Renata Viti Cavaliere L`esistenza nel pensiero di Ernesto de Martino

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Renata Viti Cavaliere
L’esistenza nel pensiero di Ernesto de Martino
Nella Prefazione alla seconda edizione della Gaia scienza Nietzsche invita a sostenere
coraggiosamente che in ogni filosofare non si tratta della “verità” ma di qualcos’altro, come
salute, avvenire, sviluppo, potenza, vita. Presentava l’opera appena compiuta come il frutto di
una ripresa dopo la malattia, occasione di tripudio dopo lunga privazione ed esultanza per
l’energia che ritorna, ma non ci vuol molto a capire che per il filosofo il risanamento è fatto
consistere faustianamente nell’operare stesso. Dagli stati di necessità germoglia in generale la
filosofia. Al di là della vicenda personale Nietzsche teorizzava un modus essendi
dell’esistenza che è impegno, andare oltre, rinascita. Nel dover essere dell’esistenza sta
dunque la cura.
Mi sono ispirata a questo celebre passaggio nietzscheano nell’intento di sottolineare la
centralità del tema dell’esistenza nel pensiero di De Martino. Esistenza vissuta ed esistenza
pensata, biografia e filosofia sono compresenti in lui, ma soprattutto al cuore dei problemi che
l’hanno a lungo assillato risalta una concezione della storia che è nascita dell’umano
dell’uomo; l’analisi ha riguardato gli ambiti preferiti del primitivo, delle religioni, delle
ricerche antropologiche. Filosofo nel profondo, l’etnologo De Martino ha messo in primo
piano sin dai suoi primi studi il principio di inauguralità che è l’esistenza, potenza d’essere,
elemento base di ogni cambiamento in cui consiste la storia nei suoi immancabili
rinnovamenti. Colpisce nel suo vasto lavoro scientifico la rinuncia al metodo naturalistico
della scienza etnologica fatta in nome del carattere peculiare della storiografia che nei riguardi
del mondo primitivo dovrà essere capace anche di riflettere mentre descrive e di leggere
nell’intimo di tempi lontani e misteriosi. De Martino rifuggiva da ogni idoleggiamento
dell’arcaico che sarebbe stato antistorico, e neppure trovò rifugio nel primitivo al riparo dalla
crisi dell’Occidente coeva al Novecento. Non fu spinto neppure da interesse teologico in cerca
del primo logo, della prima parola, del primo vagito della realtà umana. Ha indugiato
paradossalmente su realtà che frenano lo svolgimento, per una necessaria resistenza al
cambiamento, quasi una ripulsa del divenire, come accade nelle religioni che vivono il tempo
sospeso dei riti e della ripetizione simbolica. De Martino era attratto, all’interno del processo
storico, da quelle istanze che hanno consentito l’opzione umana, avviando un processo di
individuazione e costruendo l’esserci nel mondo come presenza il più possibile garantita.
“Credere nella storia mi ha fatto sentire più vicino a Dio”, così scriveva in una lettera a
Macchioro nel marzo del 1936. Adottava per l’occasione il linguaggio profetico del suocero
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col quale ebbe un rapporto di doverosa devozione filiale ma di difficile consonanza
intellettuale. L’esistenza vissuta di De Martino, alla quale voglio fare anzitutto riferimento, fu
ricca di incontri con importanti figure della cultura del tempo alle quali si sentì legato sempre
in aperto confronto. All’esistenza vissuta appartengono le sue scelte politiche in momenti di
radicali trasformazioni in Italia e in Europa, e l’interesse per le grandi questioni sociali nel
secondo dopoguerra. Di recente si è indagato a mio avviso anche troppo sulla biografia di De
Martino quasi in cerca di spiegazioni e di dipendenze da familiari e maestri. E’ questo il caso
del rapporto con il suocero Vittorio Macchioro. Dal carteggio completo da poco uscito a cura
di Riccardo Di Donato e Mario Gandini1, emerge l’atteggiamento composto di De Martino
pur in risposta a lettere di fuoco in cui abbondano rimproveri e consigli. Non si può dire che
si sia mai sentito discepolo di Macchioro al quale riconosceva personalità, ampia cultura e
alcuni comuni interessi2. Il Carteggio con Macchioro è tuttavia molto utile: ci fa cogliere tra
l’altro un avvertito sentimento provvidenzialistico (in senso laico) dell’esistenza che nel
giovane De Martino si intrecciava con la fede altrettanto provvidenzialistica (non però sul
piano di una filosofia della storia) nel fascismo in Italia. Siamo negli anni Trenta e De
Martino (dal 1934 al 1939) progettava di scrivere un saggio sulla “religione civile” del quale
aveva chiaro il piano di lavoro che invia a Macchioro per sollecitarne il parere. Il saggio
avrebbe avuto la finalità di “avviare a maturazione morale e civile” il fascismo che De
Martino si proponeva di liberare dalla prevalenza di problemi economici e giuridico-politici.
L’idea del fascismo come una fede, come un patto solidaristico spirituale in prosecuzione
della modernità occidentale secolarizzata, rappresentava la prospettiva a tratti esaltata di un
giovane che aveva idealizzato lo spettacolo misticheggiante di quella sacralizzazione della
politica che fu in superficie l’era fascista3. La religione, che De Martino concepiva in termini
filosofici, veniva allora da lui intesa in uno con l’aspirazione “morale” alla civiltà. E nello
Stato fascista De Martino lesse il segno di una provvidenza che non cala dall’alto i suoi voleri
ma chiede a tutti di impegnarsi in un vincolo comune. Si spiega l’intreccio della fede politica
con il sentimento provvidenzialistico dell’esistenza, vissuta da De Martino come una
teleologia della vita, un disegno non prestabilito che ognuno costruisce nello stare attivamente
nel mondo. Provvidenziale per lui è il volerci essere nella presenza, l’impegno quotidiano, che
1
Le intrecciate vie. Carteggi di Ernesto De Martino con Vittorio Macchioro e Raffaele Pettazzoni, Edizioni
ETS, Pisa 2015.
2
Assai più profondo e significativo fu il rapporto con Croce e preponderante l’influenza dello storicismo
idealistico sulla formazione di De Martino e nell’intero suo percorso di studi. Si trattò di un legame di stima e di
amicizia non interrotto da qualche dissenso teoretico né dalle evidenti divergenze politiche in seguito alla
conversione demartiniana al marxismo.
3
Cfr. Emilio Gentile, Le religioni della politica. Fra democrazie e totalitarismi.
Roma-Bari, Laterza, (Storia e Società), 2001.
3
sono qualcosa di gratuito, talvolta di intempestivo, purtroppo di incostante. Il Maligno, di
contro, non è il male o il goethiano “spirito che tutto nega”. Al diavolo si devono attribuire
momenti di negligenza, di stasi intellettuale, anche di fragilità nervosa. Il Maligno per il
giovane De Martino è mancanza di fede nell’uomo e nel progresso civile. Con buone ragioni
Macchioro gli segnalava che il fascismo che aveva in mente non era affatto il fascismo reale
dal quale avrebbe fatto meglio a tenersi a distanza. Il suocero, peraltro dal canto suo, nutriva
altre fedi di carattere esoterico e per molti aspetti popolari quando, ad esempio, nel Diavolo
indicava l’evenienza di una traversia o il semplice intralcio a progetti lungamente attesi. Il
Maligno si palesava ai suoi occhi, nel rapporto tormentato con il genero che avrebbe voluto
per figlio, addirittura nel filosofo Croce e nei crociani che temeva avrebbero inaridito il
giovane studioso con le loro fumose astrattezze. Non mancherà di dar credito, per tenere a
bada il contingente, finanche a forme banali di preveggenza come la cartomanzia. De Martino
viveva invece il sentimento di una certa fragilità esistenziale compensata, diceva, dalla
potenza della mente. Fu per lui provvidenziale, così si era espresso, l’interesse per la storia;
allo stesso modo sentì nascere dentro di sé come una “grazia” il tema della magia che lo
avrebbe di lì a qualche anno reso esperto dei popoli primitivi.
E’ importante sottolineare la matrice esistenziale dell’interesse demartiniano per il
primitivo, che non rappresentò per lui, come si è già detto, una sorta di bene-rifugio per
intellettuali disincarnati. Può accadere che in tempi difficili ci si inoltri in ambiti di studio che
tengano lontani dal presente, a protezione dalle intemperie in corso. I primitivisti per lo più
sono attratti dal quadro di una natura perfetta e incontaminata, dal profilo mitico del buon
selvaggio, e, per nulla interessati ai popoli primevi, si prodigano a rappresentare un
anacronistico ritorno al più remoto passato. L’interesse etnologico di De Martino si andò a
innestare invece su una solida preparazione filosofica che lo spingeva a porsi domande
teoretiche a partire da un’età storica, quella del magismo, della quale poco o niente è possibile
raccontare mentre molto può essere descritto “per media e tipi” (Bernheim) e per strutture
sociali. Non tardò a scoprire nel primitivo l’esistenza individuale in embrione con tutta la sua
energia inaugurale e la sua potenza d’essere. Compete allo specialista dei popoli primitivi
cogliere il “sommerso” nell’umano, che è forza sempre insorgente nel doloroso impegno di
restar “vivi” nel mondo. De Martino fu perciò lontano dall’evoluzionismo naturalistico di tipo
darwiniano e da un ontologismo delle origini. Non c’è traccia in lui dell’Es freudiano, tumulto
di istinti e di impulsi immediati, fucina turbolenta di caos emotivo.
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De Martino ebbe sempre chiara la distinzione di teoretico e pratico. Solo in sede di
ricapitolazione autobiografica, intrecciò i due percorsi, così da attribuire al naturalismo
etnologico il canone della società borghese (da avversare) e ai popoli primitivi l’analogo dei
contadini delle Murge e la condizione di ogni popolo oppresso nei predomini coloniali. In una
sorta di egodicea, per dirla con Derrida, volle infine “giustificare se stesso” impegnato nella
lotta di liberazione delle classi subalterne. La sua storia politica, dalla resistenza antifascista al
comunismo, mostrò in ogni caso il segno di una fervida partecipazione ideale ai problemi
dell’Occidente moderno in cui era nato.
La questione teoretica dell’esistenza è già posta nella prima opera di De Martino:
Naturalismo e storicismo del 1941. In essa risaltava il tema della persona umana così centrale
negli interessi dei suoi autori di riferimento in quegli anni: nella storia del cristianesimo del
maestro Omodeo, negli studi sulla religione (Pettazzoni), nell’analisi delle forme simboliche
(Cassirer), e ancora negli esistenzialisti d’oltralpe che cominciavano ad affacciarsi in Italia,
nei cultori del sacro in Germania (Rudolf Otto), e in primo luogo negli scritti del Croce
maturo. Il progetto di una etnologia storicistica muoveva dalla critica radicale
all’impostazione naturalistica di un Lévi-Bruhl per intraprendere la via tortuosa di una
etnologia “interpretativa” che avrebbe portato De Martino ad approdare, a mio avviso, sulla
sponda di una vera e propria “filosofia dell’esistenza”. E però l suo primo libro è
innegabilmente un tributo al pensiero crociano. Le due posizioni possono coesistere se si
considera l’atteggiamento critico da lui sempre assunto. De Martino aveva letto con
particolare attenzione il saggio La natura come storia senza storia da noi scritta che è tra le
pagine finali della Storia come pensiero e come azione, uscita nel 1938. In quel testo Croce
sosteneva che “la cosiddetta natura è spiritualità anch’essa ed è perciò storia”, dunque non
può non essere coscienza di sé, per paradossale che possa apparire. La storicità non si nega
agli esseri naturali e certo non si nega ai popoli primitivi, altrimenti si corre il rischio di
escludere a catena dalla storia anche genti straniere, classi ritenute inferiori, donne e uomini
senza patria. Alla storicità della natura corrisponde tuttavia una storia non scritta per il
semplice motivo che non sarebbe sorretta da un bisogno di azione nel presente, se per
storiografia deve intendersi, come Croce riteneva dovesse farsi, la storia pensata. Croce
auspicava perciò l’emancipazione del pensiero storico dal naturalismo, dalle false storie e
dalla metastoria di un’antiquata metafisica. Va qui ricordato che negli anni Trenta Croce
aveva in più occasioni teorizzato la storiografia etico-politica soprattutto in contrasto con le
storie etnicistiche che pretendono di sostituire ai valori morali e ideali il rozzo naturalismo di
una lotta tra animali da preda. Pochi allora colsero da subito anche nella descrizione
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fenomenologica delle categorie dell’esistenza nell’opera maggiore di Heidegger (1927, Sein
und Zeit) il modello antropologico orizzontale che si sarebbe di lì a poco rivelato del tutto
consono ad una umanità bloccata nell’ordine politico fondato sulle basi naturalistiche della
terra e del sangue di appartenenza. Oggi ci appare davvero liberatorio lo studio demartiniano
dei popoli primitivi, che lasciava emergere con straordinaria efficacia il
processo di
strutturazione dell’umano nel rapporto intimo col mondo fino all’affermazione del Sé come
soggetto autonomo e spontaneità creatrice. “Eroico” in un certo senso ci sembra quel
ripensamento dello storicismo avvenuto in tempi difficilissimi, di guerra e di traversie
personali e familiari, quando il secondo libro di De Martino venne scritto e conservato perché
vedesse la luce infine nel 1948 con il titolo Il Mondo magico. Prolegomeni a una storia del
magismo.
Fu Enzo Paci a sottolineare, recensendo il volume del ‘48, che l’autore doveva anche
qualcosa alla filosofia degli esistenzialisti. In realtà De Martino aveva già avuto notizia di
pensatori e temi dell’esistenzialismo ma non si può dire che ne sia stato allora ispirato, benché
ne parli in alcuni passaggi del libro. Il filosofo che probabilmente ebbe più in mente, anche
per la mediazione di Croce, fu Giambattista Vico peraltro ricordato in nota nella premessa con
una lunga citazione dalla Scienza Nuova. Quel Vico, il quale, come scriveva Croce, andando
in cerca della natura del linguaggio e delle religioni ebbe il presentimento che nell’età
primitiva le forme spirituali (cardini della storia come cambiamento) possedessero una
energia, una corpulenza, una prepotenza poi via via attenuate e rimaste nel profondo del
nostro essere di nature ingentilite. Con metodo comparativo Vico tradusse la preistoria in
storia non naturalistica del cammino umano di civilizzazione. De Martino maturò in seguito,
come cercherò di mostrare, il confronto critico tra questa suggestiva idea dell’esistenza come
fonte di valore storicamente rilevante con le dottrine degli esistenzialisti d’oltralpe, che
conobbe più a fondo anche attraverso le proposte di valenti studiosi italiani.
Il contesto filosofico dell’opera sul mondo magico è chiaro sin dalla prefazione: si
tratta di andar contro la lettura metafisica, pigra e salmodiante a volte, dello storicismo di
Croce; e a favore del compito di umanizzazione per un ampliamento della consapevolezza
storiografica. Si tratta di andar contro gli arcaismi, la boria occidentale, il realismo ingenuo; e
a favore di una nuova via per penetrare nel mistero del primitivo sino al cuore del magismo,
cioè sino alla base esistenziale della mai definitiva costruzione dell’umano. Ebbe allora
bisogno di raccogliere una gran mole di documenti sui fenomeni paranormali descritti nei testi
di etnologia, per i quali non vale la moderna superbia di chi relega nell’irrazionale una forma
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di vita così diversa dalla nostra. Scopriva che ci sono stati di coscienza tra i popoli primitivi
(ad esempio lo stato olon) che viene percepito nell’immediato come “l’eco del mondo”, come
l’essere in balia della realtà circostante, di ogni cosa o persona che risuona dentro come l’eco
di forze non controllabili che minacciano l’annientamento. De Martino è attratto
particolarmente dalla “crisi della presenza” in cui individui non ancora coesi e garantiti
sperimentano una insopportabile fragilità psichica. La possibilità della salvezza è ab origine
nella sola realtà concreta cui appigliarsi, vale a dire nelle pratiche di affidamento a figure
mitiche (lo stregone), a riti e culti familiari, ad abitudini e immagini che promettono di
arginare il nulla. Questa realtà complessa e oscura per menti ingentilite è il magismo, fatto
culturale non naturalistico, che De Martino chiama età storica perché in essa è ravvisabile il
principio del movimento tra innovazione e tradizione. La storicità non è dunque una categoria
ontologica, di contro all’ontico (Heidegger, conte Yorck), ma in termini crociani è l’esistenza
come capacità d’inizio, energia propositiva. Che il magismo consista in fenomeni paranormali
ai nostri occhi poco plausibili, nulla toglie al significato culturale delle pratiche magiche alle
quali si deve, nella paleostoria, anche la nascita dell’arte figurativa come ha illustrato
efficacemente Ragghianti4. Quel che importa è il carattere spontaneo, drammaticamente
sorgivo e inaugurale, della magia, primo traguardo di civiltà, presupposto di potenziali
avanzamenti della storia. Accade che l’angoscia per la perdita della presenza sia all’origine
della cultura, vero e proprio compenso alla morte, ordine nel caos, decisione di sé e del
mondo. La cura al tormento di vivere esposti a tutto sta nella partecipazione al mondo con
altri (riti collettivi) già molto oltre l’essere deietto descritto da Heidegger, esistenza di fatto da
sempre decaduta, schiacciata sul passato, prona alla comunità di popolo e al destino
dell’Essere. Mancò nel pensatore tedesco, secondo De Martino, la scoperta del nuovo
nell’arcaico, vale a dire l’idea fecondissima della possibilità sempre in fieri dell’opzione
umana. Nelle schede raccolte per la stesura dell’opera sulla fine del mondo (mai realizzata per
la prematura scomparsa nel 1965) De Martino annotava precise critiche alla filosofia degli
esistenzialisti, in particolare alla modalità inautentica dell’essere dell’esserci, identificata da
Heidegger con l’utilizzabile economico degradato all’anonimia del sociale in genere, alla
dispersione del Si impersonale, riflesso per lui della feticizzazione dell’alienazione della
società borghese. Non aveva torto De Martino a leggere Essere e tempo nell’ottica speculare
degli anni Venti del Novecento, in perfetta sintonia con il clima del primo dopoguerra,
consono a una diffusa colonizzazione delle coscienze. Insisteva perciò sul dover essere al
posto dell’Essere: in der Welt sein sollen. Era evidente, come notò Enzo Paci già a proposito
4
Citare il libro di Ragghianti, L’uomo cosciente. Arte e conoscenza nella paleostoria, Calderini, Bologna 1981.
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del mondo magico, l’influenza dell’esistenzialismo positivo di Nicola Abbagnano e della
Struttura dell’esistenza del ’39. De Martino intrecciava teoreticamente spunti tratti da Croce,
da Heidegger, da Abbagnano, discutendo con l’amico Paci intorno al significato
dell’economico e del vitale. In primo luogo lo inquietava la catastrofe dell’esistere negli
esistenzialisti contemporanei (Heidegger e Jaspers), il pervasivo nullismo nei loro scritti
(Heidegger piuttosto che Jaspers), fermi all’analisi dei modi d’esserci di individui isolati,
singolarizzati, gettati nel mondo. Essi sono invece “centri operativi”, attivi nel farsi opera che
vale, comunicabile e iniziatrice. Non l’Essere ma l’ethos del trascendimento è il principio
dello stare al mondo: così De Martino ripeteva quasi alla lettera la proposta di Nicola
Abbagnano.
Nel rapporto costitutivo col mondo nella quotidianità media l’esistenza è innanzitutto
già persa nell’inautenticità. Sull’argomento De Martino si poneva a grande distanza da
Heidegger, e in un certo senso anche dall’ultimo Croce.
L’economico è per lui già
valorizzazione, esercizio dell’ethos del trascendimento, dunque non può riguardare
l’heideggeriano utilizzabile nelle anonime pratiche dell’essere assieme, né deve evocare la
vitalità cruda e verde senza educazione ulteriore, pur evocata da Croce, che sarebbe animalità
astratta dal corpo vivo dell’essere umano. L’economico è la fame, la sessualità, il cosmo
domestico, l’orizzonte di oggetti familiari, la memoria simbolica, miti destorificanti,
protezione dalla perdita di presenza, orizzonte per il quale si sta nella storia come se non ci si
stesse: un grande patrimonio di sussistenza non passiva, diceva, già un “progetto comunitario
dell’utilizzabile”. A Paci contestava il concetto di utile/vitale come mera materia per le forme
valorizzatrici che sono l’arte, la filosofia, l’etica. De Martino ebbe invece a cuore il carattere
inaugurale dell’economico, che è forza creatrice, un impulso (spirituale come Croce pensava)
che opera nel profondo e condiziona il dispiegarsi di tutti i valori categoriali), vita che tiene in
vita, struttura dinamica della società sempre a rischio di scomparsa dalla scena del mondo.
De Martino fece fronte comune con gli esistenzialisti italiani in opposizione alla
catastrofe dell’umano successiva ai tempi bui della storia europea. Anche l’impegno politico
che alimentò gli studi etnologici in Lucania e in Puglia negli anni Cinquanta ebbe lo sfondo
teoretico ora delineato: l’economico non è soltanto il mondo culturale trovato alla nascita, ma
può essere voluto, cambiato, nell’aspirazione a un ordine sociale più giusto e nella prospettiva
di migliorare l’esistenza. Una presunta purezza dell’utilizzabile farebbe scadere
nell’”inautentico” heideggeriano la convivenza civile, la quale senza il dover essere
dell’esserci precipiterebbe nell’assenza di ogni ulteriorità.
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L’oltre, l’andare oltre, è cosa umanissima che contempla illusioni e possibili patologie
filosofiche. L’illusione più grande, la più ambita, è quella del ritorno all’Origine nella assurda
idea di rifare a ritroso il cammino già fatto sino a trovare sicurezza nel mito della Grande
madre che antecede la nascita. Esperto di miti, di destorificazione, di riscatti culturali e di
religioni non solo primitive, De Martino intuì che l’Ur, come diceva Paci, da origine deve
farsi mèta. Il ritorno alla madre è davanti a noi non alle nostre spalle come presenza
divinizzata e lo stesso divino piuttosto che un padre che ci ha generato è spirito che deve
essere realizzato con l’operosità del lavoro. Il tempo, che non è reversibile, lo diventa
soltanto nelle psicosi ossessive, chiuse al futuro, pervase di angoscia da fine del mondo.
Croce, nella Storia come pensiero e come azione, aveva cesellato in Prefazione
l’immagine faustiana del “regno delle madri”, abisso profondo e laboriosa fucina della
possibilità del concreto. L’immagine potente del Faust goethiano è assai diversa dall’arcaico
simbolo della grande madre. La differenza è la stessa che passa tra il fantasma del fatto
originario, mitologico presupposto della storia della civiltà, e l’originarsi ogni volta del
linguaggio, della poesia, del concetto. Ci chiediamo, diceva Croce, non quale è stato il primo
linguaggio, il primo verso, ma come eternamente nascono i discorsi, le religioni, le storie. Per
una felice contraddizione in termini possono coesistere eternità e nascita nel perpetuo
rinnovarsi della vita spirituale, delle categorie che presiedono al compito dell’inesausto
trascendimento nell’opera. Le crociane categorie dello spirito non sono ingenerate ma sono
generatrici e matrici di vita e di storia. La vexata quaestio intorno alla indebita storicità delle
categorie, che turbò non poco negli anni Quaranta il rapporto di devozione e stima reciproca
tra l’anziano Croce e il più giovane De Martino, parrebbe risolta con soddisfazione di tutti.
Negli appunti per il libro sulla “fine del mondo” torna il tema della crisi della presenza e della
angoscia esistenziale che l’accompagna, e al tempo stesso si palesa nell’analisi delle
apocalissi culturali un pericolo altrettanto minaccioso, quello dell’illusione di aver trovato un
porto sicuro; oggi diremmo, la fede mitica in una già avvenuta fine della storia. L’umanesimo
storicistico, che fu il telos dei progetti di studio dell’ultimo De Martino, si appellava invece
all’ethos dell’operare umano, protettivo e salvifico, nel cui nome chiudeva, ad esempio il
saggio Sud e magia del 1959, ripetendo con Croce il motto goethiano “Viva chi vita crea”,
principio della vita morale, ossia della vita senz’altro nell’atto di accrescere sé stessa.
De Martino traeva anche spunti dalla letteratura della crisi. Nell’Epilogo alla Fine del
mondo riprende passi dello scrittore inglese Lawrence, colmi di diffidenza verso la tradizione
intellettualistica, il naturalismo, la tecnica, lo scientifismo, nell’apprensione accorata per il
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senso di morte che si respirava in Occidente ai primi del Novecento. L’apocalisse è qui ora,
diceva Lawrence, nella mortifera rottura tra uomo e cosmo, ma è cominciata più di duemila
anni fa: come vorremmo tornare per assurdo all’esperienza simbolica delle stelle, del sole,
della luna, come la vissero gli antichi Caldei prima di Cristo. De Martino, tuttavia, in risposta
allo spirito nostalgico di Lawrence, incitava al superamento di ogni crisi in virtù della ragione,
la ragione più ampia possibile, regola interna e suprema custode del trascendimento, davvero
l’ultima Thule, l’Atlante che tutto sorregge, simbolo se si vuole di una forza integralmente
umana che non può avere fondamento che in se stessa.5.
5
La fine del mondo, pp. 515-527.
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