla base di tale ragionamento l’autore paventa il pericolo che la pratica applicazione della individuazione di soggetti che sono indiziati di appartenere alle associazioni mafiose, possa essere influenzata dal solo elemento del sospetto. Critica anche la posizione del Tagliarini che ravvisa incertezza nella definizione che il legislatore offre relativamente al concetto di appartenenza denunciando un’estensione dell’applicazione della norma dell’art. 1 della legge 575/1965 (oggi art. 4 del Cod. Antimafia). Il pericolo ravvisato dal Tagliarini consiste nella possibilità che la norma si estenda anche a soggetti che certamente non facevano parte dell’associazione ma che, come le vittime, erano in qualche modo costrette a mantenere contatti con la mafia. Contrario, a tale orientamento, è il pensiero di De Liguori che sottolinea come il concetto di appartenenza si concretizzi nella valutazione dei livelli di partecipazione al sodalizio mafioso. Posto che la partecipazione, e dunque tale specificazione rassicura le preoccupazioni del Tagliarini, è oggettivamente valutabile soltanto nella realizzazione di comportamenti tipici quali sono quelli di partecipazione, promozione, direzione e organizzazione, espressamente previsti dalla norma contenuta nell’art. 416bis c.p. 180 93 sospetti ovvero procedimento logico indiziario probatorio (che prevede appunto la valutazione degli indizi ex art. 192 c.p.p. e sulla base della quale si prevede l’applicazione di misure cautelari personali ex art. 273 c.p.p.). Questa sintesi, proposta da Gallo, consiste nell’individuare una zona che viene definita come grigia tra l’estremo del sospetto e quello opposto della prova effettiva. “Esiste sempre una zona – questo il pensiero di Gallo – che non è più semplice sospetto perché è fondata su circostanze di fatto vere e proprie, oggettive e controllabili, e non su atteggiamenti, o condotte di per se prive di significato indiziante: tale, tuttavia, da non poter essere assunta come prova, sia pure indiziaria, perché sprovvista dei requisiti che si richiedono sul piano probatorio per il cosiddetto procedimento logico-indiziario: quello che consente al giudice di raggiungere un convincimento di responsabilità non arbitrario”.181 Insomma una zona grigia che ricomprende circostanze di fatto, controllabili ed oggettive, che, incapaci di provare la penale responsabilità di un soggetto, sono però idonee a fondare, legittimamente, la valutazione del giudice della prevenzione. Sul punto la giurisprudenza di legittimità è chiara. Una recente sentenza della Cassazione, infatti, ribadisce che l’applicazione delle misure di prevenzione (ex lege 575/1965) ha come presupposto la sola esistenza di indizi di appartenenza all’associazione mafiosa (in quanto indicativa, secondo altra giurisprudenza di legittimità, di una pericolosità intrinseca e perdurante e dunque, dal punto di vista dell’impianto probatorio, non è necessaria la prova dell’attualità della pericolosità); che tali indizi non sono da ricercarsi, necessariamente, nella condanna per alcuno dei reati associativi che sono indicati dalla legge del 1965 potendo essere Si discosta da tentativi di lettura dell’applicazione normativa della prevenzione come inquinata dal sospetto e dalle definizioni sociologiche, Fiandaca che afferma, innanzitutto, che le considerazioni di carattere sociologico non sono affatto vincolanti in sede giudiziaria e che, dunque, non può prescindersi dalla lettera e dallo spirito della legge che esige, per l’applicazione delle misure preventive, l’appartenenza o l’affiliazione del soggetto all’associazione criminosa. Ed infatti il testo della legge 646/1982, intanto autorizza l’applicazione delle misure di prevenzione antimafia, in quanto esiste già un certo collegamento tra soggetto ed associazione. Tutto questo è ancor di più confermato dal dato dell’analisi normativa che esige che anche il giudice della prevenzione fornisca la prova certa dell’esistenza della consorteria mafiosa, che dunque sussistano i requisiti oggettivi di cui all’art. 416bis c.p. mentre, relativamente al soggetto, nel solo ambito della prevenzione antimafia, sono sufficienti indizi di probabile appartenenza. 181 E. GALLO, voce: Misure di prevenzione cit., p. 6 94 valutati, dal Tribunale, le assoluzioni ex art. 530 cpv., c.p.p. ovvero il complesso di elementi che emergono dalle valutazioni operate in sede processuale penale. Non solo ma la Suprema Corte specifica, nella stessa sentenza, che il giudice, sebbene non debba raggiungere la prova dell’appartenenza ad un’associazione mafiosa – infatti l’identità probatoria, tra processo penale e procedimento di prevenzione, si riferisce alla sola prova dell’esistenza dell’associazione mafiosa [N.d.A.] – deve, però, raccogliere un contesto indiziario univo sufficientemente indicativo della pericolosità del soggetto”.182 La stessa sentenza, inoltre, sottolinea come ci sia un’attenuazione probatoria evidente che si riflette anche sulla consistenza degli accertamenti conseguiti, potendo essere rilevanti anche comportamenti che siano anche solo indicativi posto che, è la stessa Consulta a specificarlo, tali indicatori siano dotati della caratteristica della stabilità, non considerandosi rilevanti isolati fatti, anche connotati di una condotta penalmente rilevante, in quanto inidonei a testimoniare l’abituale condotta delittuosa (in questo caso associativa ex art.416bis c.p.) del soggetto preposto. Sul punto è esplicita la Cassazione quando afferma che “in tema di misure di prevenzione il giudice non deve raggiungere la prova dell’appartenenza ad un’associazione mafiosa, ma raccogliere un contesto indiziario univoco sufficientemente indicativo della pericolosità del soggetto”.183 Tale contesto, che la Cassazione vuole che sia connotato della univocità e sufficienza, è poi ulteriormente specificato, dalla stessa giurisprudenza di legittimità, che individua, in via generale, tutti quegli elementi “che giustifichino sospetti o prescrizioni, purché obiettivamente accertati, come i precedenti penali, l'esistenza di recenti denunzie per gravi reati, il tenore di vita, l'abituale compagnia di pregiudicati e di soggetti sottoposti a misure di prevenzione, od altre manifestazioni oggettivamente contrastanti con la sicurezza pubblica, in modo che risulti esaminata globalmente l'intera personalità del soggetto come risultante da tutte le manifestazioni sociali della sua vita”.184 182 Cass., 7 gennaio 2008, n. 1859, p. 3 Cass. Pen., Sez VI, 19 giugno 1997, n. 2148, Rv. 208310, Pres. Fulgenzi, Est. Assennato, Imp. Di Giovanni 184 Cass. Pen., Sez I, 25 maggio 1994, n. 1147, Rv. 197671, Pres. Franco, Est. Silvestri, Imp. P.G. in proc. Scaduto 183 95 Ma la stessa giurisprudenza di legittimità sottolinea che “se ai fini dell’applicazione delle misure ex l. 31.5.1965 n. 575 è sufficiente la sussistenza di indizi di appartenenza ad un’associazione di stampo mafioso, questo non significa che sia consentito prescindere dal principio di legalità, trattandosi in ogni caso di un procedimento le cui conseguenze incidono sensibilmente sulla libertà personale del cittadino, oltre che su quella economica. La legge non consente infatti di dare rilievo a semplici sospetti, ma esige degli «indizi», facendo riferimento ad una categoria di elementi di prova, ricavati da fatti, comportamenti, circostanze specifiche e concrete mediante un procedimento di tipo logico-induttivo”.185 In tal senso anche la giurisprudenza di merito. La sezione misure di prevenzione del Tribunale di Napoli afferma che “nel procedimento di prevenzione, a differenza di quello penale, non si richiede la sussistenza di elementi tali da indurre ad un convincimento di certezza, essendo sufficienti circostanze di fatto, oggettivamente valutabili e controllabili, che conducano ad un giudizio di ragionevole probabilità circa l’appartenenza del soggetto al sodalizio criminoso, con esclusione, dunque, di meri sospetti, illazioni e congetture”.186 Non è infrequente, dunque, che il Tribunale faccia riferimento, ai fini della determinazione della qualificata probabilità che il soggetto appartenga ad un’associazione di tipo mafioso, ad una serie di elementi quali le ordinanze applicative di custodia cautelare, i precedenti decreti applicativi delle misure di prevenzione, l’esistenza di gravi indizi di colpevolezza, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, le accertate plurime frequentazioni del soggetto con ambienti criminali, la latitanza ovvero le assoluzioni secondo il disposto dell’art. 530 cpv. c.p.p., nonché i precedenti penali che possono essere, per esempio, elencati dall’autorità proponente come il Questore. Tutti elementi che conducono, al termine delle valutazioni svolte, il Tribunale a dichiarare esistente una certe associazione camorristica operante su un determinato 185 Cass. 12 gennaio 1985, RGI, 1986, 3807, 83 in: D. PESCE (a cura di), Rassegna di giurisprudenza sulle misure di prevenzione, CEDAM, 1995, p. 154 186 Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc .18 maggio 2010, Reg. Gen. M.P. 198/98 e 21/05, Pres. Menditto, p. 33 96 territorio oltre che il ruolo svolto dal soggetto preposto e, conseguentemente, la sua appartenenza all’associazione stessa. “In definitiva, ai fini dell’affermazione di pericolosità sociale di un soggetto, qualificata dalla sua appartenenza ad un’associazione di tipo mafioso, è necessaria e sufficiente l’esistenza di un fatto noto, come premessa minore di un ragionamento logico di tipo indiziario, all’esito del quale sia possibile risalire al fatto ignoto, come premessa maggiore dell’appartenenza della persona all’associazione di tipo mafioso, in virtù di un giudizio probabilistico”.187 Il presupposto per l’applicazione, dunque, è l’esistenza di un fato certo che, incastrata nell’ambito di un sillogismo indiziario, possa far emergere la circostanza, oggetto di un giudizio probabilistico, dell’appartenenza ad un’associazione di tipo mafioso ex art. 416bis c.p. 4. La natura giuridica della misura del sequestro antimafia Controversa è la natura della misura del sequestro antimafia. Dottrina e giurisprudenza, infatti, non esprimono un indirizzo univoco. Parte della dottrina ritiene che la natura giuridica del sequestro di prevenzione, originariamente prevista dall’art. 2bis della legge 575/1965, oggi disciplinata dalle norme del Codice Antimafia (artt. 20, 21 e 22 del Cod. Ant.), sia da assimilare a quella di una tipica misura cautelare conservativa. Tale sequestro, dunque, sarebbe “diretto ad evitare la dispersione dei beni dell’indiziato e la sottrazione alla successiva confisca”188 Il riferimento dottrinario a tale natura giuridica, secondo il Macrì, sarebbe confermato ulteriormente dalle modalità di esecuzione del sequestro, originariamente previste dall’art. 2quater della legge 575/1965, oggi disciplinato dall’art. 21 del Codice Antimafia, che di fatto prevede un rinvio alla norma contenuta nell’art. 104 delle disposizioni di attuazione del c.p.p. e dunque un sostanziale riferimento alle formalità previste dal c.p.c. 187 Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 27 ottobre 2010, Reg. Gen. M.P. 132/02, Pres. Est. Menditto 188 V. MACRÌ, Le nuove misure di prevenzione, in Quaderni del C.S.M., 1982, p. 99 97 L’ambito degli istituti processual-civilistici è quello certamente delineato nel Libro IV del c.p.c. e, segnatamente, quello identificato dal Titolo I dedicato ai procedimenti sommari nell’ambito della tutela cautelare. In particolare la Sezione II di tale titolo è dedicata al sequestro e particolarmente agli istituti del sequestro giudiziario ex art. 670 c.p.c. e quello del sequestro conservativo ex art. 671 c.p.c. Se, dunque, al sequestro, istituto della procedura civile, si rinvia, la dottrina si è posta il problema se la misura del sequestro antimafia fosse da ricondurre a quello giudiziario ex art. 670 c.p.c. ovvero quello conservativo ex art. 671 c.p.c. Isolatamente, infatti, discute di questo Ruggiero189 che rapporta il sequestro di prevenzione con quello giudiziario civile, considerato che l’istituto previsto dall’art. 671 c.p.c. ha la precisa finalità di sottrarre, alla disponibilità di un soggetto, beni mobili o immobili o altre universalità di beni quando ne è controversa la proprietà ed è opportuno provvedere alla loro gestione e custodia temporanea. Secondo il predetto autore, dunque, c’è una sostanziale identificazione degli istituti specialmente in riferimento alle finalità da questi perseguite. In effetti, nota Ruggiero, anche dalla prospettiva prevenzionistica la finalità è quella di sottrarre al soggetto indiziato di appartenere ad associazione di tipo mafioso, la disponibilità di beni dei quali ne “è controversa la proprietà”. È controverso, cioè, se tali beni siano di provenienza illecita, ad esempio siano il frutto dell’illecito o rappresentino il reimpiego di provento illecito, ovvero siano di legittima provenienza. Sono, dunque, beni per i quali è controversa la proprietà; se quest’ultima sia attribuibile al soggetto proposto per l’applicazione della misura preventiva patrimoniale, nel caso dimostri la lecita provenienza del bene stesso, ovvero sia da attribuire allo Stato in quanto bene ottenuto con comportamenti penalmente rilevanti come quello individuato dalla fattispecie ex art. 416bis c.p. Di tutt’altra opinione quella parte della dottrina che esclude somiglianze sia con il sequestro conservativo, che con quello probatorio penale. 189 P.V. MOLINARI – U. PAPADIA, Le misure di prevenzione cit., p. 494 in particolare l’indirizzo di A. Ruggiero, Amministrazione dei beni sequestrati o confiscati, in Quaderni del C.S.M., 1988, p. 41 98 Tale orientamento, infatti, ritiene che la misura del sequestro antimafia somigli, quanto a funzione, a quella “figura anomala di sequestro creata dalla giurisprudenza, vigente il vecchio codice, e poi istituzionalizzata nel nuovo ed alla quale è stato attribuito la qualifica di «preventivo».190 In verità la stessa dottrina ritiene che, sia dal punto di vista sostanziale che processuale, la misura in esame è innegabilmente riconducibile all’istituto civilistico del sequestro conservativo previsto dal codice di procedura civile. Ampia è la dottrina che conferma tale indirizzo. Parte di essa, infatti, fa riferimento ad una sostanziale identificazione del sequestro di prevenzione con il sequestro conservativo ex art. 671 c.p.c. Addirittura sarebbero ravvisati, sempre secondo detta parte della dottrina, i requisiti minimi della tutela cautelare civile e dunque il fumus boni iuris ed il periculum in mora. Il primo sarebbe rappresentato dalla presenza di indizi per i quali i beni “sotto processo” costituiscono “frutto o reimpiego di attività illecite. Il secondo è dato dal timore che gli stessi beni, nelle more del procedimento, possano essere dispersi o sottratti alla misura ablatoria”.191 Ancor di più, il sequestro di prevenzione risulta affine a quello conservativo civile, se si considerano le caratteristiche fondamentali tipiche della tutela cautelare civile; e cioè la provvisorietà del provvedimento del sequestro e la sua strumentalità rispetto al provvedimento di confisca. Va, infatti, notato che, così come il sequestro conservativo è strumentale all’applicazione di un provvedimento definitivo quale il pignoramento, così come previsto dalla norma contenuta nell’art. 686 c.p.c., per cui, “in base a tale disposizione, una volta che il creditore sequestrante abbia ottenuto una sentenza di condanna esecutiva, il sequestro si converte automaticamente in pignoramento”192, cosi, nell’ambito della prevenzione antimafia, il Tribunale, come previsto dall’art. 24 del Codice Antimafia (che di fatto richiama integralmente la precedente disciplina 190 P. COMUCCI, Il sequestro e la confisca nella legge antimafia, in P.V. MOLINARI – U. PAPADIA, Le misure di prevenzione cit., p. 494 191 D. SIRACUSANO, Commenti articolo per articolo, l. 13/9/82 n. 646 (normativa antimafia), art. 14, in Leg. pen., 1983, p. 308 192 A. P. PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, JOVENE, 2010, pp. 615, ss. 99 contenuta nell’art. 2ter, comma 3, primo periodo, della legge 575/1965), procede alla confisca dei beni precedentemente sequestrati di cui la persona, nei cui confronti è iniziato il procedimento, non ne possa giustificare la legittima provenienza. In tale passaggio è evidente l’aspetto della provvisorietà e strumentalità che caratterizza, appunto, tanto il sequestro conservativo quanto quello di prevenzione antimafia. E però va fatta distinzione quanto all’ambito di applicazione della misura cautelare civile in esame. Tale misura del diritto processuale civile, infatti, è finalizzata a garantire la fruttuosità pratica di una futura sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro, suscettibile di essere eseguita mediante l’espropriazione forzata. Dunque tale misura è diretta alla soddisfazione di un diritto di credito. Altro, infatti, è l’ambito di applicazione della misura preventiva antimafia che certamente non intende soddisfare alcun diritto di credito di alcun soggetto, bensì il sequestro è finalizzato alla confisca dei beni e dunque all’ablazione definitiva, da parte dello Stato, di quei beni di cui non sia stata dimostrata la legittima provenienza. Ecco perché bisogna ritenere che la similitudine tra il sequestro conservativo e quello di prevenzione, non può andare oltre la provvisorietà e strumentalità delle misure stesse. E che da questo punto di vista risulta certamente più affine, la misura di prevenzione antimafia, a quella del provvedimento cautelare del sequestro giudiziario ex art. 670 c.p.c. Altra parte, ancora, della dottrina si discosta totalmente dalla possibilità di raffrontare le misure antimafia a quelle previste dalla disciplina processual-civilistica. Ed, infatti, tale dottrina propende per una definizione della misura di prevenzione che sia strettamente collegata al fine della stessa. Per cui si afferma che “la sola funzione dal sequestro di prevenzione è quella di togliere al mafioso la immediata disponibilità materiale ed il possesso di determinati beni in vista della futura confisca di cui costituisce la fase anticipatoria e strumentale. 100 In tal modo il sequestro non può che partecipare dei caratteri sostanzialmente sanzionatori e di prevenzione criminale propri della confisca predetta”193. La giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione torna, invece, a ribadire che la misura del sequestro antimafia, ha natura sostanziale tipica del provvedimento cautelare del sequestro conservativo, pur con le opportune differenze, nei presupposti e nelle conseguenze.194 Per fare un esempio, un punto su cui parte della dottrina ha soffermato l’attenzione è quello relativo “alla necessità o meno che, all’attuazione delle formalità costitutive, di cui al codice di procedura civile, faccia seguito anche la materiale immissione nel possesso del bene, da parte della procedura (con conseguente spossessamento del detentore) e ciò affinché possa ritenersi formata la fattispecie complessa dell’esecuzione del sequestro”195 Il profilo critico è stato poi affrontato dalla Suprema Corte di Cassazione con una pronuncia con la quale ha sottolineato che il richiamo, da parte del legislatore, alla normativa processual-civilistica, indica un espresso rinvio al quadro normativo così come delineato dalle norme del codice di procedura civile e dunque anche di quelle che trattano della custodia e dell’immissione in possesso del bene.196 Sul punto non si è espressa la Consulta se non nell’ambito di un’ordinanza con la quale, sostanzialmente, non affronta direttamente il problema, dichiarando inammissibile il giudizio promosso dal giudice a quo, in quanto esorbitava le competenze della stessa corte, richiedendosi, di fatto, “un intervento di produzione normativa, in particolare in materia sanzionatoria o, quanto meno, limitativa di diritti, che compete esclusivamente al legislatore”.197 193 G. MONTELEONE, Effetti ultra partes delle misure patrimoniali antimafia, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1988, p. 574 194 Cass., sez., UU, 26 ottobre 1985, Giovinazzo 195 A. CAIRO, Le misure di prevenzione patrimoniali, gestione giudiziaria, situazioni debitorie, e crisi dell’impresa. La tutela dei terzi, SATURA, 2007, pp. 31 ss. 196 Cass., Sez. I, 2 febbraio 1987, Intile, in Giur. It., 1989, II, c. 57 197 Corte cost., Ord., 23 giugno 1988, n. 721 101 5. La natura giuridica della misura della confisca antimafia L’istituto della confisca di prevenzione non può essere trattato prescindendo da una definizione giuridica della confisca in generale secondo il dettato del codice penale. Secondo la disposizione contenuta nell’art. 240 c.p., “nel caso di condanna, il giudice può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto”. Dunque, stando alla lettera del legislatore, la confisca ha una natura precipuamente sanzionatoria rispetto a quelle cose che rappresentano i mezzi mediante i quali si è consumato il reato ovvero quelle cose il cui possesso è stato possibile soltanto in virtù della consumazione del reato. Per cui la dottrina penalistica qualifica la confisca, così come definita dal legislatore ex art. 240 c.p., “come una sanzione repressiva, anche se di carattere amministrativo, di cui il sequestro costituisce l’indispensabile provvedimento cautelare”.198 Sul punto, anche per quanto concerne la misura della confisca di prevenzione, la dottrina è in disaccordo. Parte di essa, infatti, ritiene che si tratti di una vera e propria pena criminale ovvero che si tratti, più semplicemente di una nuova misura di prevenzione a carattere patrimoniale. Non manca quella parte della dottrina che fa riferimento al criterio del doppio binario, mutuando cosi la logica del processo penale. Come nell’ambito della procedura penale tale doppio binario si articola nel binomio, pena – misure di sicurezza, cosi nell’ambito della prevenzione, sempre secondo questa parte della dottrina, ci sarebbe un intervento di natura repressiva ed uno di natura prevenzionistica con la differenza, rispetto al processo penale, di ribaltamento delle funzioni rispetto ai provvedimenti esaminati e giungendo, per questa via, a riconfermare natura sanzionatoria alla confisca di prevenzione.199 198 F. CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, ed. Foro it., 1951, p.25 Tutti questi orientamenti della dottrina sono organicamente ripresi in P.V. MOLINARI – U. PAPADIA, Le misure di prevenzione cit., pp. 555 ss. secondo Nuvolone, infatti, la confisca è una vera e propria pena criminale quale massima pena pecuniaria comminata per un comportamento ritenuto in contrasto con gli interessi della collettività, anche se applicata al di fuori del procedimento relativo all’accertamento in ordine all’esistenza di un reato. Di diverso avviso Macrì per il quale l’orientamento generale tende a configurare la confisca in esame come nuova misura di prevenzione a carattere patrimoniale. Quest’ultima, applicata congiuntamente alla misura personale, ha la sola 199 102 Sulla natura giuridica della confisca di prevenzione si sono espresse anche le Sezioni Unite della Cassazione che in una nota sentenze hanno sottolineato l’orientamento complessivo della giurisprudenza, per il quale la S.C. esclude “il carattere sanzionatorio di natura penale e, parimenti, quello di un provvedimento di “prevenzione”, la confisca non può essere ricondotta che nell'ambito di quel “tertium genus” costituito da una sanzione amministrativa, equiparabile (quanto al contenuto ed agli effetti) alla misura di sicurezza prevista dall'art. 240 cpv. c.p.”200 Tale orientamento viene confermato, successivamente, ancora dalla Cassazione che in altra sentenza, avvalendosi di tale definizione di natura giuridica della confisca di prevenzione, giustifica l’ablazione di beni che siano intestati a proposto deceduto. Afferma, infatti, la S.C. che “Il provvedimento di confisca, quindi, è stato emesso su beni da ritenersi di provenienza delittuosa e pertanto da considerarsi “pericolosi” ex se, e poiché la particolare confisca - de qua non ha ne carattere sanzionatorio ne quello di un provvedimento di prevenzione, bensì quello di un tertium genus riconducibile nell'ambito della misura di sicurezza ex art. 240 comma 2 c.p. (Cass. Sezioni unite 3-7-1996, Simonelli), la sua applicabilità non può venire meno - così come non si caduca quella prevista dalla suddetta norma del codice - in conseguenza della morte della persona assoggettata alla misura personale, così come del “reo”, ancorché si accerti postumamente che questa è avvenuta prima dell'adozione del provvedimento ablativo”.201 funzione di spezzare il legame tra il soggetto ed il suo patrimonio che, essendo stato conseguito in modo illecito, è causa di ulteriore manifestazione di pericolosità. Sulla logica del “doppio binario” ragiona invece Comucci, la quale ritiene che nell’ambito del procedimento di prevenzione sia stato istituito un c.d. “doppio binario” nel senso che è prevista tanto l’applicazione di misure repressive quanto quelle di carattere preventivo. Con la differenza che nell’ambito del procedimento di prevenzione patrimoniale tale rapporto risulta invertito quanto alla natura delle misure stesse. Secondo la Comucci, infatti, la prevenzione sarebbe raggiunta grazie all’applicazione delle misure personali mentre la repressione sarebbe raggiunta dall’applicazione di misure patrimoniali (ablative) e dunque necessariamente, da questo punto di vista, definibili come aventi natura sanzionatoria. Infine Bertoni richiama la natura di pena della misura della confisca di prevenzione è da ricercarsi proprio in quella definizione giuridica che offre il codice penale all’art. 240 per cui anche la misura della confisca ex art. 24 del Codice Antimafia, avrebbe natura sostanzialmente afflittiva e sanzionatoria. Diverso l’orientamento di Siracusano, che parifica la confisca prevista dalla legislazione antimafia a quella prevista ex art. 240 c.p. Si tratterebbe, dunque, di misura di sicurezza di carattere patrimoniale con la sola differenza del carattere dell’obbligatorietà del provvedimento ove ne sussistano i presupposti. 200 Cass., Sez., UU., 3 luglio 1996, n. 18, Simonelli 201 Cass., Sez., II, Pen., 8 luglio 1999, n. 1790 103 Nell’ottica della cooperazione giudiziaria in Europa, un precedente può essere richiamato in tema di qualificazione giuridica della misura di prevenzione della confisca antimafia. Un importante sentenza del Tribunale federale svizzero ha accolto una richiesta di assistenza giudiziaria presentata dalla Procura di Milano, nell’ambito di un procedimento di prevenzione promosso a carico di un indiziato di appartenere alla ‘ndrangheta. La valutazione dei giudici elvetici si conclude con l’accoglimento della rogatoria. La conclusione raggiunta non è di poco conto se si considera che il procedimento di prevenzione patrimoniale, per cui era stata avanzata la richiesta di assistenza giudiziaria, non essendo formalmente un procedimento penale, non sarebbe rientrato nell’ambito di applicazione delle norme internazionali in materia di assistenza giudiziaria. Interessante, a tal fine allora, risulta il ragionamento giuridico dell’autorità giudiziaria elvetica, cristallizza nella sentenza emanata dalla II Corte dei reclami penali. Secondo la concezione del diritto svizzero, infatti, l’assistenza giudiziaria internazionale in materia penale può essere concessa solo quando una procedura penale è aperta nel Paese richiedente. Quest’ultima, però, non implica necessariamente un imputazione o una messa in stato di accusa formale, può risultare sufficiente, infatti, un’inchiesta preliminare che possa poi sfociare nella promozione di un procedimento penale, finalizzato alla repressione di quelle infrazioni per le quali l’assistenza stessa è richiesta. In altre parole ben può l’Italia avanzare tale richiesta anche in riferimento a procedimenti preliminari, eventualmente di natura amministrativa, purché siano preordinati all’apertura di un procedimento penale o al rinvio a giudizio ovvero comunque collegati ad un procedimento penale. Indipendentemente dalla valutazione che la giurisprudenza italiana dà della confisca, nel rispetto dei principi affermati dalla CEDU, il Tribunale federale svizzero passa, autonomamente, a valutare la natura giuridica della confisca italiana rapportandola al medesimo istituto inserito nell’ambito del diritto interno. 104 Questo passaggio, nel ragionamento giuridico condotto dall’autorità giudiziaria straniera, assume particolare importanza nella misura in cui la confisca di prevenzione italiana è considerata strumento, non soltanto coerente con le finalità di prevenzione e di contrasto alle organizzazioni criminali, anche alla luce della giurisprudenza della CEDU ormai consolidata su tale punto, ma anche caratterizzata da forti similitudini con l’istituto elvetico e dunque realizzabile, oltre che nell’ambito di un procedimento penale, anche in uno autonomo a quello penale (come ormai è considerato il procedimento di prevenzione penale rispetto al processo penale). Su tale punto, infatti, il Tribunale federale scrive che “la procedura di prevenzione patrimoniale italiana presenta una similitudine sufficiente con le procedure di confisca previste o riconosciute dal diritto svizzero. Essa presuppone, da una parte, l'esistenza di un'infrazione penale e, dall'altra, un legame tra questa infrazione e gli oggetti e valori da confiscare. Essa può quindi essere assimilata ad una causa penale”202 202 Tribunale penale federale, II Corte dei reclami penali, 21 gennaio 2011, numero incarto RR.2010.237 105 CAPITOLO III LE INDAGINI PRELIMINARI ALLA PROPOSTA E LE CARATTERISTICHE DELLA PROVA INDIZIARIA 1. Le indagini patrimoniali Precedentemente all’introduzione del c.d. Codice Antimafia, approvato con d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, la fase delle indagini preliminari era disciplinata dall’art. 2bis della legge 575/1965. Tale norma era stata inserita dall’art. 14 della legge 646/1982 e definitivamente modificata ad opera della legge 55/1990. Rispetto alla precedente formulazione, dunque, l’art. 19 del Cod. Ant. ha previsto uno snellimento della norma. I commi 4 e 5 del previgente art. 2bis, che riguardavano la disciplina relativa al sequestro anticipato, quando vi sia pericolo che i beni di cui si prevede debba essere disposta la confisca possano essere dispersi, sottratti o alienati, sono confluiti, infatti, nell’attuale art. 22 del Cod. Ant. rubricato proprio “Provvedimenti d’urgenza”. Il legislatore ha poi previsto che il comma 1 dell’art. 2ter della legge 575/1965, relativamente ai poteri speciali d’indagine del Tribunale, fosse integralmente inserito nel già citato art. 19 del Codice. Sicché oggi le indagini patrimoniali sono disciplinate dall’art. 19 del d.lgs. 159/2011, che si compone del combinato disposto delle precedenti formulazioni degli artt. 2bis, commi 1,2,3,6, e 2ter, comma 1. La struttura di tale norma recepisce pienamente il meccanismo funzionale al controllo preventivo dei patrimoni di origine illecita, meccanismo, peraltro, previsto proprio dalla “legge La Torre – Rognoni”. L’art. 19 cit., infatti, disciplina l’attribuzione, ai soggetti preposti a svolgere le indagini, penetranti poteri investigativi, funzionali proprio alla proposta di applicazione della misura di prevenzione patrimoniale. Le investigazioni patrimoniali, proprio in virtù della loro complessità, si svolgono in una duplice fase. 106 Secondo il disposto della norma, contenuta nell’art. 19 del d.lgs. 159/2011, infatti, una prima fase è affidata ai soggetti titolari del potere di proposta. Dunque l’attività d’indagine si svolge in un momento precedente all’instaurazione del procedimento di prevenzione d’innanzi alle sezioni misure di prevenzione del Tribunale. Una seconda fase è prevista durante l’iter procedimentale. Questa volta i poteri sono però attribuiti al Tribunale medesimo che avvia ex officio, quando risulta necessario, l’attività investigativa. 107 2. La natura giuridica delle indagini patrimoniali Sulla natura giuridica delle attività investigative non c’è accordo in dottrina. Bisogna, infatti, distinguere il caso in cui le indagini sono svolto su iniziativa del questore o del direttore della direzione investigativa antimafia, e quello in cui le stesse sono svolte su iniziativa del Procuratore della Repubblica ovvero del Tribunale durante il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione. Tale distinzione rileva ai fini della individuazione della natura giuridica delle indagini in considerazione che gran parte della dottrina non ritiene che si possa parlare di natura giurisdizionale specialmente in riferimento all’eventuale iniziativa del questore o del direttore della Direzione investigativa antimafia. A tale conclusione giunge parte della dottrina pur sottolineando che la norma contenuta nell’art. 20 della legge 152/1975203 disponeva che “il procuratore della Repubblica può compiere sia direttamente, sia a mezzo della polizia giudiziaria tutte le indagini necessarie ai fini dell’attuazione dei precedenti articoli 18 e 19 ( relativamente all’estensione del procedimento di prevenzione ad altre categorie soggettive come coloro che appartengono ad associazioni politiche disciolte ovvero abbiano compiuto atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti alla ricostituzione del disciolto partito fascista, ed altre forme di pericolosità sociale obiettivamente rilevanti N.d.A.) con l’osservanza delle norme stabilite per l’istruzione sommaria”. Una seconda parte della dottrina propende invece per la natura senz’altro giurisdizionale delle indagini patrimoniali.204 203 Gli artt. da 18 a 24 della legge 152/1975 sono stati abrogati dall’art. 120 del d.lgs. 159/2011 Sul punto cfr. P.V. MOLINARI – U. PAPADIA, Le misure di prevenzione nella legge fondamentale, nelle leggi antimafia e nella legge antiviolenza nelle manifestazioni sportive, GIUFFRÈ, 2002, pp. 476 ss. che descrive le principali posizioni della dottrina. In particolare la posizione di Fortuna il quale richiamando espressamente l’art. 20 della legge del 1975, giunge alla necessaria conclusione che anche in tema di prevenzione patrimoniale il procuratore della Repubblica, nello svolgimento delle indagini patrimoniali, devono necessariamente essere osservate le norme stabilite dall’istruzione sommaria e dunque anche quelle sulle garanzie difensive. Tutto questo è escluso, rileva ancora Fortuna, quando a procedere alle indagini è il questore. Propende per la natura giurisdizionale anche M.C. Russo per il quale la distinzione è netta. Se, dunque, procede il procuratore della Repubblica non è possibile non ritenere la natura giurisdizionale di tali attività investigative richiamando dunque le garanzie previste per le indagini preliminari del codice di procedura penale. Se, invece, a procedere è il questore, non potendosi richiamare le tutele previste nell’ambito delle indagini preliminari all’esercizio dell’azione penale, risulta richiamata solo quella prevista dall’art. 350 c.p.p. per quanto concerne la nomina del difensore di fiducia e il diritto di assistere alle operazioni. Anche Taormina ritiene chiaramente dimostrato l’intento del legislatore di porre sullo stesso piano delle indagini preliminari nel procedimento penale, le indagini patrimoniali 204 108 Anche la giurisprudenza si è espressa in tal senso. La Corte di Cassazione, da un lato, esclude che al procedimento di prevenzione patrimoniale, in quanto incompatibili, che possano trovare applicazione gli istituti tipici della fase istruttoria penale. La Cassazione, però, riconosce espressamente il carattere giurisdizionale del procedimento di prevenzione e anche dunque della fase delle indagini preliminari. In una seconda sentenza, addirittura, la Suprema Corte ribadisce che in tema di procedimento di prevenzione, non integra ipotesi di nullità l’omessa comunicazione di garanzia al proposto da parte del procuratore della Repubblica prima che sia cominciato l’accertamento della sussistenza delle condizioni per le quali può essere avanzata, al Tribunale, la proposta di applicazione della misura preventiva patrimoniale.205 La direzione intrapresa dalla giurisprudenza di legittimità, allora, è quella che vede l’autonomia del procedimento di prevenzione patrimoniale da quello penale confermando, però, per il procedimento di prevenzione patrimoniale, la medesima natura giuridica del procedimento penale. Tale orientamento sembra essere confermato dai più recenti dati normativi. Infatti, dopo aver, all’art. 29, sancito espressamente l’autonomia dei due procedimenti, per cui l’azione di prevenzione può essere esercitata anche indipendentemente dall’esercizio dell’azione penale, il Codice Antimafia non abroga di fatto l’art. 23bis della legge 646/1982 che disciplina i rapporti tra azione di prevenzione e azione penale. Rapporti che si intensificano proprio in riferimento ai reato di cui all’art. 416bis c.p. e quello previsto ex art. 74 d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309. L’art. 23bis cit., infatti, stabilisce che il pubblico ministero che procede per i reati di associazione per delinquere di stampo mafioso o per associazione per delinquere finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti, da immediato avviso al procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto ove dimora la persona preliminari alla proposta di applicazione di misure di prevenzione. In particolare, sottolinea Taormina, non si può non concludere che se tali attività investigative sono poste in essere da organo giurisdizionale, risulti già avviato il processo di formazione della prova. 205 Cass. Sez. I, 29 novembre 1985, Di Maio, in Giust. Pen., 1986, III, c. 425, m. 419, Cass. Sez. I, 27 febbraio 1990, p. 1461, n.1149 109 delle generalità della persona imputata al fine di promuovere l’esercizio dell’azione di prevenzione. Lo stesso art. 23bis della legge 646/1982 dispone anche un potere di sospensione attribuito al giudice della prevenzione quando sia iniziato o penda procedimento penale, per i delitti già menzionati sopra, e la cognizione del reato influisce sulla decisione del procedimento di prevenzione. Tali rilievi normativi non possono non essere prova della ritenuta natura giurisdizionale del procedimento di prevenzione patrimoniale da parte del legislatore. 3. I soggetti del procedimento di prevenzione patrimoniale: gli organi inquirenti L’art. 19 del d.lgs. 159/2011, rubricato “indagini patrimoniali” richiama i soggetti di cui all’art. 17 del d.lgs. cit. Quest’ultima norma, infatti, individua i soggetti ai quali è attribuita la titolarità della proposta, e dunque, il potere di effettuare le preliminari indagini, necessaria per ricercare gli elementi sulla cui base avanzare, al Tribunale, la proposta di applicazione della misura preventiva, nei confronti dei soggetti suscettibili di essere sottoposti al procedimento per l’applicazione di una misura di prevenzione. Quest’ultimi sono richiamati all’art. 16 del d.lgs. 159/2011 che a sua volta opera un rinvio all’art. 4 dello stesso d.lgs. 159. Ancora, l’art. 4 richiama i soggetti di cui all’art. 1. Dallo studio delle norme, allora, si evince che il legislatore del 2011 ha confermato le precedenti scelte per le quali la materia della prevenzione patrimoniale è stata estesa a tutti i soggetti ritenuti socialmente pericolosi senza che si distinguesse tra pericolosità qualifica o comune. Tale distinzione, infatti, rileva solo ai fini della determinazione della competenza dei soggetti attivi. Cioè, rileva al fine di determinare se il potere di proposta spetti al procuratore distrettuale ovvero a quello circondariale, come di seguito viene descritto. I soggetti di cui parla l’art. 17, comma 1, sono il procuratore della Repubblica presso il Tribunale del capoluogo di distretto ove dimora la persona, il questore, il direttore della Direzione investigativa antimafia. 110 La norma in esame, infatti, prevede una diversa competenza quando la richiesta di misura di prevenzione riguardi i soggetti di cui all’art. 4 comma 1, lettera c). In tal caso le funzioni e le competenze non spettano al procuratore distrettuale bensì a quello circondariale. Su tale profilo sono intervenute le modifiche inserite in seguito all’approvazione del c.d. “pacchetto sicurezza” del 2008 che ha concentrato “nel Procuratore distrettuale la titolarità esclusiva del potere di proposta delle misure di prevenzione antimafia, di cui all’allora vigente l. n. 575/1965, sottraendola alle Procure circondariali”.206 Sulla competenza del procuratore distrettuale si è anche espressa la Suprema Corte di Cassazione. In particolare la Corte ha chiarito che “appartiene esclusivamente al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale del capoluogo di provincia in cui dimora il proposto la competenza a promuovere il procedimento di prevenzione a norma dell’art. 2, l. 31 maggio 1965, n. 575 (disposizioni contro la mafia) che ha carattere funzionale ed è pertanto inderogabile. Ne consegue che l’eventuale incompetenza dell’organo di accusa, non suscettibile di ratifica, conferma, convalida o conversione, integra un’ipotesi di nullità assoluta, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento”.207 Tali soggetti esplicano le loro funzioni nella prima delle due fasi d’indagine previste dalla legge (retro 1). Questa fase è anche definita obbligatoria. L’espressione non deve lasciare intendere, come una parte della dottrina ritiene208, che il carattere obbligatorio si trasferisca anche sull’esercizio dell’azione di 206 L. FILIPPI - M.F. CORTESI, Il Codice cit, p. 112 Cass. Sez. I, 30 dicembre 2009, G.F., in CED Cass., n. 245973 208 Uno per tutti Filippi che sottolinea l’obbligatorietà dell’azione penale dichiarando che “essa corrisponde all’esercizio dell’azione penale nel processo penale di cognizione e come quella è da ritenersi obbligatoria” (Il procedimento di prevenzione patrimoniale, Cedam, 2002, p. 171). Ancora Filippi, torna sull’argomento dopo l’approvazione del d.lgs. 159/2011, richiamando l’art. 23bis della legge 23 settembre 1982, n. 646, articolo introdotto dall’art. 9 della legge 55/1990. Tale norma, secondo Filippi, “prevedendo che, quando si procede nei confronti di persone imputate del delitto di cui all’art. 416bis c.p. o del delitto di cui all’art. 74, d.P.R. n. 309/1990, il PM ne deve dare comunicazione «senza ritardo» al Procuratore della Repubblica territorialmente competente per il promovimento, qualora non sia già in corso, del procedimento di prevenzione di cui alla l. n. 575/1965, oggi racchiuso all’interno del Codice delle leggi antimafia, lascia intendere che detto promovimento sia obbligatorio” (Il codice delle misure di prevenzione, Giappichelli, 2011, p. 120). Ma a ben vedere, sembra intuibile concludere che, il destinatario della norma dell’art. 23bis della l. 646/1982, e dunque del vincolo di obbligatorietà, non è il Procuratore della Repubblica 207 111 prevenzione (alla cui base comunque c’è una potere di selezione delle notizie rilevanti, estremamente discrezionale e di competenza degli organi proponenti), ma si intende fare riferimento soltanto allo schema logico e temporale proprio del procedimento di prevenzione rispetto al cui inizio, le indagini patrimoniali, si pongono come fatto antecedente la proposta e dunque obbligatorie ai fini della stessa. Le indagini, di cui all’art. 19 del Codice delle leggi antimafia, si caratterizzano, inoltre, per non essere regolate da una successione di atti tipici e non sono soggette a limitazioni temporali. Si tratta, a ben vedere, di investigazioni per le quali, “pur essendo previsti alcuni specifici atti investigativi (richiesta di informazioni e copia di documentazione; sequestro di documentazione, che va autorizzato dal Procuratore della Repubblica o dal giudice procedente, da identificarsi nel tribunale competente all’adozione delle misure di prevenzione), si tratta di attività investigativa a forma libera”.209 Le indagini patrimoniali possono essere svolte direttamente dai soggetti titolari del potere di proposta ovvero delegando la Guardia di Finanza o la polizia giudiziaria.210 Con la precedente impostazione legislativa (l’art. 2bis della legge 575/1965 è stato infatti introdotto con la legge 646/1982 ora ricompresa nell’art. 19 del Codice delle leggi antimafia) “veniva privilegiato il contributo operativo che avrebbe potuto dare la «polizia tributaria della Guardia di Finanza», con effetto riduttivo quindi non soltanto della potenziale collaborazione delle altre forze di polizia ma anche della stessa Guardia di Finanza, in quanto la polizia tributaria – intesa in senso istituzionale – costituisce solo una parte della struttura complessiva di quel corpo”.211 Il richiamo, dunque, anche alla polizia tributaria diviene allora funzionale specialmente in considerazione di quanto disposto dall’art. 27, comma 5 del Codice territorialmente competente a promuovere l’azione di prevenzione, bensì il PM del procedimento penale. Anche dal punto di vista dell’oggetto, stando al dato letterario dell’art. 23bis citato, non risulta essere obbligatorio il promovimento dell’azione di prevenzione (al quale la norma fa riferimento in considerazione del fine specifico della comunicazione ad opera del PM), bensì è obbligatoria, in precise circostanze previste dalla legge, la comunicazione che il PM deve trasmettere al Procuratore della Repubblica territorialmente competente sulla cui base, poi, effettuerà scelte, a carattere discrezionale, circa la sussistenza degli elementi idonei ad avanzare la proposta di applicazione della misura di prevenzione personale e patrimoniale. 209 A. BALSAMO – C. MALTESE, Il Codice Antimafia cit. p. 30 210 L’art. 19, comma 1 del d.lgs. 159/2011 così dispone: “ I soggetti di cui all’art. 17, comma 1 e 2, procedono, anche a mezzo della Guardia di Finanza o della polizia giudiziaria, ad indagini […]” 211 G. NANULA, La lotta alla mafia, GIUFFRÈ, 2009, p. 49 112 delle leggi antimafia, per cui dopo l’esercizio dell’azione di prevenzione e comunque non prima che sia intervenuta autorizzazione del pubblico ministero, gli esiti delle indagini patrimoniali preliminari sono trasmessi al competente nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza a fini fiscali. Tale previsione è stata introdotta in diretta attuazione dell’art. 1 della legge delega 13 agosto 2010, n. 136 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, Serie generale, n. 196) che al punto 9 chiedeva espressamente di prevedere che “dopo l’esercizio dell’azione di prevenzione, previa autorizzazione del pubblico ministero, gli esiti delle indagini patrimoniali siano trasmessi al competente nucleo di polizia tributaria del Corpo della guardia di finanza a fini fiscali”. I poteri, di cui dispongono gli organi inquirenti nella fase delle indagini patrimoniali, sono disciplinati dalla già richiamata norma dell’art. 19. Tali poteri comprendono “la facoltà di richiedere ad ogni ufficio della pubblica amministrazione, ad ogni ente creditizio nonché alle imprese, società ed enti di ogni tipo informazioni e copia della documentazione ritenuta utile ai fini delle indagini.”212 Nell’ipotesi che le indagini siano condotte, previa delega da parte del Procuratore della Repubblica, dagli organi di polizia giudiziaria (ivi compreso il corpo della Guardia di Finanza) è prevista la facoltà “di procedere al sequestro della documentazione con le modalità di cui agli articoli 253 (sequestro probatorio), 254 (sequestro di corrispondenza), 255 (sequestro presso banche) c.p.p.”213 La Cassazione ha poi confermato, relativamente ai termini delle indagini economicopatrimoniali, che quest’ultime, di regola non sono soggetta ad alcun limite temporale, fatta eccezione per l’ipotesi prevista dallo stesso art. 19, comma 3 del Codice delle leggi antimafia, per cui le indagini sono effettuate anche nei confronti del coniuge, dei figli e di coloro che hanno convissuto. In questo caso la norma introduce il limite del quinquennio.214 212 F. MENDITTO, Codice Antimafia, commento organico, articolo per articolo, al D.Lgs. 6 settembre 2011, n.159, SIMONE, 2011, p. 77 213 Ibidem 214 Cass. Sez. II, 22 aprile 2009, n. 20906, Buscema e altri, Rv. 244878 113 Diagramma illustrativo relativo alla titolarità del potere di proposta per l’applicazione delle misure di prevenzione215 Titolarità della proposta Questore, Procuratore distrettuale e direttore della Direzione Investigativa Antimafia Procuratore Nazionale Antimafia Misure di prevenzione patrimoniali Misure di prevenzione personali applicate dall’autorità giudiziaria COMPETENZA del Tribunale del capoluogo della provincia in cui la persona dimora L’incompetenza territoriale del giudice è rilevabile in ogni stato e grado del procedimento 215 A. BALSAMO – C. MALTESE, Il Codice Antimafia cit. p. 28 114 4. Le fonti probatorie utilizzabili e i mezzi di ricerca della prova L’ampio ventaglio di fonti probatorie, utilizzabile nell’ambito del procedimento di prevenzione, ha sollecitato, una parte della dottrina, a critiche rivolte alla dubbia costituzionalità di tale impostazione. L’ovvio riferimento è al comma 4 dell’art. 111 della Costituzione, che prevede il rispetto del principio del contraddittorio nella formazione della prova. Questa parte della dottrina, infatti, non ritiene compatibile il contenuto degli artt. 20 e 24 (rispettivamente “sequestro” e “confisca”) del Codice delle leggi antimafia, con il disposto della sopra citata norma costituzionale. La critica parte da lontano per poi approdare alla consapevolezza dell’ampia gamma di fonti probatorie già predisposte, rispetto alle quali, il giudice della prevenzione, non farebbe altro, questo il cuore della critica, che operare un mero richiamo. A tale proposito si devono considerare, in particolare, i presupposti che il legislatore ha posto alla base dei provvedimenti di sequestro e confisca dei beni alle organizzazioni mafiose. Nel caso del sequestro, infatti, l’art. 20 del d.lgs. 159/2011 stabilisce che “il tribunale, anche d’ufficio ordina, con decreto motivato il sequestro dei beni dei quali la persona, nei cui confronti è iniziato il procedimento, risulta poter disporre, direttamente o indirettamente, quando il loro valore risulta sproporzionato al reddito dichiarato o all’attività economica svolta ovvero quando, sulla base di sufficienti indizi, si ha motivo di ritenere che gli stessi siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego, Nel caso della confisca, l’art. 24 del d.lgs. 159 cit. stabilisce ancora che “il tribunale dispone la confisca dei beni di cui la persona nei cui confronti è instaurato il procedimento non possa giustificare la legittima provenienza e di cui, anche per interposta persona, fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito […]”. Va ricordato, poi, il nesso logico-giuridico (già affrontato nella Premessa del Capitolo II) che lega le valutazioni che sono alla base della proposta di prevenzione sia personale che patrimoniale. 115 Il procedimento di prevenzione, infatti, è iniziato anche sulla sussistenza del presupposto personale in quanto il soggetto è risultato indiziato di appartenere ad associazione mafiosa e dunque l’asserita incostituzionalità, scaturente dalla violazione del principio del contraddittorio nella formazione della prova, investe necessariamente anche il profilo personale della prevenzione. Da questo punto di vista, allora, ciò che la dottrina ritiene in contrasto con il principio del contradditorio, è l’ampiezza delle formule legislative che dunque abilita i soggetti inquirenti a fondare le proposte di prevenzione, ed il giudice ad pronunciare decreto di sequestro e successivamente di confisca, sulla base di numerose fonti probatorie che non troverebbero diritto di cittadinanza nell’ambito dell’istruzione probatoria propria del processo penale.216 Cosi ché, il materiale probatorio utilizzato dal giudice della prevenzione, è questa l’accusa principale che viene sollevata dalla dottrina più ostile al procedimento di prevenzione, non sarebbe formato nell’ambito del dibattimento in ossequio al fondamentale principio del contraddittorio previsto dall’art. 111 della Costituzione. A ben vedere, il più volte citato principio di autonomia, tra processo penale e procedimento di prevenzione, opera anche in tal senso. Non solo relativamente alla consistenza e qualità della prova ma anche con riferimento ai principi tipici del processo penale. Con questo, e tanto la giurisprudenza quanto altra parte della dottrina lo confermano, non si vuole affermare la piena discrezionalità circa l’operatività del principio in discussione nel procedimento di prevenzione patrimoniale. 216 Su tale punto cfr. Filippi il quale sostiene che “la prassi registra l’utilizzazione ai fini della decisione di qualsiasi atto” e che è “pure possibile che l’attività istruttoria sia integrata dalle prove assunte dal giudice penale che abbia proceduto per i reati di cui agli artt. 416bis c.p. e 74 d.P.R. n. 309 del 1990, secondo le previsioni dell’art. 23bis comma 2 della l. n. 646 del 1982 per il quale successivamente al promovimento del processo di prevenzione, il giudice penale trasmette a quello che procede per l’applicazione della misura di prevenzione «gli atti rilevanti ai fini del procedimento, salvo che ritenga necessario mantenerli segreti». Anche questa ipotesi di circolazione probatoria si mostra insensibile alla regola del contraddittorio nella formulazione della prova, dettata dall’art. 111 comma 4 Cost.” (L. FILIPPI, Il procedimento di prevenzione patrimoniale cit., p. 347). Lo stesso autore aggiunge, inoltre, che non essendo prevista la formazione del fascicolo per il giudizio di prevenzione, tutti i verbali delle indagini confluiscono nel fascicolo a disposizione del giudice, in contrasto con il principio della formazione della prova in contraddittorio, a norma dell’art. 111 Cost.” (L. FILIPPI - M.F. CORTESI, Il Codice cit., p. 153). 116 La giurisprudenza di merito, infatti, non censura tale fondamentale principio, che invece richiama espressamente nei decreti di confisca nei quali non è raro leggere che “la difesa ha solo genericamente contestato la sussistenza dei presupposti soggettivi necessari per l’applicazione della misura di carattere personale e patrimoniale […]” piuttosto che “ le difese dei terzi intestatari in primo luogo producevano documentazione relativa alla pericolosità dell’- omississ - […]”. Tale tenore letterario, dunque, non può non corrispondere alla trascrizione, nel provvedimento motivato, di una fase tipica come quella del contraddittorio, come risulta, oltretutto, dagli stessi paragrafi di tali provvedimenti, redatti dal Tribunale, nella cui rubrica si legge “i risultati del contraddittorio delle parti all’udienza camerale”.217 In un più remoto provvedimento, della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Napoli, si affronta specificamente la questione della “rituale instaurazione del contraddittorio” affrontando il valore giuridico del c.d. “invito a comparire”.218 217 Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 12 aprile 2011, Reg. Gen. M.P. n. 143/05, Reg. decreti n. 83/2011 Pres. – Rel. Del Balzo (decreto irrevocabile 30 maggio 2011), ancora, Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 14 dicembre 2010, Reg. Gen. M.P. n. 112/09, Reg. decreti n. 302/2010 Pres. Del Balzo, Rel. Mazzeo 218 In tale provvedimento si legge: “ Com’è noto, la giurisprudenza, sulla spinta di alcune pronunzie interpretative di rigetto della Corte costituzionale ( C. cost. 28 novembre 1972, n. 168; C. cost. 25 maggio 1975, n. 69) va ormai da tempo affermando che il c.d. invito a comparire, di cui al comb. Disp. degli artt. 4, co. 5°, l. 1423/1956 e 636 c.p.p. abr. Non è solo un mezzo per la vocatio in iudicium del proposto ma deve svolgere anche una funzione di contestazione dei fatti in ordine ai quali questi è chiamato a difendersi. Tali principi non possono non valere anche dopo l’abrogazione dell’art. 636 c.p.p. 1930, con la conseguenza che, oggi, la duplice funzione già attribuita al suddetto invito a comparire deve essere svolta dall’avviso della data dell’udienza camerale, che, ai sensi del comb. disp. degli artt. 4, co. 5°, l. 1423/1956, e 678 e 666 c.p.p. 1988, ne ha preso il posto (un vero e proprio invito a comparire rimane necessario, ai sensi dell’art. 4, co. 6°, l. 1423/1956, solo nel caso in cui il proposto, ritualmente avvisato dell’udienza camerale, non vi si presenti ed il tribunale ritenga necessario interrogarlo). Ciò posto, pare al Collegio che, nella specie, nessuna nullità si sia verificata, giacché gli avvisi dell’udienza camerale notificati ai proposti nell’ambito dei procedimenti indicati – omississ – recavano, allegate in copia, sia le proposte avanzate nei loro confronti, sia i provvedimenti di sequestro adottati, sia degli estratti delle parti riguardanti specificamente ciascuno di loro, della sentenza-ordinanza emessa dal Giudice Istruttore presso questo Tribunale in data 28 luglio 1989, che costituisce la summa dei fatti assunti dall’autorità proponente come sintomatici della pericolosità sociale da loro rispettivamente attribuiti. Peraltro i medesimi fatti erano già aliunde ampiamente conosciuti dai preposti, essendo stati oggetto di un dibattimento in sede penale.” Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 23 settembre 1992, Proc. n. 19/89 + 141/90 + 198/90 + 152/91 M.P., Reg. decreti 305/1992, Pres. Peluso, Est. Celentano. Non inficia tale ragionamento l’intervenuta abrogazione degli artt. 636 e 637 c.p.p. richiamati dall’art. 4, comma 5 della legge 1423/1956 che successivamente faceva riferimento all’art. 678 c.p.p. richiamando a sua volta l’art. 666 c.p.p. 117 Di là da queste osservazioni empiriche, altra parte della dottrina ha sottolineato come non si possa negare l’applicabilità della norma prevista dal comma 4 dell’art. 111 Cost. Non è possibile, dunque, negare l’operatività del principio in esame nell’ambito del procedimento di prevenzione. La norma costituzionale, infatti, introduce un principio, la cui generale previsione, si riferisce necessariamente anche al procedimento di prevenzione, senza per questo operare una meccanica trasposizione delle regole di ammissione della prova, previste specificamente nell’ambito del processo penale (si ricordi il già citato principio di autonomia tra processo penale e procedimento di prevenzione). Le garanzie costituzionali, allora, lungi dall’essere intrise di una pretesa assolutizzante, tanto da renderle applicabili indifferentemente a qualunque settore processuale, devono invece atteggiarsi in conformità agli scopi a cui i diversi tipi di processo si indirizzano. “È chiaro che il principio del contraddittorio nella formazione della prova, deve espandersi in tutta la sua pienezza nei processi tendenti all’accertamento della responsabilità penale dell’imputato ed alla conseguente applicazione di sanzioni che incidono sulla libertà personale, tutelata dall’art. 13 della Costituzione come diritto inviolabile. Ma al contempo, è perfettamente ragionevole ritenere che, in rapporto al procedimento di prevenzione, il principio del contraddittorio non precluda il ricorso a prove formate unilateralmente, ai fini dell’accertamento dei presupposti per l’applicazione di misure che sono fondate su una fattispecie di pericolosità sganciata da valutazioni di colpevolezza”.219 In altri termini, va sottolineato che nella fattispecie del procedimento di prevenzione, è possibile giungere a risultanze investigative significative, e dunque probatorie, solo sulla scorta di un insieme di mezzi di ricerca della prova e mezzi di prova più ampio di quello previsto nell’ambito del dibattimento penale. Attualmente, con l’introduzione del c.d. Codice delle leggi antimafia, questo complesso sistema di rinvii è stato semplificato richiamando, la norma dell’art. 7 d.lgs. 159/2011, direttamente l’art. 666 c.p.p. per cui il procedimento di prevenzione si svolge in camera di consiglio. 219 A. BALSAMO - V. CONTRAFATTO - G. NICASTRO, Le misure patrimoniali contro la criminalità organizzata, GIUFFRÈ, 2010, p. 158 118 Questo perché deve essere considerata la particolare realtà economico-finanziaria, da contrastare, caratterizzata da un alto livello di mimetizzazione e di occultamento delle risorse. Anche nel procedimento di prevenzione, allora, possiamo distinguere tra mezzi di prova e mezzi di ricerca della prova, i cui ambiti sono sensibilmente ampliati in considerazione della particolarità e della finalità di detto procedimento come già osservato. Nel ricordare che “per fonte di prova si intende una cosa, un documento, una persona che possano offrire al giudice spunti conoscitivi utili per la decisione da adottare”220, va evidenziato che tra le fonti probatorie utilizzabili nell’ambito della prevenzione “sono state inclusi i precedenti penali, l’esistenza di recenti denunzie per gravi reati, il tenore di vita, l’abituale compagnia di pregiudicati e di soggetti sottoposti a misure di prevenzione, ed altre manifestazioni oggettivamente contrastanti con la sicurezza pubblica”221 Non sorprende, allora, che nel ragionamento dei giudici di merito, tanto la pericolosità sociale quanto l’illecita origine dei beni che si intendono sottoporre a misure di prevenzione patrimoniale (previa valutazione con esito positivo, giova ribadirlo, della sussistenza della pericolosità sociale del proposto oltre la necessità di dimostrare la disponibilità, diretta o indiretta, di detti beni), venga ricostruita mediante il richiamo esplicito a ordinanze di custodia cautelare o sentenze di condanna e decreti di sequestro precedentemente emessi. Rappresentano, ancora, fonti di prova nel procedimento di prevenzione, “le informazioni acquisite dagli organi di P.S.”222, le risultanze di precedenti procedimenti penali, rispetto ai quali, i giudici della prevenzione specificano che “i fatti accertati nell’ambito di […] procedimento penale sono stati specificamente indicati e valutati per la loro rilevanza ai fini della ritenuta sussistenza degli indizi di appartenenza del proposto al sodalizio camorrista nel provvedimento di sequestro”.223 220 G. RICCIO – G. SPANGHER, La procedura penale cit., p. 427 Cass., Sez. V, 14 dicembre 1998, n. 6794, in proc. Musso, in CED Cass. n. 212209 222 F. FIORENTIN (a cura di), Le misure cit., p. 396 223 Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 27 ottobre 2006, Reg. Gen. M.P. n. 136/99 + 44/05 + 105/05, Reg. decreti 162/07 “A” Pres. Del Balzo, Rel. La Posta 221 119 Logica, quella del ragionamento dei giudici di merito, coerente con quanto affermato recentemente dalla Suprema Corte che, fotografando plasticamente l’attività d’indagine cartolare dei giudici della prevenzione, ha sottolineato come l’esame delle pronunce delle corti di merito, in riferimento alle posizioni dei vari proposti, debba essere valutata nella loro complessità anche se vanno in senso contrario all’affermazione della penale responsabilità dell’imputato-proposto. A tale proposito, infatti, la S.C. afferma che “risponde pertanto ad una insopprimibile esigenza logica, prima ancora che giuridica, che, nell'ipotesi in cui il proposto sia stato irrevocabilmente prosciolto da uno dei delitti suindicati, il giudice delle misure di prevenzione esamini comparativamente tutti gli elementi di prova che hanno indotto il Giudice penale ad assolvere l'imputato, onde stabilire se la valenza attenuata del sistema probatorio, propria del processo di prevenzione, consenta di affermare la permanenza di indizi tali da suffragare l'attribuibilità di uno di quei reati al proposto”.224 Cosi come, ai fini della dimostrazione dell’effettiva disponibilità diretta o indiretta dei beni e della loro provenienza illecita, risultano fonti probatorie, utilizzate dai giudici della prevenzione, le dichiarazioni ai fini dei redditi tratte dall’archivio informatico dell’Anagrafe Tributaria, le risultanze dei redditi da lavoro dipendente ottenibili mediante consultazione dell’archivio informatico dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), nonché l’esistenza di quote di partecipazione societarie intestate non al proposto ma a soggetti (parenti o affini che hanno convissuto con il proposto nell’ultimo quinquennio) per i quali risulti la totale assenza di redditi. Non vanno dimenticati gli accertamenti bancari dai quali spesso emergono operazioni di concessione di mutui o fidi privi di qualsivoglia garanzia. Risultanza, questa, che non solo evidenzia l’assoluta estraneità di tale modus operandi di qualsivoglia istituto di credito che operi in condizioni di normalità, ma è, spesso, elemento fondamentale sul quale, il Collegio di prevenzione, fonda il proprio convincimento, circa l’insussistenza del canone della buona fede, requisito 224 Cass. Sez. V, 8 novembre 1995, sent. n. 2553, Morana 120 fondamentale per operare il riconoscimento dei crediti e dunque la tutela dei terzi nel procedimento di prevenzione. L’ampio catalogo delle fonti probatorie, utilizzabili nell’ambito della prevenzione antimafia, prevede anche documenti delle autorità di governo locali. Non si può omettere di considerare, infatti, che “una fonte conoscitiva rilevante e finora poco sfruttata risiede anche nelle informative prefettizie che, in particolare nell’ambito degli appalti pubblici, evidenziano la presenza di soggetti già raggiunti da misure di prevenzione e la sussistenza di condanne relative al fenomeno mafioso, nonché, infine, elementi di contiguità ambientale”225 con le organizzazioni criminali operanti sui vari territori. Rientrano nei mezzi di prova le intercettazioni. A tale proposito va specificato che se, da un lato, per intercettazioni di conversazioni o comunicazioni “si intende quell’attività che si effettua mediante strumenti tecnici di percezione e che tende a captare il contenuto di una comunicazione segreta in corso tra due o più persone, quando l’apprensione medesima è operata da parte di un soggetto che nasconde la sua presenza”226, rientrando, quest’attività, giustamente, in quelli che il codice di procedura penale definisce i mezzi di ricerca della prova, nell’ambito della prevenzione deve essere considerato un diverso punto di osservazione. A ben vedere, infatti, nella fase delle indagini patrimoniali, avviate al fine di promuovere l’azione di prevenzione, nessun Giudice per le indagini preliminari interviene a valutare la sussistenza dei requisiti, previsti dalla legge, per autorizzare le intercettazioni richieste dal Pubblico Ministero. Ed invero, durante il procedimento di prevenzione, i giudici richiamano le risultanze delle intercettazioni disposte ed autorizzate in altri procedimenti penali. In alcuni provvedimenti di confisca, infatti, non sorprende leggere che “il contenuto della conversazioni intercettate fornisce una serie significativa di elementi dai quali si trae la coincidenza degli interessi e le cointeressanze tra l’organizzazione camorrista” e le attività del preposto (Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione 225 G. CAPECCHI, Le misure di prevenzione patrimoniali. Laboratorio di esperienze pratiche, riflessioni comparative e spunti operativi, EXPERTA, 2011, p. 21 226 P. TONINI, Manuale di procedura penale, GIUFFRÈ, 2010, p. 327 121 delle misure di prevenzione, cc. 27 ottobre 2006, Reg. Gen. M.P. n. 136/99 + 44/05 + 105/05, Reg. decreti 162/07 “A” Pres. Del Balzo, Rel. La Posta).227 È appena il caso di sottolineare che, l’aver esteso la categoria dei mezzi di prova nell’ambito del procedimento di prevenzione, mai è equivalso a ricomprendere tra questi anche quelli affetti da inutilizzabilità patologiche. Stiamo parlando, infatti, del regime di inutilizzabilità della prova nell’ambito del procedimento di prevenzione patrimoniale, in riferimento al quale, “la giurisprudenza 227 A tale proposito sembra interessante una pronuncia della Cassazione volta a delimitare l’utilità del contenuto di intercettazioni che possono essere richiamate dai giudici della prevenzione e sulla cui base potrebbe fondarsi il giudizio di disvalore dell’appartenenza del proposto all’associazione mafiosa. Invero, con questa pronuncia, la S.C. sottolinea che, pur dovendosi considerare la diversa consistenza probatoria tra processo penale e procedimento di prevenzione, la minore consistenza dell’indizio non può risolversi in ragionamenti volti a travalicare il confine del fatto per sconfinare nel campo di mere congetture e illazioni. Per tale motivo la S.C. afferma che “la misura di prevenzione adottata è stata ancorata all'asserita appartenenza del proposto ad un'associazione di tipo mafioso e da ciò si è conseguentemente desunta la pericolosità qualificata del medesimo proposto. A tale conclusione si è pervenuti essenzialmente, al di là del richiamo di alcuni precedenti giudiziari del Guzzetta non particolarmente allarmanti, sulla base del contenuto di una intercettazione di conversazione ambientale tra persone indiziate di appartenere al clan mafioso "Santapaola" (gruppo “Monte Po”), le quali avevano, appunto, fatto indiretto riferimento al predetto, Guzzetta, tacciandolo di superficialità per essersi fatto sorprendere dalle forze dell'ordine a bordo di un furgone di provenienza furtiva. Quest'ultima circostanza, fulcro dell'accertamento di pericolosità compiuto dal giudice a quo, si appalesa priva di seria consistenza e non può integrare quell'indizio idoneo a dimostrare, sia pure ai meri fini della prevenzione, la "vicinanza" del proposto ad ambienti mafiosi e, quindi, la sua pericolosità qualificata, sicché è indubbia la violazione di legge che connota il decreto impugnato (art. 1 della legge n. 575/65). Questa Suprema Corte, già con sentenza del 3/2/1999 pronunciata in sede “de libertate” (il riferimento è all'ordinanza custodiale del 22/6/1998), aveva definito la richiamata intercettazione ambientale “dato equivoco, suscettibile di interpretazioni svariate” e di tanto non può non tenersi conto anche ai fini dell'applicazione della misura di prevenzione. È pur vero che c'è differenza, nei presupposti e nei fini, tra il procedimento penale ed il provvedimento di prevenzione, differenza che non solo determina l'autonomia dei due procedimenti, ma anche una diversa rilevanza delle questioni probatorie: il primo richiede prove piene per dimostrare la responsabilità penale in ordine ad un reato; il secondo prescinde dall'accertamento della responsabilità penale e, avendo come presupposto la pericolosita sociale, deve fondarsi su elementi di minor efficacia probatoria. È anche vero, tuttavia, che tali elementi, qualora si tratti, come nella specie, di pericolosità qualificata dall'appartenenza ad associazione di tipo mafioso, debbono comunque raggiungere la consistenza dell'indizio, con esclusione, quindi, di sospetti, congetture ed illazioni, che sono mere intuizioni del giudice, mentre l'indizio è sempre fondato su un fatto certo, dal quale risalire, attraverso un procedimento logico-induttivo, ad altro fatto non noto. Nel caso in esame, il tenore vago ed equivoco della conversazione intercettata, già rilevato da questa Corte nella procedura incidentale “de libertate”, non riveste, in difetto di ulteriori elementi di riscontro idonei ad orientare un'interpretazione fattuale in termini più specificamente definiti, alcuna valenza per supportare il giudizio di pericolosità qualificata, anche perché gli altri elementi presi in considerazione da l giudice a quo (precedenti giudiziali) hanno scarso rilievo e non sono stati adeguatamente approfonditi alla luce pure delle allegazioni difensive”. Cass., Sez.VI, 6 febbraio 2001, dep. 28 marzo 2001, Sent. n. 12511 122 è andata consolidandosi nel senso di escludere dal materiale probatorio legittimamente acquisito nel procedimento di prevenzione tutti gli atti affetti da inutilizzabilità patologica: si tratta degli atti probatori assunti contra legem, la cui utilizzabilità è vietata in modo assoluto non solo nel dibattimento, ma in tutte le fasi del procedimento, comprese quelle delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare, nonché le procedure incidentali cautelari e quelle negoziali di merito”.228 La norma al quale si fa riferimento è quella contenuta nell’art. 191 c.p.p. che riguarda, appunto, le prove illegittimamente acquisite. La maggior parte della dottrina, infatti, è concorde nel riconoscere, a tale principio, carattere generale e dunque valevole, nonostante la più volte sottolineata autonomia tra le procedure in discussione, anche nell’ambito del procedimento di prevenzione patrimoniale il cui “alleggerito” impianto probatorio giammai deve risolversi in violazioni ingiustificate dei principi costituzionali. Per tale motivo, ad esempio, la S.C. (Cass. Sez. V, sent. n. 3687 del 27 ottobre 2010, Cassano e altri in CED Cass. 249691) “ha ritenuto illegittimo il decreto di applicazione della misura di prevenzione qualora la prognosi di pericolosità qualificata del proposto sia fondata su dichiarazioni accusatorie indirette, rese in violazione dell’art. 195 comma settimo c.p.p, non essendo la fonte conoscitiva delle stesse identificata né identificabile”.229 Stesso ragionamento per le intercettazioni di conversazione che sono state dichiarate inutilizzabili ai sensi dell’art. 271 c.p.p. Possono, al contrario, essere utilizzati elementi probatori che sono affetti da inutilizzabilità fisiologica ovvero da inutilizzabilità relativa espressamente previste dalla legge con riguardo alla fase dibattimentale. “Il punto di equilibrio raggiunto dalla giurisprudenza di merito nella materia in esame sembra coincidere con l’assunto […] secondo cui il requisito minimo di un “processo equo” è che la fonte di prova determinante, utilizzata ai fini della decisione, sia stata comunque inserita nel circuito del contraddittorio, anche sotto 228 229 A. BALSAMO – C. MALTESE, Il Codice Antimafia, cit. p. 40 Ibidem 123 forma di contraddittorio “differito” a meno che non ricorra una delle ipotesi descritte dal comma 5 dell’art. 111 Cost.”.230 Per quanto attiene ai mezzi di ricerca della prova, che secondo la dottrina processuale penale rappresentano gli strumenti in base ai quali “entra nel procedimento un elemento probatorio che preesiste allo svolgersi del mezzo stesso”231, questi sono esplicitamente codificati all’art. 19 del Codice delle leggi antimafia. La norma, infatti, al comma 4, fa espressamente riferimento alla copia di documenti che, nella valutazione degli inquirenti, sono ritenuti utili per dimostrare la pericolosità sociale qualificata del proposto oltre che la sua disponibilità di beni di illecita provenienza. Per altro, giova rammentarlo, la or ora citata norma del comma 4 ben si combina con il diretto richiamo, operato dal d.lgs. 159/2011, all’art. 666 c.p.p. che a sua volta rinvia all’art. 185 disp. att. c.p.p., dal cui combinato disposto, risulta proprio che il giudice può chiedere alle autorità competenti tutti i documenti e le informazioni necessarie, anche in udienza, procedendo senza particolari formalità, in relazione ad altri mezzi di ricerca della prova ( non previsti dal Codice antimafia ma da esso ricompresi in virtù proprio del rinvio operato al c.p.p.) come la citazione e l’esame dei testimoni e l’espletamento della perizia. Quanto al sequestro della documentazione, richiamato dallo stesso art. 19 d.lgs. 159/2011, si procede ad esso osservando le norme dettate, a tale proposito, dal codice di procedura penale. Quest’ultimo mezzo di ricerca della prova è, in particolare, il sequestro probatorio disciplinato dagli artt. 253 ss. c.p.p. Di particolare importanza risulta il sequestro presso banche disciplinato dall’art. 255 c.p.p. per il quale è prevista un’apposita disciplina. Dato l’espresso richiamo di questa norma, da parte dell’art. 19 d.lgs. 159/2011, si deve intendere espressamente richiamata anche la relativa disciplina. In base a quest’ultima l’autorità giudiziaria (e gli ufficiali di polizia giudiziaria da questa delegati) possono esaminare atti, documenti e corrispondenza presso banche 230 231 Ivi, p. 41 Ivi, p. 320 124 per rintracciare cose da sottoporre a sequestro o per accertare altre circostanze utili alle indagini. L’autorità giudiziaria può limitarsi a formulare una richiesta di esibizione o consegna. Se la banca oppone un rifiuto, l’autorità giudiziaria (il pubblico ministero durante le indagini) procede a perquisizione personalmente.232 5. La prova indiziaria Una riflessione, se non certamente esaustiva, deve essere riservata al tema della prova indiziaria. Invero il dato normativo fa riferimento ad essa come principale parametro di riferimento probatorio nell’ambito del procedimento di prevenzione. Sia nella definizione dei soggetti destinatari delle misure di prevenzione, infatti, che in quella relativa al sequestro e alla confisca, il legislatore si riferisce all’indizio come termine di valutazione probatoria sulla cui base disporre le relative misure di prevenzione. Nell’ambito dell’art. 4 del d.lgs. 159/2011, la norma richiama gli “indiziati di appartenere alle associazioni di cui all’art. 416bis c.p.”; all’art. 20 invece il legislatore stabilisce che il tribunale ordina il sequestro dei beni anche quando “sulla base di sufficienti indizi”, si ha motivo di ritenere che gli stessi siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego; Se così stanno le cose, l’autorità giudiziari non deve raggiungere la prova della penale responsabilità ma indizi, presupposto di applicazione delle misure di prevenzione. In particolare, nell’ambito della prevenzione antimafia, la Cassazione ha specificamente affermato che “in tema di misure di prevenzione il giudice non deve raggiungere la prova dell'appartenenza ad una associazione mafiosa, ma raccogliere un contesto indiziario univoco sufficientemente indicativo della pericolosità del soggetto”.233 232 233 Ivi, p. 327 Cass., Sez. VI, 27 maggio 1997, n. 2148, dep. 19 luglio 1997, Rv. 208310 125 Ne “l’indizio” deve disporre dei requisiti previsti dall’art. 192 c.p.p. che richiede, ai fini della valutazione della prova, che l’esistenza di un fatto può essere desunta da indizi a patto che questi siano “gravi, precisi e concordanti”. Va evidenziato, infatti, che la norma in esame è pur sempre dettata con riguardo ai fini e alle caratteristiche proprio del processo penale che tende all’accertamento della penale responsabilità. Appare, dunque, chiaro che in riferimento al procedimento di prevenzione l’indizio, che è posto alla base dello standard probatorio, non sia caratterizzato dalla stessa carica probatoria.234 234 Non deve sorprendere allora se le corti di merito espressamente affermano la possibilità che “il giudizio di pericolosità sia fondato su elementi certi, dai quali possa legittimamente farsi discendere l’affermazione dell’esistenza della pericolosità, sulla base di un ragionamento immune da vizi, fermo restando che gli indizi sulla cui base formulare il giudizio di pericolosità non devono necessariamente avere i caratteri di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 192 c.p.p.” (Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 7 febbraio 2009, dep. 23 febbraio 2009, Reg. Gen. M.P. n. 131/02, 154/03, 159/06, 64/08, 210/08, Reg. Dec. n. 2 /09/S, Pres. Menditto) Ancora, in altro provvedimento di merito si legge chiaramente che “la norma impone al Giudice della prevenzione, nella formulazione del suo giudizio, di fare riferimento a indizi, ovverosia ad elementi certi dai quali possa legittimamente farsi discendere l’affermazione dell’appartenenza di un soggetto all’associazione “de qua” (mafiosa N.d.A.); detti indizi, però, ha ben chiarito la Suprema Corte, non devono, necessariamente, essere gravi, precisi e concordanti”. (Tribunale Ordinario di Roma, Sezione Misure di Prevenzione, cc. 19 maggio 2009, dep. 10 giugno 2009, Reg. Gen. M.P. n. 268/2008, Reg. Dec. 166/09, Pres. Capozza, Est. Scicchitano). Ad ulteriore conferma altro provvedimento di confisca del Tribunale di Roma riprende il ragionamento della S.C. affermando che quest’ultima ribadisce che “la condizione di associato mafioso implica, più che uno status di appartenenza, l’esplicazione di un ruolo dinamico e funzionale, così lasciando chiaramente intendere il compendio indiziario enucleato tanto dal GIP quanto dal Giudice del Riesame, se insufficiente a dimostrare la partecipazione, non è escluso che viceversa sia assolutamente soddisfacente a significare un’appartenenza […] all’organizzazione criminale. Ciò posto, si tratta allora di verificare se le circostanze oggettive di natura indiziaria contenute in tale ordinanza coercitiva, e per l’appunto, richiamate dall’ufficio richiedente a sostegno delle formule proposte, siano idonee a fondare un giudizio di qualificata probabilità dell’appartenenza […] all’associazione di tipo mafioso […]. Giudizio che, non è ultroneo ricordare, può essere legittimamente fondato dal Giudice della prevenzione su elementi indiziari, anche non gravi, precisi e concordanti, purché inequivocabilmente certi nel senso di risultare giudizialmente dimostrati nella loro oggettiva esistenza”. (Tribunale Ordinario di Roma, Sezione Misure di Prevenzione, cc. 9 aprile 2009, dep. 8 giugno 2009, Reg. Gen. M.P. n. 293/2008, Reg. Dec. n. 164/09, Pres. Lo Surdo, Est. Casa). Per la verità, a ulteriore suggello di tale orientamento di merito, ha provveduto una risalente e nota pronuncia del Supremo Collegio nella quale si legge che “alla mancanza anche assoluta di prove o di gravi indizi di colpevolezza richiesti dalla legge per giungere ad un’affermazione di responsabilità in sede penale non corrisponde affatto un’analoga valenza in tema di “procedimento di prevenzione”, nel quale gli indizi di affiliazione ad un “clan mafioso” e la indimostrata liceità dell'appartenenza dei beni possono essere desunti anche dagli stessi fatti storici in ordine ai quali è stata esclusa la configurabilità di illiceità penale ovvero da altri acquisiti o autonomamente desunti nel giudizio di prevenzione”. (Cass., Sez., UU., 3 luglio 1996, n. 18, Simonelli). Tali indizi, giova ribadirlo, desunti da fatti storici che non avrebbero alcuna valenza probatoria nell’ambito del processo penale, “debbono comunque raggiungere la consistenza dell'indizio, con 126 Stando cosi le cose il ragionamento indiziario, delle corti di merito, non è sindacabile dal punto di vista costituzionale, essendosi, la Consulta, espressa in tal senso, affermando che è escluso che “le misure di prevenzione possano essere adottate sul fondamento di semplici sospetti, richiedendosi, invece, una oggettiva valutazione di fatti da cui risulti la condotta abituale e il tenore di vita della persona o che siano manifestazioni concrete della sua proclività al delitto, e siano state accertate in modo da escludere valutazioni puramente soggettive e incontrollabili da parte di chi promuove o applica le misure di prevenzione”.235 A ben vedere, il ragionamento suddetto non risulta censurabile dal Supremo Collegio in punto di diritto, circa il merito degli elementi fattuali indicati, dalle corti di merito, a sostegno del sillogismo indiziario della prevenzione. Le relative conclusioni, infatti, si rilevano insindacabili in sede di legittimità atteso che il ricorso in cassazione è consentito soltanto per violazione di legge236 cosi come disposto dall’art. 10 T.U. delle leggi antimafia. A tal proposito si esprime chiaramente un orientamento della S.C. affermando “ancorché circoscritto al solo scrutinio del vizio di violazione di legge, il sindacato devolvibile in tema di misure di prevenzione ben può prendere in esame le condizioni di legittimità del provvedimento, ivi comprese, dunque, le componenti fattuali assunte come dati “certi” sulla cui falsariga i giudici della prevenzione hanno formulato, su base induttiva, il giudizio di pericolosità, o hanno ritenuto sussistenti i presupposti per l'applicazione delle eventuali misure di prevenzione patrimoniali. Ma è del tutto evidente che, per rimanere sul terreno del sindacato di legittimità, il controllo della legalità dei provvedimenti adottati in sede di prevenzione (e che lo stesso nomen dell'unico vizio devolvibile chiaramente rievoca) non può certo spingersi – come invece erroneamente mostra di presupporre il ricorrente – ad una esclusione, quindi, di sospetti, congetture ed illazioni, che sono mere intuizioni del Giudice, mentre l'indizio è sempre fondato su un fatto certo, dal quale risalire, attraverso un procedimento logicoinduttivo, ad altro fatto non noto” (Cass. Sez. V, 12 ottobre 2006, n. 34150) Ed è ancora la Cassazione a ribadire che dalla pacifica autonomia tra procedimento di prevenzione e processo penale “deriva che, nel procedimento di prevenzione, la prova indiretta o indiziaria non deve essere dotata dei caratteri prescritti dall'art. 192 c.p.p., mentre la chiamata in correità o in reità - le quali devono essere sorrette da riscontri esterni individualizzanti per giustificare la condanna - non devono essere necessariamente munite di tale carattere ai fini dell'accertamento della pericolosità.” (Cass., Sez. II, 2 marzo 2006, n. 7616) 235 Corte costituzionale, 16 dicembre 1980, n. 177 236 Cass., Sez. I, 25 febbraio 2009, n. 8510 127 rinnovata valutazione del “merito” di quelle determinate componenti fattuali, ove le stesse siano state persuasivamente ricomposte dai giudici della prevenzione”.237 Se da un lato, allora, la misura di prevenzione personale presuppone che il destinatario della stessa sia indiziato di appartenere ad un’associazione mafiosa secondo i parametri or ora descritti, dall’altro una simile valutazione riguarda necessariamente la prevenzione patrimoniale, allorquando si debba procedere al sequestro, e poi alla confisca, dei beni. La norma contenuta nell’art. 20 del d.lgs. 159/2011, infatti, fa riferimento ai “sufficienti indizi”. Va indagato, dunque, il contenuto concettuale della “sufficienza indiziaria” che legittima la relativa misura di prevenzione.238 La giurisprudenza di merito e quella di legittimità, sopra richiamata, consentono, dunque, di ritenere definitivamente condiviso l’asserto che se da un lato, “in tema di sufficienti indizi per l’adozione del sequestro di prevenzione, tale presupposto non può essere parificato a quello necessario per l’emanazione di provvedimenti limitativi della libertà personale, posto che il provvedimento di prevenzione è strutturalmente caratterizzato, da una metodologia di valutazione probatoria aperta a comprendere anche elementi rappresentativi di presunzioni non qualificate”,239 dall’altro non è possibile condividere, secondo gli stessi orientamenti giurisprudenziali sia di merito che di legittimità che costituzionali, le accuse, mosse al sistema prevenzionistico antimafia, sull’asserita deriva dello stesso verso il tema del sospetto e della conseguente impossibilità di ancorare le valutazioni giudiziarie ad elementi oggettivi, da quali far discendere le relative conseguenze sul piano dei diritti sostanziali. Il termine sospetto, tra l’altro, impiegato nelle definizioni normative del codice di procedura penale, lungi dall’essere una locuzione dalla potente carica derogatoria del principio di raccolta e formazione della prova, così come previsto dallo stesso codice di rito, altrimenti si rischierebbe, in primis, di dover riconoscere esistente un’intrinseca contraddittorietà del codice stesso. 237 Cass., Sez. II, 2 marzo 2006, n. 7616 Cass., Sez. I, 26 maggio 1986, Priolo 239 A GIALANELLA, Patrimoni di Mafia. La prova, il sequestro, la confisca, le garanzie, ESI, 1998, p. 121 238 128 Il sospetto, dunque, si inserisce, come strumento gnoseologico, nell’ambito della prova certamente ad un livello inferiore rispetto all’indizio. Il giudice, infatti, è chiamato ad un maggiore “prudenza comportamentale”, nell’ipotesi in cui si trovi a dover valutare elementi che non hanno la consistenza dell’indizio ma che possono essere considerati sospetti. Da quest’ultimi, però, non si trae alcuna conclusione giuridica ma rappresentano strumenti d’impulso delle iniziative giudiziarie che si assumono necessarie o per l’accertamento della penale responsabilità, nel caso specifico del processo penale, ovvero nel raggiungimento di quella consistenza indiziaria in grado di giustificare l’emanazione dei provvedimenti di prevenzione antimafia. Si tratta, allora, di individuare il giusto piano delle relative valutazioni considerando che “la corrispondenza a realtà del sospetto è quindi ancor meno probabile di quella ottenuta con l’indizio, per cui si è potuta correttamente sostenere un’assimilazione del sospetto ad una vera e propria ipotesi di ricerca”.240 Per quanto concerne la valutazione degli indizi, la norma cardine risulta essere, come detto, l’art. 192 c.p.p in virtù della quale gli indizi, per poter acquisire uno peso specifico all’interno del processo penale, devono essere gravi precisi e concordanti. Questo il punto discrepante con la prevenzione antimafia, se si considera che gli indizi richiesti dalla legge per l’emanazione dei decreti di sequestro e di confisca non devono raggiungere necessariamente il grado della gravità, certezza e concordanza. Sebbene va sottolineato che essendo, il procedimento di prevenzione, un procedimento fondamentalmente cartolare, considerata la capacità del giudice della prevenzione di richiamare, al vaglio del collegio stesso, provvedimenti precedentemente adottati dal giudice penale, attestanti le penali responsabilità dei soggetti preposti anche per altri reati ma che, a questo punto dovrebbe risultare chiara la logica giuridica che sottende alla prevenzione antimafia, configurano il quadro di insieme in relazione al quale effettuare la valutazione complessiva di appartenenza all’associazione mafiosa e di illecita provenienza dei beni, è difficile non intravedere quanto meno una certa fondatezza e una certa logicità di e tra tutte le 240 G. UBERTIS, voce: Prova, in Enciclopedia giuridica Treccani, vol. XXVIII, Roma, 1996, p. 7 129 prove indiziarie raccolte per suffragare ogni singola proposta di applicazione di misura di prevenzione.241 241 A tale proposito, infatti, è indicativo, a titolo esemplificativo e allo scopo di indicare un modus operandi tipico del Tribunale della prevenzione, il ragionamento condotto dal collegio napoletano in un recente provvedimento (Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 14 dicembre 2010, Reg. Gen. M.P. n. 112/09, Reg. Dec. n. 302/2010, Pres. Del Balzo, Rel. Mazzeo) nel quale bene esplicita il percorso logico indiziario che lo conduce a ritenere che i beni oggetto del procedimento siano ottenuti con proventi illeciti, ivi compresi quelli formalmente intestati a soggetti diversi dal proposto. L’indagine dei giudici napoletani, infatti, parte innanzitutto dall’acquisizione di dati basilari come la composizione del nucleo familiare del proposto e la consistenza delle relative dichiarazioni dei redditi che, nel caso di specie, per gli importi dichiarati, i giudici evidenziano come quelle cifre non siano sufficienti a garantire neanche l’ordinaria amministrazione del nucleo familiare. Per altro, nell’ipotesi considerata nel provvedimento in esame, il giudice rileva inoltre che le dichiarazioni dei redditi furono presentate solo per alcune annualità e cioè dal 1990 al 2007. A fronte di tale costatazione, l’autorità giudiziaria passa a valutare, invece, i beni che risultano direttamente o indirettamente nella disponibilità del proposto. Il primissimo confronto tra questi due dati di fatto permette al giudice di ritenere, in prima istanza, la illecita provenienza dei beni che non sia stata altrimenti giustificata. Su tale punto, dunque, il Tribunale si esprime in modo assai diretto: “il punto di partenza dal quale trae origine lo schema argomentativo seguito da questo tribunale si basa, dunque, sulla semplice e fondata considerazione che, poiché i redditi dichiarati possono ritenersi appena sufficienti a soddisfare le esigenze vitali essenziali della famiglia e del nucleo familiare come composto, tutte le possidenze, mobiliari ed immobiliari intestate al prevenuto, in quanto di valore chiaramente sproporzionato ai redditi leciti percepiti, devono necessariamente imputarsi al parallelo e molto più lucroso svolgimento dell’attività illecita”. Il ragionamento condotta dalla corte napoletana, inoltre, è confermato da un orientamento della Cassazione che in una sentenza aveva infatti proprio specificato che “in tema di confisca di beni rientranti nella disponibilità di un soggetto sottoposto a misure di prevenzione quale sospettato di appartenenza ad associazione di stampo mafioso, i sufficienti indizi circa la provenienza di detti beni da attività illecite possono consistere anche nella sola notevole sperequazione tra il tenore di vita e l’entità dei redditi apparenti o dichiarati: invero deve ritenersi che il legislatore nel fare riferimento, nell’art.2ter della legge 31 maggio 1965 n. 575, a tale elemento, lo abbia voluto indicare, a titolo esemplificativo, appunto quale possibile indizio, anche unico, di siffatta illecita provenienza dei beni i quali, a causa della incompatibilità tra impiego di capitali ed ammontare dei redditi noti, debbono ragionevolmente farsi risalire a redditi ignoti, frutto, secondo il normale accadimento delle cose, di attività redditizie come sono quelle delle organizzazioni mafiose” – Cass. Sez. VI 23 gennaio 1996 n. 398, Brusca ed altri, Rv. 205029. In altro punto del provvedimento in esame si legge come il Tribunale, nell’ambito delle valutazioni effettuate in contraddittorio delle parti nell’udienza camerale, abbia disposto una perizia d’ufficio in materia tecnico – agraria – fiscale per una effettiva ricostruzione della consistenza patrimoniale. Si noti come nell’ambito del procedimento di prevenzione trova cittadinanza un mezzo di prova come l’indagine peritale che consente al giudice di ottenere la conoscenza di fatti rilevanti rispetto al tema probandum che però presuppongono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche. Inoltre, in ossequio al principio stabilito dall’articolo 220 comma 2 c.p.p. che non ammette perizie al fine di stabilire l’abitualità o professionalità nel reato, l’indagine peritale non viene utilizzata al fine di valutare, come risulta ovvio, la pericolosità sociale del prevenuto. Alla luce di tali considerazioni è difficile, dunque, sostenere che il procedimento di prevenzione patrimoniale si fondi semplicisticamente su sospetti intesi addirittura come risultato di mero arbitrio del giudice tale da ritenere fondato sul nulla il relativo provvedimento giudiziario. 130 Il ragionamento sin’ora condotto permette di affrontare altre due questioni che compongono il quadro generale della materia in esame. Va, infatti, osservato che la sufficienza indiziaria di cui si parla è riferita certamente al provvedimento di sequestro (che è un provvedimento provvisorio e antecedente quello della confisca definitiva). La prima questione, infatti, concerne la confisca, per la quale la legge richiede una diversa considerazione probatoria. La differenza emergente, infatti, dal confronto delle norme contenute negli artt. 20 (sequestro) e 24 (confisca) del Codice Antimafia, permettono di comprendere la differenza tra sufficienza indiziaria e impossibilità di giustificare la lecita provenienza dei beni oggetto della misura preventiva patrimoniale. Letteralmente, dunque, l’art. 20 d.lgs. 159/2011 al primo comma stabilisce che “il tribunale anche d’ufficio ordina con decreto motivato il sequestro dei beni […] quando, sulla base di sufficienti indizi, si ha motivo di ritenere che gli stessi siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego”. L’art. 24, invece, stabilisce che “il tribunale dispone la confisca dei beni sequestrati di cui la persona […] non possa giustificare la legittima provenienza e di cui […] risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica, nonché dei beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego”. La principale differenza che emerge dal raffronto delle due norme è l’impiego, nella seconda, del termine “risultino”. Dalla sufficienza indiziaria ex art. 20 del Cod. Ant. si passa ad una prova quantomeno indiziaria ex art. 192 c.p.p. Ecco, dunque, svilupparsi la progressione del grado di certezza nel dettato normativo e che consente di ritenere maggiormente giustificato un provvedimento giudiziario come quello della confisca definitiva (salvo le ipotesi, previste dalla legge stessa, di revoca della medesima) dei patrimoni oggetto del procedimento di prevenzione patrimoniale. Confisca definitiva che, ovviamente, non può che fondarsi su elementi omogenei rispetto a quelli che hanno giustificato il sequestro di prevenzione, attesa anche la 131 natura strumentale di quest’ultimo, ma che richiedono un maggior grado di fondatezza probatoria come la stessa giurisprudenza di cassazione ha indirettamente ribadito, in varie decisioni, sottolineando la necessità di una cosiddetta “doppia prova”.242 Ovviamente non tutti i beni sono intestati ai soggetti passivi del procedimento di prevenzione. Il problema delle cosiddette “intestazioni fittizie” incide notevolmente sul profilo probatorio or ora esaminato. Parte della dottrina infatti ha sottolineato che “la dimostrazione della legittimità della provenienza dei beni ai fini del sequestro di prevenzione è diversa a seconda che si tratti di beni appartenenti al proposto, ovvero di beni appartenenti a terzi”.243 Poiché, se nel primo caso è sufficiente che si indaghi sulla fonte di provenienza della res o del reddito colpito, “nella seconda ipotesi, invece, a tale prova sarebbe preliminare la dimostrazione che detto bene o reddito o patrimonio sia nella disponibilità dell’inquisito. Solo ove tale prova sia raggiunta, si può passare, poi, all’accertamento della fonte del reddito”.244 In verità non può negarsi il valore sintomatico di una disponibilità indiretta di beni che sia formalmente intestato ad un terzo, circa la derivazione illecita degli stessi, sebbene l’esigenza di individuare i due momenti come distinti risulta necessario al fine di garantire un coerente e legittimo accertamento probatorio. 242 Il riferimento è a P.V. MOLINARI – U. PAPADIA, Le misure di prevenzione cit. in cui sono riportati alcuni orientamenti giurisprudenziali consolidati. In più di una decisione, infatti, la Corte di Cassazione ha prima parlato di “doppia prova” con riferimento a requisiti personali dell’appartenenza del prevenuto ad un’associazione mafiosa e a requisiti patrimoniali che consentano al giudice di ritenere allo stesso modo che i beni siano di provenienza illecita ovvero il frutto dell’attività illecita ovvero ancora il reimpiego dei proventi derivanti da atti vità illecita. Per meglio comprendere questo passaggio è significativo quanto si dice in una successiva sentenza in virtù della quale “ solo il sequestro può essere legittimato da un giudizio di ragionevole probabilità circa la sussistenza degli indizi e relativamente all’appartenenza del soggetto e in ordine alla provenienza dei beni, mentre la confisca esige che tale duplice accertamento sia fornito di vera e propria prova in ordine agli stessi elementi ( Cass. Sez. I, 9 maggio 1988 n. 638, Raffa) pp. 514 ss. 243 L. FILIPPI, Il procedimento di prevenzione patrimoniale cit., p. 229 244 P.V. MOLINARI – U. PAPADIA, Le misure di prevenzione cit., p. 511 132 6. Il falso problema dell’inversione dell’onere probatorio La seconda questione riguarda il problema dell’inversione dell’onere della prova nel procedimento di prevenzione patrimoniale. Su tale profilo la Cassazione si è espressa in modo inequivocabile quando ha affermato che “non si deve parlare di inversione dell’onere della prova posto che la legge consente di ritenere la provenienza illegittima dei beni da segni di inequivocabile sintomaticità”.245 Non concorda parte della dottrina che denuncia un’inaccettabile inversione dell’onus probandi, in virtù del quale spetterebbe al reo dimostrare la legittima provenienza dei beni colpiti dalla misura di prevenzione patrimoniale. Sicché al pubblico ministero “è ora sufficiente, per ottenere il sequestro, dimostrare l’esistenza di indizi di reità di uno dei reati tassativamente indicati (ad es. appartenenza all’associazione mafiosa o equiparata, anche acquisiti in indagini preliminari) e fornire la prova da cui «risulti» la disponibilità del bene e la sua sproporzione oppure i «sufficienti indizi» che il bene stesso sia frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego”.246 Tale posizione, descritta dal Filippi come «inaudita inversione dell’onere della prova» sembra essere senz’altro smentita dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione. Proprio con riferimento alla confisca, la giurisprudenza della S.C. aveva sottolineato, in una prima pronuncia, che l'art. 2-ter, terzo comma, della legge 31 maggio 1965 n. 575 (attualmente art. 24 del d.lgs. 159/2011) non prevede un'inversione dell'onere della prova in tema di legittima provenienza dei beni sequestrati al soggetto indiziato di appartenere a sodalizio mafioso, ma va letto in coordinazione con quella di cui al secondo comma; “sicché, pur essendo stata data all'interessato la facoltà di contrapporre agli indizi raccolti dal giudice elementi che ne contrastino la portata ed elidano l'efficacia probatoria degli elementi indizianti offerti dall'accusa,tuttavia 245 246 Cass. Sez V, 28 novembre 1995, Bordella, n. 373 L. FILIPPI - M.F. CORTESI, Il Codice cit, p. 157 133 rimane intatto l'obbligo del giudice di individuare ed evidenziare gli elementi da cui risulta che determinati beni formalmente intestati a terze persone, siano in realtà nella disponibilità del proposto o che il loro valore sia sproporzionato al reddito dichiarato o all'attività economica svolta, e raccogliere "sufficienti" indizi che i predetti beni siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. Ne consegue che, ai fini della confisca, spetta al giudice far “risultare” (ovvero dimostrare) che il proposto ha la piena disponibilità dei beni apparentemente appartenenti a persone diverse o che il loro valore è sproporzionato rispetto al reddito dichiarato, mentre, ai medesimi fini,bastano "indizi sufficienti" che tali beni siano il frutto delle attività illecite da lui esercitate”247. In altra sentenza la Corte di Cassazione ripercorrendo, su tale tema, un’ampia giurisprudenza di legittimità stratificatasi nel tempo,248 sottolinea come non solo non si produca nessuna lesione della presunzione di colpevolezza, ma a ben vedere, “l’onere di provare la provenienza illecita dei beni incombe, in primo luogo, sull’organo procedente, salvo l’onere di allegazione imposto al prevenuto per sminuire od elidere la situazione probatoria a suo carico”.249 In una successiva sentenza, infatti, decidendo su uno dei punti del ricorso che era stato proposto in Cassazione e che riguardava la “violazione di legge in relazione alla ritenuta illiceità della provenienza del patrimonio sulla sola base della sproporzione fra reddito dichiarato e patrimonio ed omessa motivazione sul punto, trasformando una presunzione semplice in un’inversione dell’onere della prova”, la Corte Suprema di Cassazione ha addirittura ritenuto, il motivo di ricorso, manifestamente infondato. La Cassazione, infatti, ha detto che “non è affatto vero che il Tribunale e la Corte territoriale abbiano introdotto una presunzione assoluta di illecita provenienza. Semplicemente i giudici hanno ritenuto non provata la provenienza legittima dei beni, con valutazione di merito non censurabile in questa sede”. La Cassazione dice anche, in merito alla omessa motivazione sul punto, che quest’ultima non è necessaria in quanto in tema di misure di prevenzione 247 cfr. Cass. 26 novembre 1998, n. 5897 cfr. Cass. 12 gennaio 1985, Teresi; Cass., 4 febbraio 1985, Pipitone; Cass. 26 maggio 1987, Priolo; sez. V, 28 novembre 1996, Brodella; Sez. V, 17 febbraio 1998, Petruzzella 249 Cass. Sez. II Pen., 23 giugno 2004, dep. 27 agosto 2004, n. 35628 248 134 patrimoniali, poiché le disposizioni sulla confisca mirano a sottrarre alla disponibilità dell’indiziato di appartenenza a sodalizi di tipo mafioso tutti i beni che siano frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego, senza distinguere se tali attività siano o meno di tipo mafioso, non assume rilievo, nel provvedimento ablativo, l’assenza di motivazione in ordine al nesso causale fra presunta condotta mafiosa ed illecito profitto, essendo sufficiente la dimostrazione della illecita provenienza dei beni confiscati, qualunque essa sia”.250 Dimostrazione, dunque, che non può essere ritenuta inversione dell’onere della prova in quanto spetta al pubblico ministero dimostrare l’illecita provenienza del bene e non certo attendere la mancata dimostrazione della legittima provenienza dello stesso da parte della difesa del proposto. In altre due recenti pronunce la Cassazione conferma tale orientamento. Molto più esplicitamente la S.C. conferma che in tema di misure di prevenzione patrimoniale “non si verifica alcuna inversione dell’onere della prova, perché la legge ricollega a fatti sintomatici la presunzione di illecita provenienza dei beni e non alla mancata allegazione della loro lecita provenienza, la cui dimostrazione è idonea a superare quella presunzione”.251 In ulteriore sentenza, poi, la Cassazione ha ribadito come “l'accertamento dell'illecita provenienza va compiuto in relazione a ciascun bene suscettibile della misura patrimoniale e non all'intero patrimonio (Sez. I, 9 maggio 1988, n. 1365, Raffa). Infatti, i giudici di merito hanno esaminato in ordine cronologico i singoli incrementi pervenuti al patrimonio dei ricorrenti”252 La serie di sentenze del giudice delle leggi dimostra, dunque, l’infondatezza delle critiche circa l’illegittimità del procedimento di prevenzione patrimoniale per ciò che concerne il procedimento di formazione della prova. A dire il vero non di inversione dell’onere della prova ma piuttosto di un onere di giustificare la legittima provenienza dei beni sequestrati. 250 Cass. Sez. II Pen., 23 gennaio 2007, dep. 7 febbraio 2007, n. 5248 Cass. Sez. V Pen., 12 dicembre 2007, dep. 7 gennaio 2008, n. 1859 252 Cass. Sez. VI Pen., 17 settembre 2008, dep. 30 settembre 2008, n. 37166 251 135 Atteso che ai fini della confisca è richiesta, “in ogni caso una prova diretta o indiretta, caratterizzata dagli ordinari livelli di certezza”, non troverebbe alcun diritto di cittadinanza, la denunciata inversione dell’onere probatorio. D’altro canto la norma in oggetto fa riferimento alla impossibilità della persona, nei cui confronti è instaurato il procedimento, di giustificare la legittima provenienza dei beni per i quali il pubblico ministero ha già raggiunto una prova certa circa la loro illegittima provenienza. L’onere di allegazione, dunque, che grava in capo al proposto non può essere interpretato come inversione dell’onere della prova, bensì come, appunto, onere di allegazione finalizzato ad elidere o sminuire il teorema accusatorio, fondato comunque su prove ed elementi certi che attestano la illiceità delle fonti di determinati patrimoni. Autorevole dottrina ha poi sostenuto che “l’onere probatorio dell’interessato non si discosta molto dalle regole di una normale dialettica processuale, essendo perfettamente naturale che la difesa debba sforzarsi di sminuire la consistenza degli indizi allegati dall’accusa”.253 In verità, dall’esame della giurisprudenza di merito, si evidenzia inoltre lo sforzo che lo stesso organo procedente, in questo caso il Tribunale, compie per ritenere dimostrata la lecita provenienza dei beni sottoposti alla misura di prevenzione del sequestro antimafia. In analogia a quanto accade nell’ambito del procedimento penale, in cui il pubblico ministero è chiamato anche a rintracciare gli elementi a discarico dell’indagato sicché soltanto nell’ipotesi in cui, ai sensi dell’art. 405 c.p.p. non deve richiedere l’archiviazione, esercita l’azione penale, formulando l’imputazione, anche nell’ambito del procedimento di prevenzione il giudice è chiamato a revocare la 253 G. Fiandaca, Misure di prevenzione (profili sostanziali) in Dig. Disc. Pen., p. 123 in A. BALSAMO – C. MALTESE, Il Codice Antimafia, cit. p. 43 Sullo stesso tema concorda anche altra dottrina ritenendo che l’allora comma terzo dell’art. 2ter della legge 575/1965 (oggi art. 24 del d.lgs. 159/2011) preveda che è compito esclusivo del giudice effettuare attività di indagine al fine di accertare l’origine dei beni (P.Comucci). Questa, dunque, è ritenuta la prevalente interpretazione seguita anche in giurisprudenza tanto da essere ormai considerata come ius receptum, essendosi costantemente riaffermato che il giudice non può motivare allegando la mancata dimostrazione della legittima provenienza dei beni da parte dell’interessato, in quanto la legge non prevede in proposito un’inversione dell’onere della prova. (cfr. P.V. Molinari – U. Papadia, Le misure di prevenzione nella legge fondamentale, nelle leggi antimafia e nella legge antiviolenza nelle manifestazioni sportive, GIUFFRÈ, 2002, pp. 525 ss.) 136 misura preventiva del sequestro quando emerga, dalle risultanze investigative e dalla documentazione prodotta dalla difesa, la lecita provenienza del bene oggetto del procedimento stesso.254 In ogni caso nell’ambito dei provvedimenti di merito il Collegio specifica sempre che “la dottrina e la giurisprudenza, pienamente richiamabili ancor oggi in considerazione della mancata modifica dell’art. 2ter comma 2, hanno chiarito che non ricorre una ipotesi di inversione dell’onere della prova (che, del resto, sarebbe costituzionalmente censurabile), in quanto il giudice sulla base degli elementi acquisiti nel corso del procedimento deve trarre il convincimento, solo indiziario (per espresso dettato normativo), circa la provenienza illecita dei beni, sicché non sarebbe sufficiente richiamare la eventuale mancata dimostrazione, da parte dell’interessato, della legittima provenienza del bene. D’altra parte, accertata l’esistenza di indizi in ordine alla illecita provenienza, incombe a carico del soggetto interessato un onere di allegazione finalizzato a contrastare gli indizi acquisiti; onere che deve essere assolto in modo serio, tale da consentire al giudice di svolgere gli opportuni accertamenti in ordine alla esistenza degli elementi indicati. L’esito del giudizio, pertanto, è subordinato alle allegazioni fornite ed alla loro capacità di elidere la portata indiziaria della provenienza illecita dei beni”.255 254 Di particolare interesse il provvedimento di revoca del sequestro antimafia pronunciato dal Tribunale di Napoli in riferimento ad un certo numero di quote societarie. Nel provvedimento in esame, infatti, si evidenzia proprio la funzione di quell’onere di allegazione “gravante” in capo al proposto e che di fatto non rappresenta inversione dell’onere della prova ma, appunto, onere di allegazione che è in grado di elidere l’impianto accusatorio dell’accusa, tanto da provocare la revoca del provvedimento. Il Tribunale di Napoli, Sezione Misure di Prevenzione, analizza i fatti allegati dal proposto in relazione alla società “Eventi Italia S.r.l.” Dai documenti allegati risultava al Tribunale che in seguito ad una serie di operazioni lecite come la vendita di immobili pervenuti per successione era necessario concludere che i soldi per la costituzione della società e per la ricapitalizzazione erano stati forniti da …omissis… non ritenuto indiziato di appartenere ad associazione mafiosa. Il giudice dunque conclude scrivendo che “tali considerazioni, ed in mancanza di qualsiasi elemento di segno contrario, fanno ritenere venuta meno l’ipotesi sulla quale trovava fondamento il sequestro delle quote della società”. (Tribunale di Napoli, Sezione Misure di Prevenzione, cc. 6 marzo 2006, dep. 9 maggio 2006, Reg. Gen. M.P. n. 242/03, Reg. Dec. n. 106/2006 (A), Pres. Est. Cozzi) 255 Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 6 dicembre 2011, dep. 3 febbraio 2012, Reg. Gen. M.P. nn. 388/2000+145/09+24/11, Reg. Dec. n. 50/2012, Pres. Est. Del Balzo 137 Su tale argomento si espressa anche la Corte Costituzionale con una serie di sentenze che hanno cristallizzato un principio, in tema di onere della prova, dal quale difficilmente è possibile prescindere. La Consulta, infatti, si è più volte espressa nell’ambito dei giudizi di legittimità costituzionale sollevati nei confronti delle norme contenute negli artt. 707 e 708 c.p., rispettivamente “possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli” e “possesso ingiustificato di valori”. I giudici a quibus dell’epoca, infatti, con una serie di ordinanze, avevano sostenuto la illegittimità costituzionale di tali norme proprio in relazione ad un’inaccettabile inversione dell’onere della prova che avrebbe reso, appunto, gli art. 707 e 708 del c.p. in contrasto con l’art. 27 comma 2 della Costituzione. I giudici della Consulta si espressero affermando che “é da escludere che le norme denunziate, nel richiedere al prevenuto la giustificazione dell'attuale destinazione delle chiavi oppure degli strumenti atti ad aprire o forzare serrature e, rispettivamente, della provenienza del denaro o degli oggetti non confacenti al suo stato, esigano la prova della legittimità della destinazione e della provenienza, limitandosi, invece, a pretenderne una attendibile e circostanziata spiegazione, da valutarsi in concreto nelle singole fattispecie, secondo i principi della libertà delle prove e del libero convincimento, i quali, ovviamente, si atteggeranno in modo diverso a seconda che si tratti di strumenti di uso comune inerenti all'attività professionale del prevenuto oppure di ordigni di utilizzazione non ordinaria, di somme ingenti o di cose pregiate e rare oppure di somme modeste o di cose correnti”.256 Tale giurisprudenza costituzionale, spiega la Corte di Cassazione257, ha enunciato un autentico principio regolativo della distribuzione del carico probatorio sui soggetti 256 Corte Cost. 2 febbraio 1971, n. 14 (cfr. anche Corte Cost. 19 luglio 1968, n. 110 e Corte Cost. 19 novembre 1992, n. 464) 257 Cass. Sez. II Pen., 23 giugno 2004, dep. 27 agosto 2004, n. 35628 che afferma testualmente: “Orbene, la Corte, “nell' escludere che gli articoli 707 e 708 contrastassero con l'articolo 27, comma 2, della Costituzione in rapporto, appunto, alla supposta inversione dell' onere della prova che, ad avviso dei remittenti, quelle norme comportavano … ha posto in evidenza che ... le disposizioni impugnate non esigevano affatto la prova della legittimità della destinazione e della provenienza limitandosi, invece, a pretendere un'attendibile e circostanziata spiegazione, da valutarsi in concreto nelle singole fattispecie, secondo i principi di libertà delle prove e del libero convincimento (v. sentenza numero 14 del 1971 e, più di recente, numero 464 del 1992)”. 138 del procedimento attesa, ovviamente, la definizione di criteri oggettivi di valutazione dei requisiti richiesti dalla legge, per l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniale. Appare, allora, agevole concludere che nell’ambito del procedimento di prevenzione patrimoniale, nessuna inversione dell’onere della prova si verifica nel corso dell’udienza camerale che è pur sempre il luogo, con i dovuti distinguo rispetto al processo penale, di formazione della prova secondo i principi costituzionali del cosiddetto giusto processo. 139 CAPITOLO IV L’UDIENZA CAMERALE NEL PROCEDIMENTO DI PRIMO GRADO E NEI GRADI DI IMPUGNAZIONE 1. La competenza territoriale del giudice In tema di competenza l’art. 5 comma 4 del d.lgs. 159/2011 stabilisce che la proposta di cui al comma 1 dello stesso articolo è presentata al presidente del Tribunale del capoluogo della provincia in cui la persona dimora258. Va subito notato che la disposizione, ora richiamata, si riferisce, in modo esplicito, al procedimento per l’applicazione di misure di prevenzione personali, quali la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e dell’obbligo di soggiorno ma in assenza di altre previsioni specifiche è da ritenere che tale norma abbia portata di carattere generale. La norma in esame, inoltre, non prevede alcuna preclusione temporale e per questo motivo si ritiene che l’incompetenza territoriale sia rilevabile in ogni stato e grado del procedimento avendo natura funzionale e inderogabile. Il problema della competenza territoriale è stata affrontata specificamente in un provvedimento, in particolare, della Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione del Tribunale di Napoli. 258 Sul concetto di dimora si espressa la Suprema Corte di Cassazione richiamata nei provvedimenti di merito più avanti citati. In particolare, su tale materia si sono espressi il Tribunale di Napoli e quello di Palermo sottolineando, ai fini dell’identificazione del concetto di dimora, la irrilevanza della residenza anagrafica dovendo fare riferimento, secondo la giurisprudenza di legittimità, allo spazio geografico ambientale in cui il soggetto a manifestato i suoi comportamenti socialmente pericolosi, anche se in tal luogo, diverso da quello di dimora abituale, il soggetto si è intrattenuto per brevi e saltuari soggiorni (Cass., sez. VI, 15.4. 2004, n. 23090) In particolare, avendo riguardo alle condotte che si inscrivono nell’ambito della cosiddetta pericolosità qualificata sia la dottrina che la giurisprudenza. La S.C., infatti, ha stabilito che nel caso di vaste associazioni criminose, con numero elevato di componenti, facenti capo ad un unico centro organizzativo e decisionale, la competenza territoriale per l'applicazione delle misure di prevenzione spetta al tribunale nel cui circondario trovasi tale centro e ove esplica in modo prevalente la sua attività illecita l'associazione, rimanendo irrilevanti eventuali ramificazioni e derivazioni, in quanto la pericolosità del soggetto ha stretto e diretto riferimento all'associazione, nel cui ambito organizzativo è inserito e al cui vertice decisionale è collegata in via diretta o in via mediata, l'attività illegale esplicata. (Cass. sent. n. 559/82) 140 Il Tribunale, chiamato ad esprimersi specificamente sulla competenza dell’organo giudicante, ha stabilito che “la natura funzionale della incompetenza territoriale del Tribunale deve essere mutuata dalla uguale natura - funzionale inderogabile - in riferimento all'"organo proponente"; sicché l'inammissibilità della proposta per carenza di legittimazione è rilevabile in ogni stato e grado del procedimento senza preclusioni di sorta. In tal senso si è espressa la più recente giurisprudenza di legittimità ribaltando un diverso orientamento che individuava quale termine di sbarramento temporale la conclusione della discussione di primo grado”.259 A questa conclusione, il Tribunale, giunge dopo aver analizzato la connessione funzionale tra la competenza degli organi titolari della proposta e quella dell’organo preposto al giudizio, valutando gli effetti di una proposta avanzata da organo incompetente al giudice competente ovvero una proposta avanzata da organo competente al giudice incompetente. Nella prima ipotesi, il giudice di merito, ha specificato, da un punto di vista generale, che la proposta avanzata da organo territorialmente incompetente comporta, anche per espressa posizione della giurisprudenza di legittimità stratificatasi nel tempo su tale materia, l’inammissibilità della proposta senza possibilità di disporre la trasmissione degli atti al Tribunale competente. La conseguenza ha riflessi pratici molto importanti specialmente in considerazione della competenza funzionale del Procuratore della Repubblica in virtù della quale, se la proposta è stata avanzata da Procuratore incompetente (sia esso distrettuale o circondariale) al Tribunale competente (per essere quello, ad esempio, della provincia ove dimora il proposto) quest’ultimo non potrebbe che negare la sua competenza dichiarando l’inammissibilità della proposta.260 Nell’ipotesi in cui la proposta fosse stata avanzata da Procuratore incompetente al Tribunale incompetente, non potrebbe trasmettere gli atti al Tribunale ritenuto competente in quanto quest’ultimo non avrebbe il potere e la legittimazione di decidere su proposta avanzata dall’organo incompetente. 259 Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 22 dicembre 2010, dep. 8 febbraio 2011, Reg. Gen. M.P. n. 151/02, Reg. Dec. n. 27/11/A, Pres. Est. Menditto 260 ibidem 141 Tale ultimo profilo, infatti, sottolinea il carattere non solo territoriale ma anche funzionale della competenza dell’organo proponente quando quest’ultimo è rappresentato dal Procuratore della Repubblica dal quale, per altro, anche dal punto di vista statistico, proviene il maggior numero di richieste di applicazione di misure di prevenzione sia personali che patrimoniali. Anche la Suprema Corte di Cassazione si è espressa sul carattere funzionale della competenza del Procuratore della Repubblica in una pronuncia a Sezioni Unite nella quale ha affermato che la competenza, appunto, “ha natura non solo territoriale ma anche funzionale, concernendo l'attribuzione in via esclusiva di un potere di promovimento del procedimento di prevenzione e che, di conseguenza, è inderogabile e non può formare oggetto, in quanto tale, di potere di sostituzione, né di delegazione, per cui l'eventuale incompetenza dell'organo esclude ogni possibilità di ratifica, convalida, conferma o conversione” e che ne deriva “una ipotesi di nullità assoluta e rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del procedimento, riconducibile nella previsione dell'art. 185, comma 1, nr. 2, del previgente c.p.p. e dell'art. 178, comma 1, lett. b), di quello attuale”261 Diversa è l’ipotesi di una proposta avanzata da organo competente al Tribunale incompetente. Continuando, infatti, l’analisi del provvedimento di merito del collegio napoletano, i giudici scrivono che in questo caso, qualora la proposta sia avanzata da organo proponente competente al Tribunale incompetente, quest’ultimo deve restituire gli atti all’organo proponente perché effettui maggiori valutazioni richiamando l’applicazione analogica dell’art. 23 c.p.p. come modificato a seguito della sentenza della Corte Costituzionale del 15 marzo 1996, n. 70. 261 Cfr., testualmente, Cass., Sez. Un., 20.6.1990, Corica, recentemente sentenze nn. 49994/09 e19067/10. 142 2. Il decreto di fissazione dell’udienza e l’invito a comparire Il procedimento applicativo è disciplinato dalla norma contenuta nell’art. 23 del d.lgs. 159/2011, che espressamente rinvia alle disposizioni dettate dal titolo I, capo II, sezione I del Codice Antimafia, in particolare l’art. 7 del d.lgs. 159/2011, oltre che dalle norme contenuto negli artt. 637, 666 e 127 c.p.p. in quanto applicabili. L’art. 7 richiamato, rubricato “procedimento applicativo”, nel fissare i principi applicabili in materia di procedimento camerale di prevenzione patrimoniale, stabilisce i caratteri dell’invito a comparire, atto contenuto in un decreto presidenziale che fissa l’udienza camerale di trattazione. Tale norma dispone, infatti, che il Tribunale con decreto motivato, entro trenta giorni dalla proposta di applicazione della misura di prevenzione (anche personale) avanzata dagli organi legittimati, provvede alla fissazione dell’udienza e dunque alla citazione del proposto, mediante un invito a comparire. Un primo problema riguarda la funzione dell’atto di citazione. Se si tratti, cioè, di una mera vocatio in iudicium ovvero se si tratti di mezzo di contestazione delle accuse promosse dall’organo che ha avanzato la proposta di applicazione della misura preventiva. La giurisprudenza costituzionale, richiamabile in materia, aveva infatti sancito la illegittimità costituzionale delle disposizioni del codice di procedura penale relative al procedimento di sorveglianza nella parte in cui “comportano che i provvedimento del giudice di sorveglianza siano adottati senza la tutela del diritto di difesa nei sensi di cui in motivazione”.262 Ora, la censura costituzionale, dichiarata dalla Consulta per norme che si ritengono applicabili nell’ambito del procedimento di prevenzione patrimoniale, ha posto la dottrina su una posizione ben precisa, sostenendo che l’atto di citazione di cui all’art. 7 del d.lgs. 159/2011 sia anche il veicolo per le contestazioni delle accuse mosse al proposto. Emesso il decreto di fissazione dell’udienza, e dunque l’invito a comparire, questo deve indicare, a pena di nullità, “il provvedimento di cui è stata chiesta l’applicazione e gli elementi di fatto sui quali verterà il giudizio; in base a tale 262 Corte costituzionale, 29 maggio 1968, n. 53 143 principio è stata ritenuta non soddisfatta l’esigenza di contestazione con il semplice richiamo all’appartenenza ad un’associazione di tipo mafioso, privo dell’indicazione degli elementi da cui è stata desunta”.263 È dunque necessario che l’avviso contenga la forma di pericolosità attribuita al soggetto, gli elementi di fatto da cui essa si evince ed il tipo della misura richiesta. Dall’inosservanza di queste prescrizione deriva una “nullità di ordine generale, assoluta e insanabile, e rilevabile di ufficio in ogni stato e grado del procedimento.264 Strettamente connesso a tale tema è quello del principio di corrispondenza tra contestazione e provvedimento conclusivo che chiude il procedimento di prevenzione. A tal proposito va ribadito, infatti, che l’avviso di fissazione dell’udienza, disciplinato, come detto, dal combinato disposto degli artt. 678, 666 e 127 del codice di procedura penale, deve contenere, a pena di nullità, l’indicazione dell’oggetto del procedimento, al fine di garantire il rispetto del principio del contraddittorio. Ne consegue inoltre che l’avviso di udienza “deve contenere l’indicazione non solo della misura di cui si chiede l’applicazione, ma anche il tipo di pericolosità posta a fondamento della richiesta, cosi che una volta esplicitata nella contestazione la natura di pericolosità ravvisata, la stessa non può subire variazioni nel corso del procedimento”.265 Se cosi stanno le cose, bisogna affermare che nell’ambito del procedimento di prevenzione sia vigente il principio del divieto della “reformatio in peius” disciplinato dall’art. 521 c.p.p. che stabilisce la possibilità per il giudice di modificare la definizione giuridica del fatto, rispetto a quella contenuta nell’imputazione, purché il reato non ecceda la propria competenza o sia di competenza del Tribunale in composizione collegiale anziché monocratica. Analogamente accade nell’ambito del procedimento di prevenzione per il quale “la giurisprudenza ha sempre affermato il principio della necessaria correlazione tra la contestazione iniziale e la misura applicata all’esito del procedimento”266 263 Cass. 24 ottobre 1988, RFI, 1988, 1984, 62 in: D. PESCE (a cura di), Rassegna di giurisprudenza sulle misure di prevenzione, CEDAM, 1995, p. 74 264 F. FIORENTIN (a cura di), Le misure cit. p. 369 265 Ivi, p. 374 266 Ivi, p. 401 144 In coerenza, dunque, a tale impostazione risulta chiaro che una volta indicata, nell’avviso dell’udienza, una misura, questa non può essere mutata in peius. La S.C. ha però chiarito che non rientra in tali argomentazioni l’ipotesi di una reformatio pro reo quando il proposto sia stato in grado di difendersi, sulla base di elementi oggettivi, la cui valutazione obbliga il giudice a qualificare come comune la pericolosità qualificata ipotizzata in origine.267 3. L’istruzione probatoria L’articolato meccanismo di rinvii operato dal Codice delle leggi antimafia lega questa fase del procedimento di prevenzione alla norma contenuta nell’art. 666 c.p.p.268 La norma predetta, inserita nell’ambito del Libro X, titolo III, capo I del c.p.p. relativamente all’attribuzioni degli organi giurisdizionali, disciplina dettagliatamente il procedimento di esecuzione al quale si rinvia per quanto concerne, oltre le modalità di svolgimento dell’udienza e i termini di avviso, partecipazione del proposto etc., il regime probatorio. Tant’è vero che l’art. 666, al comma 5 del c.p.p. stabilisce che “il giudice può chiedere alle autorità competenti tutti i documenti e le informazioni di cui abbia bisogno; se occorre assumere prove procede in udienza nel rispetto del contraddittorio (att. 185)”. L’applicabilità di tale norma, al procedimento di prevenzione, è stata confermata anche dalla Corte di Cassazione, la quale ha stabilito che “il giudice del procedimento di prevenzione ha il potere di chiedere alle autorità competenti, i documenti e le informazioni necessarie, con l’unico limite del rispetto del contraddittorio, e cioè sulla base del rinvio mediato alle disposizioni codicistiche sul procedimento di esecuzione operato dall’art. 4, comma 6, l. n. 1423/1956 (oggi art. 7 del Codice delle leggi antimafia N.d.A.)”.269 267 Cass. Sez. I, sent. 28 giugno 2006 n. 25701, Arena È l’art. 23 (procedimento applicativo delle misure di prevenzione patrimoniale) del d.lgs. 159/2011 che rinvia, in quanto compatibili, alle norme del titolo I, capo II, sezione I. Il riferimento è all’art. 7 comma 9 (procedimento applicativo delle misure di prevenzione personale) del d.lgs. 159 cit., il quale opera il rinvio al procedimento di esecuzione disciplinato ai sensi dell’art. 666 c.p.p. 269 Cass., Sez. I, 15 ottobre 2009, C.G., in CED Cass., n. 245374 268 145 Tale norma, infatti, permette di acquisire informazioni e prove, anche d’ufficio, in assenza del giudizio di ammissibilità previsto ai sensi dell’art. 190 c.p.p. Quest’ultimo, infatti, introduce il diritto alla prova che è soggetto ad un esame di ammissione da parte del giudice, il quale con decreto stabilisce le prove che sono ammesse al giudizio, con esclusione di quelle illegittimamente acquisite e quelle che sono manifestamente superflue o irrilevanti. Se ne ricava che le regole da osservare, in tema di istruzione probatoria, non sono quelle proprie della fase dibattimentale del processo penale. Anche dal punto di vista del materiale probatorio, questo risulta essere più esteso che nella fase dibattimentale del processo penale. “Si tratta di una regolamentazione coerente con le esigenze che si ricollegano alle peculiari caratteristiche del contesto socio-economico e della realtà associativa criminale su cui viene ad incidere l’intervento ablativo”.270 Le misure di prevenzione patrimoniale, infatti, rappresentano strumenti giuridici predisposti dall’ordinamento per contrastare una realtà economico-criminale caratterizzata da un organizzazione della ricchezza ad alta vocazione mimetica.271 270 A. BALSAMO – C. MALTESE, Il Codice Antimafia, GIUFFRÈ, 2011, p. 39 Si fa riferimento alle intestazioni fittizie di beni al solo scopo di eludere la normativa antimafia in tema di misure di prevenzione, a complesse forme di cointeressanze, a complessi schemi societari ovvero ad intestazioni fittizie di quote societarie come si evince dall’esame dei provvedimenti di merito nei quali la Sezione misure di prevenzione del Tribunale è impegnata a ricercare il vero dominus dell’attività imprenditoriale sotto indagine. Significativa la vicenda della società “FA.MA. s.n.c.” con sede in S. Gennaro Vesuviano (attualmente cessata). Nel relativo provvedimento la Sez. misure di prevenzione del Tribunale di Napoli ricostruisce l’iter attraverso il quale le quote vengono cedute ai parenti del preposto. In tale meccanismo di cessione delle quote societarie, unitamente alla valutazione delle condotte poste in essere dal preposto, deve essere ravvisato il meccanismo di mimetizzazione dell’attività imprenditoriale inquinata dalla partecipazione camorristica. Di fatto il Tribunale scrive che vi sono indizi plurimi e concordanti per ritenere che il proposto non solo aveva la gestione della società, ma di fatto avesse la disponibilità totale, uti dominus, delle quote e dei beni destinati all’esercizio dell’attività. (Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 23 giugno 2003, Reg. Gen. M.P. n. 136/99 + 44/05 + 105/05, Reg. decreti 184/05 “A” Pres. Cozzi, Rel. La Posta). 271 146 4. Gli speciali poteri d’indagine del Tribunale Sebbene in una fase successiva alle indagini patrimoniali deve aprirsi una parentesi in quanto anche il Tribunale ha poteri d’indagine nel corso dell’udienza camerale. La norma del articolo 19, al comma 5, prevede, infatti, tra gli organi inquirenti, lo stesso Tribunale il quale può procedere ad ulteriori indagini, ex officio, durante l’iter del procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniale. Tali poteri, inoltre, è necessario che vengano coordinati con le disposizioni contenute nell’art. 666 c.p.p. che risultano essere applicabili in quanto richiamate dall’art. 7 del Codice antimafia poiché compatibili con le disposizioni dettate in tema di procedimento di prevenzione. Per altro deve evidenziarsi che la norma contenuta nell’articolo 666 c.p.p. deve coordinarsi, a sua volta, con quella prevista dall’art. 185 disp. att. c.p.p. Tale ultima norma dispone che il giudice, nell’assumere le prove (nell’ambito del procedimento di esecuzione che viene richiamato dalle norme del Codice antimafia) procede senza particolari formalità anche per quanto concerne la citazione e l’esame dei testimoni e l’espletamento della perizia. La Cassazione, inoltre, ha confermato che, nell’ambito della fase istruttoria, nessuna preclusione può derivare, ai poteri d’indagine del Tribunale, dal respingimento, da parte del Tribunale stesso, di precedente richiesta di applicazione di misura preventiva avanzata dal pubblico ministero o dal questore. La Suprema Corte, cioè, ha ritenuto la legittimità del sequestro dei beni disposto d’ufficio dal Tribunale a seguito di ulteriori acquisizioni investigative, anch’esse disposte d’ufficio, dopo che una precedente richiesta di applicazione avanzata dal pubblico ministero era stata respinta dal Tribunale. “In altri termini – prosegue ancora la Suprema Corte – una volta avviata l'azione di prevenzione da parte del procuratore della Repubblica o del questore competente, il tribunale è libero di disporre d'ufficio le indagini più opportune e di acquisire ed utilizzare le relative risultanze adottando i provvedimenti conseguenti”.272 E dunque la ritenuta legittimità dei suddetti provvedimenti conseguenti, come il sequestro di prevenzione, risulta da un principio, affermato dalla stessa Corte, in base 272 Cass. Sez. II, 7 febbraio 2007, n. 5248 147 al quale la richiesta, da parte dell’organo inquirente, e il conseguente rigetto del sequestro, da parte del Tribunale, non abbia alcuna forza preclusiva nei confronti dei poteri dello stesso Tribunale, previsti dalla legge, “trattandosi di provvedimento adottato rebus sic stantibus e comunque inidoneo a passare in giudicato, perché insuscettibile di autonoma impugnazione”.273 5. Le nullità del procedimento di prevenzione Anche il procedimento di prevenzione patrimoniale è assistito dal regime delle nullità processuali secondo i principi generali previsti dagli artt. 178 e 179 c.p.p. Non sfugge, infatti, che la disapplicazione dei principi generali previsti dal codice di rito, richiamati in materia in quanto applicabili al procedimento di prevenzione, sia sanzionata con la nullità prevista dallo stesso codice di procedura penale. Proprio per questo motivo, infatti, la violazione del principio della immutabilità del giudice, disciplinato dall’art. 525 comma 2, c.p.p. comporta “nullità assoluta del procedimento e del provvedimento terminale che chiude il processo. Tale disposizione pare applicabile alla materia della prevenzione in via analogica, poiché esprime la generale esigenza che la decisione giurisdizionale, qualsivoglia forma venga ad assumere, sia emanata dal medesimo giudice che ha provveduto alla trattazione della procedura”.274 Con la conseguenza che soltanto nel caso in cui le conclusioni delle parti sono ricevute da un collegio diverso da quello decidente è prevista la nullità assoluta di cui all’art. 525 c.p.p. Nell’ipotesi, invece, che le parti siano riammesse a dedurre nuovamente le conclusioni dinanzi ad un collegio diverso, nessuna nullità potrà essere invocata. Una particolare forma di nullità, che colpisce direttamente l’udienza camerale, nella quale si produce il relativo presupposto, riguarda l’assenza del difensore di fiducia dell’interessato. Premessa l’accentuata connotazione del contraddittorio tra le parti del procedimento di prevenzione, intuibile dalla presenza obbligatoria del Pubblico Ministero e del 273 274 Cass. Sez. II 21 marzo 1997, n. 1254, Rv. 207318 F. FIORENTIN (a cura di), Le misure cit. p. 341 148 difensore, oltre che dal richiamo testuale al “rispetto del contraddittorio” ex art. 666 c.p.p., l’assenza del difensore dell’interessato che sia stata causata “da omessa o irregolare notificazione dell’avviso dell’udienza, concreta un’ipotesi di violazione dell’integrità del contraddittorio, anche nell’ipotesi in cui all’udienza sia presente il difensore d’ufficio”.275 La giurisprudenza, in particolare, ha ritenuto nulla l’udienza camerale tenuta senza la presenza del difensore di fiducia dell’interessato e senza valutare la richiesta di rinvio per legittimo impedimento del difensore stesso.276 Estendendosi, il principio del contradditorio, a tutte le fasi del procedimento di prevenzione, appare chiaro che la nullità prodotta si estende a tutti gli atti istruttori che siano stati compiuti in assenza del difensore di fiducia dell’interessato. Rilevante, per il tema delle nullità, anche la posizione processuale del proposto. A tale proposito va sottolineato che in materia di procedimento di prevenzione, la partecipazione del proposto non è ritenuta necessaria. La sua audizione costituisce un diritto processuale che deve essere fatto valere tempestivamente e nei limiti tali da non pregiudicare la speditezza del procedimento stesso. Diverso il caso in cui l’interessato sia detenuto o internato in luogo posto al di fuori della circoscrizione del giudice che procede. L’ipotesi, espressamente prevista dall’art. 666 comma 4, c.p.p. è diversamente trattata dalla giurisprudenza di legittimità. Una parte di essa, infatti, ritiene che se l’interessato, detenuto o internato ai sensi del comma 4 dell’art. 666 c.p.p., abbia fatto, tempestivamente, richiesta di essere audito, questi deve essere sentito dal giudice a pena di nullità.277 Altra parte della giurisprudenza, più risalente nel tempo, al contrario, aveva ritenuto che il diritto del detenuto, di essere ascoltato, dinnanzi al magistrato di sorveglianza ovvero personalmente, previa traduzione all’udienza camerale, non sia prescritto a 275 Ivi. p. 350 Cass., Sez. VI, 29 luglio 1997, n. 1288, Femia, in CED 277 Cass., Sez. IV, 10 marzo 2003, n. 10771, Asole, in CED 276 149 pena di nullità e che dunque l’eventuale violazione abbia conseguenze più sul piano disciplinare che non processuale.278 Ugualmente trova tutela, nell’ambito del procedimento di prevenzione patrimoniale, la situazione giuridica dell’infermità mentale del proposto. In applicazione analogica dell’art. 666 comma 8, c.p.p., l’interessato che sia infermo di mente è necessariamente rappresentato da un curatore ovvero tutore che sono anche portatori dei suoi stessi diritti. Sicché l’avviso di fissazione dell’udienza deve essere, a pena di nullità, notificato anche a quest’ultimi. Nell’ipotesi in cui non vi sia un tutore o curatore questi è nominato dal giudice. In ogni caso l’omessa notificazione dell’avviso di fissazione dell’udienza al tutore o curatore e, nel caso in cui sia necessario, l’omessa nomina del tutore o curatore da parte del giudice, impedendo l’integrità del contraddittorio, comporta nullità di carattere generale e dunque non rilevabile in ogni stato e grado del procedimento bensì nei termini stabiliti dall’art. 180 c.p.p.279 Per quanto concerne, invece, la facoltà di celebrazione dell’udienza in forma pubblica e quindi non in camera di consiglio, fatti salvi i casi previsti dall’art. 472 c.p.p. che prevede le ipotesi nelle quali il processo viene celebrato a porte chiuse, anche nella fase dibattimentale, la giurisprudenza280 ha stabilito che l’omessa celebrazione, in udienza pubblica, del procedimento di prevenzione patrimoniale, quando sia previsto dalla legge e quando ne sia stata fatta richiesta, produce nullità di carattere relativo ai sensi dell’art. 181 c.p.p. La immediata conseguenza di tale orientamento riguarda i termini per poter eccepire tale nullità. Ai sensi, infatti, dell’art. 181 c.p.p. tali tipi di nullità possono essere eccepite solo su istanza di parte e prima che sia pronunciato il provvedimento finale che chiude il procedimento di prevenzione. 278 Cass., Sez. I, 21 aprile 1993, n. 1051, Rv. 193721, Manzari in CED L’art. 180 c.p.p. stabilisce, infatti, che “Salvo quanto disposto dall’art. 179, le nullità previste dall’art. 178, sono rilevate anche d’ufficio, ma non possono essere più rilevate né dedotte dopo la deliberazione della sentenza di primo grado ovvero, se si sono verificate nel giudizio, dopo la deliberazione della sentenza del grado successivo 280 Cass., Sez. UU., 21 aprile 1995 n. 7227; Cass., Sez. I, 2 dicembre 1998 n. 1495, Rv. 212272 279 150 Tale nullità, dunque, può essere eccepita non necessariamente nella prima udienza ma tassativamente almeno nell’udienza che chiude il procedimento. Nella quale, cioè, viene pronunciato il provvedimento conclusivo (ad esempio la confisca di primo grado) che pur avendo la forma di decreto, secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza, ha l’efficacia della sentenza. La nullità, in discussione, se non tempestivamente eccepita è ritenuta sanata dal passato in giudicato del provvedimento conclusivo di tal che si ritiene impossibile eccepire tale vizio, per la prima volta, in sede di legittimità.281 6. La pubblicità dell’udienza camerale Il problema della conformità costituzionale dei procedimenti camerali, che come tali non prevedevano la partecipazione del pubblico, è dibattuto in dottrina non soltanto nell’ambito del procedimento di prevenzione disciplinato dalle leggi antimafia. Tale quesito, infatti, è stato affrontato anche in riferimento ai procedimenti penali in camera di consiglio e in particolar modo, relativamente a quelli, come il giudizio abbreviato, che hanno ad oggetto non questioni marginali ma la decisione sul merito della fondatezza dell’imputazione. Se, dunque, “la giustizia è amministrata in nome del popolo” (art. 101, comma 1 Cost.), la partecipazione di quest’ultimo risulta essere fondamentale perché tale principio costituzionale trovi completa realizzazione. Parte della dottrina, allora, si è concentrata sull’analisi delle differenze esistenti tra principio della pubblicità della sentenza e principio di pubblicità dello svolgimento del processo che ad essa conduce. L’operazione ermeneutica, dunque, si aggira attorno a tale distinzione di fasi perché si giunga, conseguentemente, ad individuare in quale momento, il principio costituzionale della partecipazione del pubblico all’amministrazione della giustizia trovi sostanziale attuazione. L’orientamento dottrinario in questione si è decisamente schierato a favore della pubblicità dell’udienza camerale intesa come pubblicità dell’iter processuale 281 Cass., Sez. UU, 29 marzo 2007 n. 27614, Rv. 236535 151 attraverso il quale si snoda il ragionamento logico del giudice che conduce al provvedimento sostanziale che chiude il processo.282 Nell’ambito del procedimento di prevenzione patrimoniale, l’art. 1 comma 3, n. 6 della legge delega 136/2010 (Piano straordinario contro le mafie , nonché delega al Governo in materia di normativa antimafia) stabiliva espressamente che il proposto abbia diritto di chiedere che l’udienza si svolga pubblicamente anziché in camera di consiglio. Così, oggi, al primo comma dell’art. 7 del d.lgs. 159/2011 (Codice delle leggi antimafia) è espressamente previsto il diritto alla pubblicità dell’udienza sicché la norma in esame stabilisce che “il presidente dispone che il procedimento si svolga in pubblica udienza quando l’interessato ne faccia richiesta. La questione nasce da una sentenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, nel caso Bocellari e Rizza c. Italia, che, con sentenza del 13 novembre 2007, ha ritenuto violato l’art. 6 § 1 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali. A tal proposito, infatti, la CEDU prevede che “Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti. La sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l’accesso alla sala d’udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo 282 Sul punto cfr. Di Chiara in G. BIONDI, Il procedimento penale in camera di consiglio, GIUFFRÈ, 2011 p. 24. “Gli approdi di più spiccato interesse di tale travaglio dottrinale investono la distinzione, correttamente posta in luce, tra pubblicità dello svolgimento del processo e pubblicità della sentenza. La pubblicità della sentenza – prescindendo per il momento, dalla pubblicità della procedura giudiziaria che ad essa conduce – mira, in linea di principio, a porre il quisque de populo in condizione di conoscere l’esito dei processi attraverso la disponibilità, incondizionatamente riconosciuta a chiunque, dell’atto conclusivo (…) A prescindere da tale problematica, tuttavia, si registra, nei più recenti e approfonditi approdi dottrinari, un orientamento unitario: quello di ritenere comunque insufficiente, ai fini di un’attuazione pregnante dell’art. 101, 1° co., Cost., la mera conoscibilità della decisione conclusiva da parte della collettività dei cittadini. Nel quadro di una lettura volta a valorizzare il collegamento sistematico tra l’art. 101, 1° co., e l’art. 111, 1° co. (attualmente 6° co.) Cost., si è infatti rilevato che l’obbligo costituzionale di motivazione risulterebbe svuotato della sua più intima essenza qualora il quisque de populo, cui – secondo il linguaggio sattiano – “appartiene” la decisione, non fosse in grado di verificare la conformità dell’iter logico percorso dal giudice rispetto allo svolgimento del processo in ogni stato e grado”. 152 nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o, nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità possa portare pregiudizio agli interessi della giustizia”. Proprio in virtù di tale disposizione, che vincola il Paese, nella sua legislazione interna, grazie all’approvazione della legge 4 agosto 1955, n. 848 recante: Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, i ricorrenti del caso Bocellari e Rizza c. Italia, adirono la Corte di Strasburgo deducendo “la mancanza di pubblicità della procedura per l’applicazione delle misure di prevenzione al primo ricorrente, sospettato di appartenere ad un’associazione di stampo mafioso, che aveva comportato la confisca dei loro beni”.283 Il ragionamento dei giudici europei condusse, inevitabilmente, a riconoscere l’effettiva violazione delle disposizioni contenute nell’art. 6 § 1 della CEDU. In particolare la Corte europea, nelle valutazioni che compie in seno al provvedimento in esame, riconosce che “la pubblicità della procedura degli organi giudiziari di cui all'articolo 6 § 1 tutela i giustiziabili contro una giustizia segreta che sfugge al controllo del pubblico (vedere, Riepan c. Austria, nº 35115/97, § 27, CEDH 2000 XII); essa costituisce anche uno dei mezzi per preservare la fiducia nelle corti e nei tribunali. Con la trasparenza che essa conferisce all'amministrazione della giustizia, aiuta a realizzare lo scopo dell'articolo 6 § 1: il processo equo, la cui garanzia è annoverata fra i principi di ogni società democratica ai sensi della Convenzione (vedere fra molte altre, Tierce e altri c. Saint-Marin, nº 24954/94, 24971/94 e 24972/94, § 92, CEDH 2000 IX)”. Nella sentenza, però, la Corte di Strasburgo sottolinea anche che la norma non preclude al giudice del merito di derogare al principio in esame nella considerazione della complessità del procedimento ovvero per la sua particolarità. 283 Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Strasburgo), Sent. del 13 novembre 2007, caso Bocellari e Rizza c. Italia (ricorso n. 399/02). Violazione dell’art. 6 § 1 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo (equo processo), per la mancanza della pubblicità dell’udienza che dispone le misure di prevenzione. 153 L’accesso alla sala d’udienza, dispone infatti l’art. 6 § 1 CEDU, può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o, nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità possa portare pregiudizio agli interessi della giustizia. Tuttavia, nonostante la previsione di tale deroga giustificabile alla luce della particolarità o tecnicismo delle relative procedura nell’ambito della difesa della sicurezza sociale, la Corte ha ritenuto che non è conforme al principio espresso dalla CEDU un procedimento che, sia in primo grado che in appello, sul merito, si svolge a porte chiuse in virtù di una norma generale e assoluta, senza che il giustiziabile abbia la possibilità di sollecitare una pubblica udienza. In effetti tale possibilità, per il “giustiziabile” gli era completamente preclusa dalla esplicita previsione dell’art. 4 della legge 1423/1956 e dell’art. 2ter della legge 575/1965, che opera un espresso richiamo alla procedura definita dalla legge 1423/1956, laddove era previsto esclusivamente un procedimento camerale. La Corte europea, dunque, pur ammettendo che nell’ambito di questi procedimenti possano entrare in gioco interessi superiori, quali la protezione della vita privata di minori o di persone terze indirettamente interessate dal controllo finanziario e che procedimenti di questo tipo possano presentare un alto grado di tecnicità, ciò nonostante non deve essere persa di vista la posta in gioco delle procedure di prevenzione e gli effetti che sono suscettibili di produrre sulla situazione personale delle persone coinvolte. Da tale prospettiva, riconosce la Corte, “ non si può affermare che il controllo del pubblico non sia una condizione necessaria alla garanzia del rispetto dei diritti dell'interessato”. 154 Tale ragionamento viene ribadito in altre due sentenze della Corte di Strasburgo allorquando fu sollevato, d’innanzi ad essa, il caso Perre ed Altri c. Italia e quello Buongiorno e Altri c. Italia.284 Anche in questa sentenza la Corte ribadisce la necessità che le leggi nazionali prevedano la possibilità, per il “giustiziabile”, di accedere a forme di pubblicità dell’udienza camerale nel procedimento di prevenzione patrimoniale. Opportunità, aveva rilevato la Corte, che in questo caso, come in quello Bocellari e Rizza c. Italia, era stata preclusa, ai ricorrenti dalle leggi nazionali che disciplinavano specificamente la materia violando, dunque, l’art. 6 § 1 della CEDU. La Corte europea, allora, aveva evidenziato una rigidità della legislazione interna tesa a ledere proprio il diritto alla pubblicità dell’udienza, e come è stato giustamente sottolineato, “non si comprende, oltretutto, quali interessi di rilievo costituzionale possano rendere necessaria l’esclusione della pubblicità per un procedimento avente natura giurisdizionale, che si conclude con un provvedimento avente natura sostanziale di sentenza e che ha ad oggetto le medesime questioni che, nell’ipotesi di sequestro preventivo applicato nell’ambito del processo penale, verrebbero certamente trattate in udienza pubblica”.285 Nel frattempo la questione viene posta anche dalle corti territoriali. Di particolare interesse, infatti, l’ordinanza del 18 dicembre 2008, del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, che, durante lo svolgimento del procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione sia personali che patrimoniali, solleva la questione di legittimità costituzionale proprio nei confronti dell’art. 4 della legge 1423/1956 e dell’art. 2ter della legge 575/1965 nella parte in cui non era previsto che il procedimento camerale si svolgesse in udienza pubblica su istanza dei “giustiziabili”. La Corte campana, dunque, pose la questione in seguito alla pronuncia della Corte di Strasburgo ritenendo che fosse necessario affrontare il problema anche alla luce dell’art. 6 della CEDU. 284 Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Strasburgo), Sent. dell’8 luglio 2008, caso Perre ed Altri c. Italia (ricorso n. 1905/05) e Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Strasburgo), Sent. del 5 gennaio 2010 caso Buongiorno e Altri c. Italia (ricorso n. 4514/07). 285 A. BALSAMO - V. CONTRAFATTO - G. NICASTRO, Le misure patrimoniali cit., p. 283 155 Non potendo risolvere la questione in via interpretativa, in quanto il Tribunale ritenne impossibile applicare in via analogica le disposizioni contenute nell’art. 441, comma 3, c.p.p. ( che disciplina il giudizio abbreviato prevedendo la possibilità di udienza pubblica se ne fanno richiesta tutti gli imputati) per diversità di struttura dei procedimenti, non poté far altro che denunciare la questione di legittimità costituzionale, asserendo che le norme indicate erano in contrasto con i principi disposti dagli accordi internazionali e conseguentemente in contrasto con l’art. 117, 1° comma della Costituzione. Il ragionamento del Tribunale casertano, inoltre, pone in evidenza un rapporto di regola ed eccezione esistente nell’ambito della norma che disciplina il giudizio abbreviato, stabilendo appunto che il procedimento si svolge in camera di consiglio a meno che tutti gli imputati non richiedano la celebrazione dell’udienza pubblica.286 Rapporto completamente inesistente nelle norme, un tempo in vigore, che disciplinavano il vecchio procedimento di prevenzione patrimoniale antimafia e che non consentivano, dunque, la possibilità dell’udienza pubblica. Tra l’altro, se la “segretezza” dell’udienza camerale nel giudizio abbreviato ex art. 441 c.p.p., come messo in rilievo dalla dottrina, è giustificata, e per altro contemperata dalla previsione del comma 3 della stessa norma, nell’ottica di una ricompensa riconosciuta dall’ordinamento all’imputato, per aver contribuito alla realizzazione dei principi di speditezza ed economia processuale, così non è per il procedimento di prevenzione patrimoniale che non rappresenta nessun rito alternativo ma si fonda esso stesso, come moderno processo al patrimonio, su canoni diversi di accertamento, più snelli e finalizzati alla prevenzione antimafia. Proprio per questo, a maggior ragione, sembrava inevitabile che la questione fosse posta d’innanzi alla Consulta non potendo essere risolta a livello interpretativo. 286 Sul punto cfr. Nigro in G. BIONDI, Il procedimento penale cit., p. 66. “Una norma così concepita dimostra che il legislatore, nel tentativo di contemperare i diversi valori in gioco, ha considerato rilevanti, da un lato, l’esigenze di celerità processuale e riservatezza dell’imputato, e dall’altro lato, l’opposto interesse alla celebrazione del processo coram populo quale garanzia nell’esclusiva e solidale disponibilità degli imputati. In altri termini, alla base del meccanismo legislativo sta la presunzione che il principio della pubblicità sia lesivo dell’immagine e della dignità dell’imputato, sicché la forma camerale del rito rappresenta la giusta ricompensa dell’ordinamento per il suo contributo alla maggiore speditezza dell’attività processuale: a emergere è il solo aspetto deteriore del principio, connesso allo strepitus fori. L’inevitabile corollario affida alla concorde volontà di tutti gli imputati il potere di superare tale presunzione, onde giovarsi del controllo dell’opinione pubblica sulla regolarità del processo”. 156 Puntualmente, a tale questione, ha posto fine la sentenza della Corte Costituzionale tesa ad eliminare la rigidità della legislazione interna in contrasto con i principi contenuti nell’art. 6 § 1 della CEDU e dell’art. 117 Cost. In verità, prima dell’intervento del Giudice delle leggi, si era espressa una parte della giurisprudenza di legittimità volta a orientare costituzionalmente la lettura della norme in questione prevedendo l’applicazione analogica dell’art. 441 c.p.p.287 Tornando all’esame della sentenza costituzionale, la Consulta era stata adita proprio in riferimento alla ritenuta incostituzionalità dell’art. 4 della legge 1423/1956 e dell’art. 2ter della legge 575/1965. Il giudice a quo, dunque, aveva ritenuto violate le norme contenute negli artt. 111 e 117 della Cost. per il contrasto, rispettivamente, con il principio del giusto processo e con quello che pretende il rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. La sentenza della Corte Costituzionale, n. 93/2010 ha infatti dichiarato la illegittimità costituzionale delle norme denunciate “nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento per l'applicazione delle misure di prevenzione si svolga, davanti al tribunale e alla corte d'appello, nelle forme dell'udienza pubblica”. Il ragionamento seguito dalla Consulta parte proprio da quella giurisprudenza della Corte europea, ormai da ritenersi consolidata in materia, tracciando un percorso che da quelle pronunce giunga all’analisi della norma internazionale specialmente sotto il profilo della compatibilità costituzionale interna. È escluso, afferma la Corte Costituzionale, che la norma internazionale, assunta violata nei giudizi celebrati a Strasburgo, possa ritenersi in contrasto con il sistema di tutele previste dalla Costituzione repubblicana. Si legge, infatti, nel provvedimento in esame che “l’assenza di un esplicito richiamo in Costituzione non scalfisce, in effetti, il valore costituzionale del principio di pubblicità delle udienze giudiziarie: principio che - consacrato anche in altri 287 Cass. Sez. II, 18 novembre 2008 n. 46751, Sabatelli e altri, Rv. 242803 che afferma: “Benché la l. n. 1423 del 1956, art. 4 preveda la trattazione in camera di consiglio, nulla vieta che il giudice, seguendo un’interpretazione costituzionalmente orientata, applichi analogicamente la disposizione di cui all’art. 441 c.p.p., la quale prevede che il giudizio abbreviato si svolga in camera di consiglio, ma che se tutti gli imputati ne fanno richiesta, abbia luogo in pubblica udienza, cosi facendo venire meno i profili di contrasto con la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo”. 157 strumenti internazionali, quale, in particolare, il Patto internazionale di New York relativo ai diritti civili e politici, adottato il 16 dicembre 1966 e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881 (art. 14) - trova oggi ulteriore conferma nell'art. 47, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea(cosiddetta Carta di Nizza), recepita dall'art. 6, paragrafo 1, del Trattato sull'Unione europea, nella versione consolidata derivante dalle modifiche ad esso apportate dal Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 ed entrata in vigore il 1° dicembre 2009”.288 La Consulta riconosce inoltre lo sforzo effettuato dalla Corte di Strasburgo di aver definito correttamente, nell’ambito del giudizio di sua competenza, l’essenza del procedimento di prevenzione patrimoniale, il quale essendo “un procedimento all’esito del quale il giudice è chiamato ad esprimere un giudizio di merito, idoneo ad incidere in modo diretto, definitivo e sostanziale su beni dell'individuo costituzionalmente tutelati, quali la libertà personale (art. 13, primo comma, Cost.) e il patrimonio nonché la stessa libertà di iniziativa economica, incisa dalle misure anche gravemente «inabilitanti» previste a carico del soggetto cui è applicata la misura di prevenzione”, è ovvio che l’esigenza di garantire la pubblicità dell’udienza è più che fondata a pare della Corte Costituzionale. Il discorso condotto sino a questo punto, però, ha la sua validità fin quando si faccia riferimento, come la stessa Corte di Strasburgo aveva già rilevato, al primo grado di giudizio ovvero a quello in appello. Diversamente accade nell’ambito del giudizio innanzi alla Suprema Corte di Cassazione alla quale si può ricorrere, nel solo ambito dei procedimenti di prevenzione antimafia, soltanto per violazione di legge. Su tale argomento è intervenuta nuovamente la Consulta con la sentenza n. 80 dell’11 marzo 2011 con la quale ha espressamente dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale relativa alla pubblicità dell’udienza per quanto concerne i giudizi d’innanzi alla Corte di Cassazione affermando che le pronunce della Corte europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo, si riferiscono esclusivamente alle udienze celebrate d’innanzi ai Tribunali e Corti d’Appello. 288 Corte. costituzionale 8 marzo 2010, n. 93 158 In particolare la previsione legislativa, che regola la celebrazione del giudizio di cassazione in camera di consiglio, si salda con quanto disposto dall’art 611 c.p.p “in forza del quale la Corte di cassazione procede in camera in consiglio – oltre che, per regola generale, «quando deve decidere su ogni ricorso contro provvedimenti non emessi in dibattimento, fatta eccezione delle sentenze pronunciate a norma dell’articolo 442» – anche, e prima di tutto, «nei casi particolarmente previsti dalla legge»”.289 Nell’ambito dei procedimenti di prevenzione, infatti, la Consulta, nella sentenza in esame ha espressamente stabilito da un lato che la precedente sentenza del 2010, tesa a dichiarare l’illegittimità costituzionale di quelle norme del procedimento che non consentivano la possibilità di forme di pubblicità dell’udienza, sia sufficiente a garantire la conformità dell’assetto legislativo interno alle garanzie previste dalla CEDU. Dall’altro, la Consulta, ha inoltre affermato che “la valenza del controllo immediato del quisque de populo sullo svolgimento delle attività processuali, reso possibile dal libero accesso all’aula di udienza – uno degli strumenti di garanzia della correttezza dell’amministrazione della giustizia – si apprezza, difatti, secondo un classico, risalente ed acquisito principio, in modo specifico quando il giudice sia chiamato ad assumere prove, specialmente orali-rappresentative, e comunque ad accertare o ricostruire fatti; mentre si attenua grandemente allorché al giudice competa soltanto risolvere questioni interpretative di disposizioni normative”. Un altro profilo affrontato nella stessa sentenza del 2011 è la possibilità di richiedere, per la prima volta, l’udienza pubblica nel giudizio d’innanzi alla Corte di Cassazione. La risposta della giurisprudenza costituzionale è stata senz’altro negativa avendo sottolineato che la Corte di Strasburgo “ha avuto modo di affermare che il principio, in forza del quale la pubblica udienza non è richiesta nei gradi di impugnazione destinati alla trattazione di sole questioni di diritto (o concernenti comunque materie le cui peculiarità meglio si attagliano a una trattazione scritta), vale anche quando l’udienza pubblica non si è tenuta in prima istanza, perché l’interessato vi ha 289 Corte costituzionale 11 marzo 2011, n. 80 159 rinunciato, esplicitamente o implicitamente, omettendo di formulare la relativa richiesta”. Se così non fosse si riconoscerebbe alla parte privata l’arbitrio di decidere il momento della celebrazione dell’udienza pubblica (se nei gradi di merito ovvero in quello di legittimità), arbitrio sicuramente in contrasto con la corretta amministrazione della giustizia e dunque con i relativi principi costituzionali. 7. Il giudizio di impugnazione Le impugnazioni, in materia di misure di prevenzione, sono disciplinate dall’art. 10 del Codice delle leggi antimafia, richiamato dall’art. 27 nell’ambito del Titolo II, Capo II dedicato, appunto, alle misure di prevenzione patrimoniali. Il procedimento d’impugnazione, dunque, viene disciplinato dall’art. 10 del d.lgs. 159/2011 che sostanzialmente ricalca la disciplina previgente cristallizzata nella norma contenuta nell’art. 4 della legge 1423/1956, oggi abrogata con l’entrata in vigore del Codice Antimafia. Tale disciplina opera un ulteriore richiamo a quelle che costituiscono le disposizioni processual – penalistiche contenute nel codice di rito e disciplinano il procedimento di esecuzione penale agli artt. 666 e ss. del codice di procedura penale vigente. In verità il richiamo è direttamente alle disposizioni che regolano i procedimenti aventi ad oggetto le misure di sicurezza. Le norme prese in considerazione sono quelle contenute negli artt. 678, 679 e 680 del c.p.p. Per espressa previsione dell’art. 678 del codice di rito è stabilito che, in questi casi, si proceda a norma dell’art. 666 c.p.p. Ne consegue che anche nell’ambito del giudizio d’appello, innanzi alla Corte d’Appello, l’udienza è camerale, nella quale si attivano tutte le garanzie precedentemente descritte, nell’ambito del procedimento applicativo per l’applicazione della misura di prevenzione e cioè nell’ambito del giudizio di primo grado. In particolare v’è da sottolineare che anche per quanto concerne l’udienza camerale, nell’ambito del giudizio d’appello, resta ferma la garanzia della pubblicità dell’udienza qual’ora l’interessato ne faccia richiesta, esclusa l’udienza d’innanzi alle 160 sezioni della Corte di Cassazione non essendo quest’ultima competente a giudicare nel merito, in considerazione del fatto che il ricorso in Cassazione, infatti, è consentito solo per violazione di legge. Sull’interpretazione di tale ultima disposizione si è espressa anche la Corte Costituzionale contribuendo a definire i confini ermeneutici della violazione di legge nell’ambito del procedimento di prevenzione patrimoniale. La diatriba nasce dalla questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di Cassazione, nell’ambito del procedimento di prevenzione patrimoniale, con un ordinanza del 26 novembre 2003 n. 158, con la quale la Suprema Corte denunciava l’asserita incostituzionalità dell’allora art. 4 della legge 1423/1956 relativamente alla parte in cui non consentiva l’assimilazione della manifesta illogicità della motivazione della sentenza alla violazione di legge, unico motivo, espressamente previsto, in base al quale è possibile promuovere il ricorso per Cassazione. Le norme della Carta Costituzionale, che si assumevano violate, riguardavano quelle contenute negli art. 3 e 24 Cost. In effetti, ritenevano i supremi giudici, era incostituzionale la disposizione dell’art. 4 della legge 1423/1956 “nella parte in cui limitando alla sola violazione di legge il ricorso contro il decreto della Corte d’appello in materia di misure di prevenzione, esclude la ricorribilità in cassazione per vizio di illogicità manifesta della motivazione, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lettera e), del codice di procedura penale”.290 La Consulta, però, dopo aver premesso che tutta la questione sollevata si fonda sulle differenze esistenti tra vizio di violazione di legge processuale e i vizi riconducibili alla motivazione, prendendo a modello la struttura del procedimento penale, ha dichiarato infondata la questione sollevata dalla Cassazione in quanto non si è tenuto conto che i rilievi sostenuti erano basati su un “confronto tra settori direttamente non comparabili, posto che il procedimento di prevenzione, il processo penale e il procedimento per l’applicazione delle misure di sicurezza sono dotati di proprie peculiarità, sia sul terreno processuale che nei presupposti sostanziali”.291 290 291 Corte costituzionale 5 novembre 2004, n. 321 Ibidem 161 Altro principio generale, che vige nell’ambito del procedimento di prevenzione, è quello della tassatività dell’impugnazione. A tale riguardo, infatti, “si è escluso che possono essere impugnati provvedimenti diversi da quelli specificamente dichiarati impugnabili, in particolare con riferimento al sequestro ed alla cauzione”.292 Su tale profilo “le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza Giovinazzo del 1985, hanno affermato il principio dell’ammissibilità dell’impugnazione soltanto nei confronti del provvedimento definitivo che dispone la confisca”.293 In riferimento al sequestro, infatti, non è ammessa l’impugnazione tipica del ricorso proposto d’innanzi alle sezioni della Corte di Appello, non solo per quel che concerne il principio di tassatività, operante nella materia della prevenzione, ma è esclusa anche in considerazione della funzione sostanziale del sequestro. Sebbene non va dimenticato il vizio originario del ragionamento giuridico, in virtù del quale si dichiarava la natura amministrativa del procedimento di prevenzione, e nonostante il processo di giurisdizionalizzazione dello stesso, sia ormai consolidato, tuttavia non è possibile sostenere la tesi della impugnabilità di alcuni provvedimenti come appunto il sequestro di prevenzione. Rispetto a quest’ultimo, infatti, non è ammessa l’impugnazione nelle forme del ricorso d’innanzi alla Corte d’Appello, anche in ragione della natura strumentale del provvedimento. Non va dimenticato che il sequestro è atto preliminare, a sorpresa, generalmente disposto d’urgenza e inaudita altera pars, prima che si possa espletare il contraddittorio camerale. 292 L. FILIPPI - M.F. CORTESI, Il Codice delle misure di prevenzione cit, p. 162 L. FILIPPI - M.F. CORTESI, Il Codice delle misure di prevenzione. Sul punto cfr. anche G. GARUTI (a cura di), Trattato di procedura penale: Modelli differenziati di accertamento,diretto da SPANGHER, volume VII, Tomo I, UTET, p. 630 293 162 8. L’udienza camerale d’innanzi alle sezioni di Corte d’Appello Oggetto d’impugnazione, nel grado d’appello, secondo l’ormai citato articolo 27, comma 1 del Codice Antimafia, sono, nel campo delle misure di prevenzione, i provvedimenti che dispongono la confisca dei beni sequestrati (oltre ai provvedimenti che dispongono la revoca del sequestro, la restituzione della cauzione, la liberazione delle garanzie, la confisca della cauzione e l’esecuzione sui beni costituiti in garanzia). Sono altresì impugnabili i provvedimenti di decadenza da licenze, concessioni o iscrizioni nei confronti dei terzi ex art. 68, comma 3 del Codice delle leggi antimafia, che richiamano la disciplina contenuta nell’art. 27, comma 1 e 2 del Codice delle leggi antimafia. L’appello va proposto nel termine di dieci giorni dalla comunicazione del provvedimento ed è “privo di effetto sospensivo. Al riguardo, la giurisprudenza ha precisato che al giudice di appello non è conferito alcun potere autonomo di sospensione dell’esecuzione del decreto emesso in primo grado e costituente oggetto del giudizio di impugnazione (Cass. Sez. VI 2 luglio 2004, n. 33161, Ganci, Rv. 229765)”294 I soggetti legittimati a proporre l’appello sono identificati dall’art. 10, comma 1 del Codice delle leggi antimafia che stabilisce che “il procuratore della Repubblica, il procuratore generale presso la corte di appello e l’interessato hanno facoltà di proporre ricorso alla corte di appello, anche per il merito”. Anche l’udienza, nel processo d’appello, è camerale, fermo restando la facoltà del prevenuto di chiedere che l’udienza si svolga con la presenza del pubblico. Le norme, anche in questo caso, richiamabili sono quelle contenute nell’art. 666 c.p.p. che disciplinano pure il giudizio di primo grado d’innanzi alle sezioni misure di prevenzione del Tribunale. In particolare va specificato che, secondo le norme richiamate, il Presidente del collegio fissa la data dell’udienza in camera di consiglio, provvedendo a farne dare avviso, almeno dieci giorni prima, al Pubblico Ministero, all’interessato e al suo difensore. 294 A. BALSAMO – C. MALTESE, Il Codice Antimafia cit. p. 51 163 In conseguenza, inoltre, delle modifiche apportate dal d.lgs. 159/2011, “alla luce del nuovo dettato normativo di cui all’art. 10, comma 2, Codice delle leggi antimafia, che recepisce la pronuncia della Corte costituzionale n. 93/2010, l’avviso de quo dovrà contenere anche l’avvertimento che, su istanza dell’interessato, l’udienza potrà svolgersi anche alla presenza del pubblico”.295 Nell’udienza del procedimento d’appello, come nel giudizio di primo grado, viene rispettato il principio del contraddittorio e lo si evince, ancora una volta, grazie all’applicazione delle norme del codice di rito che prevedono la partecipazione necessaria del Pubblico Ministero e del difensore e la possibilità, per l’interessato di interloquire, se compare e ne fa richiesta. L’appello può essere proposto con l’intento delle parti di ottenere dal giudice una riforma della decisione, nel merito, del primo giudice. Considerazione certamente ovvia ma che permette di individuare i provvedimenti che possono essere oggetto dell’impugnazione. In particolare saranno oggetto dell’impugnazione, da parte del Pubblico Ministero, i decreti pronunciati dal Tribunale, di confisca o di revoca del sequestro, a seconda delle determinazioni raggiunte dallo stesso in seguito alle risultante delle indagini patrimoniali. Sarà, invece, oggetto dell’appello da parte dell’interessato e del difensore il decreto di confisca dei beni già sottoposti a sequestro. Tale prospettiva serve per sottolineare, inoltre, il principio giurisprudenziale, che pure trova applicazione nell’ambito del giudizio d’appello di prevenzione, per il quale “ il convincimento del giudice dell’appello si forma sulla base non soltanto delle risultanze emergenti dal fascicolo di primo grado, ma anche sulla base di fatti nuovi e delle acquisizioni probatorie disposte nel corso del procedimento di impugnazione”.296 Questo nel pieno rispetto della regola del divieto di refeormatio in pejus, “stante il carattere giurisdizionale del relativo giudizio, di tal che nel caso di appello proposto 295 296 L. FILIPPI - M.F. CORTESI, Il Codice delle misure di prevenzione cit, p. 178 F. FIORENTIN (a cura di), Le misure cit. p. 424 164 dalla parte privata, non può conseguire l’applicazione di misure più gravose per l’interessato”.297 Parte della giurisprudenza di legittimità, infatti, ha affermato il principio per il quale, intanto il divieto sopra citato riguarda il dispositivo del provvedimento, non la valutazione delle prove ne le argomentazioni giuridiche formulate dal primo giudice, e che nel procedimento di prevenzione sussiste la possibilità di un costante adeguamento della situazione di diritto a quella di fatto, la quale può modificarsi in senso favorevole o contrario al prevenuto. Ne consegue che il giudice d’appello ben può fondare il suo convincimento su elementi a carico del proposto non esaminati in primo grado.298 Per altro orientamento giurisprudenziale, invece, al giudice d’appello sarebbe precluso tale sindacato proprio dalla individuazione dei motivi d’appello che circoscrivono inevitabilmente il sindacato del giudice d’appello. Risulta vigente, inoltre, nell’ambito di tale giudizio di impugnazione, il principio, secondo il brocardo latino tantum devolutum quantum appellatum, sancito dall’art. 597 c.p.p. che è rubricato “Cognizione del giudice d’appello” e che stabilisce al comma 2, premesso che l’appello sia proposto dal Pubblico Ministero e si tratti di una sentenza di condanna, “(…) il giudice può, entro i limiti della competenza del giudice di primo grado, dare al fatto una definizione giuridica più grave , mutare la specie o aumentare la quantità della pena, revocare benefici, applicare, quando occorre, misure di sicurezza e adottare ogni altro provvedimento imposto o consentito dalla legge”. Il provvedimento di confisca perde efficacia se la Corte d’Appello non decide sull’impugnazione entro il termine perentorio di un anno e sei mesi. Secondo l’art. 27, comma 6 del Codice delle leggi antimafia, è prevista l’applicazione dell’art. 24, comma 2 del Codice delle leggi antimafia stabilendo cosi che nel caso di indagini complesse o compendi patrimoniali rilevanti tale termine può essere prorogato con provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria procedente, per periodi di sei mesi e per non più di due volte. 297 298 Ibidem Ivi, pp. 424, ss. 165 Per quanto concerne le inammissibilità, nessun dubbio sorge circa l’applicabilità dell’art. 591 c.p.p. che disciplina le ipotesi, appunto, dell’inammissibilità dell’impugnazione. 8.1 (segue) L’opposizione nelle forme dell’incidente di esecuzione In tale contesto non può non farsi riferimento al mezzo di opposizione nelle forme dell’incidente di esecuzione. Tale istituto consente l’impugnazione avverso tutti quei provvedimenti sfavorevoli al prevenuto e non altrimenti impugnabili, fatta eccezione per quei provvedimenti per i quali il nuovo Codice delle leggi antimafia, prevede uno specifico mezzo di reclamo, ovvero l’impugnazione da parte di terzi che, pur vantando diritti reali sui beni oggetto del procedimento di prevenzione, non sono potuti intervenire tempestivamente in giudizio e dunque non hanno potuto esperire le proprie difese. La Cassazione ha sostenuto, per esempio, che avverso il provvedimento di sequestro non è ammessa impugnazione ma opposizione d’innanzi allo stesso giudice, nelle forme dell’incidente di esecuzione, esperibile anche dai terzi intestatari dei beni oggetto dei provvedimenti.299 Per quanto concerne l’intervento dei terzi, che impugnano il provvedimento di confisca successivamente alla sua pronuncia, quando siano titolari di diritti reali di garanzia vantati sul bene oggetto della confisca e non siano stati messi in condizione di partecipare al procedimento di prevenzione, di particolare interesse risultano due pronunce di merito del Tribunale di Napoli. Nel decreto del 20 ottobre 2009 e in quello del 13 agosto 2010, il Tribunale ripercorre l’iter giurisprudenziale della Corte di Cassazione rispetto a recenti pronunce che la corte territoriale ha valutato in contrasto con gli orientamenti prevalenti anche della stessa Corte Suprema. In particolare ci si riferisce a quelle sentenze della Cassazione volte a definire, l’incidente di esecuzione, non definibile nel procedimento in camera di consiglio ex art. 666 c.p.p. ma bensì nelle forme previste dall’art. 676 c.p.p. che richiama l’art. 299 Cass., 10 aprile 2008, n. 17827, Di Vincenzo, Rv. 239855 166 667, comma 4, c.p.p. e dunque in un procedimento senza formalità che si chiude con un provvedimento de plano. La differenza tra i due orientamenti, avverte il Tribunale di Napoli, risulta evidente “atteso che il procedimento ex art. 666 c.p.p consente il pieno dispiegarsi del contraddittorio tra le parti e al Tribunale di svolgere i necessari accertamenti. Laddove il procedimento de plano di cui all’art. 667 co. 4° c.p.p. (previsto, come si vedrà, per diverse e più semplici ipotesi) mal si concilia con la complessità dell’incidente di esecuzione promosso dal terzo in sede di prevenzione”.300 Attesa dunque la finalità della promozione dell’incidente di esecuzione, da parte del terzo titolare di diritti reali, che non sia stato posto in condizione di partecipare alle udienze camerali del procedimento di prevenzione, la giurisprudenza della Cassazione, precedente alle sentenze nn. 5044/09 e 16934/09, aveva correttamente individuato, si legge nei decreti del Tribunale di Napoli in esame, il procedimento camerale ex art. 666 c.p.p. quale procedimento idoneo a decidere sulle istanze promosse dall’exstraneus. Il ragionamento del giudice di merito, passa in rassegna la giurisprudenza, ormai ritenuta pacifica, che dal 1986 al 2008 definisce lo scopo dell’intervento del terzo, il quale, non essendo messo in condizione di prendere parte al procedimento di prevenzione, neanche era legittimato a chiedere la revoca del provvedimento di confisca che, divenuto definitivo, era esecutivo anche nei confronti dei terzi non intervenuti. Il corollario di tale impostazione è che il rimedio previsto dal legislatore deve essere quello che permette al terzo interveniente di esperire le proprie difese e richiedere tutti gli elementi utili al fine di predisporre le difese stesse. Finalità che con il procedimento ex art. 667, comma 4, c.p.p. non si sarebbero mai realizzate in considerazione del fatto che “il giudice dell’esecuzione provvede in ogni caso senza formalità”. Del resto la copiosa giurisprudenza della Cassazione, ancora si inserisce in tale solco quando afferma, a Sezioni Unite Penali, che “in ordine ai limiti soggettivi di esperibilità della revoca, sono legittimati a proporla quanti abbiano partecipato al 300 Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc .15 giugno 2010, dep. 13 agosto 2010, Reg. Gen. C.C. n. 43/10, Reg. Dec. n. 121/2010/B, Pres. Cozzi, Est. Menditto 167 procedimento di prevenzione o siano stati messi in grado di parteciparvi. In tal modo simile richiesta non è in tesi proponibile da chi, pur dovendo intervenire perché formalmente titolare dei beni sequestrati, non sia stato chiamato a partecipare al procedimento e comunque non vi abbia partecipato, secondo quanto invece prescritto dal quinto comma dell'art. 2 ter legge n. 575 del 1965. In questo caso, l'esistenza delle condizioni per la dichiarazione dell'inefficacia del provvedimento (esecutivo anche nei confronti del terzo non intervenuto) può e deve farsi valere, secondo pacifica giurisprudenza, mediante il ricorso ad incidente di esecuzione (cfr., da ultima, Cass. sez. VI, 29 settembre 2005, n. 41195, Cristaldi e altri). Incidente nel quale il terzo formalmente titolare, senza preclusioni derivanti dal procedimento di prevenzione cui non ha partecipato, potrà svolgere le sue deduzioni e chiedere l'acquisizione di ogni elemento utile”.301 Altro profilo che deve essere indagato riguarda la identificazione dei terzi che sono legittimati a proporre incidente di esecuzione. Sebbene parte della giurisprudenza della Cassazione aveva inizialmente fatto riferimento ai soli terzi “ai quali il bene appartiene”, cioè ai terzi titolari dei diritti di reali di godimento, successivamente la stessa S.C. si è espressa in senso favorevole anche nei confronti dei terzi titolari dei diritti reali di garanzia.302 301 Cass, SS. UU. Penali, 8 gennaio 2007, n. 57, Auddino Cass. Sez. I, 25 maggio 2006, n. 30783 secondo cui” il creditore ipotecario, (…) , rientra tra quei terzi che possono vantare “l’appartenenza” del bene “i quali sono chiamati nel giudizio di prevenzione se quivi il loro titolo “risulta”…e possono quindi intervenirvi spontaneamente per “svolgere in camera di consiglio le loro deduzioni e chiedere l’acquisizione di ogni elemento utile ai fini della decisione sulla confisca”; partecipazione peraltro non necessaria né prevista a pena di nullità, ma soltanto eventuale (su quest’ultima affermazione la giurisprudenza è assolutamente costante)…infatti finchè la confisca non sopravvenga non può essere negato l’interesse attuale del titolare dell’ipoteca di intervenire quantomeno “ad adiuvandum” per evitarla. E’ d’altra parte pacifico che la posizione del terzo legittimato, non chiamato né intervenuto nel giudizio di prevenzione può formare oggetto di incidente d’esecuzione e trovare in tal sede tutela. Egli pertanto ha la scelta tra l’intervento, che gli fornisce la garanzia del doppio grado di merito, e la difesa in sede incidentale, ove è previsto un solo grado di merito, ma il ricorso per cassazione ha la sua normale estensione e non è limitato alle sole ipotesi di violazione di legge, come invece avviene nel procedimento di prevenzione….E’ oltretutto da notare che, attesa la pubblicità prevista per il sequestro dalla legge n. 575 del 1965, art. 2 quater, il terzo diligente è posto in grado di esercitare tempestivamente il diritto d’intervento” 302 168 9. L’udienza camerale d’innanzi alle sezioni della Corte di Cassazione Il decreto della Corte d’appello è ricorribile in Cassazione (senza effetto sospensivo) solo per violazione di legge, da parte del pubblico ministero e dell’interessato, entro dieci giorni dalla comunicazione o notificazione dell’avviso di deposito del provvedimento secondo quanto dispone l’ art. 10, comma 4, d.lgs. n. 159/11, riproduttivo dell’art. 4, comma 11, della legge 1423/1956 abrogata con l’entrata in vigore del c.d. Codice delle leggi antimafia. La nuova disciplina prevede che il ricorso sia deciso nel termine ordinatorio di trenta giorni dalla sua presentazione. In considerazione della tassatività del dato letterale della norma, che circoscrivi i motivi di impugnazione alla sola “violazione di legge”, sembrerebbe escluso, dunque, che il ricorso stesso possa essere promosso per vizio di motivazione quale erro in procedendo, contemplato dalla lettera c) dell’art. 606 c.p.p. Sarebbe esclusa, cioè, l’ipotesi che il vizio di motivazione potesse rientrare nell’alveo della violazione di legge in quanto contrastante con una norma penale prescritta a pena di nullità. La questione ruota attorno al concetto di manifesta illogicità della motivazione che non sarebbe censurabile mediante il ricorso per cassazione. Diversamente intesa la questione, dibattuta in giurisprudenza, per la quale non di manifesta illogicità della motivazione si tratterebbe ma di vizi cosi evidenti da ritenerla meramente fittizia e apparente e dunque inesistente. Si è andato consolidando, dunque, un orientamento della giurisprudenza “che ha ammesso l’impugnazione in cassazione nei casi nei quali la motivazione, sebbene formalmente presente in senso grafico e strutturale, sia, però, inficiata da vizi così macroscopici da oltrepassare i confini della manife-sta illogicità e da risolversi in una motivazione meramente fittizia e “apparen-te”, tanto da presentare fratture ed aporie argomentative così vistose da ren-dere incomprensibili le ragioni della decisione”.303 Da tale prospettiva, allora, il ricorso si attiva non sulla manifesta illogicità della motivazione, carattere che sarebbe escluso dal vaglio della Suprema Corte, bensì 303 T. BENE, Questioni aperte in tema di impugnazioni nel procedimento di prevenzione, in Archivio penale 2012, n.3 169 sulla inesistenza di motivazione o manchevole dei requisiti minimi di coerenza e completezza tale da rendere il provvedimento viziato in quanto non rispondente alle norme processuali che impongono la motivazione del provvedimento stesso. Non è proponibile il ricorso per saltum in virtù del principio di diritto dell’osservanza dei gradi della giurisdizione, previsto espressamente dal codice di rito del 1930 (art. 211), tuttora operante nel vigente ordinamento (S.C. sent. nn. 3962/96, 6618/10). Va inoltre specificato che la questione è dibattuta, in dottrina, anche alla luce della natura giuridica del provvedimento conclusivo del procedimento di prevenzione. Secondo l’interpretazione giurisprudenziale, infatti, tale provvedimento veste la forma del decreto ma “ha natura sostanziale ed efficacia di sentenza”, opinione consolidata, ritenendo applicabili le disposizioni relative ai requisiti indicati per la sentenza, ai sensi dell’art. 546 c.p.p.”304 Da un lato, quindi, la giurisprudenza ha escluso che il decreto di confisca, conclusivo del procedimento di prevenzione patrimoniale, possa essere impugnato, direttamente, con un ricorso alla Corte di Cassazione senza aver previamente esperito l’appello. Nonostante l’orientamento giurisprudenziale, la dottrina fa riferimento alla sostanziale equiparazione del provvedimento di confisca antimafia alla sentenza in base alla quale non sarebbe difficile, allora, riconoscere, anche in questo caso, la legittimità del ricorso per saltum avente ad oggetto il decreto di confisca, senza che sia stato esperito preventivamente l’appello. In conseguenza di tale divieto va convertito in appello l’eventuale ricorso per cassazione proposto avverso il provvedimento adottato dal Tribunale all'esito del primo grado di giudizio (S.C. sent. nn. 5630/09, 6618/10). Il limite posto all’impugnativa comporta che non è consentito dedurre il vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 606, comma primo, lett. e), c.p.p. “Per le medesime ragioni non è configurabile il vizio della mancata assunzione della prova decisiva, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), c.p.p. previsto soltanto per il giudizio dibattimentale (S.C. sent. n. 8641/09). 304 Ibidem 170 La Corte di cassazione provvede, in camera di consiglio, entro il termine ordinatorio di trenta giorni dalla presentazione del ricorso. Nell’ipotesi in cui il provvedimento di confisca fosse annullato dalla Suprema Corte, si pone il problema della trasmissione degli atti al giudice che ha pronunciato il provvedimento cassato. Si era ritenuto applicabile, insomma, l’art. 611, comma 1, lettera a) c.p.p. in riferimento alle ordinanze cassate. La soluzione prospettata non è accettabile, non solo alla luce del fatto che non di ordinanza si tratta ma di decreto di confisca, ma specialmente in considerazione del fatto che al decreto di confisca viene generalmente riconosciuto carattere sostanziale di sentenza, per cui “il giudizio deve essere rinviato ad un’altra sezione della stessa Corte d’appello o, in mancanza, alla Corte d’appello più vicina, determinata con i criteri indicati dall’art. 175 disp. att. c.p.p., come d’altronde la giurisprudenza affermava già nella vigenza del Codice del 1930 ed ha confermato anche di recente”.305 Non trovano applicazione le disposizioni sulla pubblicità dell’udienza (Corte cost. sent. n. 17229/09)”.306 La legittimità della celebrazione dell’udienza a porte chiuse è stata sancita, per altro, da ulteriore sentenza della Corte Costituzionale. Con la sentenza 11 marzo 2011, n. 80, la Consulta ha ritenuto inesistente il contrasto con l’art. 6 della CEDU, in considerazione del fatto che la cognizione in Cassazione è limitata ai soli “vizi di legge” e dunque alle mere questioni di diritto. 305 L. FILIPPI - M.F. CORTESI, Il Codice delle misure di prevenzione cit, p. 185 F. MENDITTO, Le misure di prevenzione personali e patrimoniali. La confisca ex art. 12 sexies l. n. 356/92, Giuffrè 2012 306 171 Conclusioni L’istituto giuridico delle misure di prevenzione patrimoniali, ha rappresentato una vera e proprio rivoluzione copernicana nell’ambito del contrasto giudiziario, e non solo, alle organizzazioni di stampo mafioso. La lotta alla mafia, infatti, doveva necessariamente eseguirsi sugli aspetti economici delle organizzazioni criminali, atteso che proprio quest’aspetto rappresenta il cuore pulsante delle consorterie mafiose. Gli anni recenti lo hanno dimostrato ampiamente, se si considera che le maggiori inchieste della magistratura hanno consentito di sgominare potentati finanziari e cellule mafiose, ben insediate nelle regioni del Nord Italia. La “nuova” frontiera, dunque, è proprio quella rappresentata dal contrasto patrimoniale e dalla sottrazione dei patrimoni alle mafie. Ne deriva che l’analisi degli istituti giuridici del sequestro e della confisca di prevenzione, e del procedimento previsto per la loro applicazione, è operazione che deve essere condotta con la massima scrupolosità, specialmente in vista della specifica finalità di contrasto alla criminalità organizzata, evitando strumentalizzazioni garantiste e interpretazioni di comodo. Lo stesso Giovanni Falcone, all’indomani dell’approvazione della legge “Rognoni – La Torre” ebbe a dire che: La rilevanza delle indagini bancarie nell’ambito della repressione della criminalità organizzata è, ormai, legislativamente sancita dai recenti provvedimenti antimafia (cfr. legge La Torre e istituzione dell’Alto commissario per la lotta alla criminalità mafiosa). A prima vista, il campo di applicazione delle nuove norme sembra riguardare, soprattutto, le misure di prevenzione; ma trattasi di una impressine erronea. Le misure di prevenzione erano state disciplinate, in origine, per infrenare, sotto l’aspetto personale, la pericolosità sociale dell’individuo. Lo spostamento dell’ottica della prevenzione anche ai risvolti patrimoniali ha comportato la necessità di introdurre in questo campo istituti giuridici come il sequestro e la confisca di beni e di disciplinare il procedimento per l’applicazione di misure patrimoniali. Tale esigenza, ovviamente, non sussisteva per il procedimento penale, nel quale gli istituti del sequestro e della confisca sono da tempo previsti, e non era stata 172 certamente la carenza di norme che aveva impedito di svolgere indagini e adottare misure dirette a colpire la potenzialità economica delle organizzazioni mafiose. Per altro, l’art. 24 della legge La Torre ha disposto l’applicazione, anche ai procedimenti penali concernenti associazioni di tipo mafioso, delle norme riguardanti le indagini patrimoniali e bancarie, il sequestro e la confisca, previste per il procedimento di prevenzione. È divenuto, quindi, obbligatorio – e non più riservato, come nel passato alla discrezionalità dell’istruttore – l’espletamento di indagini bancarie e patrimoniali al fine della adozione di misure – come il sequestro e la confisca – che, a torto neglette nel passato, costituiscono, invece, efficacissimo strumento di lotta contro la criminalità mafiosa. E, quindi, va ribadito, contrariamente ad alcune interpretazioni di comodo della legge La Torre, che questo strumento legislativo non indulge affatto a scorciatoie pericolose e, tutto sommato, insufficienti nella lotta contro la criminalità, e le misure di prevenzione, seppur rese più incisive, mantengo sempre funzione strumentale e accessoria nella difesa sociale. Sembra opportuno soggiungere che, sicuramente, la funzione complementare delle misure di prevenzione emergerà nell’applicazione delle stesse, poiché l’identità delle indagini patrimoniali e bancarie rispetto a quello del processo penale porrà in evidenza utili elementi di prova pienamente sfruttabili nell’ambito della giurisdizione penale e viceversa.307 In questa lunga citazione del magistrato Giovanni Falcone, si intravede anche l’orientamento degli istituti giuridici in esame. La difesa sociale, a cui Falcone faceva riferimento, oggi si concretizza con l’effettivo riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie, cosi come prevede la legge 7 marzo 1996, n. 109 come modificata ed integrata dal d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159. L’immobile che viene sottratto alle organizzazioni criminali, e dunque effettivamente restituito alla collettività mediante interventi socio-educativi, con specifici scopi di reinserimento e partecipazione democratica, rappresenta la vera vittoria dello Stato sulle mafie, nella misura in cui quell’immobile diviene da posizionale a relazionale, in grado cioè, di far ruotare intorno ad esso, le istituzioni e la società civile in un progetto permanente di rieducazione delle persone e del territorio. 307 G. FALCONE, L’acquisizione delle prove nei procedimenti penali concernenti associazioni mafiose, con particolare riferimento agli accertamenti bancari, in G. FALCONE, La posta in gioco, interventi e proposte per la lotta alla mafia, BUR, 2010, pp. 207 ss. 173 La dimensione sociale, allora, non può essere esclusa, se si considera che nell’ambito dello studio, avente ad oggetto il fenomeno della mafia, durante tutto il percorso giurisprudenziale e dottrinario, che ha condotto alla definizione giuridica del reato di associazione mafiosa, ex art. 416bis c.p.p., si è proprio partiti col considerare le caratteristiche sociali di tale fenomeno. Sicché, successivamente alle affermazioni che hanno condotto all’individuazione dell’elemento strutturale della mafia, nella “carica intimidatoria autonoma”, quest’ultima “non nasce dal nulla, ma trae pur sempre origine da comportamenti umani: in particolare da una pregressa – e più o meno antica – pratica di violenza e di intimidazione coltivata sistematicamente in guisa tale da determinare, in una certa fase di evoluzione del sodalizio stesso, il prodursi di quel risultato”.308 È chiaro che tale risultato, al quale si fa riferimento, è ottenuto proprio grazie al potere del dominio mafioso che, tra le altre cose, si fonda sulle enormi disponibilità economico-finanziarie di cui le organizzazioni mafiose dispongono. Ma perché possa essere giocata, in modo vincente, la partita sul terreno del riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie, è ovvio che innanzitutto sia vinta quella condotta dall’autorità giudiziaria nell’ambito del procedimento di prevenzione patrimoniale. L’interesse, dunque, è quello di coniugare aspetti sociali e giuridici in una materia che tocca entrambe le sfere di competenza e che negli anni ha visto lo scambio di opinioni tra magistrati della prevenzione e operatori sociali, cooperatori ed associazioni che, a livello nazionale, operano perché si diffonda, anche nel resto dell’Europa, la cultura del riutilizzo sociale dei patrimonio sottratti alle mafie. Tale ultimo confronto si è realizzato proprio alla vigilia dell’approvazione del Codice Antimafia, in un assise gremita309, di esperti, operatori del diritto ed esponenti della società civile, per suggerire e proporre le necessarie modifiche di un testo legislativo, che, attualmente, non risponde alle esigenze proprie della materia in oggetto, sia dal 308 G. TURONE, Il delitto di associazione cit., p. 125 Il riferimento è alla Conferenza – dibattito che si tenne il 7 luglio 2011 presso la sala delle conferenze della Camera dei Deputati a Roma. Nell’incontro, che fu fortemente voluto dal Centro Studi ed Iniziative culturali “Pio La Torre”, furono presentate le proposte di modifica al Codice Antimafia da parte dei magistrati della prevenzione e dalle associazioni che maggiormente si occupano di riutilizzo sociale dei beni sottratti alle organizzazioni mafiose. Alcune di quelle modifiche trovano oggi cittadinanza all’interno del testo del Codice Antimafia. 309 174 punto di vista dell’applicazione della relativa giurisdizione che per quel che concerne l’aspetto sociale. Fortunatamente la legge – delega 13 agosto 2010, n. 136, con la quale il Parlamento ha delegato il Governo alla redazione del Codice Antimafia, prevede all’art. 2, comma 4 che “entro tre anni dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo di cui al comma 1, nel rispetto delle procedure e dei principi e criteri direttivi stabiliti dal presente articolo, il Governo può adottare disposizioni integrative e correttive del decreto medesimo”. Questo significa che il Codice delle leggi Antimafia è ancora un cantiere aperto su molti aspetti problematici che sono denunciati dalla stessa autorità giudiziaria competente. Un risultato importante è stato ottenuto, con il tentativo della redazione di un testo che raccogliesse la maggior parte delle disposizioni, ma va rilevato che in molti aspetti è evidente che il codice è redatto sulla base di una scarsa conoscenza della materia.310 Così nell’ambito dell’avviso di fissazione dell’udienza, resta irrisolto il problema legato ad una adeguata informazione circa gli elementi di fatto che hanno motivato la proposta. Mentre, infatti, il legislatore si limita a precisare che il presidente fissa la data dell’udienza e ne fa dare avviso alle parti, la prassi applicativa non è univoca. In riferimento, oltretutto, ai principi del giusto processo ai quali pure il giudizio di prevenzione è ispirato, sarebbe necessario che il legislatore prevedesse espressamente che alle parti venga data informazione degli elementi di fatto che hanno motivato la proposta. Altro problema, dal punto di vista processuale, concerne la fissazione di termini perentori che non corrispondono all’effettiva esigenza dello svolgimento del procedimento di prevenzione. 310 Sul punto F. Menditto in Codice Antimafia, commento organico cit., in Prefazione 175 Solo rendendo inattaccabile il processo al patrimonio delle organizzazioni mafiose, prevedendo anche l’istituzione di sezioni specializzate, potrà condursi una efficace fase di prevenzione. L’ingresso del Codice Antimafia, nel nostro Ordinamento giuridico, rappresenta certamente un tentativo importante di riordino della normativa antimafia, ma perché possa portare ad effettivi risultati, è necessaria un’ azione di effettivo coordinamento delle norme e piena aderenza alla prassi applicativa. 176 Appendice di approfondimento: intervista a Franco la Torre figlio di Pio e presidente di Freedom, Legality and Rights in Europe (Flare) La breve intervista a Franco La Torre, familiare dell’Onorevole Pio La Torre, segue un percorso che parte dalla memoria del deputato del PCI, che propose la legge, oggi nota come legge Rognoni – La Torre, e che ha rappresentato una vera e propria rivoluzione copernicana, nell’ambito del contrasto giudiziario alle organizzazioni criminali di stampo mafioso. L’intervista continua affrontando gli aspetti politici e sociali che rappresentarono il contesto nel quale maturò quella proposta legislativa basata anche su un particolare attivismo delle varie federazioni del Partito Comunista, in Sicilia, confluite in quella relazione di minoranza del 1976 che duramente criticò la relazione di maggioranza dell’allora Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia. Le ultime domande sono rivolte all’impegno di Franco La Torre, attualmente presidente della rete internazionale “Flare”. La rete, che si compone di circa trentotto organizzazioni non governative, coinvolgendo 25 paesi dell’eurozona, nasce da un’idea della rete nazionale “Libera” con lo scopo di mettere in campo azioni concrete di contrasto alle organizzazioni criminali transnazionali. Non solo informazione e sensibilizzazione a favore della cittadinanza europea sul tema delle mafie, la rete opera anche dal punto di vista istituzionale facendo pressione sugli organismo dell’Unione Europea al fine di armonizzare e implementare le varie legislazioni nazionali con specifico riferimento ai provvedimenti di sequestro e di confisca, e dunque al reciproco riconoscimento degli ordini di sequestro, e al successivo riutilizzo sociale dei beni acquisiti a patrimonio dello Stato. 177 Qual è il ricordo più nitido che ha di Pio La Torre? Il suo sorriso ampio e il suo sguardo profondo e luminoso. La sua passione civile e il suo coraggio l’hanno contraddistinto sin da giovanissimo. Pio La Torre era, dunque, un eroe? Mio padre è stato coerente con i principi in cui credeva: la libertà, la, pace, la democrazia, il progresso, la giustizia, battendosi per la loro affermazione, attraverso il suo impegno civile, sia sindacale che politico, che hanno ispirato la sua vita. Ha combattuto la mafia, perché questa ostacola l'esercizio di quei principi e diritti fondamentali. E' stato responsabile, con profondo senso dello stato, onesto, mettendo al primo posto gli interessi generali. E' stato un buon cittadino. Non ritengo si possa definirlo un eroe. Pio La Torre era rigoroso e coerente. Tanto da impedire che i suoi figli giocassero nel campo di calcio di proprietà di un mafioso.311 Qual è, secondo lei, il valore di questi comportamenti? Quali i suoi pensieri quando suo padre li esternava? L'episodio si riferiva alla squadra di calcio in cui giocava mio fratello. Io non ero così bravo. Mio padre, col suo esempio, oltre che con le parole, affermava i valori in cui credeva. Io li ho compresi e condivisi. Suo padre propose la legge che oggi porta il suo nome e che introdusse nel nostro codice penale l’art. 416bis. L’associazione di tipo mafiosa. Si ricorda quel periodo? Quali aspettative aveva, l’Onorevole La Torre, rispetto a quel progetto di legge? 311 L’episodio è raccontato tra le pagine del testo di G. Bascietto e C. Camarca, Aliberti, “Pio La Torre, una storia italiana”, Aliberti, 2008 178 Non ho particolari ricordi di quel periodo, in cui elaborò e depositò la legge in Parlamento, dove rimase, per essere approvata solo dopo la sua morte e quella di dalla Chiesa. La relazione di maggioranza del 1976, della prima Commissione parlamentare antimafia, fece dissentire, sulle modalità pressoché inesistenti, con le quali era stato affrontato il tema delle connessioni mafia-politica, gli esponenti del Partito Comunista, tra i primi suo padre, i quali, redigendo un’apposita relazione di minoranza, decisero di trattare espressamente questo tema, facendo nome e cognome dei responsabili. Attualmente, come crede che sia affrontato, dalle istituzioni preposte, tale annoso problema? Il nodo mafia-politica è un vulnus della nostra democrazia e la politica, sino ad ora, non è riuscita ad affrontarlo in maniera da scioglierlo definitivamente. Nella prefazione al volume “Mafia e Politica”312, suo padre scrisse che “dopo essersi battuti per la costituzione della Commissione parlamentare d’inchiesta, i comunisti sono la sola forza politica che abbia collaborato, sin dall’inizio, con la commissione fornendole numerosi documenti e relazioni”. Dott. La Torre, qual’era secondo lei, il contesto socio-politico in cui si inquadrava la lotta alla mafia e quali sono le condizioni in cui oggi la stessa si svolge? Ai tempi di mio padre, in molti ambienti, la mafia era considerata un fenomeno folkloristico, in altri veniva sottovalutata e in altri ancora ne veniva negata l'esistenza. Oggi nessuno può negarne l'esistenza e la valenza criminale. Come viveva questo fermento politico e sociale? 312 “Mafia e politica”, con prefazione di Pio La Torre, Editori Riuniti, 1976 che pubblica i contenuti della relazione di minoranza in contrasto con la relazione di maggioranza dell’allora Commissione parlamentare antimafia costituita con legge nel 1963 179 Non credo che, allora, si potesse definire fermento politico e sociale, l'impegno di una parte, non sempre maggioritaria, delle istituzioni. Alcuni partiti, PCI, PSI e MSI, innanzitutto, insieme al sindacato, erano percepiti come forze antimafia, ma non possiamo parlare di coscienza civica diffusa. In Sicilia c'erano donne e uomini fortemente impegnati, ma il resto del Paese non appariva cosciente della gravità della minaccia mafiosa. Suo padre non si spese solo nella lotta alla mafia. Egli innanzitutto intraprese la lotta a difesa dei contadini, a partire dalla fine degli anni ’40 e poi successivamente con l’approvazione della riforma agraria all’inizio degli anni ’50. Poi si schierò contro l’installazione della base missilistica a Comiso nel 1982. Ma dietro le quinte, in un modo o nell’altro, anche in questi contesti, c’era sempre la mafia. Quali sono, secondo lei, oggi, le declinazioni del potere mafioso? Quelle tendenze, tipiche del cosiddetto fenomeno della globalizzazione, che la mafia anticipa, visti i suoi interessi transnazionali, legati ai traffici illeciti, che hanno come teatri le borse, le grandi multinazionali e gli investi economici nei quattro angoli del pianeta. Quelle tradizionali: il controllo del territorio e dei processi decisionali pubblici. Quelli occulti: grazie ai sodalizi politici ed economici, mirati a fermare opgni istanza di rinnovamento, in nome di interessi retrivi e reazionari. La legge, oggi nota come “Rognoni – La Torre”, introdusse uno strumento importantissimo. Quello delle misure di prevenzione patrimoniale. L’aggressione dei patrimoni mafiosi è stata un’intuizione di Pio La Torre senza precedenti. Con l’approvazione del Codice Antimafia, secondo lei, come è stata interpretata dai posteri l’eredità morale, civile, legislativa e culturale di Pio La Torre? Come hanno affermato in tanti, più esperti di me, dall'ANM al Centro Pio La Torre, da Libera alla CGIL, il Codice non riesce a raccogliere e valorizzare l'eredità della Rognoni- La Torre, riducendosi, quasi, a un Codice delle misure di prevenzione. 180 Lei, dallo scorso 20 febbraio 2012, è il nuovo presidente di Flare313 che, tra i suoi obiettivi, si propone proprio di fare pressione sulle istituzioni dell’Unione Europea, per l’attuazione di un modello di contrasto che preveda proprio la confisca e il riutilizzo sociali dei beni di illecita provenienza. Quali sono le maggiori difficoltà per armonizzare le legislazioni europee con la nostra legislazione di prevenzione antimafia? La Commissione europea ha proposto una Direttiva sulla confisca dei beni all'approvazione del Parlamento e del Consiglio europei, e ha affermato che la maggiore difficoltà sia proprio nella sua armonizzazione nei sistemi giuridici degli Stati membri. La maggiore difficoltà risiede anche nella cultura giuridica di alcuni paesi dell'UE, che ritiene che sia inviolabile la proprietà privata, sino a sentenza definitiva. Mi auguro che una maggiore consapevolezza di ciò che è la mafia aiuti un'evoluzione in tal senso. Come si pone lo Stato italiano rispetto a questo progetto di armonizzazione della legislazione? Lo Stato italiano, grazie alla Rognoni- La Torre e alla legge sul riutilizzo sociale dei beni, voluta da Libera e alle norme che hanno rafforzato gli strumenti di contrasto, è nelle condizioni di accogliere la richiesta di armonizzazione. 313 Flare (Freedom, Legality and Rights in Europe) è un network internazionale composto da 38 Organizzazioni non governative provenienti da 25 paesi in tutta Europa, bacino del Mediterraneo, Federazione Russa, Caucaso e Balcani. (http://flarenetwork.org/home/home_page.htm) 181 Bibliografia • ARLACCHI P., La mafia imprenditrice, IL SAGGIATORE, Milano 2007 • ATTI DEL IX CONVEGNO di studi “Enrico de Nicola”, GIUFFRÈ, Varese 1975 • ATTI PARLAMENTARI, Camera dei Deputati, Legislatura VIII, Lavori in commissione, Commissioni riunite, Sede legislativa, Commissioni riunite (II Interni e IV Giustizia) seduta del 5 agosto 1982 • ATTI PARLAMENTARI, Camera dei Deputati, Legislatura VIII, Lavori in commissione, Commissioni riunite, Sede legislativa, Commissioni riunite (II Interni e IV Giustizia) seduta del 7 settembre 1982 • BALSAMO A. – CONTRAFATTO V. – NICASTRO G. , Le misure patrimoniali contro la criminalità organizzata, GIUFFRÈ, Milano 2010 • BALSAMO A. – MALTESE C., Il Codice Antimafia, GIUFFRÈ, Milano 2011 • BARBAGALLO F., Storia della camorra, LATERZA, Bari 2010 • BASCIETTO G. – CAMARCA C., Pio La Torre, una storia italiana, ALIBERTI, Roma 2008 • BENE T., Questioni aperte in tema di impugnazioni nel procedimento di prevenzione, in Archivio penale 2012, n.3 • BIONDI G., Il procedimento penale in camera di consiglio, GIUFFRÈ, Milano 2011 • BRANCA G. 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I, 29 novembre 1985, Di Maio, in Giust. Pen., 1986, III, c. 425, m. 419 • Cass., Sez. I, 26 maggio 1986, Priolo • Cass., Sez. I, 2 febbraio 1987, Intile, in Giur. It., 1989, II, c. 57 • Cass., Sez. I, 9 maggio 1988 n. 638, Raffa • Cass., 24 ottobre 1988, RFI, 1988, 1984, 62 • Cass., Sez. I, 27 febbraio 1990, p. 1461, n.1149 • Cass., Sez. Un., 20 giugno 1990, Corica • Cass., Pen. Sez. I, 11 Novembre 1991, n. 3866, Rv. 188804 • Cass., Pen. Sez. I, 16 marzo 1992, n. 499, Rv. 189506 • Cass., Sez. I, 21 aprile 1993, n. 1051, Rv. 193721, Manzari in CED • Cass., Sez. V, 20 ottobre 1993, n. 3268, Rv. 196297 • Cass., Pen., Sez I, 25 maggio 1994, n. 1147, Rv. 197671 • Cass., SS. UU., 21 aprile 1995 n. 7227 • Cass., Pen., Sez. I, 30 maggio 1995, n. 2019, Rv. 201459 • Cass., Sez. V, 8 novembre 1995, sent. n. 2553, Morana • Cass., Sez V, 28 novembre 1995, n. 373, Bordella 189 • Cass., Sez. VI 23 gennaio 1996 n. 398, Brusca ed altri, Rv. 205029 • Cass., SS., UU., 3 luglio 1996, n. 18, Simonelli • Cass., Sez. II 21 marzo 1997, n. 1254, Rv. 207318 • Cass., Pen., Sez VI, 19 giugno 1997, n. 2148, Rv. 208310 • Cass., Sez. VI, 27 maggio 1997, n. 2148, dep. 19 giugno 1997, Rv. 208310 • Cass., Sez. VI, 29 luglio 1997, n. 1288, Femia, in Ced. • Cass., 26 novembre 1998 n. 5897 • Cass., Sez. I, 2 dicembre 1998 n. 1495, Rv. 212272 • Cass., Sez. V, 14 dicembre 1998, n. 6794, in proc. Musso, in CED Cass. n. 212209 • Cass., Sez., II, Pen., 8 luglio 1999, n. 1790 • Cass., Sez.VI, 28 marzo 2001, Sent. n. 12511 • Cass., Sez. IV, 10 marzo 2003, n. 10771, Asole, in CED • Cass., sez. VI, 15 aprile 2004, n. 23090 • Cass., Sez. II Pen., 23 giugno 2004, dep. 27 agosto 2004, n. 35628 • Cass., Sez. VI, 23 novembre 2004 dep. 5 gennaio 2005, n. . n. 114 Rv. 231448 • Cass., Sez. II, 16 dicembre 2005, n. 1023, Rv. 233169 • Cass., Sez. II, 2 marzo 2006, n. 7616 • Cass. Sez. I, 25 maggio 2006, n. 30783 • Cass., Sez. I, 28 giugno 2006 n. 25701, Arena in CED 190 • Cass., Sez. V, 12 ottobre 2006, n. 34150 • Cass, SS. UU. Penali, 8 gennaio 2007, n. 57, Auddino • Cass., Sez. II Pen., 23 gennaio 2007, dep. 7 febbraio 2007, n. 5248 • Cass., SS. UU., 29 marzo 2007 n. 27614, Rv. 236535 • Cass., Sez. V Pen., 12 dicembre 2007, dep. 7 gennaio 2008, n. 1859 • Cass., 10 aprile 2008, n. 17827, Di Vincenzo, Rv. 239855 • Cass., Sez VI, Pen., 15 settembre 2008, D.L. in CED Cass., n. 241251 • Cass., Sez. VI Pen., 17 settembre 2008, dep. 30 settembre 2008, n. 37166 • Cass. Sez. II, 18 novembre 2008 n. 46751, Sabatelli e altri, Rv. 242803 • Cass., Pen., Sez I, 1 dicembre 2008, n. 44601 • Cass., Sez. I, 25 febbraio 2009, n. 8510 • Cass., Sez. II, 22 aprile 2009, n. 20906, Buscema e altri, Rv. 244878 • Cass., Sez. I, 11 settembre 2009, n. 35175, Rv.245362 • Cass., Sez. I, 15 ottobre 2009, C.G., in CED Cass., n. 245374 • Cass., Sez. I, 30 dicembre 2009, G.F., in CED Cass., n. 24597 • Cass., Sez. V, 27 ottobre 2010, n. 3687 Cassano e altri in CED Cass. 249691 191 Giurisprudenza di Merito • Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc .18 maggio 2010, Reg. Gen. M.P. 198/98 e 21/05, Pres. Menditto • Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 16 giugno 2009, Reg. Gen. M.P. n. 352/04 e 95/08, Pres. Est. Menditto • Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 15 giugno 2010, Reg. Gen. M.P. 150/02 e 30/04, Pres. Cozzi, Est. Menditto • Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 27 ottobre 2010, Reg. Gen. M.P. n. 132/02, Pres. Est. Menditto. • Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 20 ottobre – 5 novembre 2010, dep. 09 dicembre 2010, Reg. Gen. M.P. n. 333/04 e 219/05, Reg. Dec. n. 276/2010/A, Pres. Est. Menditto • Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 7 febbraio 2009, dep. 23 febbraio 2009, Reg. Gen. M.P. n. 131/02, 154/03, 159/06, 64/08, 210/08, Reg. Dec. n. 2 /09/S, Pres. Menditto • Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 19 dicembre 2007, Reg. Gen. M.P. n. 246/99 e 11/07, Pres. Cozzi, Est. Menditto • Tribunale di Napoli, Sezione Misure di Prevenzione, cc. 6 marzo 2006, dep. 9 maggio 2006, Reg. Gen. M.P. n. 242/03, Reg. Dec. n. 106/2006 (A), Pres. Est. Cozzi 192 • Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 23 giugno 2003, dep. 27 giugno 2005, Reg. Gen. M.P. n. 136/99 + 44/05 + 105/05, Reg. Dec. n. 184/05 “A”, Pres. Cozzi, Rel. La Posta • Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 23 settembre 1992, Proc. n. 19/89 + 141/90 + 198/90 + 152/91 M.P., Reg. Dec. n. 305/1992, Pres. Peluso, Est. Celentano • Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 12 aprile 2011, Reg. Gen. M.P. n. 143/05, Reg. Dec. n. 83/2011, Pres. – Rel. Del Balzo (decreto irrevocabile 30 maggio 2011) • Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 14 dicembre 2010, Reg. Gen. M.P. n. 112/09, Reg. Dec. n. 302/2010, Pres. Del Balzo, Rel. Mazzeo • Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 27 ottobre 2006, Reg. Gen. M.P. n. 136/99 + 44/05 + 105/05, Reg. Dec. n. 162/07 “A”, Pres. Del Balzo, Rel. La Posta • Tribunale Civile e Penale di Roma, Sezione per l’applicazione delle Misure di Prevenzione per la sicurezza e la pubblica moralità, cc. 5 dicembre 2005, Reg Gen. M.P. n. 134/2005, Reg. Dec. n. 91/06, Pres. Taurisano • Tribunale Ordinario di Roma, Sezione Misure di Prevenzione, cc. 9 aprile 2009, dep. 8 giugno 2009, Reg. Gen. M.P. n. 293/2008, Reg. Dec. n. 164/09, Pres. Lo Surdo, Est. Casa • Tribunale Ordinario di Roma, Sezione Misure di Prevenzione, cc. 19 maggio 2009, dep. 10 giugno 2009, Reg. Gen. M.P. n. 268/2008, Reg. Dec. n. 166/09, Pres. Capozza, Est. Scicchitano • Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 6 dicembre 2011, dep. 3 febbraio 2012, Reg. Gen. M.P. nn. 388/2000+145/09+24/11, Reg. Dec. n. 50/2012, Pres. Est. Del Balzo 193 • Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 22 dicembre 2010, dep. 8 febbraio 2011, Reg. Gen. M.P. n. 151/02, Reg. Dec. n. 27/11/A, Pres. Est. Menditto • Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc .15 giugno 2010, dep. 13 agosto 2010, Reg. Gen. C.C. n. 43/10, Reg. Dec. n. 121/2010/B, Pres. Cozzi, Est. Menditto • Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc .21 luglio/16settembre 2009, dep. 20 ottobre 2009, Reg. Gen. C.C. n. 30/09, Reg. Dec. n. 151/2009/B, Pres. Est. Menditto 194 Giurisprudenza della Corte EDU • Riepan c. Austria, nº 35115/97 • Tierce e altri c. Saint-Marin, nº 24954/94 24971/94 e 24972/94 • Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Strasburgo), Sent. dell’8 luglio 2008, caso Perre ed Altri c. Italia (ricorso n. 1905/05) • Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Strasburgo), Sent. del 5 gennaio 2010 caso Buongiorno e Altri c. Italia (ricorso n. 4514/07). • Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Strasburgo), Sent. del 13 novembre 2007, caso Bocellari e Rizza c. Italia (ricorso n. 399/02). 195 Ringraziamenti Un ringraziamento va ai miei genitori e a mia sorella, che mi hanno sostenuto in questo percorso, e assecondato e condiviso le mie discussioni e riflessioni, spinte dalla passione per il diritto e che so, continueranno a farlo da qui in futuro. Un ampio ringraziamento va a tutti coloro che mi hanno messo in condizione di redigere questo lavoro, facendomi orientare nella complessa materia delle misure di prevenzione patrimoniali. Innanzitutto un ringraziamento a “Libera” e agli amici conosciuti in questi sei anni di militanza associativa, nella quale ho avuto modo di maturare, ancor di più, sentimenti di passione civile e di giustizia, intravedendo gli aspetti concreti di un attivismo antimafia, attraverso esempi di moralità e impegno. In particolare a Geppino Fiorenza, Don Tonino Palmese, per avermi insegnato ad operare in direzione del cambiamento sociale, Fabio Giuliani, Tiziana Apicella e Davide Pati che mi hanno introdotto alla materia dei beni confiscati e al riutilizzo sociale degli stessi, insegnandomi a credere nel lavoro associativo e nell’impegno civile. In particolare al Dott. Francesco Menditto, che ha sopportato i miei continui interrogativi e ragionamenti, che mi ha fornito letture approfondite e sistemiche e che mi ha fatto appassionare al tema della prevenzione, grazie al suo personale entusiasmo, alla sua preparazione e alla sua professionalità. Alla Dott.ssa Eugenia Del Balzo che ha permesso la consultazione dei provvedimenti della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Napoli e per la disponibilità operativa concessami. Al Dott. Franco La Torre, per la sua intervista, ma non solo, per il suo continuo impegno e per la sua testimonianza di familiare di vittime innocenti della criminalità. Alla Dott.ssa Clelia Iasevoli, per aver creduto nella realizzazione di questo lavoro, dandomi la possibilità di trattare e approfondire questo argomento. Agli amici miei che mi accompagnano e sostengono sempre 196 Ai familiari delle vittime innocenti di criminalità, che mi hanno accompagnato in questo percorso in Libera, e alle vittime innocenti di criminalità, perché la sofferenza degli uni e l’assenza degli altri oggi sono diventate testimonianza diretta del dolore che trasforma le coscienze. 197