L`iperveglia di Zanzotto per ascoltare il mondo che si

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Liperveglia di Zanzotto per ascoltare il
mondo che si sfalda
- Giulio Ferroni, 12.10.2014
Poesia. I versi intellettualizzati dell’autore veneto dispongono a una percezione integrale delle cose
dall’interno di sé, dilatando a dismisura i sensi
La poesia di Andrea Zanzotto, così densa di richiami culturali, così fittamente intellettualizzata, così
acutamente sostenuta dalla più lucida e avvertita coscienza teorica e critica (del resto folgoranti
sono le pagine critiche di Zanzotto, che è stato certo, pur evitando ogni aura professionale, uno dei
maggiori critici del secondo Novecento), si dispone tutta in realtà entro una percezione integrale del
mondo, in una postura del corpo, della mente, della psiche: essa scaturisce dall’essere della persona,
della sua persona, entro il suo più determinato spazio vitale, dentro l’orizzonte attraversato e vissuto,
nella fisicità dei luoghi e delle occorrenze quotidiane, nel respiro molteplice dell’ambiente, nel flusso
del tempo che porta con sé oggetti, consuetudini, linguaggi, paesaggi naturali e costruzioni artificiali.
Tutto sentito e avvertito attraverso una sensibilità personale in cui la più intensa adesione alla
natura, al suo richiamo creaturale, si intreccia con le diversioni del pensiero, con le inquietudini, i
turbamenti, le astrazioni della mente: è il corpo stesso del soggetto, con l’esercizio e i disturbi di
tutti i sensi, a darsi come sostanza psichica che «sente» il mondo, che sta dentro il presente, dentro
la cultura, il linguaggio, la quotidianità, avvertendo al proprio interno tutto il dispiegarsi, l’ansimare,
l’aggrovigliarsi, gli scatti di bellezza e gli scarti di degradazione. Questo sentire trova densità e
sostanza in quello che viene chiamato inconscio (e che ormai non sappiamo più davvero cosa sia): e
si affida direttamente alla poesia, fa della poesia un modo di «esistere psichicamente», disponibilità
infantile e ostinazione intellettuale, piccolo scarto del quotidiano e vertiginosa ascesa al sublime,
lallazione casalinga e cura per il destino del mondo.
In una riflessione del 1987, Tentativi di esperienze poetiche (poetiche lampo), Zanzotto ha precisato
che il rapporto dell’esperienza poetica con «un elemento di sogno (…) continuamente si autosupera
in sentimento di realizzazione di un progetto. L’inconscio si produce continuamente, travolgendo
consapevolezza e “veglia”, ma attivando insieme una specie di iperveglia spostata in avanti». In
questa iperveglia Zanzotto ascolta e scruta il mondo con tutta la tensione del suo corpo/psiche, con
l’insondabile allarme dei sensi e con la strenua vigilanza dell’intelletto: ascolta e scruta in una
amplificazione e dilatazione dell’udito e della vista che si affida al linguaggio e gli fa scontare tutte le
deformazioni e insieme le acquisizioni di quell’iper, di quel troppo che può dar luogo a molteplici
disturbi della comunicazione, ma che conduce a rivelare lo stato del mondo. In termini più semplici,
la poesia di Zanzotto ha la capacità di sentire il tempo, di scavare nella Storia e nella condizione del
presente, proprio perché ha diretta radice in quello stato di iperveglia, di attenzione assonnata, che
trova sostanza nella propria radice psicofisica (nel suo essere «dentro» la realtà) e insieme viene
esaltata e deformata da un assiduo impegno intellettuale (che tocca quella realtà da «dietro», come
lateralmente).
Ne «La Pasqua a Pieve di Soligo» (nella raccolta Pasque, 1973), la ricerca di comunicazione viene
affidata a una veglia di iperascolto, «veglio in iperacusia», ascolto dilatato e potenziato (che insieme
produce deformazione e conoscenza, una conoscenza che non può prescindere dalla deformazione):
e questa iperacusia conduce all’ascolto di ossessivi e distruttivi rumori, di ogni sorta di motori e
della violenza dei loro scontri. In tutti i modi Zanzotto ascolta, in una dilatazione sensoriale, che non
riguarda soltanto l’udito, ma chiama in causa a livelli diversi tutti i sensi; dominante è comunque
l’orizzonte visivo, nei molteplici modi in cui la poesia viene a tracciare immagini, disegni, slarghi di
paesaggio, evidenza e apparenza di luoghi reali e immaginari, spesso reali ma proiettati in una sorta
di torsione immaginaria. In uno dei tanti effetti visivi dell’ultima raccolta, Conglomerati, l’iper viene
direttamente attribuito alla visione: «E poi e poi, cadere, non risorgere, ipervedere / argutamente».
Udito e visione, in questo loro necessario eccesso, sono del resto perpetuamente minacciati da
disturbi, da fenomeni deformanti: acufeni e fosfeni sono termini emblematici per la poesia di
Zanzotto, tanto che il secondo ha dato addirittura il titolo per il secondo volet (1983) della sua
«pseudotrilogia».
Ne «La Pasqua a Pieve di Soligo»: «di fosfeni brulica il quadro e il mio corporeo schema, / in fosfeni
il perverso e la regola il sempre e il mai scema». Ne La Beltà (1968) il testo dal titolo «Adorazioni,
richieste, acufeni» mette in scena proprio il disturbo che il rumore della Storia causa al sogno di
adorazione della bellezza: fischi negli orecchi che tramano il perdersi e negarsi dei luoghi edenici, di
ogni ritorno a un’infantile adesione al mondo. Poi in «Biglia» (ancora in Pasque), poemetto in cui
molto forte è la presenza di dati sonori, dove si avvitano «lente connotazioni / in detonazioni / clic
sgrìdolo e pizzico», tra fischi, versi di uccelli, rumori, gemiti e sospiri, c’è un invito a slacciare «l’otre
a fosfeni e acufeni». «Biglia» è un susseguirsi di auscultazioni entro una gabbietta/casupola: in un
testo di Idioma si dice che esso sarebbe stato ispirato da un «parente eremita» che «fu l’ultimo tuo
compagno nell’auscultazione / di certi sistemi del silenzio / di certe microvocalità stellari». Questo
testo di Idioma è immediatamente successivo a quello dal titolo emblematico «Ascoltando dal prato»,
dove un suono fuori misura di pianoforte suscita la disposizione all’ascolto della realtà, alla
trascrizione di un «possibile universale spartito».
La realtà si ascolta attraverso il linguaggio, che porta insistentemente nella poesia – facendo un uso
spesso ironico e deformante della vecchia risorsa dell’onomatopea – gli scarti e i frammenti del
rumore contemporaneo, nella sua dirompente e micidiale varietà. Proprio negli spazi dell’iperveglia
che è stata la vita di Zanzotto, ascoltando il mondo dalla sua «pieve saccheggiata» (come ebbe a dire
Vincenzo Consolo), la sua poesia ha dato voce allo sfaldarsi e al lacerarsi del mondo, alle derive
dell’ambiente fisico, mentale, linguistico. Poeta dei luoghi e dell’impossibile salvezza di un mondo
insidiato dal profitto, dall’aggressività, dall’irresponsabilità, dall’indifferenza, dai miti mediatici che
si succedono in incontrollabile ed effimera velocità: e tanto più negli ultimi anni egli ha sentito tutto
il peso di queste lacerazioni, anche con scatti che a posteriori possono apparire profetici, come i
versi in dialetto affidati al suo Nino in un testo di Sovrimpressioni (2001) che invano mette in
guardia da una scriteriata moltiplicazione delle viti. Si pensa subito alla recente sciagura di
Refrontolo, proprio nei luoghi zanzottiani: «State acorti, no stè pi sgionfar al balón / co tuti sti feri,
’ste rede, ’ste vì cussì fisse romai, / se no col primo sión / de piova de ’sti tenp / chemi par fortuna no
vedarò mai / a bas vien-dó tut aa rodolón! / Sul me lógo non posse lagnarme, / ma a tuti quanti ve
zhighe ‘Stè acorti!’ // Ma fursi mi qua parle, da mort, a morti» (State accorti, non mettetevi a
strafare – gonfiare il pallone – / con tutti questi pali metallici, queste reti, queste viti così fitte ormai,
/ altrimenti col primo gran temporale / di questi tempi / che per fortuna non vedrò mai / in fondo vien
giù tutto, a rotoloni! / Sul mio potere non posso lamentarmi / ma a tutti vi grido ‘State accorti’. // Ma
forse io qui parlo, da morto, a morti).
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