ANCORA SULLA SCIA: SILENZIO E TUTELA DEL TERZO (ALLA LUCE DEL COMMA 6-TER DELL'ART. 19 L. 241/90) Diritto Processuale Amministrativo, fasc.2, 2014, pag. 645 Guido Greco Sommario: 1. La disciplina ante d.l. 138/2011. — 2. La sentenza dell'Adunanza plenaria n. 15 del 2011 e le critiche di parte della dottrina. — 3. Il comma 6ter. — 4. Contenuto precettivo del comma 6-ter e suo ambito di operatività. — 5. Problemi applicativi e possibili obiezioni. 1. Dopo la sentenza dell'Adunanza plenaria n. 15 del 2011 e dopo l'ulteriore intervento normativo (art. 6, d.l. 13 agosto 2011, n. 138, come modificato dalla legge di conversione 14 settembre 2011), che ha introdotto il comma 6ter nel corpo dell'art. 19 della legge 241/90, sono risultate definitivamente chiarite le posizioni soggettive coinvolte (del presentatore della SCIA e sopratutto del terzo), ma è stato ulteriormente complicato il quadro complessivo dell'istituto. La sentenza dell'Adunanza plenaria aveva, come è noto, accolto la tesi — suggerita da chi scrive (1) — che, decorso il termine (ordinario) per intervenire sulla SCIA si formasse il silenzio-diniego (e non un silenzio accoglimento o un silenzio inadempimento) sull'esercizio dei poteri inibitori e ripristinatori, con tutte le ulteriori implicazioni in ordine alla forma ed ai termini di impugnazione e al relativo giudizio. L'introduzione del comma 6-ter ha mantenuto la struttura dell'istituto accolta dall'Adunanza plenaria (il presentatore della SCIA è titolare di un interesse legittimo oppositivo e non pretensivo, mentre quest'ultimo è predicabile alla posizione del terzo eventualmente leso), ma ha configurato l'inerzia dell'Amministrazione come mero silenzio inadempimento, che può ricevere tutela, azionando “esclusivamente” il rito di cui all'art. 31 c.p.a. e previa apposita “sollecitazione” del terzo interessato. Tale innovazione normativa riapre la questione della razionalizzazione dell'intera figura, perché innesta il rimedio del silenzio-inadempimento — concepito essenzialmente per il mancato esercizio di poteri ampliativi — in una fattispecie ove sono presenti poteri inibitori e ripristinatori, il principale dei quali inoltre, come si ribadirà qui di seguito, si consuma entro un breve arco di tempo. Così rendendo ancora più problematica la tutela del terzo. Ma, prima di affrontare quest'ultimo aspetto, val la pena di operare ancora una volta la ricognizione della disciplina sostanziale, rimasta immutata anche dopo l'innovazione apportata dal comma 6-ter. Non si può, infatti, affrontare il tema della tutela giurisdizionale (del terzo), senza tener presente il complesso dei poteri spettanti all'Amministrazione, così come positivamente determinati ed interpretati dalla giurisprudenza, anche dopo l'entrata in vigore del citato D.L. 138/2011. A) esiste anzitutto un generale potere inibitorio e ripristinatorio, da esercitare nel termine di 60 giorni (comma 3, prima parte), ovvero nel termine di 30 giorni, se si tratta di SCIA in materia edilizia (comma 6-bis), che si basa sull'accertata carenza (non sanabile) dei requisiti e dei presupposti previsti dalla legge per esercitare l'attività oggetto della SCIA; B) esiste poi un potere di autotutela ex art. 21-quinquies e 21-nonies della legge 241/90 (comma 3, seconda parte); e si tratta di un potere di autotutela in senso tecnico, da esercitare sulla base dell'avvio di apposito procedimento in contraddittorio, nel rispetto del limite del “termine ragionevole” e sulla base “di una valutazione comparativa, di natura discrezionale, degli interessi in rilievo” (2). C) esiste, altresì, un potere inibitorio e ripristinatorio sine die, per il caso di dichiarazioni false o rivelatesi errate (comma 3, terza parte), e correlato tra l'altro ai poteri sanzionatori di cui al comma 6 e all'art. 21 c. 1 della medesima legge 241/90; D) rimane, ancora, il potere straordinario di intervento solo in caso di pericolo per il patrimonio artistico e culturale, per l'ambiente, per la salute, ecc. (comma 4). Focalizzando l'attenzione sul potere generale di cui al punto A), si deve rilevare che esso è “doveroso”, come precisa la giurisprudenza (3). Ma si consuma decorso il termine “perentorio” di 60 (o di 30) giorni (4). Il carattere “doveroso” dell'intervento dell'Amministrazione non riguarda certo l'obbligo di pronunciarsi sulla SCIA presentata dal privato. L'art. 19 (comunque lo si voglia interpretare) costituisce una evidente deroga al principio (art. 2 c. 1 L. 241/90) che il procedimento debba essere concluso “mediante l'adozione di un provvedimento espresso”. Il carattere “doveroso” riguarda, viceversa, l'obbligo di esercitare i poteri inibitori e ripristinatori, ove per qualunque ragione l'attività oggetto di SCIA risulti non consentita, in quanto in contrasto con la disciplina positiva (e sempre che l'interessato non “provveda a conformare alla normativa vigente detta attività”: sempre comma 3, prima parte). Questo obbligo non è venuto meno con l'introduzione del comma 6-ter e non presuppone certo un intervento supplente dei terzi (5): sicché la responsabilità dell'Amministrazione (per omesso controllo) resta intatta, con buona pace di chi ha tentato di escluderla o limitarla (il punto sarà ripreso). Ma, come si diceva, detto potere si consuma in un breve arco temporale, con conseguente “consolidamento” della posizione del presentatore della SCIA (6). Anche se non risulta sufficientemente chiarito quale sia l'effetto preclusivo, che si verifica decorso il termine perentorio di 60 (o 30) giorni. Tale aspetto, tuttavia, non è privo di rilevanza anche per la tutela giurisdizionale del terzo, sicché può essere utile precisare che l'ambito del potere inibitorio, che risulta “consumato”, scaturisce per sottrazione dai poteri di intervento (correlati a presupposti specifici), che restano persistenti (poteri, di cui ai punti B, C e D) (7). E riguarda essenzialmente casi di mancanza dei requisiti per svolgere l'attività dichiarata con la SCIA, rilevabile sulla base della semplice verifica documentale della stessa (la SCIA deve essere accompagnata da autocertificazioni, atti di notorietà, attestazioni e asseverazioni dei tecnici abilitati, a loro volta corredate da elaborati tecnici necessari per consentire le verifiche di competenza dell'Amministrazione (art. 19, c. 1)). Decorso detto termine l'Amministrazione non potrà opporre al presentatore della SCIA eventuali carenze documentali, ovvero erronee qualificazioni della fattispecie rispetto al dato normativo (o ad una particolare interpretazione del dato normativo). Non potrà, in altri termini (e salvo il potere di autotutela), opporre illiceità dell'attività rilevabili alla stregua della mera analisi documentale (8). Il che, tra l'altro, si concilia con il termine breve, nell'ambito del quale non è possibile operare più penetranti verifiche sul “fatto” (ad esempio, sulla correttezza fattuale della situazione rappresentata e, così, sulla veridicità delle dichiarazioni e degli elaborati tecnici allegati). Per verifiche di tal fatta l'Amministrazione ha sempre il potere di intervenire, senza che il decorso dei 60 giorni sia per essa preclusivo (supra punto C). Ma proprio perché l'ambito del potere inibitorio si restringe (o muta qualitativamente, come nel caso del potere di autotutela) decorso il termine di 60 o 30 giorni, si comprende da un lato perché la giurisprudenza riconosce che la posizione del presentatore della SCIA “si consolida” decorso tale termine. E si comprende, d'altro lato, perché il “terzo”, che invoca tutela, ha tutto l'interesse a che la stessa sia accordata con riferimento a tutti i poteri, che l'Amministrazione può esercitare nel primo periodo, e non certo con riferimento solo a quelli che permangono dopo lo spirare di detto termine: solo nel primo caso e non nel secondo potrà infatti far valere pienamente l'inesistenza dei presupposti di legge per l'esercizio dell'attività oggetto della SCIA. 2. È in tal quadro che, prima dell'introduzione del comma 6-ter, avevo prospettato la tesi del silenzio-diniego, poi accolta integralmente dall'Adunanza plenaria (9). Poiché, peraltro, la relativa sentenza è stata oggetto di varie critiche (soprattutto da parte di quella dottrina che, pur avendo dibattuto il tema per un ventennio, ha visto disattese le tesi di volta in volta avanzate (10)), un cenno al riguardo pare doveroso. Le critiche non hanno riguardato (se non marginalmente) l'idoneità della soluzione accolta in termini di effettività della tutela giurisdizionale. Hanno riguardato, viceversa, soprattutto la ricostruzione sostanziale del silenzio serbato dall'Amministrazione in termini di silenzio significativo (archiviazione tacita del procedimento inibitorio). Ed hanno visto nel nuovo comma 6-ter un'aperta smentita da parte del legislatore alla soluzione accolta (11). A prescindere da quest'ultimo aspetto, su cui si tornerà, l'equiparazione dell'inerzia protrattasi oltre il termine di 60 giorni al silenzio diniego (recte al provvedimento tacito di archiviazione) è stata censurata facendo leva sulla mancanza di alcuna qualificazione normativa in tal senso. Ma non è detto che non abbia influito al riguardo anche la consolidata opinione del passato, secondo cui l'archiviazione, anche quando fosse espressamente dichiarata, non costituirebbe un provvedimento amministrativo (ma un mero atto interno non impugnabile (12)). Opinione consolidata che si basava sul presupposto che in taluni procedimenti restrittivi, ad iniziativa d'ufficio (ad esempio un qualunque procedimento sanzionatorio), non vi potessero essere soggetti (giuridicamente) interessati ad un epilogo sfavorevole rispetto all'unico soggetto, sicuramente “parte” del procedimento: il possibile destinatario della sanzione. Ma col passare del tempo l'ordinamento è cambiato e vi sono ora vari esempi di soggetti che possono vantare un interesse giuridicamente qualificato a che il provvedimento sanzionatorio (o comunque restrittivo della sfera giuridica altrui) sia effettivamente emesso. Del resto l'art. 2, c. 1 della legge 241/1990 statuisce che l'Amministrazione ha il dovere di concludere il procedimento con un provvedimento espresso, anche nel caso del procedimento avviato d'ufficio: sicché l'interpretazione dell'archiviazione come mero atto interno non pare più possibile. E veniamo al punto più delicato (e anche più opinabile, come io stesso avevo avvertito) e, cioè, a quello dell'equiparazione dell'inerzia a silenzio significativo (di tipo negativo, rispetto all'esercizio del potere), pur in assenza di una testuale qualificazione normativa in tal senso. Si tratta di una finzione inaccettabile, oppure di una soluzione ammissibile in sede interpretativa? Occorre considerare che la disciplina legislativa presentava e presenta una evidente discrasia in proposito. Da un lato prevede un potere inibitorio e di interdizione da esercitare nel termine perentorio di 60 (e in taluni casi di 30 giorni), con conseguente consumazione del potere amministrativo in caso di inerzia (13). D'altro prevede un potere di autotutela, ex art. 21-quinquies e nonies della legge 241/90: un potere, cioè, di secondo grado, di natura discrezionale (14), che presuppone la sussistenza di un provvedimento da revocare o da annullare. E allora delle due l'una: o si può ricostruire l'esistenza di un provvedimento tacito, superando l'ostacolo del silenzio della legge in proposito, ovvero si deve ricostruire il potere di autotutela “in senso atecnico”, come potere sanzionatorio pervaso della stessa discrezionalità propria degli atti di secondo grado (interesse pubblico e bilanciamento degli ulteriori interessi di parte presenti nella fattispecie). Nonostante questa seconda soluzione sia molto diffusa in dottrina (15), a me pareva molto meno sostenibile della prima. Essa operava, infatti, una aperta manipolazione del dettato normativo, perché in assenza di una vera necessità in tal senso (del tipo di quella ora scaturente dal c. 6-ter), interpretava l'istituto contro la lettera della legge. La quale non dice affatto che si tratta di un potere inibitorio, che può essere esercitato “sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati” (argomento ex art 21-nonies). Dice che si tratta di potere d'annullamento d'ufficio (o di revoca) diretto ad operare su atti preesistenti. La soluzione dell'atto tacito d'archiviazione, viceversa, si muoveva secundum legem o, al più, praeter legem. Infatti, nel tentativo di superare la discrasia che presentano i primi due periodi del comma 3 dell'art. 19, si poteva avvalere di quanto implicitamente disposto dalla legge medesima (se decorsi i 60 — o 30 — giorni si forma il silenzio e se tale vicenda consente l'esercizio di poteri di autotutela su atti, ciò significa che il silenzio era — sia pure implicitamente, ma del tutto chiaramente — equiparato ad un atto amministrativo espresso). Ma quel che appariva ancor meno accettabile della tesi interpretativa dell'autotutela “in senso atecnico” era la sua implicazione sul versante della tutela giurisdizionale del terzo. Il quale non avrebbe potuto impugnare il provvedimento tacito di archiviazione (ritenuto inesistente ed anzi una mera finzione (16)), ma avrebbe dovuto stimolare solo il potere “atecnico” di autotutela e poi eventualmente agire contro il silenzio serbato dall'Amministrazione a questo proposito. Tale costruzione non appariva accettabile per le ragioni già brevemente riferite ed anche per elementari ragioni logiche. Perché l'archiviazione del procedimento che si avvia con la SCIA può ben essere espressa (17), come non di rado avviene (18): sicché non si può accordare una diversa tutela al terzo, a seconda che l'Amministrazione operi in un senso (archiviazione espressa) o lasci puramente e semplicemente scadere il termine per provvedere. E la stessa illogicità ricorre allorché la SCIA sia facoltativa (nel senso che l'interessato può optare per tale strumento, ovvero per l'autorizzazione espressa). Perché ancora una volta il terzo subirebbe (con una maggiore o minor tutela giurisdizionale) le conseguenze di una scelta altrui (19). Si consideri poi il caso della legge regionale della Lombardia sul governo del territorio (l.r. 12/2005), che all'art. 42 c. 10 statuisce che il responsabile del competente ufficio comunale, “qualora non debba provvedere” (con i poteri inibitori “doverosi”, di cui si è detto), “attesta sulla denuncia di inizio di attività la chiusura del procedimento”. In questo caso si dovrà parlare di provvedimento espresso, ovvero, per mancanza di forma, di mero fatto? E in questa seconda ipotesi si potrà parlare ancora di inerzia normativamente non qualificata? 3. E veniamo alla disciplina introdotta dal comma 6-ter. Il quale, com'è noto, dispone che “gli interessati possono sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'Amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione di cui all'art. 31, commi 1, 2 e 3 del D. Lgs. 2 luglio 2010, n. 104”. Tale disposizione — che ha destato a sua volta commenti critici diffusi e certo non ingiustificati (20) — è stata spesso considerata come un'aperta confutazione, da parte del legislatore, delle conclusioni raggiunte dall'Adunanza plenaria n. 11 del 2011. E poiché, come ho accennato, mi sento almeno in parte responsabile di dette conclusioni, sento anche il dovere di difenderle da simili valutazioni. L'interpretazione della Plenaria non è stata affatto smentita (21), sia perché il legislatore si è mosso seguendo la stessa impostazione logica (la SCIA o la DIA, in quanto atti del privato, non costituiscono provvedimenti taciti, la posizione del terzo è di interesse legittimo pretensivo all'esercizio dei poteri inibitori e ripristinatori, dato che la fattispecie non contempla poteri autorizzatori a vantaggio del presentatore della SCIA o della DIA), sia perché comunque non si è trattato di un intervento legislativo di tipo interpretativo della disciplina preesistente, sibbene di un intervento introduttivo di una nuova strumentazione di tutela dei soggetti terzi e di nuovi adempimenti (le “sollecitazioni”, che prima non esistevano). E che sia così è dimostrato dalla circostanza che la giurisprudenza ha continuato ad applicare la figura del silenzio diniego (con correlata azione di annullamento) alle fattispecie di SCIA o DIA “consolidatesi prima della nuova disposizione” (22). È solo per i casi di SCIA o di DIA, presentati dopo l'innovazione legislativa dell'agosto 2011, che la giurisprudenza ha ritenuto applicabile “solo” (23) e “in via esclusiva” (24) l'azione prevista dall'art. 31 c.p.a. sul silenzio inadempimento della Pubblica Amministrazione (25). Si è trattato, dunque, di un intervento innovativo, mosso, tra l'altro, da ragioni, che non si possono definire di coerenza ricostruttiva. Perché, è bene chiarirlo subito, l'intervento subitaneo del legislatore, che utilizzando la decretazione d'urgenza ha inteso superare la costruzione accolta dall'Adunanza plenaria, non è stato certo ispirato da esigenze di maggiore effettività della tutela o da esigenze di carattere sistematico. Esso ha costituito una reazione, imposta dagli apparati burocratici, che temevano che la figura del silenzio diniego potesse far insorgere ipotesi di responsabilità dell'Amministrazione, ove tale silenzio diniego fosse stato giudicato illegittimo e annullato per mancato esercizio dei relativi poteri di controllo. Il che ha avuto un qualche riscontro anche a livello di Corte costituzionale. Ove è stato rilevato che “sarebbe irragionevole trascurare che, per quanto efficacemente organizzata, non sempre la pubblica amministrazione può disporre di mezzi tali da consentirle di controllare tempestivamente l'intreccio delle numerose e varie iniziative private soggette a controllo” (Corte Cost., 16 luglio 2012, n. 188). In tale contesto l'istituto del silenzio-inadempimento è parso più tranquillizzante per l'Amministrazione. Perché esso evoca un potere di controllo che non si esaurisce e che può sempre essere esercitato, ove emergessero proteste e lagnanze dei terzi. Ma a parte il rilievo che la persistenza di un potere di tipo inibitorio e ripristinatorio non riguarda il c.d. controllo “doveroso” (di cui supra, lett. A), dette esigenze avrebbero dovuto ricevere una risposta legislativa ben diversa, senza scaricare le pur legittime preoccupazioni degli apparati burocratici sulla tutela del terzo (e sulla stessa posizione del presentatore della SCIA), compromettendo ancor più gravemente la coerenza intrinseca dell'intero istituto. Il quale suscita perplessità anche per quel che concerne il suo ambito precettivo, ponendo così all'interprete tutta una serie di problemi applicativi, di cui si passa brevemente a parlare. 4. Una sentenza del T.A.R. Lombardia precisa che “il silenzio della P.A. che consente l'azione ex art. 31 del codice del processo, presuppone, ai sensi dell'art. 6-ter, la “sollecitazione” del terzo all'Amministrazione, affinché quest'ultima eserciti i propri poteri di verifica” (26). Ma quale silenzio? E quali poteri di verifica: quelli che l'amministrazione detiene sine die, o anche quelli da esercitare nei primi trenta o sessanta giorni? Tali problemi sono avvertiti dalla dottrina, che tuttavia per lo più omette di dare risposte specifiche. Mentre in giurisprudenza si rinvengono soluzioni incerte ed eterogenee. Al riguardo è stato talvolta sottolineato — prendendo spunto da un'ulteriore innovazione legislativa (27) — che è possibile agire nei confronti del silenzio “ben prima della scadenza del termine finale assegnato all'Amministrazione per l'esercizio del potere repressivo o modificativo, e sin da quando la scia o la dia vengano presentate e il terzo venga a conoscenza della loro utilizzazione” (28). Con l'ulteriore precisazione che “in tal caso l'azione avrà ad oggetto, più che il silenzio, direttamente l'accertamento dei presupposti di legge per l'esercizio dell'attività, oggetto della segnalazione, con conseguenti effetti conformativi in ordine ai provvedimenti spettanti all'autorità amministrativa” (29). Ma l'ipotesi che le “sollecitazioni” siano effettuate prima della scadenza del termine di 60 (o 30) giorni è più teorica che pratica. L'esperienza insegna che il terzo per lo più si accorge dell'attività oggetto della SCIA (in ipotesi carente dei presupposti di legge) ben oltre tale termine e talvolta a distanza di tempo (30). Ebbene, quali verifiche può il terzo sollecitare una volta decorso il termine per l'esercizio dei poteri generali inibitori e ripristinatori di carattere “doveroso” (supra, lett. A)? E in caso di persistente inerzia può far valere il silenzio formatosi in ordine a detti poteri, ovvero dovrà circoscrivere l'azione al mancato esercizio dei poteri di autotutela (supra, lett. B) e degli altri specifici ancora non “consumati” (lett. C o D)? A quest'ultimo quesito la giurisprudenza pare optare prevalentemente per la seconda delle suddette ipotesi, pur precisando che ciò “non riduce in maniera significativa l'ambito di tutela del quale il terzo si può giovare”. Infatti quest'ultimo, “pur trascorso il termine assegnato all'Amministrazione per l'esercizio del potere inibitorio”, potrebbe sollecitare i poteri di autotutela e gli altri ancora persistenti in capo all'Amministrazione e, in caso di silenzio, esperire la relativa azione (31). Ma tale soluzione non è condivisibile, per le stesse ragioni già esposte con riferimento alla disciplina pregressa, che l'introduzione del comma 6-ter non ha superato, ma semmai aggravato. Essa concepisce una diversa tutela, a seconda della circostanza totalmente estrinseca ed occasionale che le “sollecitazioni” avvengano prima o dopo il fatidico termine di 30 o 60 giorni. Il che appare alquanto bizzarro. Inoltre detta interpretazione presuppone che si attivino ben due (ancorché collegati) procedimenti, perché il terzo possa agire a tutela della propria posizione. L'uno, a seguito della presentazione della SCIA, l'altro su “sollecitazione” del terzo (che aprirebbe su richiesta di parte — e non d'ufficio — il procedimento di autotutela e che dovrebbe attendere lo spirare del relativo termine, per poter proporre domanda giudiziale): il che appare a sua volta singolare, soprattutto se si considera che l'intero istituto della SCIA è stato concepito come strumento di semplificazione (e non di complicazione) amministrativa. A questo proposito è stato per la verità sostenuto che “nello schema normativo del citato comma 6-ter, la presentazione di una DIA o di una SCIA non dà luogo ad alcun procedimento amministrativo, per cui il decorso del termine di legge di sessanta o trenta giorni per l'adozione di provvedimenti inibitori o repressivi da parte della pubblica Amministrazione non configura alcuna conclusione di procedimento amministrativo né alcuna adozione di un provvedimento tacito o implicito” (32). Ma, a parte la questione del formarsi o meno del provvedimento tacito (di cui si è già detto), non è possibile condividere l'assunto della mancanza di alcun procedimento amministrativo. Se così fosse, infatti, non si comprenderebbe a che titolo l'Amministrazione potrebbe già nei primi 60 (o trenta) giorni inibire l'attività e ordinare il ripristino. Un provvedimento di tal fatta non nasce dal nulla, ma presuppone un procedimento già avviato, appunto, attraverso la presentazione della SCIA. Del resto, si è visto che sussistono esempi di leggi regionali che fanno esplicito riferimento a detto procedimento e alla sua chiusura. Né il meccanismo introdotto dal comma 6-ter ha innovato sul punto. Dunque, la presentazione della SCIA mette in moto un apposito procedimento (33), diretto all'eventuale esercizio di poteri inibitori “doverosi”. Giustapporre necessariamente ad esso, anche nel caso di persistente inerzia, un ulteriore procedimento di autotutela, per poter finalmente agire in sede giurisdizionale, significa concepire una vera e propria superfetazione, gravemente lesiva del diritto ad una tutela giurisdizionale satisfattoria (e, in quanto tale, rapida, accessibile ed effettiva). Ma, indipendentemente dagli ostacoli che precedono, quel che non pare condivisibile è la preclusione di ogni tutela e sindacato giurisdizionale con riferimento ai poteri generali inibitori dell'amministrazione (quelli che si consumano nei primi 30 o 60 giorni). Con la conseguenza che la tutela del terzo dovrebbe essere indirizzata a sindacare il mancato esercizio del potere di autotutela, con tutte le ovvie difficoltà e con i limiti che si riscontrano sempre, allorché si passi da un'attività vincolata ad un'attività di tipo schiettamente discrezionale, come è il potere di autotutela (34) (anche nel quadro complessivo della disciplina della SCIA, come si è visto). È per tale ragione che, in un'ottica di effettività della tutela (35), appare indubbiamente preferibile altro indirizzo giurisprudenziale, che pur si intravede nel materiale giurisprudenziale degli ultimi tempi. Si tratta dell'indirizzo che, pur senza spiegare le ragioni ricostruttive che lo consentano, pare giungere alla conclusione che sussista un generale diritto del privato, asseritamente leso, di agire in giudizio per l'accertamento della insussistenza “dei presupposti di legge per l'esercizio dell'attività oggetto di segnalazione”, anche quando il termine per l'esercizio doveroso dei poteri di inibizione sia ormai trascorso (36). E in realtà la lesione della posizione del terzo — ben inteso, purché sia rigorosamente provata la sua legittimazione — non deriva (o può non derivare) dal mancato esercizio dei poteri di autotutela (che, tenuto conto del bilanciamento degli interessi, può essere del tutto legittimo). Né deriva dal mancato esercizio dei poteri sub C) e D), tutte le volte che la mancanza dei presupposti non sia ricollegata a dichiarazioni false o errate, né comporti situazioni di pericolo per il patrimonio artistico, culturale, ecc. La lesione deriva, viceversa, sempre e comunque dall'inerzia dell'Amministrazione rispetto all'esercizio “doveroso” dei suoi poteri inibitori generali (supra, lett. A), che sono gli unici idonei a contrastare ogni forma di illiceità dell'attività oggetto di SCIA, in quanto carente di uno qualunque dei presupposti previsti dalla legge. Tale lesione, dunque, deve pur essere giustiziabile, perché non si può concepire che la lesione del terzo rimanga senza tutela a causa della scelta legislativa sullo strumento processuale da attivare. Né si potrebbe opporre che una interpretazione di tal fatta (oltre a dover essere dimostrata) comporti una sorta di sovraesposizione della tutela del terzo, che non potrebbe pretendere sul piano giurisdizionale più di quanto la fattispecie sostanziale consente. La fattispecie sostanziale, infatti, prevede pur sempre un (temporaneo) potere generale di carattere inibitorio e l'interesse del terzo a che sia inibita un'attività illecita, perché priva dei requisiti e dei presupposti di legge, deve pur essere tutelato, secondo i ben noti canoni costituzionali. Tale interesse del terzo, ove assuma — secondo i noti parametri — la consistenza di interesse legittimo (pretensivo) correlato al potere generale inibitorio (37), sorge, infatti, al momento della presentazione della SCIA ed è ben altra cosa dall'interesse legittimo correlato all'eventuale esercizio dei poteri di autotutela. Sicché, a meno che non si dica — in frontale contrasto con l'art. 24 della Costituzione — che detto (primo) interesse legittimo sia privo di tutela giurisdizionale, la stessa deve essere garantita, pur all'interno del giudizio sul silenzio inadempimento, imposto ora dal comma 6-ter. In altri termini, la circostanza che il potere generale inibitorio risulti “consumato” per l'Amministrazione — che può avvalersi, decorso il termine, (pressoché) solo del potere di autotutela — non può costituire un limite alla tutela del terzo. E un'interpretazione costituzionalmente orientata del comma 6-ter deve pur consentire di accertare “tout court” l'inesistenza dei presupposti per l'esercizio dell'attività oggetto di segnalazione, “con i conseguenti effetti conformativi in ordine ai provvedimenti spettanti all'Autorità amministrativa” (38). Occorre, dunque, verificare se tale esigenza è compatibile con il tenore letterale della nuova norma. E la risposta può essere affermativa, a patto che si consideri l'“inerzia”, di cui al comma 6-ter, non riferita al silenzio sulle sollecitazioni, sibbene all'unico procedimento aperto con la SCIA e che si esaurisce allo spirare del termine di 30 o 60 giorni: solo in tal caso, infatti, sarà consentito al terzo di portare alla cognizione del Giudice — attraverso il rito speciale sul silenzio e sempre che sussistano le ulteriori condizioni previste dall'art. 31 c. 2 c.p.a. — l'omesso esercizio di un intervento “doveroso”, correlato alla mancanza di uno qualunque dei presupposti di legge per l'esercizio dell'attività oggetto di SCIA. È pur vero che il comma 6-ter sembra predicare l'inerzia alle “sollecitazioni” del terzo, rimaste senza esito. Ma le “sollecitazioni” non sono istanze che aprono altrettanti procedimenti (con termini tutti da immaginare), sibbene richiami (appunto, sollecitatori) ai doveri d'ufficio, che l'Amministrazione detiene indipendentemente da esse. Tali sollecitazioni (che comunque soddisfano l'esigenza dell'Amministrazione ad essere preavvertita) riguardano le “verifiche spettanti all'Amministrazione” e, dunque, tutto il ventaglio dei poteri di controllo, previsti dall'art. 19, e che l'Amministrazione detiene in relazione al tempo in cui le sollecitazioni stesse sono avanzate. Ma esse non rimettono in termini l'Amministrazione, prolungando il potere generale inibitorio oltre il termine perentorio dei 30 o 60 giorni (deresponsabilizzando così l'Amministrazione stessa): esse costituiscono viceversa soltanto un presupposto dell'azione sul silenzio, che risulta così preannunciata, assolvendo ad una funzione analoga al preavviso di ricorso, di cui all'art. 243-bis del codice degli appalti. Ma, come in quest'ultimo caso il mancato esercizio dei poteri di autotutela non comporta che l'azione sia indirizzata avverso tale omissione (39), anche nel caso della SCIA vi può essere una “dissociazione” tra l'oggetto delle sollecitazioni e l'oggetto della tutela giurisdizionale. Infatti, una volta chiarito che la lesione scaturisce dal mancato esercizio dei poteri “doverosi” e privi di margini di discrezionalità, l'azione sul silenzio (inadempimento) non può che essere indirizzata avverso l'inerzia prodottasi sul procedimento avviato con la SCIA: se poi dovesse sopraggiungere un provvedimento esplicito, si verificherebbero le consuete vicende, che potranno portare, a seconda dei casi, alla cessazione della materia del contendere, ovvero ad un ulteriore ricorso per motivi aggiunti ex art. 117 c. 5 c.p.a. (40). 5. L'ipotesi interpretativa testé avanzata (ancora una volta in linea di prima approssimazione, perché il tema meriterebbe ben altro sviluppo argomentativo), comporta rilevanti ripercussioni sul modello del giudizio sul silenzio. Una prima conseguenza riguarda la domanda che può essere proposta in tale giudizio. Infatti nel riferito contesto il terzo non potrebbe richiedere l'emissione di un semplice ordine di provvedere, nel senso di ordine di pronuncia espressa (art. 31, c. 1, c.p.a.). E ciò per la saliente ragione che, come si è visto, l'art. 19 c.3, primo periodo, della legge 241 esclude che sussista un obbligo di tal fatta in capo all'Amministrazione, che, in deroga al principio di cui all'art. 2, c. 1, della stessa legge, può puramente e semplicemente lasciar decorrere il termine ivi previsto. Il terzo, viceversa, potrà (e dovrà, se intende ottenere giustizia) chiedere l'accertamento della fondatezza della pretesa (art. 31, c. 3 c.p.a.) alla inibizione dell'attività altrui, in quanto priva dei requisiti di legge. E trattandosi di attività vincolata e doverosa, il cui mancato esercizio non sia stato corretto neppure successivamente (da qui la persistenza dell'inadempimento), non sussistono ostacoli ad un accertamento di tal fatta (41). Una seconda e forse più grave ripercussione riguarda il potere ordinatorio del Giudice, ex art. 31 c. 3 c.p.a. Tenuto conto che il giudizio sul silenzio, ex art. 31 c.p.a., è sempre stato configurato come giudizio su poteri da esercitare — e di cui l'Amministrazione sia persistente titolare — e non come giudizio sul potere già esercitato o, comunque, non più nella sfera di disponibilità dell'Amministrazione. Tutto ciò è vero ed è stata una delle (principali) ragioni, che hanno condotto alla ricostruzione del silenzio, come tacito provvedimento amministrativo di archiviazione. Ma ora è intervenuto il legislatore, introducendo il comma 6-ter, e tale intervento innovativo deve essere valutato in tutte le sue implicazioni, con una interpretazione che ne garantisca l'effetto utile. Ed una implicazione che mi pare necessaria è che in materia di SCIA il giudizio sul silenzio abbia subito una vera e propria metamorfosi, passando dall'accertamento su di un potere illegittimamente non esercitato, ma persistente, all'accertamento su di un potere illegittimamente non esercitato e ormai consumato. Sarà, dunque, l'ordine del Giudice a riattivare, ora per allora, detto potere e ad imporne il relativo esercizio (42). Né si pensi che si tratta di evenienza dommaticamente impossibile. Il processo amministrativo tedesco presenta, com'è noto, un'azione (la Verpflichtungsklage), che è stata il paradigma della nostra azione di adempimento (anche applicata al silenzio, come nell'art. 31 c. 3 c.p.a.). E tale azione (e relativa condanna) è ben esperibile non solo in caso di omissione, ma anche in caso di illegittimo rifiuto espresso da parte dell'Amministrazione (art. 42, par. 1, e 113, par. 5 della legge tedesca sul procedimento amministrativo (43)): dunque è esperibile anche nei confronti del potere esercitato. Nell'ordinamento tedesco — e a differenza di quello italiano — non è necessaria l'impugnazione (e l'annullamento) del provvedimento esplicito di diniego di un provvedimento richiesto o comunque preteso (44). La condanna all'emissione di tale provvedimento, infatti, presuppone l'illegittimità del precedente diniego, che risulta automaticamente travolto (con effetti costitutivi impliciti) dalla pronuncia di condanna. Nel nostro sistema non è così, dato che l'azione di adempimento non può essere esercitata autonomamente, ma semmai contestualmente a quella di annullamento. L'annullamento opera con effetti ex tunc, riapre il il circuito dell'azione amministrativa e apre la strada alla condanna all'emissione del provvedimento. Nel caso del silenzio-inadempimento tutto ciò normalmente non è necessario, poiché da un lato si tratta di mero fatto (inerzia prolungata oltre il termine fissato per la conclusione del procedimento) e, d'altro lato, il circuito dell'azione amministrativa rimane ancora aperto, dato che il potere (non esercitato) permane in capo all'Amministrazione. Sicché l'ordine di pronuncia, ovvero (nei casi del terzo comma dell'art. 31 c.p.a.) l'ordine di provvedere conformemente alla pretesa, di cui sia stata accertata la fondatezza, non incontrano ostacoli di sorta. Nel caso del “silenzio” serbato nei confronti della SCIA — e con riferimento ai poteri inibitori “doverosi”, di cui supra alla lettera A — la situazione è alquanto diversa, dato che col decorso del termine si consuma (come si è visto) il relativo potere. Dunque il Giudice, nel giudicare l'illiceità dell'attività oggetto della SCIA e la fondatezza della pretesa del terzo all'emissione dei provvedimenti inibitori e ripristinatori, opera un accertamento che si riferisce al momento in cui il silenzio si è formato (45). Un accertamento, dunque, ad effetti retroattivi, che, al pari di quanto avviene a seguito dell'annullamento di un atto negativo, rimuove l'ostacolo del potere già esercitato o, comunque, consumato. Ma ciò che è precluso all'Amministrazione (salvo l'esercizio dei poteri di autotutela) non è certo precluso ai poteri ordinatori e di condanna del Giudice (46): sicché l'ordine di emettere il provvedimento, che l'Amministrazione avrebbe dovuto adottare nel corso del procedimento di SCIA, riaprirà il circuito del potere amministrativo e potrà riguardare proprio quel potere inibitorio e ripristinatorio “doveroso” (supra, sub A), che è ormai al di fuori dei poteri d'ufficio dell'Amministrazione medesima. Un ulteriore problema applicativo val la pena di prendere in considerazione. Esso riguarda il termine per proporre l'azione sul silenzio, che, come è noto, è di un anno dalla scadenza del termine per la conclusione del procedimento di riferimento. Ma tale termine è certo e noto, se il procedimento è avviato su istanza di parte e se il ricorrente è lo stesso titolare dell'interesse legittimo pretensivo, che lo ha avviato. Nel caso della SCIA non è così, sicché potrebbe verificarsi l'evenienza — non inusuale, soprattutto in materia edilizia — che il terzo si renda conto della lesione quando il termine dell'anno sia ormai trascorso. Ne deriva che tale termine annuale non può decorrere, come di consueto, sempre e comunque dal momento della conclusione del procedimento: per evitare una inammissibile preclusione di tutela giurisdizionale occorrerà in tali casi considerare l'anno come decorrente dalla “piena conoscenza” della lesione e, così, del mancato intervento dell'Amministrazione nel termine perentorio all'uopo assegnato dalla legge. Del resto anche tale adattamento si può giustificare in base al comma 6-ter. Se, infatti, l'azione sul silenzio presuppone una “sollecitazione”, presuppone altresì che il terzo abbia acquisito adeguata consapevolezza del vulnus subito. Tutto ciò implica, ovviamente, un sicuro peggioramento della posizione “consolidata” del presentatore della SCIA, che sarà esposta alla reazione del terzo per un periodo ben più lungo di quanto non fosse nel quadro ricostruttivo del silenzio significativo, accolto dall'Adunanza plenaria. Ma tale implicazione non pare evitabile alla luce del nuovo comma 6-ter. Se, infatti, si dovesse interpretare il silenzio come correlato al mancato esercizio dei poteri di autotutela, la relativa azione dovrebbe essere proposta sempre nell'arco dell'anno, ma a far tempo dal formarsi dell'inerzia sulla c.d. “sollecitazione”: e poiché quest'ultima non è un atto processuale, potrebbe essere avanzata in qualunque momento e anche a grande distanza di tempo dalla conclusione del procedimento di SCIA, senza che il relativo titolare possa eccepire altro, se non la scadenza del termine ragionevole per l'esercizio del potere di autotutela, interpretato peraltro dalla giurisprudenza con l'elasticità che tutti conosciamo. I problemi applicativi probabilmente non si esauriscono qui. Ma non è il caso di sondarli tutti, perché appare più utile, per concludere, farsi carico almeno di una possibile obbiezione. Si potrebbe, infatti, obbiettare che tutte le riferite necessità di adattamento manifestano le difficoltà che incontra la costruzione proposta (47). E che se ne dovrebbe preferire altre (ad esempio, quella del silenzio correlato ai poteri di autotutela), che forse meglio si conciliano col rito del silenzio inadempimento, di cui agli artt. 31 e 117 c.p.a. Ma proprio perché sussiste ora la necessità (comma 6-ter) di utilizzare sempre e comunque il giudizio sul silenzio inadempimento, l'individuazione del relativo oggetto (conformemente alle esigenze anche di ordine costituzionale) costituisce un prius rispetto alla disciplina processuale vera e propria. Con la conseguenza che, in mancanza di perfetta armonia, sarà quest'ultima e non il primo a dover subire gli adattamenti del caso. I quali del resto appaiono inevitabili, tenuto conto di quanto si è già avvertito e, cioè, che il giudizio sul silenzio è stato concepito come relativo ad un silenzio su istanza di atto ampliativo, mentre il comma 6-ter lo ha esteso — comunque lo si voglia interpretare — ad un silenzio in ordine all'adozione di un atto restrittivo per la sfera giuridica altrui. Sicché la modifica del modello sostanziale non può non comportare — come è pressoché fisiologico che avvenga — talune ripercussioni anche in sede processuale. Le note non le vogliono più giustificate <div style="text-align: justify; margin: 10px 10px;"> Note: (*) Saggio destinato agli scritti in onore di Ernesto Sticchi Damiani. (1) La SCIA e la tutela dei terzi al vaglio dell'Adunanza Plenaria: ma perché dopo il silenzio assenso e il silenzio inadempimento non si può prendere in considerazione anche il silenzio diniego?, in questa Rivista, 2011, 359 ss. (2) Cons. Stato, Sez. VI, 14 novembre 2012, n. 5751, che sottolinea che la valutazione comparativa deve essere “idonea a giustificare la frustrazione dell'affidamento incolpevole del denunciante a seguito del decorso del tempo e della conseguente conservazione del potere inibitorio”.Cfr. anche Tar Campania, Napoli, Sez. II, 27 febbraio 2013, n. 1165; Tar Lombardia, Brescia, Sez. II, 3 settembre 2012, n. 1495. (3) Cons. Stato, Sez. VI, 14 novembre 2012, n. 5751. (4) Cons. Stato, Sez. VI, n. 5751/2012 cit..; TarVenezia, Sez. II, 11 aprile 2013, n. 535. (5) Sull'importanza del ruolo dei terzi come “strumento di effettività delle norme pubblicistiche...” e come “principali controllori del rispetto della disciplina normativa” M. Ramajoli, La S.C.I.A. e la tutela del terzo in questa Rivista 2012, 329 ss., 352. (6) In proposito è stato giudicato che “la mancata notifica dell'atto inibitorio nel prescritto termine di 30 giorni, di cui all'art. 23 D.P.R. n. 380/2001, comporta il consolidamento dell'attività denunciata, la cui eventuale non conformità a legge può essere fatta valere dall'Amministrazione comunale nei limiti dell'esercizio del potere di autotutela” (Tar Campania, Napoli, Sez. II, 27 febbraio 2013, n. 1165). Il tutto sul presupposto che “il termine per l'esercizio del potere inibitorio doveroso... è perentorio” (Cons. Stato, Sez. VI, 14 novembre 2012, n. 5751; Tar Venezia, Sez. II, 11 aprile 2013, n. 535). E tale impostazione e relativa conclusione è da condividere, anche dopo l'introduzione dell'istituto del comma 6 ter, su cui si tornerà. Infatti, è tuttora vigente quanto disposto dal comma 4 dello stesso articolo, secondo cui “decorso il termine per l'adozione dei provvedimenti di cui al primo periodo del comma 3 [e, dunque, del generale potere inibitorio, di cui stiamo parlando, n.d.r.]...è consentito intervenire solo in presenza del pericolo di un danno per il patrimonio artistico e culturale”. (7) Persistono, per la verità, anche i poteri sanzionatori dell'art. 21 c. 2 della stessa legge 241/90. Ma detti i poteri riguardano solo taluni settori (ad esempio, quello edilizio) e non possono pertanto partecipare alla ricostruzione generale dell'istituto. (8) Sul particolare problema di presentazione di una DIA per attività diverse da quelle consentite dalla legge, cfr. A. Sandulli, Denuncia di inizio attività, in Riv. giur. ed. 2004, 121 ss., 133. (9) Il che apriva la strada a tutti i ben noti strumenti di tutela giurisdizionale, che un provvedimento di tal fatta consente di attivare.Si trattava, come è ovvio, del ricorso di impugnazione, da esercitare nel consueto termine di decadenza. Ma si trattava altresì dell'azione di adempimento, particolarmente efficace nelle fattispecie, come quelle oggetto di SCIA, in cui è assente ogni profilo di discrezionalità dell'Amministrazione. E infatti l'eventuale annullamento dell'atto tacito di archiviazione riapre ex tunc l'esercizio del potere inibitorio doveroso: l'azione di adempimento impone tale esercizio, prescrivendo con precisione le misure amministrative da adottare.In conclusione la proposta ricostruttiva accolta dal Consiglio di Stato ha tenuto conto delle esigenze di effettività della tutela del terzo e delle esigenze di rapido “consolidamento” della posizione del presentatore della SCIA, correlata al carattere doveroso dei controlli che l'Amministrazione deve operare nei primi 60 giorni. A tale strumentazione di tutela il Consiglio di Stato ha aggiunto anche un'azione di accertamento, esercitabile anche prima della formazione del silenzio, per garantire in sede cautelare ogni più rapida tutela possibile (su quest'ultimo punto M.A. Sandulli, Brevi considerazioni a prima lettura della Adunanza Plenaria n. 15 del 2011, in www.Giustamm.it.). (10) Anche se non sono mancati contributi significativi e di grande respiro (cfr., ad esempio, R. Ferrara, La segnalazione di inizio attività e la tutela del terzo: il punto di vista del Giudice amministrativo, in questa Rivista 2012, 215 ss.). (11) Cfr. E. Scotti, Tra tipicità e atipicità dell'azione nel processo amministrativi (a proposito di Ad. Plen. 15/11), in Dir. amm. 2011, 765 ss. (12) Cfr. V. Cerulli Irelli, Lineamenti del diritto amministrativo, Torino, 2012, 366.Con specifico riferimento alla DIA, cfr. W. Giulietti,Attività privata e potere amministrativo. Il modello della dichiarazione di inizio attività, Torino, 2008, 180 ss.Non dubita viceversa dell'impugnabilità dell'atto di archiviazione il Giudice comunitario (cfr. Trib. I grado, Sez. IV, 17 febbraio 2000, in causa T241/97; Corte Giust., 16 giugno 1994, in causa C-39/93, punto 28). (13) Cons. Stato, Sez. VI, 14 novembre 2012, n. 5751; Tar Venezia, Sez. II, 11 aprile 2013, n. 535. (14) Ancor di recente è stato giudicato che “tale potere, con cui l'amministrazione è chiamata a porre rimedio al mancato esercizio del doveroso potere inibitorio, condivide i principi regolatori sanciti, in materia di autotutela dalle norme citate, con particolare riguardo alla necessità dell'avvio dell'apposito procedimento in contraddittorio, al rispetto del limite del termine ragionevole e, soprattutto, alla necessità di una valutazione comparativa, di natura discrezionale, degli interessi in rilievo, idonea a giustificare la frustrazione dell'affidamento incolpevole maturato in capo al denunciante a seguito del decorso del tempo e della conseguente consumazione del potere inibitorio” (Cons. Stato, Sez. VI, n. 5751/2012 cit.; cfr. anche Tar Campania, Napoli, Sez. II, n. 1165/2013 cit.). (15) Cfr. A. Travi,La tutela del terzo nei confronti della D.I.A. (o della S.C.I.A.): il codice del processo amministrativo è la quadratura del cerchio, in Foro it., III, 517 ss.; L. Bertonazzi, Natura giuridica della S.C.I.A. e tecnica di tutela del terzo nella sentenza dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 15/2011 e nell'art. 19, comma 6 ter della legge n. 241/90, in questa Rivista, 2012, 215 ss. (16) Così F. Merusi, Creatività giurisprudenziale e funzione. La tutela del terzo nel processo amministrativo nell'ipotesi di attività liberalizzate, in Giur. it., 2012, 2, che però non abbraccia affatto la tesi, che la tutela del terzo debba passare attraverso l'esercizione dell'autotutela, sia pure intesa in senso atecnico. (17) Cfr. per un caso di impugnazione di un esplicito provvedimento di archiviazione in un procedimento di D.I.A., Tar Lombardia, Sez. IV, 8 maggio 2007, n. 2552. (18) Si rinvengono con una certa frequenza, infatti, attestazioni espresse dall'Amministrazione di avvenuta verifica della regolarità formale e della completezza della documentazione presentata, con conseguente “chiusura” del procedimento di DIA e di SCIA. Auspica la generalizzazione di tali prassi E. Zampetti, D.I.A. e S.C.I.A. dopo l'Adunanza Plenaria n. 15/2011: la difficile composizione del modello sostanziale con il modello processuale, in Dir. amm., 2011, 811 ss. (19) Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 2 febbraio 2009, n. 717. (20) Cfr., ad esempio, E. Boscolo, La dialettica tra la Plenaria e il legislatore sulla natura liberalizzante della DIA e sullo schema di tutela del terzo: principi destinati ad una vita effimera, in Giur. it., 2012, 4 e F. Martines, La segnalazione certificata di inizio attività, Milano, 2011, 206. (21) Così nel complesso C.E. Gallo, L'art. 6 della manovra economica d'estate e l'adunanza plenaria n. 15 del 2011: un contrasto soltanto apparente, in www.Giustamm.it. (22) Cfr. Tar Lazio, Roma, Sez. II bis, 23 aprile 2013, n. 4117; Tar Lazio, Sez. II, 10 aprile 2013, n. 3642; Tar Campania, Napoli, Sez. IV, 6 marzo 2013, n. 1247; Tar Veneto, Venezia, Sez. II, 5 marzo 2012, n. 299; Tar Umbria, Perugia, Sez. I, 22 dicembre 2011, n. 400; Tar Basilicata, Sez. I, 8 febbraio 2012, n. 48. (23) Si legge, in particolare, che “il legislatore, pur recependo l'orientamento del Consiglio di Stato sulla natura giuridica della D.I.A. (oggi S.C.I.A.), come atto del privato non immediatamente impugnabile, si discosta da tale decisione quanto ai rimedi esperibili dal terzo controinteressato, il quale ha ora a disposizione solo l'azione prevista dall'art. 31 c.p.a. per i casi di silenzio della P.A., senza che possano residuare ulteriori strumenti di tutela” (Tar Lecce, Sez. III, 18 settembre 2013, n. 1937). (24) Si legge, altresì, nella seconda delle sentenze citate che “detta ultima disciplina legislativa ha, pertanto, previsto che la tutela della posizione giuridica soggettiva del terzo, a seguito del deposito di una DIA (ora SCIA) ritenuta lesiva, debba comportare l'esperimento “in via esclusiva”, dell'azione in materia di silenzio e di cui all'art. 31, commi 1, 2 e 3, D.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, determinando il venir meno del dibattito giurisprudenziale e dottrinario diretto a rilevare se, a seguito del decorso del termine per l'esercizio del potere inibitorio si produceva un atto tacito o, al contrario, se risultava in essere un titolo idoneo a legittimare l'esercizio di un'attività privata” (Tar Veneto, 11 aprile 2013, n. 535). (25) È stato giudicato che “l'art. 19, comma 6-ter, consente al terzo che si reputa leso dalla presentazione della DIA/SCIA una sola modalità di tutela (il comma 6-ter, secondo periodo, contiene a tale proposito la parola « esclusivamente », introdotta in sede di conversione del decreto legge), vale a dire la sollecitazione all'esercizio delle verifiche spettanti all'Amministrazione e, in caso di inerzia di quest'ultima, la proposizione dell'azione prevista dall'art. 31 del D.Lgs. 104/2010, cioè l'azione contro il silenzio della Pubblica Amministrazione” (Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 12 aprile 2012, n. 1075 e cfr. anche Tar Firenze, Sez. III, 1 agosto 2013, n. 1202). (26) Tar Lombardia, Sez. II, n. 1075/2012 cit. (27) Art. 1, comma 1, lett. g), d.lgs. 15 novembre 2011, n. 195, che ha aggiunto all'art. 31 c. 1 c.p.a., accanto all'ipotesi (ordinaria) di “conclusione del procedimento amministrativo”, un generico riferimento agli “altri casi previsti dalla legge”. (28) Cfr. Tar Veneto, Sez. II, 11 aprile 2013, n. 535; Tar Veneto, Sez. II, 8 marzo 2012, n. 298.Nello stesso senso, Tar Lecce, Sez. III, 18 settembre 2013, n. 1937. (29) Cfr. Tar Veneto, Sez. II, n. 298/2012 cit. (30) Anche perché non sempre il presentatore della SCIA inizia subito l'attività, che è l'unico elemento rilevatore per il terzo, in mancanza di una comunicazione di avvio del procedimento, che pur sarebbe auspicabile (ovviamente indirizzata verso il terzo e non nei confronti del presentatore della SCIA). (31) Cfr. Tar Veneto, sez. II, n. 298/2012 cit., ove si legge che il terzo “pur trascorso il termine assegnato all'amministrazione per l'esercizio del potere inibitorio, potrà sollecitare tramite diffida, oltre l'esercizio del potere di autotutela, anche l'esercizio dei poteri sanzionatori e repressivi sempre spettanti all'amministrazione in materia edilizia e, fintantoché l'inerzia perduri e comunque non oltre un anno dalla scadenza del termine per l'adempimento, potrà esperire l'azione di cui all'art. 31 c.p.a., richiamata dal comma 6-ter dell'art. 19 l. 241/1990”. (32) Tar Lombardia, Milano, Sez. II, n. 1075/2012 cit. (33) L'argomento è ampiamente trattato da W. Giulietti, Attività privata e potere amministrativo, cit., 159 ss. (34) Tale potere — qualificato di volta in volta come atecnico, ibrido, ecc. — dovrebbe essere anche vincolato nell'“an”, in guisa tale da poter radicare sul terzo un vero e proprio interesse legittimo e non solo un interesse di mero fatto, anche nel caso in cui l'Amministrazione si sia astenuta totalmente dall'esercitarlo. Il che appare un'ulteriore forzatura, sulla quale non è il caso di indugiare, perché ben altre sono le ragioni (indicate nel testo), per le quali non può essere seguita la tesi dell'impugnazione del silenzio correlato all'autotutela. (35) Non può non condividersi la “premessa di fondo che scaturisce dal principio costituzionale dell'effettività della tutela giurisdizionale: quella secondo cui la sostituzione del provvedimento espresso con la DIA non può avere l'effetto di diminuire le possibilità di tutela giurisdizionale offerte al terzo controinteressato” (Cons. Stato, Sez. VI, 2 febbraio 2009, n. 717, cit., con nota di S. Valaguzza, La DIA, l'inversione della natura degli interessi legittimi e l'azione di accertamento come strumento di tutela del terzo, in questa Rivista 2009, 1260 ss.). (36) Cfr. Tar Lecce, Sez. III, 18 settembre 2013, n. 1937, che pare riferirsi a tutte le ipotesi di tutela del terzo.Analogamente, sempre con affermazioni generalizzanti, Cons. Stato, Sez. IV, 6 dicembre 2013, n. 5822. (37) Che sussista tale interesse legittimo, correlato al potere inibitorio, è unanimamente riconosciuto, anche perché lo stesso consente al terzo di attivarsi anche prima della scadenza del termini di 30-60 giorni, come si è visto. Talvolta tuttavia è qualificato come di tipo “oppositivo”, in quanto il terzo mirerebbe alla conservazione dello status quo ante (L. Bertonazzi, Natura giuridica della SCIA, cit., 237).Il che non può essere condiviso, anche se se ne comprendono le ragioni. Indubbiamente la posizione del terzo non è quella consueta dell'interesse legittimo pretensivo, che tende — attraverso l'esercizio di poteri ampliativi — a modificare la situazione preesistente. Qui la pretesa è all'esercizio di poteri restrittivi per il dichiarante e, dunque, sostanzialmente a conservare la situazione originaria.Tuttavia la situazione originaria risulta (anche giuridicamente) modificata con la presentazione della SCIA, dato che la relativa attività è ex lege consentita, salve le verifiche e i conseguenti interventi repressivi dell'Amministrazione. Sicché il terzo non richiede il mantenimento di tale situazione, sibbene il ripristino di quella originaria.Inoltre, la distinzione tra interessi legittimi pretensivi ed oppositivi non va incentrata sul bene della vita, sibbene sull'esercizio o non esercizio dei poteri amministrativi. Tant'è che le implicazioni in sede di regime scaturiscono da quest'ultima circostanza (nella specie il legislatore ha potuto imporre il giudizio sul silenzio, proprio perché si tratta comunque di interessi legittimi pretensivi, ancorché correlati a poteri inibitori e ripristinatori, con le complicazioni che si vedranno). (38) Cfr. ancora Tar Lecce, Sez. III, n. 1937/2013 cit. (39) Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 13 febbraio 2013, n. 896, che ha giudicato che “le previsioni di cui ai commi 3 e 4 del richiamato art. 243-bis devono essere intese nel senso che non risulti necessaria una specifica impugnativa avverso il comportamento inerte serbato dall'amministrazione a fronte dell'istanza di autotutela”. Nello stesso senso Cons. Stato, Sez. III, 29 dicembre 2012, n. 6712; Sez. III, 6 maggio 2013, n. 2449; Sez. III, 2 settembre 2013, n. 4356, che ha giudicato che “il testo lascia intendere che il legislatore non abbia voluto dar vita ad un procedimento contenzioso o paracontenzioso a tutela di una posizione giuridica soggettiva, ma solo offrire all'Amministrazione l'opportunità di un riesame in via di autotutela, precisando non a caso che l'atto introduttivo non viene denominato “ricorso” ovvero “reclamo” o “opposizione”, ma semplicemente “informativa dell'intento di proporre ricorso giurisdizionale”.Sull'intera problematica si può leggere E. Grillo, L'informativa di ricorso ex art. 243-bis Codice dei contratti pubblici: note critiche a margine della sentenza del Consiglio di Stato, sez. III, 29 dicembre 2012, n. 6712, in questa Rivista, 2013, 1205 ss. (40) Cfr., per le analoghe vicende in caso di inerzia sull'informativa di ricorso, Cons. Stato, Sez. III, 29 dicembre 2012, n. 6712. (41) Si tratta di implicazione, che è l'esatto opposto rispetto a quella che scaturisce dalla costruzione del silenzio relativo al procedimento di autotutela. In questo caso — e a meno di non snaturare il relativo potere, fino a considerarlo vincolato non solo nell'an, ma anche nel quid, nel quomodo e nel quando — l'unica domanda giudiziale ammissibile sarebbe quella relativa all'ordine di pronuncia, lasciando impregiudicato l'ambito della discrezionalità amministrativa: il cui successivo esercizio potrebbe produrre la necessità di un nuovo ricorso giurisdizionale, differendo ulteriormente nel tempo la realizzazione di una tutela effettiva. (42) Così mi pare anche C.E. Gallo, L'art. 6, cit., che sottolinea che l'azione sul silenzio, così congegnata, non riduce la tutela del terzo, rispetto alla soluzione accolta dall'Adunanza plenaria.In giurisprudenza si ricorda che già il Cons. Stato, Sez. VI, 15 aprile 2010, n. 2139 aveva giudicato che “la sentenza che accerta l'inesistenza dei presupposti della d.i.a. ha effetti conformativi nei confronti dell'Amministrazione, in quanto le impone di porre rimedio alla situazione nel frattempo venutasi a creare sulla base della d.i.a., segnatamente di ordinare l'interruzione dell'attività e l'eventuale riduzione in pristino di quanto nel frattempo realizzato. Tale potere in quanto volto a dare esecuzione al comando implicitamente contenuto nella sentenza di accertamento, deve essere esercitato a prescindere sia dalla scadenza del termine perentorio previsto dall'art. 19 l. 241/1990 per l'adozione dei provvedimenti inibitori-repressivi, sia dalla sussistenza dei presupposti dell'autotutela decisoria richiamati sempre dall'art. 19. Non si tratta, infatti, né di un potere di autotutela propriamente inteso (e, quindi, non richiede alcuna valutazione sull'esistenza di un interesse pubblico attuale e concreto prevalente sull'interesse del privato), né del potere inibitorio tipizzato dall'art. 19 l. n. 241/1990 (per il quale è previsto il termine perentorio). Si tratta, al contrario, di un potere che ha diversa natura e che trova il suo fondamento nell'effetto conformativo del giudicato amministrativo, da cui discende, appunto, il dovere per l'Amministrazione di determinarsi tenendo conto delle prescrizioni impartite dal giudice nella motivazione della sentenza”.Ma il Giudice amministrativo non può ordinare l'esercizio di un potere normativamente non previsto, per l'ovvio ostacolo che deriva dal principio di legalità. Dunque, l'ordine di interruzione dell'attività e di eventuale riduzione in pristino non può che essere ricollegato all'unico potere inibitorio generale previsto dalla legge e, così, al potere doveroso e vincolato di cui al primo periodo dell'art. 19 c. 3 L. 241/90. (43) Statuisce l'art. 41, par. 1, che “attraverso un'azione può essere richiesto l'annullamento di un atto amministrativo (azione di annullamento) come pure la condanna alla emanazione di un atto amministrativo rifiutato o omesso (azione di condanna)”.A sua volta statuisce l'art. 113, par. 5, che “se il rifiuto o l'omissione dell'atto amministrativo è illegittimo e l'attore viene da questo leso nei suoi diritti, il tribunale pronuncia l'obbliga per l'autorità amministrativa di eseguire l'attività amministrativa richiesta, quando la causa è matura per la decisione. In caso diverso, esso pronuncia l'obbligo di provvedere nei confronti dell'attore, secondo il punto di vista giuridico del tribunale”. (44) Sul tema si rinvia a A. Carbone, L'azione di adempimento nel processo amministrativo, Torino, 2012, 89 ss. (45) Il che ha implicazioni anche in caso di jus superveniens. Perché, ad esempio, l'attività oggetto di SCIA non potrà essere considerata illecita, ove sia sopraggiunta una disciplina che la vieti.Né potrà essere considerata lecita, ove sopraggiunga una disciplina che la consenta. Ma in questo secondo caso è difficile concepire l'interesse del terzo, dato che la SCIA potrebbe essere riproposta, con effetti sostanzialmente sananti. (46) E ciò tanto più sarà palese, se si reputa — come credo sia doveroso — che all'azione sul silenzio ex art. 31 c. 3 c.p.c. possa aggiungersi “l'azione di condanna al rilascio di un provvedimento richiesto” (art. 34, c. 1, lett. c, c.p.a.).Vero è che il comma 6-ter individua l'azione sul silenzio come “esclusiva” forma di tutela. Ma all'epoca in cui il comma 6-ter è stato introdotto mancava ancora un esplicito riconoscimento legislativo di una generale azione di adempimento (ex art. 34, comma 1, lett. c), che può essere esercitata “contestualmente ... all'azione avverso il silenzio”: dunque quell'“esclusivamente”, che troviamo nel comma 6-ter, varrà ad escludere l'azione di impugnazione, ma non l'azione di condanna al rilascio del provvedimento richiesto, che, come tale, può riguardare anche un provvedimento che avrebbe dovuto essere emesso nel passato. (47) E si tratterebbe di obbiezione da prendere nella massima considerazione: tant'è che nell'assetto precedente dell'art. 19 avevo proposto ben altra soluzione, come ho ricordato, proprio per evitare tali difficoltà. FORME E LIMITI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE CONTRO IL SILENZIO INADEMPIMENTO Diritto Processuale Amministrativo, fasc.3, 2014, pag. 709 Margherita Ramajoli Classificazioni: PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO - In genere Sommario: 1. Ineffettività della tutela sostanziale di tipo sostituitivo e della tutela processuale di tipo compensativo. — 2. La tutela in forma specifica: mancato adeguamento della struttura del processo alla sua specifica funzione. — 3. L'originaria relazione tra procedimento e processo. — 4. L'attuale latitudine del potere giudiziale. — 5. Il depotenziamento del giudizio attravero l'utilizzo del rito processuale. — 6. Il ruolo del commissario ad acta nell'irrisolta dialettica tra potere amministrativo e potere giudiziale. 1. Le recenti novità normative apportate alla disciplina del silenzio non significativo dalle leggi n. 35/2012, n. 190/2012 e n. 98/2013, nonché dal d.lgs. n. 160/2012 (secondo correttivo al c.p.a.) conducono nuovamente a domandarsi se il relativo processo sia idoneo a configurare una tutela giurisdizionale satisfattiva della pretesa fatta valere. Le novelle confermano ancora una volta che la disciplina del silenzio non tipizzato fa emergere tutte le problematicità e le ambiguità insite nella dialettica tra pubblica amministrazione e giudice amministrativo e, ancor prima, tra diritto sostanziale e diritto processuale. Il silenzio della pubblica amministrazione ex art. 2 della legge n. 241/90 è doppiamente censurabile, in quanto è mancata tutela sia dell'interesse pubblico sia dell'interesse privato (1). Il silenzio è contrario anzitutto all'interesse pubblico, in quanto impedisce l'azione diretta alla sua realizzazione e costituisce quindi una rinuncia all'individuazione in concreto dell'interesse pubblico e della modalità migliore per portarlo a soddisfazione. Se si preferisce adottare una prospettiva in parte differente e con essa anche un linguaggio diverso, il non provvedere entro un termine prestabilito si pone in contrasto sia con i principi pubblicistici di doverosità, efficienza e responsabilità dell'amministrazione, sia con il principio, parimenti pubblicistico, della certezza delle relazioni giuridiche. Al tempo stesso il silenzio è contrario all'interesse del privato e ciò in un duplice senso. Anzitutto perché viola l'obbligo di provvedere entro un determinato termine che grava sulla pubblica amministrazione, il quale fronteggia una situazione sostanziale del privato che ha una indubbia consistenza giuridica, indipendentemente dal fatto che la si voglia chiamare diritto soggettivo o interesse legittimo, anche se l'espressa, ma forse non sufficientemente vigilata, previsione di un'ipotesi di giurisdizione esclusiva in materia (art. 133, co. 1, lett. a), n. 3, c.p.a.) rafforza la tesi che si tratti di un vero e proprio diritto soggettivo. In particolare il silenzio impedisce la soddisfazione della pretesa del privato all'emanazione di un provvedimento amministrativo espresso entro un termine prestabilito e quindi non consente al singolo di conoscere la regola concreta del rapporto giuridico che lo lega all'amministrazione nel caso concreto (2). In secondo luogo il silenzio impedisce al privato di ottenere quanto gli spetta nell'ipotesi in cui egli vanti un interesse qualificato all'emanazione del provvedimento positivo richiesto. La situazione giuridica del privato nel momento in cui formula alla pubblica amministrazione una domanda di provvedimento ampliativo presenta notevoli affinità con quella che il medesimo ha allorché propone un'azione davanti al giudice. Se l'azione giurisdizionale è intesa in senso concreto e non astratto, essa è un diritto della parte a una sentenza favorevole e non solo un diritto a una sentenza di merito che si presenta favorevole unicamente nell'aspirazione di chi propone l'azione stessa. Non diversamente il privato che rivolge un'istanza alla pubblica amministrazione richiede non l'emanazione di un qualsivoglia provvedimento finale, bensì proprio quell'utilità finale conseguibile all'esito positivo del procedimento (3). Dal momento che il silenzio costituisce una grave patologia amministrativa, che vulnera al tempo stesso interesse pubblico e interesse privato, l'ordinamento giuridico deve anzitutto creare le condizioni per prevenire la realizzazione dell'inerzia. Qualora, nonostante ciò, l'inerzia si verifichi ugualmente, l'ordinamento giuridico deve configurare una o più tutele idonee a rimediare a questa disfuzione particolarmente critica, fermo restando altresì che anche ogni reazione svolge sempre una funzione preventiva pro-futuro. Nel corso del tempo al problema dell'inazione amministrativa sono state date diverse risposte, provenienti anzitutto dalla giurisprudenza — supportata da una parte della dottrina — e solo successivamente dal legislatore. Esse sono di vario tipo e se la tutela del cittadino era originariamente affidata in via esclusiva a uno specifico strumento processuale ora convivono con tale strumento soluzioni operanti sul versante di diritto sostanziale, specie ma non solo sul piano organizzativo, e soluzioni di tipo compensativo. Il quadro è mutevole e non sempre all'insegna del rafforzamento della tutela del privato nei confronti del silenzio. L'evoluzione in materia rivela come le reazioni alla patologia dell'inazione amministrativa siano oggi maggiormente concentrate su strumenti di tipo sostitutivo, oppure sanzionatorio-disciplinare in senso lato, o, ancora, risarcitorio-indennitario. In particolare le riforme attuate nel 2009, 2012 e 2013 hanno stabilito che la mancata o tardiva emanazione del provvedimento è elemento di valutazione della performance individuale e di responsabilità disciplinare e amministrativocontabile del dirigente e del funzionario inadempiente (art. 2, co. 9, della l. 241/90), che in caso di inerzia subentra il potere sostitutivo del “responsabile” individuato, nell'ambito delle figure apicali dell'amministrazione, dall'“organo di governo” (art. 2, co. 9bis), il quale dovrà entro un termine dimezzato rispetto a quello originariamente previsto concludere il procedimento “attraverso le strutture competenti o con la nomina di un commissario” (art. 2, co. 9ter), che l'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento fa sorgere un obbligo di risarcimento del danno ingiusto cagionato (art. 2bis, co. 1) e che in caso di inosservanza del termine di conclusione del procedimento ad istanza di parte il soggetto ha diritto di ottenere “un indennizzo per il mero ritardo” (art. 2bis, co. 1bis). Tuttavia le misure compensative risentono della mentalità del giudice amministrativo non facilmente propensa a elargire la tutela risarcitoria, la quale consiste comunque in una tutela non in forma specifica, bensì per equivalente, o, se si preferisce, una tutela di tipo secondario (4). I rimedi indennitari presentano poi rispetto ai rimedi risarcitori un ancora più pronunciato carattere di succedaneità rispetto alla tutela in forma specifica, con l'aggravante che essi sono oltrettutto concepiti dal legislatore in maniera più programmatica che reale (5). Inoltre, anche se l'azione risarcitoria è proponibile in via autonoma ai sensi dell'art. 30 c.p.a., tuttavia, come è noto, in generale si tende a condizionare il risarcimento del danno alla previa esperibilità dell'azione avverso il silenzio, la quale in questa maniera si conferma come centrale ai fini della tutela del privato (6). Per quanto attiene poi alle misure sostitutive, esse non sono una novità nel nostro ordinamento, che da tempo ha previsto nelle relazioni sia intersoggettive sia interorganiche la nomina di un commissario nell'ipotesi di gravi inerzie nel provvedere. Tali misure, pur essendo essenzialmente rimedi di tipo interno all'amministrazione inadempiente, presentano assonanze con il meccanismo esecutivo surrogatorio attuato tramite nomina del commissario ad acta da parte del giudice amministrativo, sul quale ci si intratterrà in seguito, nonché con lo spostamento di competenza tipico del regime dei ricorsi gerarchici amministrativi, anche se qui non rileva tanto il profilo della supremazia quanto piuttosto quello della vicinanza nella relazione organizzativa rispetto al soggetto sostituito (7). Le attualmente generalizzate misure sostitutive non sono però delineate in modo sufficientemente preciso dai frammentari e continui interventi normativi e non risultano ben armonizzate con la disciplina pregressa. La previsione di una sorta di commissario interno realizza un'inefficace concorrenza di competenze tra soggetti in seno alla medesima pubblica amministrazione, in quanto l'infelice formulazione del co. 9 ter dell'art. 2 della legge 241/90 impedisce di comprendere se, decorso il termine per la conclusione del procedimento, il soggetto originario mantenga il potere di provvedere, in base al principio dell'inesauribilità del potere amministrativo in capo al soggetto originariamente procedente, oppure tale potere sia da intendersi come trasferito in via esclusiva al titolare del potere sostitutivo, secondo i principi generali in materia di sostituzione amministrativa. Inoltre il rimedio sostitutorio rischia di creare un ulteriore onere, di tipo procedimentale, in capo al privato desideroso di tutela, dal momento che è presumibile che la giurisprudenza verrà a concepire la facoltà di sollecitare il potere amministrativo sostitutivo quale “ordinaria diligenza” richiesta ex art. 30 c.p.a. al fine di ottenimento del risarcimento del danno da ritardo; del resto, il legislatore già richiede che per ottenere l'indennizzo da ritardo “l'istante (sia) tenuto ad azionare il potere sostitutivo” (art. 28, co. 2, d.l. 69/2013) (8). Ma, al di là di queste specifiche considerazioni critiche, la presenza della menzionata congerie di rimedi di vario genere avverso il silenzio contribuisce a svuotare di senso e di contenuto la tutela di tipo giurisdizionale in forma specifica, come se il processo amministrativo non fosse in grado di assolvere la sua funzione di garanzia della situazione giuridica soggettiva violata. 2. Se si ha riguardo alla specifica tutela giurisdizionale avverso il silenzio si avverte la mancanza di una sufficiente riflessione processualistica per controbilanciare la condizionante forma impugnatoria troppo rigida del processo amministrativo. In particolare ha fatto difetto un approfondimento nel momento fondativo chiave della moderna giustizia amministrativa ovvero nel passaggio da un giudizio oggettivo a un giudizio soggettivo, perché ci si è accontentati di postulare che la funzione del processo fosse la tutela di situazioni giuridiche soggettive e non tanto l'oggettiva verifica dell'illegittimità del provvedimento amministrativo, senza capire che contemporaneamente si sarebbe dovuto adeguare la struttura del processo alla sua funzione (9). In questa maniera la struttura del processo amministrativo ha continuato a restare quella propria di un giudizio oggettivo finendo per frustrare la capacità del processo di soddisfare i differenti bisogni di tutela giurisdizionale, ovvero di adempiere alla sua precipua funzione. Questo è particolarmente evidente in materia di silenzio inadempimento, dove l'adeguamento del processo al bisogno di tutela giurisdizionale si trova comunque a fare i conti con un dato irrisolto e irrisolvibile, ossia la circostanza che la situazione fatta valere sul piano processuale non ha avuto alcuna definizione sul piano del diritto sostanziale. Questa mancata definizione sul piano sostanziale della relazione intercorrente tra le parti è una dis-funzione imputabile unicamente all'amministrazione parte resistente, ma al tempo stesso è in grado di mettere in crisi il tradizionale postulato della strumentalità del processo rispetto al diritto sostanziale qualora al primo si intenda assegnare una funzione non meramente formale (10). Dal momento che ancora oggi la tutela giurisdizionale è modellata essenzialmente mediante la predisposizione di un sindacato di legittimità sull'attività compiuta, la tutela del privato cui è impedito il raggiungimento del bene finale della vita cui aspira è pienamente garantita solo e unicamente nel caso di attività provvedimentale espressa: mentre il sindacato nei confronti del provvedimento negativo da tempo (anche prima delle recenti modifiche processuali introduttive di un'azione di adempimento, su cui ci si intratterrà oltre) è consentito dal filtro dato dai vizi di legittimità nei riguardi di tale provvedimento (11), il silenzio invece è un fatto inespressivo inidoneo a essere valutato come legittimo o illegittimo, strutturalmente incapace di aprire la strada a una reale tutela giurisdizionale che non si limiti ad accertare un già di per sé chiaro inadempimento. La critica alla struttura del processo va qui intesa in senso ampio, come tale comprensiva del rito processuale. Infatti nel giudizio avverso il silenzio anche l'introduzione di un rito speciale è divenuta strumento di diminuzione della tutela giurisdizionale: la specialità del rito è stato invocata per giustificare una cognizione limitata del giudice, con un cortocircuito tra accertamento della fondatezza della pretesa e carattere accelerato e semplificato del rito processuale. La previsione di riti speciali nel processo amministrativo trae alimento da due distinte istanze: la celerità, che conduce alla creazione di una mera procedura speciale di svolgimento del giudizio, e l'effettività della tutela, che spinge il legislatore a introdurre strumenti speciali di tutela, caratterizzati non soltanto da una forma specifica, ma anche da particolari poteri di cognizione e di decisione del giudice. Nel caso di rito in materia di silenzio, come si avrà modo di verificare, la specialità porta semplicemente a un'accelerazione dei tempi del giudizio e, di contro, impedisce un adeguamento dello strumento processuale allo specifico bisogno di tutela, anzi diminuisce l'effettività della tutela stessa. Questo deficit di tutela giurisdizionale avverso il silenzio della pubblica amministrazione non è però solo dovuto a un mancato adeguamento della struttura e del rito processuale alla sua specifica funzione di tutela, ma nasce anzitutto da precise opzioni di diritto sostanziale. Il nostro legislatore ha evitato di intervenire sull'unico profilo di diritto sostanziale che avrebbe assicurato al privato un'adeguata tutela avverso il silenzio, non introducendo termini procedimentali perentori per l'amministrazione. Nel silenzio normativo tutta la giurisprudenza, anche quella costituzionale, ha sempre avversato un'interpretazione dei termini nel senso della perentorietà, “perché la cessazione della potestà, derivante dal protrarsi del procedimento, potrebbe nuocere all'interesse pubblico alla cui cura quest'ultimo è preordinato, con evidente pregiudizio della collettività” (12). Ritenere che l'inutile decorso del tempo non determini mai la decadenza dal potere in ragione dell'esistenza di un pubblico interesse porta a dimenticare che anche la certezza dei rapporti giuridici, attraverso la delimitazione nel tempo della possibilità di produrre una modificazione giuridica, è parimenti un interesse pubblico da tutelare. Attraverso previsioni di decadenza il legislatore “fissa il punto oltre il quale l'interesse del titolare del potere a procedere all'esercizio di questo nel tempo preferito cede all'interesse pubblico di non lasciare illimitata nel tempo la possibilità di attuare la modificazione giuridica corrispondente” (13). La rilevanza della certezza dei rapporti giuridici assume particolare pregnanza nel caso dei procedimenti a istanza di parte. Infatti la consapevolezza che in essi l'amministrazione mira a verificare la compatibilità dell'interesse di cui è portatore il privato con l'interesse pubblico, che in questo contesto funge solo da limite all'attività privata, ha portato il legislatore a circoscrivere il paradigma fondato sulla centralità del provvedimento amministrativo, mettendo in crisi la raffigurazione del potere amministrativo come necessario e inesauribile, specie in virtù dell'istituto della segnalazione certificata d'inizio attività. Ma la riflessione in materia di silenzio pare slegata rispetto a questa più generale trasformazione del potere amministrativo, portandosi dietro alcune vischiosità della precedente versione autoritativa nella relazione tra amministrazione e privato. L'interpretazione del termine di conclusione del procedimento amministrativo come termine meramente acceleratorio od ordinatorio determina la conseguenza per cui il provvedimento tardivamente emanato non può essere considerato di per sé illegittimo. Il ritardo non è “un vizio in sé dell'atto” sopravvenuto, ma è solo un presupposto che può determinare, in concorso con altre condizioni, alcune forme di tutela, prima tra tutte la già evidenziata tutela risarcitoria (14). In questa maniera tutta la complessiva disciplina è all'insegna di una mancata chiara cesura tra procedimento amministrativo e processo amministrativo, in quanto il primo non si esaurisce mai ed è in grado di sovrapporsi al secondo, doppiandolo e rendendolo inutile (15). Abbracciata questa logica sfugge il senso ultimo del processo il quale si adatta all'amministrazione e non alla richiesta di tutela giurisdizionale nel caso in cui l'amministrazione decida nel corso del giudizio di esercitare il suo potere perenne emanando un provvedimento tardivo: anche nel caso di silenzio il processo deve essere necessariamente e paradossalmente successivo rispetto a un provvedimento amministrativo. Ma, come si avrà cura di dimostrare, nel corso del tempo (e dello spazio, se si ha riguardo alla disciplina oltre i confini nazionali) la relazione tra procedimento e processo non ha assunto sempre questi contorni così penalizzanti per l'effettività della tutela processuale. 3. Come è noto, la problematica del silenzio è emersa in seno alla giustizia amministrativa ed è merito della giurisprudenza avere creato ex novo un'azione avverso l'inerzia. Tutte le soluzioni di carattere processuale hanno tratto alimento da esigenze di giustizia sostanziale. Infatti sia la costruzione del silenzio come provvedimento negativo (tacitamente manifestato o presunto), sia la configurazione del silenzio come mero fatto nascono a fini processuali, allo scopo di consentire a colui che è leso dall'inerzia l'accesso alla via giurisdizionale, essenzialmente incentrata su una tutela di tipo impugnatorio. Tuttavia la tutela giurisdizionale configurata in origine, fondata sull'interpretazione del silenzio come atto tacito o presunto, risultava maggiormente piena ed effettiva di quella attuale, la quale s'inserisce di contro e in maniera paradossale in un contesto più moderno e paritario quanto ai rapporti, sostanziali e processuali, tra amministrazione e privati. L'attuale contesto è in generale qualificato da una disciplina processuale improntata alla tutela del bene della vita esposto all'azione dell'amministrazione, piuttosto che al sindacato degli atti che promanano da quest'ultima e, più nello specifico, per quanto qui rileva, è caratterizzato dal fatto vuoi che il tempo del decidere non è più una componente della discrezionalità amministrativa stante il riconoscimento normativo del dovere di provvedere con un conseguente tramonto dell'antica discrezionalità nel quando, vuoi che vari istituti di carattere generale, come il silenzio assenso e la s.c.i.a., si fondano sulla sottoposizione a decadenza del potere amministrativo conformativo dell'esercizio di diritti soggettivi dei privati. Nonostante questa evoluzione di fondo nella dinamica tra privatoamministrazione-giudice, la tutela giurisdizionale offerta in passato al soggetto leso dal silenzio della pubblica amministrazione è idonea a configurarsi come maggiormente sattisfattiva rispetto all'attuale. Originariamente il non esercizio del potere di decisione era considerato esso stesso come un modo di esercizio e quindi di consumazione del potere. Notevoli le assonanze che tale ricostruzione del silenzio non tipizzato presenta sia con una certa interpretazione della disciplina dei ricorsi gerarchici, sia con la disciplina vigente nell'ordinamento francese, che prevede tramite una norma generale che il silenzio mantenuto dall'amministrazione su un'istanza del privato equivalga a una decisione di rigetto, tranne espresse eccezioni in cui il silenzio serbato su una domanda del privato equivale ad assenso, sia con la disciplina austriaca, in cui la violazione dell'obbligo di provvedere comporta come sanzione la perdita del potere di decidere (16). La giurisprudenza, finché concepiva il silenzio come esternazione e presunzione di provvedimento (negativo), finiva con il ritenere, da un lato, che il silenzio dell'amministrazione potesse costituire l'esito finale del procedimento e fosse idoneo ad estinguere l'obbligo di provvedere, dall'altro, che l'oggetto del giudizio sul silenzio non fosse solo e tanto l'obbligo di provvedere, bensì la legittimità del provvedimento negativo, con la conseguenza che il giudicato “veniva a coprire il modo del provvedere (oltre che l'obbligo di farlo)” (17). In tal modo il controllo giurisdizionale si estendeva normalmente al merito della controversia, il processo era caratterizzato da un'istruttoria vera e propria, l'amministrazione resistente nel corso del giudizio era tenuta a far valere i motivi sostanziali a giustificazione del proprio diniego tacito, e, infine, in taluni casi il giudice giungeva a formulare la regola giuridica vincolante per il caso concreto (18). Nell'ipotesi in cui l'amministrazione avesse emanato un diniego tardivo esplicito il ricorrente poteva proporre contro di esso motivi aggiunti, con la conseguenza che il giudizio avverso il silenzio “assorbiva” il giudizio contro il diniego espresso sopravvenuto. È la stessa giurisprudenza a parlare di “assorbimento del ricorso”, esprimendo la consapevolezza che nell'azione avverso il silenzio è fatto valere lo stesso bisogno di tutela giurisdizionale che si manifesta nell'impugnazione del diniego esplicito: “la posizione del ricorrente, quanto all'interesse, permane identica, persistendo la sua pretesa di ottenere ciò che l'amministrazione gli ha negato, prima implicitamente poi esplicitamente”. In questa maniera si valorizzava l'esigenza di connessione, ossia l'esigenza di concentrare i poteri di cognizione del giudice intorno a un'unitaria vicenda giuridica (19). Tuttavia la ricostruzione del silenzio sottostante a questo complessivo quadro è stata criticata e il rilievo principale ha riguardato il fatto che l'interpretazione del silenzio come elemento in grado di chiudere la vicenda procedimentale mal si concilierebbe con la cd. riserva di amministrazione e con il conseguente divieto di sostituzione del giudice alla pubblica amministrazione nelle ipotesi in cui si faccia questione dell'esercizio di poteri da parte dell'autorità. Come si legge nella relazione di accompagnamento al primo tentativo, poi fallito, di disciplina normativa del silenzio, pur riconoscendosi la “opportunità” di “concedere ricorso alla giurisdizione amministrativa anche nel merito”, era preferibile “non poter sottoporre l'amministrazione attiva ad una così grave limitazione nello svolgimento della sua attività, limitazione che avrebbe avuto come conseguenza la sostituzione frequente del giudice amministrativo nella stessa determinazione del contenuto dell'atto” (20). Altrettanto chiara la giurisprudenza, che con la decisione dell'Adunanza plenaria n. 8 del 1960, precisa che il giudice “può accertare l'illegittimità dell'omissione, ma non può sostituirsi all'amministrazione nel determinare il contenuto dell'atto”, trattandosi di “valutazioni riservate all'autorità amministrativa”, e che comunque “la pretesa, dedotta in sede giurisdizionale dal ricorrente, è rivolta ad ottenere l'emanazione d'un atto che definisca per la prima volta il rapporto” (21). In realtà, come sopra osservato, alla base dell'interpretazione del silenzio come provvedimento tacito o presunto vi era l'idea, fortemente garantista per il privato, secondo cui il silenzio potesse costituire l'esito finale del procedimento e quindi estinguesse il potere di intervento dell'amministrazione, che non era affatto perenne. Quindi accedendo a tale interpretazione nessun problema di sostituzione tra poteri, amministrativo e giurisdizionale, si poneva, dal momento che il potere amministrativo si era già esaurito. Il successivo accoglimento della concezione del silenzio come mero fatto o come comportamento e quindi come presupposto processuale per la proposizione del ricorso ha determinato l'abbandono dell'idea della perdita per l'amministrazione del potere di decidere come sanzione avverso silenzio e di conseguenza ha portato con sé anche una diversa configurazione delle forme e dei modi della tutela giurisdizionale. In realtà non è possibile ricostruire un quadro processuale unitario, specie a causa di continui interventi normativi e successivi provvedimenti giurisprudenziali modificativi-correttivi dei primi (22). Tale quadro ha oscillato tra una tendenza, minoritaria, propensa come in passato ad ammettere in generale l'accertamento autonomo da parte del giudice dei fatti che stanno alla base della pretesa del ricorrente, una tendenza invece volta a estendere l'oggetto del giudizio alla valutazione della fondatezza della pretesa sostanziale del ricorrente nel solo caso di attività vincolata dell'amministrazione e infine una tendenza favorevole a configurare l'azione sempre come dichiarativa e il giudizio avverso il silenzio come mero accertamento dell'obbligo di provvedere. 4. Attualmente la latitudine del potere giudiziale è tracciata nel c.p.a. dagli artt. 31 e 117. Le disposizioni prevedono due distinte azioni avverso il silenzio, o meglio, due distinti possibili esiti del giudizio nei confronti del silenzio, con una tecnica normativa che difetta di quella simmetria, di quella compattezza e di quella linealità che sarebbero state invece opportune in sede di codificazione; questa carenza è dovuta sia ai noti rimaneggiamenti che ha conosciuto la tematica delle azioni nel sistema codicistico, sia alla stratificazione normativa dei diversi modelli processuali in materia di silenzio a far data dall'art. 21bis della legge Tar. Il codice, stabilendo che “chi vi ha interesse può chiedere l'accertamento dell'obbligo dell'amministrazione di provvedere”, contempla un'azione dichiarativa promovibile dal privato sempre e in ogni caso. Ma siffatto “ordine all'amministrazione di provvedere” entro un dato termine può assumere un contenuto più specifico, essendo altresì configurata una sentenza di condanna all'adozione dell'atto amministrativo richiesto pronunciabile dal giudice al ricorrere di determinati presupposti (“il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall'amministrazione”); con l'ulteriore precisazione, dovuta al nuovo testo dell'art. 34, lett. c, risultante dal secondo correttivo al c.p.a., per cui la suddetta azione di adempimento è esercitata, al ricorrere dei citati presupposti, sempre contestualmente all'azione avverso il silenzio (23). L'esito ultimo del combinato disposto codicistico è una disciplina ambivalente, non chiara sui caratteri e sui presupposti dei rimedi da adottare contro il silenzio dell'amministrazione, nonché sul rapporto intercorrente tra i medesimi, che hanno alla base modelli alternativi di tutela, frutto di sovrapposizioni successive. L'alternativa, quanto a sattisfatività e pienezza della tutela, tra azione di mero accertamento e azione di condanna al rilascio del provvedimento richiesto era già stata tracciata con efficacia da Cannada Bartoli, che aveva posto il quesito se il giudice dovesse decidere i ricorsi in materia “soltanto controllando il calendario, per dichiarare che, scaduti i termini, bisognava e bisognerà provvedere” oppure valutando “la fondatezza (o infondatezza) della domanda” (24). Vero è che nulla vieta che il privato proponga l'azione avverso il silenzio al solo fine di ottenere una pronuncia dichiarativa dell'obbligo di provvedere e non la cognizione dell'esatta regolazione della sostanza del rapporto. Ciò corrisponde alla duplicità insita nella situazione giuridica soggettiva fatta valere in giudizio, che si articola al suo interno nella pretesa all'adozione di un espresso atto amministrativo entro un dato termine e nella pretesa all'adozione dell'atto positivo richiesto. Infatti al fine di conoscere la fondatezza nel merito della pretesa del ricorrente occorre sempre un'esplicita domanda di parte, in applicazione dei principi processuali generali e ora ai sensi del combinato disposto dell'art. 112 c.p.c. e dell'art. 39 c.p.a., per cui i poteri cognitori del giudice sono delimitati dal ricorso. Ma l'evenienza più frequente è quella per cui attraverso l'azione avverso il silenzio si chiede la valutazione della fondatezza della pretesa. Solitamente infatti il ricorso contro il silenzio esprime, da un lato, il “diritto a conoscere”, ossia il diritto a una risposta negativa controllabile (petitum immediato), dall'altro, l'interesse al bene della vita non conseguibile se non in virtù di positive determinazioni del titolare del potere pubblico (petitum mediato), configurandosi una sorta di cumulo tra domande secondo un rapporto di continenza (25). Nel caso in cui al privato interessi l'accertamento della sua pretesa sostanziale il principio della domanda si scontra anzitutto con le condizioni richieste dal codice al fine di ottenere “misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio”, per utilizzare l'espressione impiegata dall'art. 34, co. 1, lett. c, nel trattacciare i possibili contenuti delle sentenze di merito. Infatti, come sopra osservato, ai sensi dell'art. 31, co. 3, l'azione di adempimento è esperibile unicamente nel caso di richiesta di provvedimenti a presupposto vincolato oppure semivincolato. Ma il concreto campo di applicazione dell'azione così configurata è quasi inesistente. Si consideri dapprima l'attività vincolata. Anzitutto, va rammentato che nel caso di procedimenti non discrezionali o a basso tasso di discrezionalità, che richiedono all'amministrazione la mera verifica del possesso di determinati requisiti in capo al richiedente, il legislatore è solito optare per il meccanismo del silenzio assenso o della s.c.i.a., anziché per l'adozione di un provvedimento espresso. Di conseguenza, è presumibile ritenere che le ipotesi in cui vale il silenzio inadempimento siano quelle maggiormente connotate da discrezionalità amministrativa. Ma se rari sono i casi in cui si richiede all'amministrazione un provvedimento espresso il cui rilascio è meramente condizionato dalla sussistenza di presupposti rigidi, altrettanto raramente il giudice sarà titolare del potere di valutare l'esistenza di siffatti presupposti (26). Inoltre, se il provvedimento richiesto comporta l'esercizio di attività amministrativa vincolata, in cui ogni apprezzamento d'interesse è precluso all'amministrazione, il privato richiedente è titolare di un diritto soggettivo, come nel caso di una delle pochissime pronunce successive alla disciplina codicistica in cui è stata riconosciuta la fondatezza della pretesa fatta valere in giudizio (27). A questo punto però lo spazio concretamente riservato all'azione di adempimento avverso il silenzio diviene quasi inesistente, perché, salvo le eccezionali ipotesi di cognizione esclusiva del giudice amministrativo, i diritti soggettivi sono sempre devoluti alla giurisdizione ordinaria, ove, tra l'altro, è del tutto pacifico che il giudice “può decidere direttamente la questione, avvalendosi dei poteri istruttori che gli competono” (28). Ma l'accertamento della fondatezza della pretesa non è limitato dal legislatore alla sola ipotesi d'attività amministrativa vincolata, potendo alternativamente venire in rilievo l'ipotesi d'attività amministrativa in relazione alla quale siano esauriti margini d'esercizio della discrezionalità e non siano necessari adempimenti istruttori riservati all'amministrazione. Nell'ordinamento processuale tedesco, che con i suoi §§ 42 e 113, co. 5, VwGO ha costituito l'indubbio termine di riferimento per il nostro legislatore, si adopera l'espressione “questione matura per la decisione” quale condizione per l'insorgere del potere giudiziale all'adozione del provvedimento richiesto (29). Tuttavia dalla scarna lettera della legge non risulta con chiarezza se la maturità della questione ai fini della decisione e quindi l'esaurimento dei margini di discrezionalità (presumibilmente tecnica) della pubblica amministrazione possa verificarsi solo in sede procedimentale oppure anche in sede processuale per effetto del giudizio in corso. Gioca qui la tradizionale ritrosia del giudice amministrativo a compiere un autonomo accertamento dei fatti, a nominare un consulente tecnico d'ufficio, a invitare l'amministrazione ad esporre le eventuali non esplicitate ragioni ostative al rilascio del provvedimento richiesto dal ricorrente, a riesaminare il comportamento dell'amministrazione sotto il profilo dei motivi che hanno determinato il silenzio palesati dalla documentazione fornita dall'amministrazione stessa (30). Sullo sfondo della problematica domina il limite del divieto di sostituzione all'amministrazione da parte del giudice, interpretato in maniera rigida dalla giurisprudenza stessa, al punto che anche nel caso di risultanze istruttorie già integralmente acquisite al procedimento amministrativo e preludio di un provvedimento favorevole l'esito della sentenza avverso il silenzio tende a risolversi nell'ordine all'amministrazione di provvedere sull'istanza richiesta, senza giungere a prefigurare oppure a ordinare il rilascio del provvedimento stesso (31). Ma il confine invalicabile della riserva non deve essere preso a pretesto per rimuovere il fatto che esistono “segmenti di conoscenza” che non invadono la sfera riservata di attribuzioni dell'amministrazione, quali l'individuazione e l'interpretazione delle norme giuridiche applicabili alla pretesa sostanziale del ricorrente oppure l'identificazione dello stato in cui il procedimento amministrativo è giunto, o, ancora, la verifica degli elementi fattuali della fattispecie (32). 5. In questo contesto problematico anche il rito speciale (o, meglio, l'interpretazione data al rito speciale) contribuisce a ostacolare l'adeguamento della struttura del processo alla sua funzione e quindi la soddisfazione del diritto del ricorrente a un reale rimedio. Fin dal suo primo comparire, (art. 21bis della legge Tar, come introdotto dalla l. n. 205/2000) il rito speciale avverso il silenzio si configura come rito semplificato e accelerato il cui obiettivo è fornire una rapida pronuncia immediatamente esecutiva che, in caso di accoglimento del ricorso, obblighi l'amministrazione a provvedere sulla domanda originariamente proposta dal privato con possibilità di nomina di un commissario ad acta solo in caso di perdurante inadempienza. Quindi l'originario intento del legislatore era solo quello di indurre l'amministrazione a esprimersi sollecitamente sull'istanza del privato. Ma tale rito elementare, inizialmente concepito in via esclusiva per un giudizio di mero accertamento dell'obbligo di provvedere, non è cambiato una volta che, a far data dalla novella del 2005 (art. 2, co. 5, della l. n. 241/90, come introdotto dal d.l. n. 35/2005, conv. in l. n. 80/2005), è stato espressamente riconosciuto anche il potere giudiziale di pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa avanzata dal privato. A questo punto è dato registrare un anomalo fenomeno di ribaltamento tra causa ed effetto, per cui mentre si è soliti affermare che il rito processuale è forgiato in base al bisogno di tutela richiesta (33), qui in realtà il rito processuale diviene in grado di condizionare la misura della tutela giurisdizionale, che si esaurisce esclusivamente in una sentenza dichiarativa dell'obbligo di provvedere che nulla dice o impone in ordine al contenuto del provvedimento da adottare. Nelle argomentazioni giurisprudenziali l'esistenza di un rito speciale assurge a ragione giustificatrice del mancato sindacato sul merito della domanda, in virtù dell'equazione semplicità del rito/limitatezza della cognizione. La giurisprudenza sostiene che un rito speciale camerale, connotato da particolare celerità e da concludersi con una sentenza in forma semplificata, impedisca di per sé un'istruttoria processuale. Il potere del giudice di pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa fatta valere è ritenuto espressamente “in contrasto ... con la natura semplificata del giudizio sul silenzio e della decisione che deve definirlo, e che deve essere succitamente motivata” (34). Si afferma che “rimane il fatto che il giudizio sul silenzio ha pur sempre carattere semplificato, sicché, ove siano necessari complessi accertamenti istruttori, il Giudice non può che limitarsi a verificare l'esistenza di un obbligo di provvedere” (35), non essendo le valutazioni tecniche surrogabili in sede giurisdizionale, “siccome corrispondenti ad attività procedimentali (ad es., acquisizione di pareri o nulla osta da parte di organi all'uopo preposti ovvero instaurazione del contraddittorio con l'interessato) mai svolte dall'amministrazione” (36). La dottrina più avvertita ha criticato questo monolitico orientamento, evidenziando che l'unica differenza sostanziale tra il rito speciale avverso il silenzio e il rito ordinario sta nella pubblicità e nella scansione temporale e non certo nell'ampiezza della cognizione. Nessun ostacolo deriverebbe dal rito all'accertamento completo della fondatezza della pretesa (37). Nella bozza originale del c.p.a. è possibile cogliere un tentativo di porre freno al depotenziamento del giudizio attraverso l'utilizzo del rito, o, se si preferisce, è possibile cogliere la presa d'atto normativa che le resistenze pretorie all'accertamento completo della fondatezza della pretesa si appuntavano sull'esistenza di un rito speciale, che pertanto andava abbandonato. Infatti l'originario articolato codicistico prevedeva che nell'ipotesi in cui fosse stato chiesto l'accertamento della fondatezza della pretesa, il giudice aveva il potere di “disporre, anche su istanza di parte, la conversione del rito camerale in rito ordinario”; in tal caso egli avrebbe dovuto fissare l'udienza pubblica per la discussione del ricorso. Si precisava poi la conversione del rito era facoltativa ed era rimessa alla valutazione del giudice; infatti, ove la fondatezza della pretesa fosse stata insussistente, sarebbe stato superfluo convertire il rito. Ma la versione definitiva del codice non contempla più questa ipotesi di conversione facoltativa in rito ordinario che avrebbe eliminato un'ostacolo alla soddisfazione della pretesa fatta valere in giudizio, avendo così perso l'occasione di adeguare alla sostanza del processo la forma del medesimo, come risultante dalla restrittiva interpretazione giurisprudenziale. In più il codice, nel regolamentare il rito speciale avverso il silenzio, risulta meno analitico rispetto al suo precedente e cioè all'art. 21bis della legge Tar. Dal combinato disposto dell'art. 87, che regola in generale i procedimenti in camera di consiglio, e dell'art. 117, emerge una disciplina eccessivamente concisa, che si limita solamente a prevedere il dimezzamento dei termini processuali, tranne di quelli per la notificazione del ricorso introduttivo, del ricorso incidentale e dei motivi aggiunti; la fissazione d'ufficio della camera di consiglio alla prima udienza utile successiva al trentesimo giorno decorrente dalla scadenza del termine di costituzione delle parti intimate, con la possibilità di sentire i difensori che ne fanno richiesta; la decisione con sentenza in forma semplificata. L'omissione più vistosa riguarda il profilo probatorio, espressamente previsto dalla pregressa disciplina, la quale contemplava l'ipotesi che il collegio avesse disposto un'istruttoria, con la conseguenza che il ricorso fosse deciso in camera di consiglio entro trenta giorni dalla data fissata per gli adempimenti istruttori (art. 21bis, co. 1, legge Tar). Attualmente invece manca nel rito contro il silenzio la previsione di un'istruttoria di approfondimento probatorio, necessaria laddove la pronuncia non si voglia ridurre al mero accertamento dell'inadempimento all'obbligo di provvedere. Se ne ricava l'impressione che il rito speciale venga sempre più scarnificato dal legislatore, allo scopo di garantire sì una tutela immediata, ma non piena della pretesa fatta valere. L'idea che l'accertamento della pretesa mal si concili con un rito speciale emerge altresì dalla disciplina del cumulo dell'azione avverso il silenzio con l'azione di risarcimento, cumulo ora ammesso in via normativa, venendosi così a superare le preesistenti resistenze giurisprudenziali. Ai sensi dell'art. 117, co. 6, c.p.a., nel caso in cui l'azione di risarcimento del danno da ritardo sia proposta congiuntamente a quella avverso il silenzio il giudice ha il potere di definire con il rito speciale quest'ultima e fissare l'udienza pubblica per la trattazione con rito ordinario dell'azione risarcitoria. Questo perché, per usare le parole della giurisprudenza, il rito speciale sul silenzio è concepito come “tendenzialmente incompatibile” con le controversie che hanno un oggetto diverso rispetto alla statuizione in merito all'accertamento dell'inadempimento dell'amministrazione (38). Oltrettutto questa tendenziale incompatibilità risulta per il ricorrente penalizzante anche sotto il profilo della tutela risarcitoria. Come è noto, la giurisprudenza maggioritaria è restia a riconoscere il danno da mero ritardo nel provvedere e limita il risarcimento alle ipotesi in cui, oltre all'elemento soggettivo del dolo o della colpa e alla prova del pregiudizio subito, l'interessato dimostri la fondatezza della pretesa sostanziale (39). Siffatto orientamento unito alla non obbligatorietà della trattazione della questione risarcitoria nelle forme ordinarie conduce la giurisprudenza a negare il risarcimento proprio in ragione del rito speciale, inteso come impeditivo di una cognizione completa della fattispcie: “osta all'accoglimento della domanda risarcitoria il fatto che occorre ancora esperire una fase istruttoria più o meno complessa demandata ad un accertamento autonomo e distinto della p.a., senza potersi escludere in toto l'emersione di elementi suscettibili di apprezzamento discrezionale” (40). Sicuramente più garantista per il privato è l'attuale disciplina codicistica di un diverso tipo di cumulo, quello tra azione avverso il silenzio e azione d'annullamento del provvedimento sopravvenuto. In passato, nel silenzio del legislatore, la giurisprudenza maggioritaria sosteneva che l'atto amministrativo emanato in pendenza del giudizio avverso il silenzio determinasse la cessazione della materia del contendere, mentre proprio in ragione della specialità del rito processuale non era reputato utilizzabile l'istituto dei motivi aggiunti, dovendo così il privato intraprendere un nuovo distinto giudizio al fine di domandare l'annullamento dell'atto sopravvenuto. In questa visione dominava ancora l'idea della tutela giurisdizionale garantita solo e unicamente nel caso di attività provvedimentale, nonché l'idea della specialità del rito intesa come limite alla tutela elargita. Emblematiche a tal proposito, da un lato, l'affermazione contenuta in una pronuncia che, nel ritenere inammissibile l'impugnativa tramite motivi aggiunti di un provvedimento di cui era stata acquisita la conoscenza in pendenza del ricorso avverso il silenzio, precisava che nel giudizio contro il silenzio, “mancando il provvedimento, non si è ancora prodotta una vera lesione di posizioni soggettive” (41); dall'altro, la frequente invocazione del rito speciale, nettamente differenziato dal rito ordinario, come tale inconciliabile con una definizione di merito della controversia (42). Ora invece l'art. 117, co. 5, c.p.a., stabilisce che se nel corso del giudizio sopravviene il provvedimento espresso, oppure un atto connesso con l'oggetto della controversia, esso è impugnabile anche con i motivi aggiunti, nei termini e con il rito previsto per il provvedimento espresso e l'intero giudizio prosegue con tale rito. Con la conversione obbligatoria del rito speciale in rito ordinario nel caso di atto tardivo si vengono a valorizzare le esigenze alla base del simultanues processus e una corretta concezione dei rapporti tra procedimento e processo. Tuttavia, nel caso in cui il provvedimento sopravvenuto sia ritenuto illegittimo per motivi diversi dalla sua tardività si ritiene che il privato debba comunque proporre contro di esso una nuova impugnazione, come, ad esempio, nell'ipotesi in cui sia stata contestata la decisione dell'amministrazione, a fronte dello smarrimento della pratica, di rinnovare il procedimento (43). Si ripropone, ancora una volta, una relazione falsata tra processo e procedimento, con il primo reso inutile dal fatto che il secondo non si esaurisce mai. 6. La dialettica irrisolta tra potere amministrativo e potere giurisdizionale affiora nuovamente con riferimento alla figura del commissario ad acta, venendosi così a chiudere il cerchio della prevalenza del potere amministrativo rispetto al potere giudiziale di soddisfazione della pretesa sostanziale. L'art. 117, co. 3, c.p.a. si limita a stabilire che il giudice nomina, ove occorra, un commissario ad acta “con la sentenza con cui definisce il giudizio o successivamente su istanza della parte interessata”. Consentendo la nomina del commissario ad acta in via contestuale all'ordine di provvedere e venendo così a configurare la fase esecutiva come un momento interno dell'unitario giudizio avverso il silenzio, si supera la precedente normativa (art. 21bis, co. 2, legge Tar) e si recepisce l'indirizzo giurisprudenziale favorevole a rimuovere la distinzione tra giudizio di cognizione e giudizio di ottemperanza (44); del resto, è quest'ultima una distinzione abbandonata anche in via generale, dal momento che il c.p.a. ha previsto per tutti i giudizi di cognizione la possibilità di una nomina immediata di un commissario ad acta, con effetto dalla scadenza di un termine assegnato per l'ottemperanza (art. 34, co. 1, lett. e). Tuttavia questa garanzia temporale per il privato si ridimensiona leggendo la giurisprudenza in materia: spesso il commissario è nominato nella sentenza dichiarativa dell'obbligo di pronunciarsi, ma il suo intervento è previsto solo nell'ipotesi di ulteriore inadempienza dell'amministrazione all'obbligo di provvedere entro il nuovo termine fissato dalla sentenza stessa (45); oppure il giudice si limita a dichiarare l'illegittimità del silenzio serbato dall'amministrazione e a ordinare alla stessa di provvedere entro un dato termine e solo successivamente, stante il perdurante silenzio amministrativo, provvede ad accogliere la domanda di nomina di un commissario che adotti l'atto e che, preliminarmente all'emanazione del medesimo, dovrà accertare se anteriormente alla data dell'insediamento l'amministrazione abbia nel frattempo provveduto, astenendosi in tal caso dall'adozione di ogni provvedimento (46); altre volte ancora si ha una prima pronuncia dichiarativa dell'illegittimità del silenzio tenuto dall'amministrazione, una mancata esecuzione da parte dell'amministrazione dell'ordine di provvedere contenuto nella sentenza passata in giudicato, una successiva sentenza “esecutiva del silenzio accertato giudizialmente”, la quale però si limita a dichiarare nuovamente l'obbligo di provvedere e a statuire che, solo decorso inutilmente il termine ivi prescritto per l'adempimento, sarà il commissario nominato con la sentenza medesima a provvedere (47); talvolta poi il commissario resta a sua volta inerte, “data l'impossibilità di provvedere a causa del mancato apporto collaborativo dell'amministrazione” (48). Inoltre nel codice il rapporto tra potere giudiziale e potere commissariale non è tracciato in maniera chiara. Dalla lettera dell'art. 117 (che è del tutto scollegata dall'art. 31, contemplante le tipologie di azioni esperibili) non è dato comprendere se la possibilità di nomina del commissario si innesti nel solo giudizio che ordina all'amministrazione di provvedere oppure anche nel giudizio di condanna all'emanazione del provvedimento; in questo secondo caso il risultato tipico ottenibile dalla sentenza sarebbe sempre la sostituzione di un'amministrazione rimasta inadempiente con altra amministrazione, sia pure sui generis, mentre il giudice pronuncerebbe unicamente una sentenza dichiarativa, anche nel caso di decisione sulla pretesa sostanziale, affidata unicamente al commissario. A questo quesito la dottrina ha risposto che “nel caso del silenzio il giudice non può sostituirsi all'amministrazione, ma deve sempre procedere alla nomina del commissario” e pertanto questa nomina non è in alternativa a un intervento diretto del giudice, che mai potrebbe ingerirsi nell'attività amministrativa (49). In questa logica una pronuncia direttamente del giudice sulla fondatezza della pretesa dovrebbe aversi in casi del tutto limitati, ossia nelle sole ipotesi di domanda del privato manifestamente infondata, perché in questo caso sarebbe diseconomico obbligare l'amministrazione a provvedere se l'atto espresso è necessariamente di rigetto (50). Tuttavia anche quest'esito processuale necessitato mal si concilia con le innovazioni sostanziali introdotte dalla legge n. 190/2012, la quale ha previsto che nel caso di manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza della domanda le pubbliche amministrazioni concludano il procedimento con un provvedimento espresso redatto in forma semplificata (nuova versione dell'art. 2, co. 1, legge n. 241/90); in tal maniera la pronuncia giudiziale di fondatezza della pretesa diviene un guscio pressoché vuoto. A svuotare di contenuto la tutela giurisdizionale vi è poi un ulteriore self restraint pretorio, eccentrico rispetto a quanto ormai tradizionalmente avviene nell'ordinario processo impugnatorio, il cui giudicato è caratterizzato da un ampio effetto conformativo a garanzia del privato. In quanto la sentenza avverso il silenzio si limita ad accertare il semplice fatto del mancato adempimento dell'obbligo di provvedere, il commissario si trova nella condizione di dovere emettere il provvedimento richiesto senza alcuna indicazione, senza alcuna direttiva, senza alcun paletto emergente dalla sentenza, dovendo dunque egli stesso valutare il merito della questione e venendo a disporre di piena autonomia decisoria. Ben diverso è ciò che accade nell'ordinamento tedesco, in cui il giudice, quando considera la questione non matura per la decisione, venendo in rilievo profili di discrezionalità in senso lato, indica sempre i principi cui dovrà conformarsi l'amministrazione inadempiente, per cui i motivi della decisione integrano in misura rafforzata il suo dispositivo, con una portata conformativa potenziata (51). L'assenza di qualsivoglia contenuto conformativo della sentenza avverso il silenzio genera gravi problemi di rallentamento nella tutela offerta e ancora una volta un ruolo non secondario è svolto dalla stratificazione di modelli processuali avverso il silenzio. Infatti la prima norma che espressamente prevedeva un commissario ad acta nel giudizio contro il silenzio consentiva al giudice solo di emettere un generico ordine di provvedere (art. 21bis della legge Tar) e anche adesso, presumibilmente per un fenomeno di vischiosità, rafforzato dal potente condizionamento esercitato dalla sentenza n. 1/2002 dell'Adunanza plenaria, la sentenza non viene caricata di quell'effetto conformativo necessario per vincolare la successiva attività di esercizio del potere. In questa maniera, però, non è affatto garantita la funzione del processo di assicurare la soddisfazione dell'interesse fatto valere dal ricorrente, perché specialmente nel giudizio avverso il silenzio dovrebbe essere valorizzato quel carattere che contraddistigue tutti i giudizi di cognizione davanti al giudice amministrativo, ossia, come è stato efficacemente detto, il fatto che il processo amministrativo guarda non solo al passato ma anche al futuro (52). Ma se l'effetto conformativo della sentenza avverso il silenzio è pressoché nullo, limitandosi alla mera necessità di provvedere, l'attività richiesta al commissario risulta di tipo sostitutivo pieno, in un ambito di piena discrezionalità, non collegata alla decisione giudiziale se non per quanto attiene all'accertamento dell'obbligo di provvedere. Ne consegue che il commissario andrebbe assimilato non già all'ausiliario del giudice nominato per dare esecuzione a una sentenza, come avviene in sede di ottemperanza, quanto semmai a un organo straordinario dell'amministrazione rimasta inerte (53). La logica è quella propria della sostituzione in via amministrativa più che quella del giudizio di ottemperanza. Anche in sede processuale si opta per il modello, ora generalizzato dalle sopra viste modifiche alla legge n. 241/90, del commissario nominato a rimedio dell'inerzia dell'amministrazione, chiamato a non tanto a dare esecuzione a un precedente dictum, quanto piuttosto a provvedere del tutto autonomamente, con l'unica differenza che nel caso di specie la nomina è di tipo giudiziale (54). Il codice tace poi su un altro punto nevralgico, per quanto esso sia necessario per disciplinare la successione cronologica di poteri tra amministrazione inerte e commissario. Mentre infatti l'art. 21bis, co. 3, della legge Tar, disponeva che il commissario, preliminarmente all'emanazione del provvedimento da adottare in via sostitutiva, doveva accertare se anteriormente alla data del suo insediamento l'amministrazione avesse provveduto, ancorché in data successiva al termine assegnato alla medesima dal giudice amministrativo, il c.p.a. non riprende questa disposizione pregressa, con la conseguenza che sono state espresse posizioni antitetiche sul punto. Tuttavia, sia che si acceda all'interpretazione favorevole a mantenere il potere in capo all'amministrazione inadempiente anche a seguito dell'insediamento del commissario (55), sia che si preferisca ritenere che l'amministrazione ordinaria decada dal potere almeno a partire dall'insediamento del commissario (56), vi è comunque un momento temporale in cui la tutela attivata tramite ricorso avverso il silenzio perde qualsiasi significato. Infatti se l'amministrazione provvede dopo la nomina del commissario ma prima del suo insediamento, il privato si trova nelle condizioni di instaurare un nuovo giudizio, questa volta d'impugnazione del provvedimento intervenuto, quasi che la tutela giurisdizionale offerta a privato si risolva beffardamente in una sorta di costante proroga giurisdizionale del termine di conclusione del procedimento amministrativo, o altrimenti, come incisivamente detto, come una indebita rimessione in termini per la parte resistente (57). Infine, costretto a instaurare un nuovo giudizio si trova altresì il privato che, a seguito dell'emanazione ad opera del commissario del provvedimento richiesto, subisca la mancata doverosa esecuzione materiale del medesimo, come nel caso di un ordine di demolizione di un abuso edilizio e della demolizione coattiva dello stesso. La giurisprudenza ha giustamente affermato che per verificare se l'esecuzione dell'atto commissariale rientri nella competenza del medesimo commissario straordinario ovvero in quella degli organi ordinari, è decisivo l'esame della decisione del giudice amministrativo di nomina del commissario, che ne determina i relativi poteri. Ma dal momento che il giudice del silenzio si limita sempre unicamente ad accertare l'inadempienza amministrativa, ne discende che il commissario esaurisce i propri compiti con l'emanazione del provvedimento, non rientrando anche l'attività di esecuzione dell'atto nell'ambito dei poteri del commissario, e la successiva sua mancata esecuzione è riferibile unicamente agli organi ordinari dell'amministrazione, per cui “la relativa inerzia è riferibile al mancato esercizio della funzione amministrativa (di esecuzione del provvedimento autoritativo già emesso) e può essere contestata, a sua volta, con un ulteriore giudizio” (58). In conclusione il quadro tracciato mostra l'estrema difficoltà di concepire un'adeguata e soddisfacente tutela giurisdizionale contro il silenzio. L'attuale giudizio ha per oggetto il mero accertamento dell'obbligo di provvedere in capo all'amministrazione e solo in ipotesi di scuola anche l'esame della fondatezza della pretesa sostanziale del ricorrente, segue un rito all'insegna della celerità, ma non della pienezza della tutela, non assolve affatto la sua funzione di garanzia della situazione giuridica soggettiva violata, bensì tende a ottenere una determinazione espressa dell'amministrazione a prescindere dal suo contenuto, risultando così ancora asservito a una logica di supremazia dell'amministrazione, che ha una sua sicura ragion d'essere sul piano sostanziale, ma che è priva di giustificazione alcuna sul piano processuale. La tutela nei confronti del silenzio è quindi la manifestazione più vistosa della drammaticità della dialettica tra amministrazione e giudice, nonché della difficolta di configurare una struttura del processo congeniale alla funzione del medesimo, almeno fino a che anche nel processo dominerà l'ottica del potere amministrativo non altrimenti surrogabile e non invece la soddisfazione dell'interesse fatto valere dal ricorrente. Abstract: Lo scritto esamina l'attuale configurazione della tutela giurisdizionale contro il silenzio inadempimento, che riflette tutte le ambiguità insite nella dialettica tra pubblica amministrazione e giudice amministrativo e, ancor prima, tra diritto sostanziale e diritto processuale. La complessiva disciplina è all'insegna di una mancata chiara cesura tra procedimento e processo amministrativo, in quanto il primo non s'esaurisce mai ed in grado di sovrapporsi al secondo, doppiandolo e rendendolo inutile. La critica alla struttura del processo avverso il silenzio è intesa in maniera ampia, come tale comprensiva del rito speciale introdotto. Infatti il rito processuale e l'interpretazione del medesimo fatta dalla giurisprudenza arrivano a condizionare la misura della tutela giurisdizionale, assurgendo a ragione giustificatrice del mancato sindacato sul merito della domanda. Le note non le vogliono più giustificate <div style="text-align: justify; margin: 10px 10px;"> Note: (*) Saggio destinato agli scritti in onore di Ernesto Sticchi Damiani. (1) In questo senso cfr. già F.G. Scoca, Il silenzio della pubblica amministrazione, Milano, 1971, 32 ss., 89 ss., e, ancor prima, S. Cassese, Inerzia e silenzio della pubblica amministrazione, in Foro amm., 1963, 30 ss.; sul dibattito in ordine alla sussistenza in capo all'amministrazione pubblica di un “obbligo” o di un “dovere” di provvedere si rinvia, da ultimo, ad A. Cioffi, Dovere di provvedere e pubblica amministrazione, Milano, 2005; F. Goggiamani, La doversità della pubblica amministrazione, Torino, 2005; A. Police, Doverosità dell'azione amministrativa, tempo e garanzie giurisdizionali, in L. R. Perfetti (a cura di), Le riforme della L. 7 agosto 1990, n. 241 tra garanzia della legalità ed amministrazione di risultato, Padova, 2008, 15 ss.; M. Monteduro, Sul processo come schema di interpretazione del procedimento, in Dir. amm., 2010, 103 ss., 126 ss. e all'ampia bibliografia ivi citata. (2) Sulla pluralità di situazioni soggettive in capo al soggetto che presenta un'istanza all'amministrazione cfr. A. Romano Tassone, voce Situazioni giuridiche soggettive (diritto amministrativo), in Enc. dir., Agg., Milano, 1998, 984 ss., secondo cui “il diritto ... di vedere concluso il procedimento tempestivamente e senza aggravamenti” costituisce “non già (o meglio non soltanto) situazione strumentale alla soddisfazione di un interesse materiale che viene quindi protetto sub specie di interesse legittimo, ma appunto diritto in sé e per sé”; F.G. Scoca, Il silenzio della pubblica amministrazione alla luce del suo nuovo trattamento processuale, in questa Rivista, 2002, 239 ss.; M. Renna e F. Figorilli, Art. 2, in A. Bartolini, S. Fantini, G. Ferrari (a cura di), Codice dell'azione amministrativa e delle responsabilità, Roma, 2010, 107 ss., spec. 125 ss.; sicuramente, come osserva M. Renna, Art. 2 bis, in A. Bartolini, S. Fantini, G. Ferrari (a cura di), Codice, cit., 135 ss., 136, è soprattutto la previsione normativa di un risarcimento del danno da ritardo dell'azione amministrativa a consolidare la configurabilità della pretesa all'osservanza del termine del procedimento quale vero e proprio diritto soggettivo. Sulle pretese procedimentali come diritti fondamentali cfr., da ultimo, L.R. Perfetti, Pretese procedimentali come diritti fondamentali. Oltre la contrapposizione tra diritto soggettivo e interesse legittimo, in questa Rivista, 2012, 850 ss. (3) Sui termini del vivace dibattito tra azione in senso astratto e in senso concreto, che ha interessato essenzialmente gli studiosi del processo civile, dal momento che il processo amministrativo sconta la difficoltà d'inquadramento della situazione giuridica soggettiva fatta valere in giudizio, B. Tonoletti, Le situazioni soggettive nel diritto amministrativo, in Associazione per gli studi e le ricerche parlamentari, Quaderno n. 20, 2009, 121 ss., spec. 123 ss., e, se si vuole, M. Ramajoli, Le tipologie delle sentenze del giudice amministrativo, in Il nuovo processo amministrativo, a cura di R. Caranta, Bologna, 2011, 575-576. (4) Sul carattere secondario della tutela per equivalente cfr., se si vuole, M. Ramajoli, Il processo in materia di appalti pubblici da rito speciale a giudizio speciale, in Il sistema della giustizia amministrativa negli appalti pubblici in Europa, a cura di G. Greco, Milano, 2010, 121 ss.; circa la consistenza dell'onere probatorio che incombe sulla parte che propone domanda di risarcimento del danno da ritardo, nonché in ordine alla natura giuridica e agli elementi costitutivi della responsabilità dell'amministrazione cfr., da ultimo, per particolare chiarezza, Cons. Stato, Sez. V, 21 giugno 2013, n. 3405, nonché TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 20 novembre 2013, n. 2560. (5) Sul punto cfr. M.A. Sandulli, Le novità in tema di silenzio, in Il libro dell'anno del diritto 2013, Roma, 2013, 4 ss. (6) Cfr., per tutti, E. Sticchi Damiani, Danno da ritardo e pregiudiziale amministrativa, in Foro amm.-Tar, 2007, 3329 ss. (7) Sull'intervento sostituitivo tra organi dello stesso ente o tra organi di enti differenti in ragione dell'inosservanza dei termini procedimentali cfr. M. Bombardelli (a cura di), La sostituzione amministrativa, Padova, 2004, 6 ss.; G. Avanzini, Il commissario straordinario, Torino, 2013, 23 ss., 74 ss.; in particolare, nel caso dell'amministrazione statale il potere sostituitivo era stato previsto in capo al direttore generale dell'unità responsabile del procedimento oppure del Ministro competente qualora il provvedimento da emanare fosse stato di competenza del direttore generale (art. 3ter, d.l. 12 maggio 1995, n. 163, conv. in l. 11 luglio 1995, n. 273). Tuttavia, a seguito del nuovo assetto dei rapporti tra organi politici e organi dirigenziali, è stato escluso il potere sostitutivo ministeriale, per cui ora, ai sensi del nuovo testo dell'art. 14, co. 3, del d.lgs. 2001, n. 165, in caso di inerzia il Ministro “può nominare, salvi i casi di urgenza previa contestazione, un commissario ad acta”. Come osserva M. Clarich, La certezza del termine del procedimento amministrativo: un traguardo in vista o una chimera?, in Giorn. dir. amm., 2012, 691 ss., la nuova versione dell'art. 2 della legge n. 241 (così come risultante dall'art. 1, co. 1, del d.l. n. 5/2012, come modificato dalla l. n. 35/2012, nonché dall'art. 13, co. 1, del d.l. n. 83/2012, nel testo integrato dalla l. n. 134/2012), nell'obbligare le amministrazioni a individuare il soggetto al quale attribuire il potere sostitutivo in caso di inerzia, è in realtà una specificazione del potere che spetta comunque ai dirigenti generali ex art. 16, co. 1, lett. e, del d.l. n. 165/2001, che attribuisce loro il potere di dirigere, coordinare e controllare l'attività dei dirigenti e dei responsabili dei procedimenti “anche con potere sostitutivo in caso di inerzia”, nonché del principio di cui al già menzionato art. 3ter del medesimo decreto legge. Non costituisce una novità neppure la considerazione del silenzio ai fini della responsabilità dirigenziale (cfr. art. 20 d.lgs. n. 29/1993, come modificato dall'art. 6 d.lgs. n. 470/1993; art. 3ter, d.l. n. 163/1995, conv.in l. n. 273/1995; sul punto cfr. A. Travi, Commento all'art. 2 della legge n. 241/1990, in Le nuove leggi civili commentate, 1995, 9 ss.), anche se va dato atto che queste complessive “misure per il miglioramento dell'efficienza delle pubbliche amministrazioni” non hanno finora raggiunto i risultati agognati. Sugli interventi sostitutivi da parte di soggetti diversi da quello procedente e sulle “variegate reazioni di carattere sanzionatorio” si veda anche M. Lipari, I tempi del procedimento amministrativo, certezza dei rapporti, interesse pubblico e tutela dei cittadini, in Dir. amm., 2003, 291 ss., spec. 334 ss. (8) Sui tanti profili problematici che la suddetta disciplina pone cfr., oltre al già menzionato M. Clarich, La certezza, cit., 691 ss., S. Tarullo, Il meccanismo di sostituzione interna per la conclusione dei procedimenti amministrativi introdotto dal D.L. semplificazione n. 5/2012. Notazioni a prima lettura, in www.giustizia-amministrativa.it; A. Colavecchio, L'obbligo di provvedere tempestivamente, 2013, 207 ss.; L. Bertonazzi, Il giudizio sul silenzio, in B. Sassani e R. Villata (a cura di), Il codice del processo amministrativo, Torino, 2012, 905 ss., 930, nt. 70, che evidenzia come non sia pacifico cosa accada qualora il privato ricorra avverso il silenzio e, in pendenza del relativo giudizio, si rivolga al titolare del potere sostitutivo, oppure immediatamente si rivolga al titolare del potere sostituitivo e poi, in pendenza del termine che costui ha a disposizione per provvedere, proponga ricorso al Tar, essendo scaduto invano l'originario termine per provvedere. (9) Sul fatto che il passaggio della giurisdizione amministrativa da giurisdizione oggettiva sulla legalità a giurisdizione veramente soggettiva non si sia mai realmente compiuto cfr., per tutti, G. Falcon, Il giudice amministrativo tra giurisdizione di legittimità e giurisdizione di spettanza, in questa Rivista, 2001, 287 ss., spec. 295 ss. (10) Sul “fatto costitutivo” dell'interesse legittimo e sulle conseguenze in termini di oggetto del processo si rinvia a L. Ferrara, Domanda giudiziale e potere amministrativo. L'azione di condanna al facere, in questa Rivista, 2013, 617 ss., spec. 641 ss., e all'ampia bibliografia ivi riportata. (11) Cfr. il sempre attuale F. Ledda, Il rifiuto di provvedimento amministrativo, Torino, 1964, 167 ss., 322 ss. (12) Così Cons. Stato, Sez. V, 3 giugno 1996, n. 621, in Foro amm., 1996, 1869 ss., seguita da una giurisprudenza costante, anche di rango costituzionale (Corte cost., 17 luglio 2002, n. 355). Critici sul punto, sia pure con accenti diversi, M. Clarich, Termine del procedimento e potere amministrativo, Torino, 1995, 19 ss.; B. Tonoletti, voce Silenzio della pubblica amministrazione, in Dig. disc. pubbl., XIV, 1999, 156 ss., spec. 167 ss.; L. Ferrara, Prime riflessioni sulla disciplina del silenzio-inadempimento con attenzione alla Saumnisbeschwerde austriaca, in La tutela dell'interesse al provvedimento, a cura di G. Falcon, Trento, 2001, 73 ss.; F. Goisis, La violazione dei termini previsti dall'art. 2 L. n. 241 del 1990: conseguenze sul provvedimento tardivo e funzione del giudizio ex art. 21-bis L. Tar, in questa Rivista, 2004, 571 ss.; A. Colavecchio, L'obbligo, cit., 222 ss. (13) A. Romano, Note in tema di decadenza, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1964, 171 ss., 190-191, 227. Ad aggravare il quadro vi è il fatto che, mentre il termine fissato per provvedere è considerato meramente ordinatorio, l'esercizio dell'azione avverso il silenzio dell'amministrazione soggiace a un termine annuale (art. 31, co. 2, c.p.a.), per cui la giurisprudenza considera irricevibile il ricorso proposto oltre il termine e ritiene che tale conclusione in rito non possa essere evitata dalla proposizione di una diffida a provvedere. « Consentire, infatti, che detto termine possa essere procrastinato indefinitamente con la presentazione di diffide sarebbe contrario sia al dato letterale della disposizione, sia alla sua ratio che è quella di fissare un termine ultimo per la proposizione del ricorso in applicazione del principio della certezza del diritto »; così TAR Campania, Sez. VI, 2 gennaio 2013, n. 18; 14 dicembre 2011, n. 5801; 13 luglio 2011, n. 3770; 19 gennaio 2011, n. 361; TAR Lazio, Roma, Sez. II, 23 novembre 2009, n. 11563. Cfr. altresì C.g.a.r.S., 12 agosto 2010, n. 1099, secondo cui deve essere riconosciuta natura decadenziale al termine annuale, “non suscettibile di interruzioni, per effetto di successive diffide o atti integrativi di provenienza dell'interessato”. Scaduto il termine annuale, il privato può unicamente sollecitare di nuovo l'esercizio del potere amministrativo, con una nuova istanza e, in caso di prolungata inerzia, ricorrere avverso il silenzio (art. 31, co. 2, c.p.a.); in tema cfr. M. Occhiena e F. Fracchia, Art. 31, in Codice del processo amministrativo, a cura di R. Garofoli e G. Ferrari, Roma, 2010, I, 519 ss., 525. (14) Cfr., da ultimo, Cons. Stato, Sez. V, 11 ottobre 2013, n. 4980, per cui l'obbligo di rispettare i termini di conclusione del procedimento rileva “sul piano dei comportamenti, fonte di responsabilità nel caso di violazione, ma giammai (è) requisito di validità degli atti”. (15) Per evitare che il procedimento amministrativo tardivamente svolto continui a paralizzare e a interferire con il processo è stato sostenuto che, una volta instaurato il giudizio contro il silenzio, la situazione potestativa dell'amministrazione debba essere “formalmente esercitata non più nel procedimento amministrativo, ma nel processo giurisdizionale”, in modo che “l'accertamento dei fatti rilevanti per la produzione degli effetti giuridici, pur nei limiti del giudizio di legittimità, avvenga nel processo di cognizione, in contraddittorio fra le parti, secondo le regole del principio dispositivo” (B. Tonoletti, voce Silenzio, cit., 171-172). La supremazia della pubblica amministrazione come parte processuale e l'opacità tra procedimento e processo si colgono altresì in una vicenda sotto certi profili similare a quella del silenzio e cioè nella motivazione postuma del provvedimento amministrativo impugnato, che ha alla base la medesima idea di inesauribilità del procedimento amministrativo. Sul punto cfr. L. Ferrara, Motivazione e impugnabilità degli atti amministrativi, in Foro amm.-Tar, 2008, 1193 ss. (16) Per quanto riguarda la tematica dei ricorsi gerarchici cfr., per tutti, M. Nigro, La decisione silenziosa di rigetto del ricorso gerarchico nel sistema dei ricorsi amministrativi, in Foro it., 1963, 49 ss.; sulla disciplina francese si rinvia a B. Veronelli, La nuova disciplina del silenzio in Francia, in Giorn. dir. amm., 2002, 554 ss., mentre su quella austriaca a L. Ferrara, Prime riflessioni, 72-82, ss.; C. Fraenkel-Haeberle, Il silenzio dell'amministrazione: echi d'oltralpe, in questa Rivista, 2010, 1046 ss., 1049 ss. (17) Così, efficacemente, F.G. Scoca, Il silenzio, cit., 293-294; cfr. in tal senso, per chiarezza, Cons. Stato, Sez. V, 2 marzo 1957, n. 87, in Cons. Stato, 1957, 359. La costruzione del silenzio dell'amministrazione a seguito di una istanza come atto tacito negativo si fondava sulla lettura come “principio generale di diritto amministrativo” dell'art. 5 della legge com. prov. del 1934, in base al quale il silenzio mantenuto per un certo tempo dall'autorità investita della disciplina del ricorso gerarchico equivaleva a rigetto del ricorso; sul punto A. Amorth, Il silenzio dell'autorità amministrativa di fronte alla richiesta di un'autorizzazione, in Foro it., 1949, I, 147, ora anche in Scritti giuridici, Milano, 1999, III, 1257 ss., spec. 1262 ss.; a sua volta la tesi favorevole a configurare nell'ambito dei ricorsi gerarchici come atto negativo di rifiuto il silenzio nasce, prima che in via normativa, in via giurisprudenziale con la nota pronuncia del Cons. Stato, Sez. IV, 22 agosto 1902, n. 429, in Giur. it., 1902, III, 343. (18) Sul punto, ampiamente, B. Tonoletti, voce Silenzio, cit., spec. 160 ss.; nonché in tema le acute considerazioni di E. Sticchi Damiani, Il giudice del silenzio come giudice del provvedimento virtuale, in questa Rivista, 2010, 1 ss., spec. 9-22. Sempre a fini di effettività della tutela giurisdizionale ha suggerito la tesi che, decorso il termine ordinatorio per intervenire sulla s.c.i.a., si formasse il silenzio-diniego (e non il silenzio inadempimento così come modernamente interpretato) sull'esercizio dei poteri inibitori e ripristinatori, con le ulteriori consueguenze in ordine al relativo giudizio, G. Greco, La SCIA e la tutela dei terzi al vaglio dell'Adunanza plenaria: ma perché dopo il silenzio assenso e il silenzio inadempimento non si può prendere in considerazione anche il silenzio diniego?, ivi, 2011, 359 ss. (19) Cons. Stato, Sez. VI, 10 dicembre 1958, n. 921, in Cons. Stato, 1958, I, 1527. (20) Così la relazione di accompagnamento dello schema di legge generale sulla pubblica amministrazione predisposto dalla Commissione per la riforma dell'amministrazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri, la c.d. Commissione Forti (1948), in La procedura amministrativa, a cura di G. Pastori, Vicenza, 1964, 574-575. (21) Su questa decisione (Cons. Stato, Ad. plen., 3 maggio 1960, n. 8, in Giur. it., 1960, III, 257 ss., con nota di E. Guicciardi, Silenzio e pronuncia sullo stesso ricorso gerarchico, che però si riferiva alla diversa ipotesi del silenzio rigetto in sede di ricorso gerarchico) e sulla giurisprudenza successiva cfr. B. Tonoletti, voce Silenzio, cit., 162. (22) Secondo una traiettoria che parte da Cons. Stato, Ad. plen., n. 8/1960, cit., passa attraverso Cons. Stato, Ad. plen., 10 marzo 1978, n. 10, in Cons. Stato, 1978, I, 335 ss., giunge all'art. 2 della legge n. 241/90, all'art. 2 della legge n. 205 del 2000, che inserì l'art. 21bis nel corpo della legge Tar, continua con Cons. Stato, Ad. plen., 9 gennaio 2002, n. 1, in questa Rivista, 2002, 932 ss., con nota di F. Giglioni, Il ricorso avverso il silenzio tra tutela oggettiva e tutela soggettiva, ivi, 2002, 936 ss., con le modifiche apportate all'art. 2 della legge n. 241/90 dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, per arrivare agli artt. 31 e 117 c.p.a., anche alla luce delle modifiche operate dal secondo correttivo al codice. (23) Oppure contestualmente all'azione di annullamento del provvedimento di diniego. Il secondo correttivo al codice viene così a eliminare l'evidente e criticabile assimetria tra l'azione di annullamento del diniego espresso e l'azione avverso il silenzio, per cui solo la seconda poteva assumere le sembianze di un'azione di adempimento, consentendo di conseguire un risultato maggiore rispetto a quello ottenibile in un ordinario giudizio di legittimità. Sul punto cfr. R. Chieppa, Il codice del processo amministrativo, Milano, 2010, 227-228. Attualmente quindi l'azione di condanna al rilascio del provvedimento richiesto, e cioè l'azione di adempimento, è esperibile dal privato indipendentemente dal fatto che questi sia stato leso dall'inerzia dell'amministrazione o da un provvedimento di diniego e in quest'ultima ipotesi la controversia verterà non tanto sull'illegittimità dell'atto di diniego quanto, come nel caso del silenzio, sul rifiuto dell'atto richiesto. Sull'originaria previsione e sulla successiva eliminazione dell'azione di adempimento nel testo definitivo del c.p.a. cfr., per tutti, F. Merusi, In viaggio con Laband, in www.giustamm.it; sulle modifiche apportate dal secondo correttivo al codice cfr. A. Carbone, L'azione di adempimento è nel Codice. Alcune riflessioni sul D.Lgs. 14 settembre 2012, n. 160 (c.d. Secondo Correttivo), ivi. (24) E. Cannada Bartoli, Ricorso avverso il silenzio-rifiuto e mutamento della domanda, in Foro amm., 1993, 310; sulla necessità non di una pronuncia qualsiasi, bensì di una pronuncia di contenuto positivo, relativa a un provvedimento satisfattivo della pretesa fatta valere in giudizio, cfr. anche G. Greco, L'accertamento autonomo del rapporto nel giudizio amministrativo, 1981, Milano, 23 ss.; Id., Per un giudizio di accertamento compatibile con la mentalità del giudice amministrativo, in questa Rivista, 1992, 481 ss.; M. Clarich, Tipicità delle azioni e azione di adempimento nel processo amministrativo, ivi, 2005, 557 ss. (25) B. Sassani, Silenzio ed esecuzione della sentenza nella riforma del processo amministrativo, in Riv. dir. proc., 2001, 415. (26) Così E. Sticchi Damiani, Il giudice del silenzio, cit., spec. 6 ss., ma cfr. altresì, sempre del medesimo Autore, L'accertamento della fondatezza dell'istanza nel giudizio sul silenzio, in Foro amm.-Tar, 2005, 3365 ss. (27) TAR Roma, Sez. I, 4 dicembre 2013, n. 10462, che ha ammesso in sovrannumero il ricorrente a un corso di formazione specialistica in medicina. Sul binomio attività vincolata-diritto soggettivo cfr., per tutti, A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2014, 62 ss. (28) Così, riconoscendo fondato il motivo d'appello di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, Cons. Stato, Sez. V, 25 febbraio 2009, n. 1116, in materia di rapporto di lavoro privatizzato. (29) M. Clarich, L'azione di adempimento nel sistema di giustizia amministrativa in Germania: linee ricostruttive e orientamenti giurisprudenziali, in questa Rivista, 1985, 66 ss.; Id., Tipicità delle azioni e azione di adempimento nel processo amministrativo, ivi, 2005, 557 ss.; C. Fraenkel-Haeberle, Il silenzio, cit., 1054 ss. (30) Del resto, lo stesso legislatore non si preoccupa affatto di precisare quali siano gli adempimenti istruttori riservati all'amministrazione e quali siano invece le circostanze di fatto verificabili direttamente dal giudice. Mentre il testo del codice elaborato dalla Commissione di tecnici disponeva espressamente che nel caso di richiesta di condanna dell'amministrazione all'emanazione del provvedimento “le parti allegano in giudizio tutti gli elementi utili ai fini dell'accertamento della fondatezza della pretesa” (art. 42 della bozza originaria), il testo finale tace del tutto, non precisando quali siano i poteri istruttori che competono al giudice al fine di decidere direttamente la questione. (31) Rappresentativa del self restraint giudiziale è TAR Lazio, Roma, Sez. I-ter, 12 maggio 2010, n. 10900, in materia di rilascio di licenza di porto di fucile per uso di caccia, avendosi già ottenuto esito positivo quanto ad accertamenti medico tossicologici ed emissione di un giudizio di idoneità medico-legale. (32) In tal senso F.G. Scoca, Il silenzio, cit., spec. nt. 41; B. Tonoletti, voce Silenzio, cit., spec. 171 ss.; A. Carbone, L'azione di adempimento nel processo amministrativo, Torino, 2012, 242 ss.; sottolineano che l'art. 31 c.p.a., se letteralmente interpretato, finisce con “il rendere impossibile” il potere giudiziario di apprezzamento della fondatezza della pretesa M. Occhiena e F. Fracchia, Art. 31, cit., 527-528. Risponde alla medesima logica restrittiva la giurisprudenza che non consente di adire il giudice per censurare l'inerzia regolamentare, su cui cfr. M. Sica, La tutela giurisdizionale contro l'inerzia regolamentare della p.a., in Studi in onore di Albero Romano, Napoli, 2011, III, 1583 ss. (33) Cfr., per tutti, A. Proto Pisani, Sulla tutela giurisdizionale differenziata, in Riv. dir. proc., 1979, 538 ss.; S. Menchini, Processo amministrativo e tutele giurisdizionali differenziate, in questa Rivista, 1999, 921 ss. (34) Cons. Stato, Sez. VI, 26 novembre 2008, n. 5843. Capostipite dell'orientamento giurisprudenziale per cui la configurazione di un modello processuale caratterizzato dalla brevità dei termini e dalla snellezza delle formalità è congrua se il giudizio si incentra sul silenzio, non anche se il giudice dovesse estendere la propria cognizione ad altri profili è Cons. Stato, Ad. plen., n. 1/2002, cit. (35) TAR Lazio, Roma, Sez. III-quater, 1 aprile 2008, n. 2727. (36) TAR Napoli, Sez. VIII, 11 giugno 2009, n. 3207. (37) Cfr. G. Greco, L'articolo 2 della legge 21 luglio 2000, n. 205, in questa Rivista, 2002, 1 ss., 8 ss.; F. Giglioni, Il ricorso avverso il silenzio tra tutela oggettiva e tutela soggettiva, cit., 968, e, più in generale, A. Proto Pisani, Sulla tutela giurisdizionale differenziata, cit., 538; L.R. Perfetti, Art. 26 legge Tar, in A. Romano e R. Villata (a cura di), Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, Padova, 2009, III ed., 844 ss., 886-895. In effetti “un rito accelerato e semplificato, con minori garanzie di contraddittorio si giustifica proprio per il fatto che non si decideva sulla fondatezza della pretesa; nel momento in cui si riconosce al giudice il potere di decidere anche su quest'ultima, occorre coerentemente modificare anche il rito di rito” (M.A. Sandulli, Riforma della legge 241/1990 e processo amministrativo: introduzione al tema, in www.giustamm.it); sull'istituto della sentenza in forma semplificata cfr., per tutti, E. Sticchi Damiani, La sentenza in forma semplificata, in Foro amm.-C.d.S., 2008, 2857 ss. (38) Cons. Stato, Sez. V, 2 luglio 2012, n. 3847. Sull'opportunità che il giudice, “all'atto di convertire il rito, fissi immediatamente l'udienza pubblica di trattazione, da celebrarsi entro un termine prestabilito”, al fine di evitare lungaggini nel giudizio N. Paolantonio, I riti speciali, in Giustizia amministrativa, a cura di F.G. Scoca, Torino, 2013, 516. Sulle pregresse resistenze giurisprudenziali ad ammettere l'azione risarcitoria nell'ambito del giudizio nei confronti del silenzio rifiuto cfr., per chiarezza, TAR Napoli, Sez. VII, 9 febbraio 2010, n. 806. (39) Da ultimo cfr. M.A. Sandulli, Le novità in tema di silenzio, cit., 4 ss. (40) Così TAR Campania, Salerno, Sez. II, 18 novembre 2013, n. 2277. Sul pronunciamento della domanda di risarcimento dei danni secondo il rito della camera di consiglio cfr. Cons. Stato, Sez. V, 21 marzo 2011, n. 1739; TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 27 luglio 2011, n. 1083; TAR Sicilia, Catania, Sez. II, 12 marzo 2012, n. 638. (41) TAR Emilia Romagna, Parma, Sez. II, 16 ottobre 2007, n. 2004. Cfr., altresì, per tutte, Cons. Stato, Sez. V, 11 gennaio 2002, n. 144. (42) Sul punto, cfr., se si vuole, M. Ramajoli, Sulla pluralità di riti processuali, in Forme e strumenti di tutela nei confronti dei provvedimenti amministrativi nel diritto italiano, comunitario e comparato, a cura di G. Falcon, Padova, 2010, 317 ss. (43) TAR Campania, Salerno, Sez. II, 18 gennaio 2012, n. 45. Ma da ultimo cfr. altresì Cons. Stato, Sez. V, 28 aprile 2014, n. 21845, per cui l'improcedibilità del ricorso a seguito del sopravvenuto difetto d'interesse in ragione di un tardivo diniego non fa venire meno l'interesse a una decisione di accertamento della violazione dell'obbligo di provvedimento nella prospettiva della futura proponibilità di una domanda di risarcimento. (44) “Non si riesce ad intravvedere per quale motivo occorrerebbe costringere il privato alle fatiche di un'ulteriore azione giurisdizionale al solo fine di promuovere la nomina del commissario”; così Cons. Stato, Sez. V, 16 gennaio 2002, n. 230, capostipite dell'indirizzo poi recepito dal codice. (45) TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 26 aprile 2013, n. 2190. (46) Emblematica a tal riguardo la complessiva vicenda ricostruibile tramite TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 6 ottobre 2009, n. 1628 e 28 febbraio 2011, n. 491. (47) TAR Campania, Salerno, Sez. II, 18 novembre 2013, n. 2277. (48) Cons. Stato, Sez. IV, 17 settembre 2013, n. 4615. (49) A. Travi, Lezioni, cit., 350 e, con riferimento alla disciplina preesistente, F. Fracchia, Riti speciali a rilevanza endoprocedimentale, Torino, 2003, 88-89; nel senso invece che la nomina del commissario sia alternativa a un intervento diretto del giudice cfr. L. Bertonazzi, Il giudizio, cit., 985, facendo essenzialmente leva sull'art. 21 c.p.a., ai sensi del quale, in via generale, il giudice amministrativo, se deve sostituirsi all'amministrazione, “può nominare” come proprio ausiliario un commissario ad acta. Nessun dubbio sussiste invece nell'ordinamento austriaco, ove la Corte ha il potere di emanare con sentenza l'atto in via sostitutiva e di individuare l'autorità amministrativa o giudiziaria cui affidare l'esecuzione della propria decisione, che rappresenta titolo esecutivo; sul punto cfr. C. Fraenkel-Haeberle, Il silenzio, cit., 1052 ss. (50) In tal senso, chiaramente, Cons. Stato, Sez. IV, 10 ottobre 2007, n. 5311. (51) Cfr. C. Fraenkel-Haeberle, Il silenzio dell'amministrazione, cit., 1055 ss., e dottrina ivi citata. (52) Per tutti M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 1983, 386 ss. (53) Cfr., sia pure con riferimento alla disciplina pregressa, A. Travi, Giudizio sul silenzio e nuovo processo amministrativo, in Foro it., 2002, III, 227 ss., 233; con la conseguenza ulteriore che, “trattandosi oggettivamente dell'esercizio della medesima funzione, l'Amministrazione sostituita si troverà rispetto all'attività del Commissario ... nella condizione di doverne accettare le decisioni come a sé imputabili e, quindi modificabili solo in sede di autotutela” (TAR Campania, Napoli, Sez. I, 10 marzo 2009, n. 1363). Configura invece il commissario ad acta come ausiliario del giudice A. Carbone, L'azione di adempimento, cit., 190 ss. (54) Sulle diverse tipologie di commissari ad acta si rinva a V. Caputi Jambrenghi, voce Commissario ad acta, in Enc. dir., Agg., VI, Milano, 2002, 284 ss.; N. Saitta, Sistema di giustizia amministrativa, Milano, 2011, 491 ss., nonché, in giurisprudenza, Cons. Stato, Sez. VI, 25 giugno 2007, n. 3602. Osserva R. Villata, Riflessioni in tema di giudizio di ottemperanza ed attività successiva alla sentenza di annullamento, in questa Rivista, 1989, 369 ss., 396, sia pure con riferimento al giudizio esecutivo, ma con un'impostazione che ben si adatta al tema oggetto di analisi, che “la tesi del commissario organo ausiliario del giudice dell'esecuzione, in astratto forse più coerente, è nel concreto abbandonata dalla giurisprudenza nello stesso momento in cui gli si attribuisce un potere di provvedere nella specifica vicenda al di là dei limiti segnati dal precedente giudicato (vicenda esemplare: di decidere sulla domanda di concessione edilizia dopo una sentenza che ha accertato l'immotivato silenzio del Sindaco)”. (55) L. Bertonazzi, Il giudizio, cit., 991, nt. 256. (56) E. Quadri, Art. 117, in Codice del processo amministrativo, a cura di R. Garofoli e G. Ferrari, III, cit., 1612 ss., 1617. Cfr. inoltre la giurisprudenza precodicistica sull'evenienza in cui l'amministrazione inadempiente abbia fatto conoscere l'esistenza di un iter avanzato per la definizione dell'istanza dopo che il commissario si era insediato; cfr., per tutte, TAR Sicilia, Palermo, Sez. I, 8 aprile 2008, n. 454. (57) Di proroga giurisdizionale del termine di conclusione del procedimento, nonché di una sorta di rimessione in termini parla E. Sticchi Damiani, Il giudice, cit., 8-9. (58) Cfr., anche se antecendente al codice, in quanto espressiva di un principio di carattere generale, Cons. Stato, Sez. IV, 29 febbraio 2008, n. 793. Quanto agli atti commissariali, l'art. 117, co. 4, c.p.a. attribuisce al giudice la competenza a conoscere “di tutte le questioni relative all'esatta adozione del provvedimento richiesto, ivi comprese quelle inerenti agli atti del commissario”. La disposizione non è di immediata comprensione, non essendo precisato se gli atti del commissario siano impugnabili in base alle regole ordinarie, oppure contestabili davanti al giudice che ha provveduto alla nomina del commissario stesso. In tema