1 Renata Viti Cavaliere L’esistenza nel pensiero di Ernesto de Martino Nella Prefazione alla seconda edizione della Gaia scienza Nietzsche invita a sostenere coraggiosamente che in ogni filosofare non si tratta della “verità” ma di qualcos’altro, come salute, avvenire, sviluppo, potenza, vita. Presentava l’opera appena compiuta come il frutto di una ripresa dopo la malattia, occasione di tripudio dopo lunga privazione ed esultanza per l’energia che ritorna, ma non ci vuol molto a capire che per il filosofo il risanamento è fatto consistere faustianamente nell’operare stesso. Dagli stati di necessità germoglia in generale la filosofia. Al di là della vicenda personale Nietzsche teorizzava un modus essendi dell’esistenza che è impegno, andare oltre, rinascita. Nel dover essere dell’esistenza sta dunque la cura. Mi sono ispirata a questo celebre passaggio nietzscheano nell’intento di sottolineare la centralità del tema dell’esistenza nel pensiero di De Martino. Esistenza vissuta ed esistenza pensata, biografia e filosofia sono compresenti in lui, ma soprattutto al cuore dei problemi che l’hanno a lungo assillato risalta una concezione della storia che è nascita dell’umano dell’uomo; l’analisi ha riguardato gli ambiti preferiti del primitivo, delle religioni, delle ricerche antropologiche. Filosofo nel profondo, l’etnologo De Martino ha messo in primo piano sin dai suoi primi studi il principio di inauguralità che è l’esistenza, potenza d’essere, elemento base di ogni cambiamento in cui consiste la storia nei suoi immancabili rinnovamenti. Colpisce nel suo vasto lavoro scientifico la rinuncia al metodo naturalistico della scienza etnologica fatta in nome del carattere peculiare della storiografia che nei riguardi del mondo primitivo dovrà essere capace anche di riflettere mentre descrive e di leggere nell’intimo di tempi lontani e misteriosi. De Martino rifuggiva da ogni idoleggiamento dell’arcaico che sarebbe stato antistorico, e neppure trovò rifugio nel primitivo al riparo dalla crisi dell’Occidente coeva al Novecento. Non fu spinto neppure da interesse teologico in cerca del primo logo, della prima parola, del primo vagito della realtà umana. Ha indugiato paradossalmente su realtà che frenano lo svolgimento, per una necessaria resistenza al cambiamento, quasi una ripulsa del divenire, come accade nelle religioni che vivono il tempo sospeso dei riti e della ripetizione simbolica. De Martino era attratto, all’interno del processo storico, da quelle istanze che hanno consentito l’opzione umana, avviando un processo di individuazione e costruendo l’esserci nel mondo come presenza il più possibile garantita. “Credere nella storia mi ha fatto sentire più vicino a Dio”, così scriveva in una lettera a Macchioro nel marzo del 1936. Adottava per l’occasione il linguaggio profetico del suocero 2 col quale ebbe un rapporto di doverosa devozione filiale ma di difficile consonanza intellettuale. L’esistenza vissuta di De Martino, alla quale voglio fare anzitutto riferimento, fu ricca di incontri con importanti figure della cultura del tempo alle quali si sentì legato sempre in aperto confronto. All’esistenza vissuta appartengono le sue scelte politiche in momenti di radicali trasformazioni in Italia e in Europa, e l’interesse per le grandi questioni sociali nel secondo dopoguerra. Di recente si è indagato a mio avviso anche troppo sulla biografia di De Martino quasi in cerca di spiegazioni e di dipendenze da familiari e maestri. E’ questo il caso del rapporto con il suocero Vittorio Macchioro. Dal carteggio completo da poco uscito a cura di Riccardo Di Donato e Mario Gandini1, emerge l’atteggiamento composto di De Martino pur in risposta a lettere di fuoco in cui abbondano rimproveri e consigli. Non si può dire che si sia mai sentito discepolo di Macchioro al quale riconosceva personalità, ampia cultura e alcuni comuni interessi2. Il Carteggio con Macchioro è tuttavia molto utile: ci fa cogliere tra l’altro un avvertito sentimento provvidenzialistico (in senso laico) dell’esistenza che nel giovane De Martino si intrecciava con la fede altrettanto provvidenzialistica (non però sul piano di una filosofia della storia) nel fascismo in Italia. Siamo negli anni Trenta e De Martino (dal 1934 al 1939) progettava di scrivere un saggio sulla “religione civile” del quale aveva chiaro il piano di lavoro che invia a Macchioro per sollecitarne il parere. Il saggio avrebbe avuto la finalità di “avviare a maturazione morale e civile” il fascismo che De Martino si proponeva di liberare dalla prevalenza di problemi economici e giuridico-politici. L’idea del fascismo come una fede, come un patto solidaristico spirituale in prosecuzione della modernità occidentale secolarizzata, rappresentava la prospettiva a tratti esaltata di un giovane che aveva idealizzato lo spettacolo misticheggiante di quella sacralizzazione della politica che fu in superficie l’era fascista3. La religione, che De Martino concepiva in termini filosofici, veniva allora da lui intesa in uno con l’aspirazione “morale” alla civiltà. E nello Stato fascista De Martino lesse il segno di una provvidenza che non cala dall’alto i suoi voleri ma chiede a tutti di impegnarsi in un vincolo comune. Si spiega l’intreccio della fede politica con il sentimento provvidenzialistico dell’esistenza, vissuta da De Martino come una teleologia della vita, un disegno non prestabilito che ognuno costruisce nello stare attivamente nel mondo. Provvidenziale per lui è il volerci essere nella presenza, l’impegno quotidiano, che 1 Le intrecciate vie. Carteggi di Ernesto De Martino con Vittorio Macchioro e Raffaele Pettazzoni, Edizioni ETS, Pisa 2015. 2 Assai più profondo e significativo fu il rapporto con Croce e preponderante l’influenza dello storicismo idealistico sulla formazione di De Martino e nell’intero suo percorso di studi. Si trattò di un legame di stima e di amicizia non interrotto da qualche dissenso teoretico né dalle evidenti divergenze politiche in seguito alla conversione demartiniana al marxismo. 3 Cfr. Emilio Gentile, Le religioni della politica. Fra democrazie e totalitarismi. Roma-Bari, Laterza, (Storia e Società), 2001. 3 sono qualcosa di gratuito, talvolta di intempestivo, purtroppo di incostante. Il Maligno, di contro, non è il male o il goethiano “spirito che tutto nega”. Al diavolo si devono attribuire momenti di negligenza, di stasi intellettuale, anche di fragilità nervosa. Il Maligno per il giovane De Martino è mancanza di fede nell’uomo e nel progresso civile. Con buone ragioni Macchioro gli segnalava che il fascismo che aveva in mente non era affatto il fascismo reale dal quale avrebbe fatto meglio a tenersi a distanza. Il suocero, peraltro dal canto suo, nutriva altre fedi di carattere esoterico e per molti aspetti popolari quando, ad esempio, nel Diavolo indicava l’evenienza di una traversia o il semplice intralcio a progetti lungamente attesi. Il Maligno si palesava ai suoi occhi, nel rapporto tormentato con il genero che avrebbe voluto per figlio, addirittura nel filosofo Croce e nei crociani che temeva avrebbero inaridito il giovane studioso con le loro fumose astrattezze. Non mancherà di dar credito, per tenere a bada il contingente, finanche a forme banali di preveggenza come la cartomanzia. De Martino viveva invece il sentimento di una certa fragilità esistenziale compensata, diceva, dalla potenza della mente. Fu per lui provvidenziale, così si era espresso, l’interesse per la storia; allo stesso modo sentì nascere dentro di sé come una “grazia” il tema della magia che lo avrebbe di lì a qualche anno reso esperto dei popoli primitivi. E’ importante sottolineare la matrice esistenziale dell’interesse demartiniano per il primitivo, che non rappresentò per lui, come si è già detto, una sorta di bene-rifugio per intellettuali disincarnati. Può accadere che in tempi difficili ci si inoltri in ambiti di studio che tengano lontani dal presente, a protezione dalle intemperie in corso. I primitivisti per lo più sono attratti dal quadro di una natura perfetta e incontaminata, dal profilo mitico del buon selvaggio, e, per nulla interessati ai popoli primevi, si prodigano a rappresentare un anacronistico ritorno al più remoto passato. L’interesse etnologico di De Martino si andò a innestare invece su una solida preparazione filosofica che lo spingeva a porsi domande teoretiche a partire da un’età storica, quella del magismo, della quale poco o niente è possibile raccontare mentre molto può essere descritto “per media e tipi” (Bernheim) e per strutture sociali. Non tardò a scoprire nel primitivo l’esistenza individuale in embrione con tutta la sua energia inaugurale e la sua potenza d’essere. Compete allo specialista dei popoli primitivi cogliere il “sommerso” nell’umano, che è forza sempre insorgente nel doloroso impegno di restar “vivi” nel mondo. De Martino fu perciò lontano dall’evoluzionismo naturalistico di tipo darwiniano e da un ontologismo delle origini. Non c’è traccia in lui dell’Es freudiano, tumulto di istinti e di impulsi immediati, fucina turbolenta di caos emotivo. 4 De Martino ebbe sempre chiara la distinzione di teoretico e pratico. Solo in sede di ricapitolazione autobiografica, intrecciò i due percorsi, così da attribuire al naturalismo etnologico il canone della società borghese (da avversare) e ai popoli primitivi l’analogo dei contadini delle Murge e la condizione di ogni popolo oppresso nei predomini coloniali. In una sorta di egodicea, per dirla con Derrida, volle infine “giustificare se stesso” impegnato nella lotta di liberazione delle classi subalterne. La sua storia politica, dalla resistenza antifascista al comunismo, mostrò in ogni caso il segno di una fervida partecipazione ideale ai problemi dell’Occidente moderno in cui era nato. La questione teoretica dell’esistenza è già posta nella prima opera di De Martino: Naturalismo e storicismo del 1941. In essa risaltava il tema della persona umana così centrale negli interessi dei suoi autori di riferimento in quegli anni: nella storia del cristianesimo del maestro Omodeo, negli studi sulla religione (Pettazzoni), nell’analisi delle forme simboliche (Cassirer), e ancora negli esistenzialisti d’oltralpe che cominciavano ad affacciarsi in Italia, nei cultori del sacro in Germania (Rudolf Otto), e in primo luogo negli scritti del Croce maturo. Il progetto di una etnologia storicistica muoveva dalla critica radicale all’impostazione naturalistica di un Lévi-Bruhl per intraprendere la via tortuosa di una etnologia “interpretativa” che avrebbe portato De Martino ad approdare, a mio avviso, sulla sponda di una vera e propria “filosofia dell’esistenza”. E però l suo primo libro è innegabilmente un tributo al pensiero crociano. Le due posizioni possono coesistere se si considera l’atteggiamento critico da lui sempre assunto. De Martino aveva letto con particolare attenzione il saggio La natura come storia senza storia da noi scritta che è tra le pagine finali della Storia come pensiero e come azione, uscita nel 1938. In quel testo Croce sosteneva che “la cosiddetta natura è spiritualità anch’essa ed è perciò storia”, dunque non può non essere coscienza di sé, per paradossale che possa apparire. La storicità non si nega agli esseri naturali e certo non si nega ai popoli primitivi, altrimenti si corre il rischio di escludere a catena dalla storia anche genti straniere, classi ritenute inferiori, donne e uomini senza patria. Alla storicità della natura corrisponde tuttavia una storia non scritta per il semplice motivo che non sarebbe sorretta da un bisogno di azione nel presente, se per storiografia deve intendersi, come Croce riteneva dovesse farsi, la storia pensata. Croce auspicava perciò l’emancipazione del pensiero storico dal naturalismo, dalle false storie e dalla metastoria di un’antiquata metafisica. Va qui ricordato che negli anni Trenta Croce aveva in più occasioni teorizzato la storiografia etico-politica soprattutto in contrasto con le storie etnicistiche che pretendono di sostituire ai valori morali e ideali il rozzo naturalismo di una lotta tra animali da preda. Pochi allora colsero da subito anche nella descrizione 5 fenomenologica delle categorie dell’esistenza nell’opera maggiore di Heidegger (1927, Sein und Zeit) il modello antropologico orizzontale che si sarebbe di lì a poco rivelato del tutto consono ad una umanità bloccata nell’ordine politico fondato sulle basi naturalistiche della terra e del sangue di appartenenza. Oggi ci appare davvero liberatorio lo studio demartiniano dei popoli primitivi, che lasciava emergere con straordinaria efficacia il processo di strutturazione dell’umano nel rapporto intimo col mondo fino all’affermazione del Sé come soggetto autonomo e spontaneità creatrice. “Eroico” in un certo senso ci sembra quel ripensamento dello storicismo avvenuto in tempi difficilissimi, di guerra e di traversie personali e familiari, quando il secondo libro di De Martino venne scritto e conservato perché vedesse la luce infine nel 1948 con il titolo Il Mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo. Fu Enzo Paci a sottolineare, recensendo il volume del ‘48, che l’autore doveva anche qualcosa alla filosofia degli esistenzialisti. In realtà De Martino aveva già avuto notizia di pensatori e temi dell’esistenzialismo ma non si può dire che ne sia stato allora ispirato, benché ne parli in alcuni passaggi del libro. Il filosofo che probabilmente ebbe più in mente, anche per la mediazione di Croce, fu Giambattista Vico peraltro ricordato in nota nella premessa con una lunga citazione dalla Scienza Nuova. Quel Vico, il quale, come scriveva Croce, andando in cerca della natura del linguaggio e delle religioni ebbe il presentimento che nell’età primitiva le forme spirituali (cardini della storia come cambiamento) possedessero una energia, una corpulenza, una prepotenza poi via via attenuate e rimaste nel profondo del nostro essere di nature ingentilite. Con metodo comparativo Vico tradusse la preistoria in storia non naturalistica del cammino umano di civilizzazione. De Martino maturò in seguito, come cercherò di mostrare, il confronto critico tra questa suggestiva idea dell’esistenza come fonte di valore storicamente rilevante con le dottrine degli esistenzialisti d’oltralpe, che conobbe più a fondo anche attraverso le proposte di valenti studiosi italiani. Il contesto filosofico dell’opera sul mondo magico è chiaro sin dalla prefazione: si tratta di andar contro la lettura metafisica, pigra e salmodiante a volte, dello storicismo di Croce; e a favore del compito di umanizzazione per un ampliamento della consapevolezza storiografica. Si tratta di andar contro gli arcaismi, la boria occidentale, il realismo ingenuo; e a favore di una nuova via per penetrare nel mistero del primitivo sino al cuore del magismo, cioè sino alla base esistenziale della mai definitiva costruzione dell’umano. Ebbe allora bisogno di raccogliere una gran mole di documenti sui fenomeni paranormali descritti nei testi di etnologia, per i quali non vale la moderna superbia di chi relega nell’irrazionale una forma 6 di vita così diversa dalla nostra. Scopriva che ci sono stati di coscienza tra i popoli primitivi (ad esempio lo stato olon) che viene percepito nell’immediato come “l’eco del mondo”, come l’essere in balia della realtà circostante, di ogni cosa o persona che risuona dentro come l’eco di forze non controllabili che minacciano l’annientamento. De Martino è attratto particolarmente dalla “crisi della presenza” in cui individui non ancora coesi e garantiti sperimentano una insopportabile fragilità psichica. La possibilità della salvezza è ab origine nella sola realtà concreta cui appigliarsi, vale a dire nelle pratiche di affidamento a figure mitiche (lo stregone), a riti e culti familiari, ad abitudini e immagini che promettono di arginare il nulla. Questa realtà complessa e oscura per menti ingentilite è il magismo, fatto culturale non naturalistico, che De Martino chiama età storica perché in essa è ravvisabile il principio del movimento tra innovazione e tradizione. La storicità non è dunque una categoria ontologica, di contro all’ontico (Heidegger, conte Yorck), ma in termini crociani è l’esistenza come capacità d’inizio, energia propositiva. Che il magismo consista in fenomeni paranormali ai nostri occhi poco plausibili, nulla toglie al significato culturale delle pratiche magiche alle quali si deve, nella paleostoria, anche la nascita dell’arte figurativa come ha illustrato efficacemente Ragghianti4. Quel che importa è il carattere spontaneo, drammaticamente sorgivo e inaugurale, della magia, primo traguardo di civiltà, presupposto di potenziali avanzamenti della storia. Accade che l’angoscia per la perdita della presenza sia all’origine della cultura, vero e proprio compenso alla morte, ordine nel caos, decisione di sé e del mondo. La cura al tormento di vivere esposti a tutto sta nella partecipazione al mondo con altri (riti collettivi) già molto oltre l’essere deietto descritto da Heidegger, esistenza di fatto da sempre decaduta, schiacciata sul passato, prona alla comunità di popolo e al destino dell’Essere. Mancò nel pensatore tedesco, secondo De Martino, la scoperta del nuovo nell’arcaico, vale a dire l’idea fecondissima della possibilità sempre in fieri dell’opzione umana. Nelle schede raccolte per la stesura dell’opera sulla fine del mondo (mai realizzata per la prematura scomparsa nel 1965) De Martino annotava precise critiche alla filosofia degli esistenzialisti, in particolare alla modalità inautentica dell’essere dell’esserci, identificata da Heidegger con l’utilizzabile economico degradato all’anonimia del sociale in genere, alla dispersione del Si impersonale, riflesso per lui della feticizzazione dell’alienazione della società borghese. Non aveva torto De Martino a leggere Essere e tempo nell’ottica speculare degli anni Venti del Novecento, in perfetta sintonia con il clima del primo dopoguerra, consono a una diffusa colonizzazione delle coscienze. Insisteva perciò sul dover essere al posto dell’Essere: in der Welt sein sollen. Era evidente, come notò Enzo Paci già a proposito 4 Citare il libro di Ragghianti, L’uomo cosciente. Arte e conoscenza nella paleostoria, Calderini, Bologna 1981. 7 del mondo magico, l’influenza dell’esistenzialismo positivo di Nicola Abbagnano e della Struttura dell’esistenza del ’39. De Martino intrecciava teoreticamente spunti tratti da Croce, da Heidegger, da Abbagnano, discutendo con l’amico Paci intorno al significato dell’economico e del vitale. In primo luogo lo inquietava la catastrofe dell’esistere negli esistenzialisti contemporanei (Heidegger e Jaspers), il pervasivo nullismo nei loro scritti (Heidegger piuttosto che Jaspers), fermi all’analisi dei modi d’esserci di individui isolati, singolarizzati, gettati nel mondo. Essi sono invece “centri operativi”, attivi nel farsi opera che vale, comunicabile e iniziatrice. Non l’Essere ma l’ethos del trascendimento è il principio dello stare al mondo: così De Martino ripeteva quasi alla lettera la proposta di Nicola Abbagnano. Nel rapporto costitutivo col mondo nella quotidianità media l’esistenza è innanzitutto già persa nell’inautenticità. Sull’argomento De Martino si poneva a grande distanza da Heidegger, e in un certo senso anche dall’ultimo Croce. L’economico è per lui già valorizzazione, esercizio dell’ethos del trascendimento, dunque non può riguardare l’heideggeriano utilizzabile nelle anonime pratiche dell’essere assieme, né deve evocare la vitalità cruda e verde senza educazione ulteriore, pur evocata da Croce, che sarebbe animalità astratta dal corpo vivo dell’essere umano. L’economico è la fame, la sessualità, il cosmo domestico, l’orizzonte di oggetti familiari, la memoria simbolica, miti destorificanti, protezione dalla perdita di presenza, orizzonte per il quale si sta nella storia come se non ci si stesse: un grande patrimonio di sussistenza non passiva, diceva, già un “progetto comunitario dell’utilizzabile”. A Paci contestava il concetto di utile/vitale come mera materia per le forme valorizzatrici che sono l’arte, la filosofia, l’etica. De Martino ebbe invece a cuore il carattere inaugurale dell’economico, che è forza creatrice, un impulso (spirituale come Croce pensava) che opera nel profondo e condiziona il dispiegarsi di tutti i valori categoriali), vita che tiene in vita, struttura dinamica della società sempre a rischio di scomparsa dalla scena del mondo. De Martino fece fronte comune con gli esistenzialisti italiani in opposizione alla catastrofe dell’umano successiva ai tempi bui della storia europea. Anche l’impegno politico che alimentò gli studi etnologici in Lucania e in Puglia negli anni Cinquanta ebbe lo sfondo teoretico ora delineato: l’economico non è soltanto il mondo culturale trovato alla nascita, ma può essere voluto, cambiato, nell’aspirazione a un ordine sociale più giusto e nella prospettiva di migliorare l’esistenza. Una presunta purezza dell’utilizzabile farebbe scadere nell’”inautentico” heideggeriano la convivenza civile, la quale senza il dover essere dell’esserci precipiterebbe nell’assenza di ogni ulteriorità. 8 L’oltre, l’andare oltre, è cosa umanissima che contempla illusioni e possibili patologie filosofiche. L’illusione più grande, la più ambita, è quella del ritorno all’Origine nella assurda idea di rifare a ritroso il cammino già fatto sino a trovare sicurezza nel mito della Grande madre che antecede la nascita. Esperto di miti, di destorificazione, di riscatti culturali e di religioni non solo primitive, De Martino intuì che l’Ur, come diceva Paci, da origine deve farsi mèta. Il ritorno alla madre è davanti a noi non alle nostre spalle come presenza divinizzata e lo stesso divino piuttosto che un padre che ci ha generato è spirito che deve essere realizzato con l’operosità del lavoro. Il tempo, che non è reversibile, lo diventa soltanto nelle psicosi ossessive, chiuse al futuro, pervase di angoscia da fine del mondo. Croce, nella Storia come pensiero e come azione, aveva cesellato in Prefazione l’immagine faustiana del “regno delle madri”, abisso profondo e laboriosa fucina della possibilità del concreto. L’immagine potente del Faust goethiano è assai diversa dall’arcaico simbolo della grande madre. La differenza è la stessa che passa tra il fantasma del fatto originario, mitologico presupposto della storia della civiltà, e l’originarsi ogni volta del linguaggio, della poesia, del concetto. Ci chiediamo, diceva Croce, non quale è stato il primo linguaggio, il primo verso, ma come eternamente nascono i discorsi, le religioni, le storie. Per una felice contraddizione in termini possono coesistere eternità e nascita nel perpetuo rinnovarsi della vita spirituale, delle categorie che presiedono al compito dell’inesausto trascendimento nell’opera. Le crociane categorie dello spirito non sono ingenerate ma sono generatrici e matrici di vita e di storia. La vexata quaestio intorno alla indebita storicità delle categorie, che turbò non poco negli anni Quaranta il rapporto di devozione e stima reciproca tra l’anziano Croce e il più giovane De Martino, parrebbe risolta con soddisfazione di tutti. Negli appunti per il libro sulla “fine del mondo” torna il tema della crisi della presenza e della angoscia esistenziale che l’accompagna, e al tempo stesso si palesa nell’analisi delle apocalissi culturali un pericolo altrettanto minaccioso, quello dell’illusione di aver trovato un porto sicuro; oggi diremmo, la fede mitica in una già avvenuta fine della storia. L’umanesimo storicistico, che fu il telos dei progetti di studio dell’ultimo De Martino, si appellava invece all’ethos dell’operare umano, protettivo e salvifico, nel cui nome chiudeva, ad esempio il saggio Sud e magia del 1959, ripetendo con Croce il motto goethiano “Viva chi vita crea”, principio della vita morale, ossia della vita senz’altro nell’atto di accrescere sé stessa. De Martino traeva anche spunti dalla letteratura della crisi. Nell’Epilogo alla Fine del mondo riprende passi dello scrittore inglese Lawrence, colmi di diffidenza verso la tradizione intellettualistica, il naturalismo, la tecnica, lo scientifismo, nell’apprensione accorata per il 9 senso di morte che si respirava in Occidente ai primi del Novecento. L’apocalisse è qui ora, diceva Lawrence, nella mortifera rottura tra uomo e cosmo, ma è cominciata più di duemila anni fa: come vorremmo tornare per assurdo all’esperienza simbolica delle stelle, del sole, della luna, come la vissero gli antichi Caldei prima di Cristo. De Martino, tuttavia, in risposta allo spirito nostalgico di Lawrence, incitava al superamento di ogni crisi in virtù della ragione, la ragione più ampia possibile, regola interna e suprema custode del trascendimento, davvero l’ultima Thule, l’Atlante che tutto sorregge, simbolo se si vuole di una forza integralmente umana che non può avere fondamento che in se stessa.5. 5 La fine del mondo, pp. 515-527.