La criminalità organizzata peninsulare come fatto sociale totale

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La criminalità organizzata peninsulare come fatto sociale totale
LA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA
PENINSULARE COME FATTO
SOCIALE TOTALE
di Marco Fratoni*
Lo studio del fenomeno della criminalità organizzata italiana viene affrontato
in un’ottica sociocentrica. Nella prima parte, l’attenzione dell’autore si concentra
intorno all’analisi delle origini e sull’evoluzione storica delle mafie peninsulari: la
matrice economica del fenomeno si mescola ad elementi sociali, culturali e politici di nuova generazione. Nella seconda parte, la modalità dell’empowerment criminale incontra i temi cardinali della moderna sociologia. Le organizzazioni criminali sono realtà in fieri che si dimostrano capaci di adattare gli standard operativi tradizionali alla complessità e all’entropia del sistema sociale, alla dinamicità
del networking comunicazionale, alla flessibilità della dimensione globale.
The study on the phenomenon of organized crime in Italy is faced from a socio-centric point of view. In the first part, attention is given to an analysis of peninsular Mafia’s
origins and history : the economic matrix of the phenomenon is mixed with social, cultural and political elements of new generation. In the second part, the different ways of
criminal empowerment meet the cardinal themes of modern sociology. Criminal organizations are developing realities, which prove to be able to adapt traditional operational
standards to social system’s complexity and entropy, as well as to the dynamics of
networking communication and to the flexibility of a global dimension.
Premessa Epistemologica
N
elle Regole del metodo sociologico (1895), che può essere
considerato uno dei primi tentativi di definire rigorosamente il metodo della ricerca empirica in sociologia,
Emile Durkheim formula il seguente principio generale: “Quando ci si accinge a spiegare un fenomeno sociale, bisogna cercare
separatamente la causa efficiente che lo produce e la funzione
che esso assolve”1.
Coerentemente con tale presupposto Durkheim riteneva che “la
causa determinate di un fatto sociale dovesse essere cercata nei
fatti sociali precedenti e non negli stati di coscienza degli indivi-
* Dottore magistrale in scienze politiche (2003) e dottore magistrale in scienze sociali (2009).
1 Durkheim E., Le regole del metodo sociologico, Comunità, 1963 (pag. 195).
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dui”2. In questa formulazione trova espressione il c.d. limite epistemologico durkheimiano (noto anche come sociocentrismo radicale) che di fatto non esita ad espungere dalla struttura della spiegazione sociologica l’intero extra-sociale (psicologico, biologico,
etc...). D’altra parte, la funzione di un fatto sociale, ovvero la finalità che oggettivamente esso persegue, non può esser che sociale,
non può che consistere nella produzione di effetti incidenti anzitutto sulla società stessa e solo secondariamente anche sul singolo
individuo. Perciò “la funzione di un fatto sociale deve essere sempre cercata nel rapporto che esso ha con qualche finalità sociale”3.
È proprio a partire dall’enunciazione di questa autorevole premessa epistemologica che il presente lavoro si prefigge di analizzare il sistema della criminalità organizzata in Italia nei suoi
articolati rapporti con l’ambiente politico, economico e sociale.
Il fenomeno definito come criminalità organizzata è relativamente recente. Esso si è forgiato nel Novecento ed è stato nel complesso poco studiato in Italia almeno come manifestazione sociale, per motivi che sembrano eminentemente riconducibili alla sua
natura complessa, oltreché per le oggettive difficoltà a rintracciare nel corpus delle scienze sociali adeguati strumenti di indagine4.
Franco Ferrarotti ha scritto - riferendosi alla difficoltà di definirne segnatamente l’oggetto - che la sociologia si occupa “di
fatti sociali espressi in termini scientificamente rilevanti, ovvero di fatti che si pongono come problemi”5. Da questo punto di
vista il fenomeno della criminalità organizzata va letto come
social problem, vale a dire come mutamento che interferisce con
il sistema di valori che definiscono ciò che è bene, importante
e desiderabile in un sistema sociale storicamente determinato.
È Mauro Magatti a ricordarci che la dote più apprezzabile
della sociologia è quella di “riuscire a penetrare la scorza del
mondo sociale, che ci appare nella sua naturale ovvietà, per
mostrarci significati che non vediamo, non perché nascosti,
ma perché quotidiani ed evidenti, e proprio per questo invi2 Ibidem (pag. 103).
3 Ibidem (pag. 103).
4 (N.d.r.) Si nota che fino agli anni Settanta del secolo scorso le ricerche più importanti in tema di criminalità peninsulare sono state realizzate da scienziati sociali stranieri. Ne La mafia in un villaggio
siciliano 1860-1960, edito da Einaudi nel 1986, l’autore Anton Blok individua una della cause della
carenza di conoscenza sul fenomeno mafioso nello scarso sviluppo delle scienze sociali in Italia.
5 Ferrarotti F., L’ultima lezione. Critica alla sociologia contemporanea, Laterza, 1999 (pag. 7).
6 Magatti M., Presentazione, in Bauman Z., Homo consumens, Edizioni Erickson, 2008 (pag. 7).
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sibili”6. Questa curiosa capacità di svelamento rappresenta la
risorsa più preziosa del caleidoscopico orizzonte sociologico.
Evoluzione del concetto
La definizione di alcune forme di criminalità come crimine organizzato è stata coniata negli Stati Uniti, nell’ambito delle analisi
relative alle modalità devianti riconducibili alle trasgressioni della
legge proibizionistica varata dopo la Prima guerra mondiale7.
Con il riferimento al termine organizzazione si intese sottolineare,
in quella occasione, la natura e, in particolare, l’intensità delle relazioni che intercorrevano tra i componenti delle bande che si dedicavano al traffico e allo smercio clandestino degli alcolici8. La
preoccupazione maggiore, più che per la natura di queste relazioni, era per la capacità di queste stesse bande di esercitare una certa
influenza sulle istituzioni (e prima di tutto sulle istituzioni locali),
avvalendosi sia di collegamenti etnici sia della notevole capacità
di corruzione insita nella lucrosità delle attività realizzate.
Queste modalità di identificazione configurano la criminalità
organizzata come una attività delinquenziale esercitata a fini
speculativi e orientata a trarre reddito non tanto da crimini redistributivi (con vittima), quanto dalla produzione di beni e servizi vietati dalla legge (condotte illecite senza vittima). Nel dedicarsi alle proprie attività è evidente che i gruppi in questione
ricorressero ampiamente a reati contro la persona, sia per garantire la propria coesione interna, sia per regolare la competizione
con gruppi antagonisti, sia per consolidare quell’area di fiancheggiatori che la corruzione e le affinità etniche permettono di
aggregare. Come osserva Ada Becchi, “denaro e violenza vanno
perciò insieme nel caso della criminalità organizzata, mentre
7 (N.d.r.) Nella sociologia e nella criminologia nordamericane si sono contrapposte due visioni:
l’una considera il crimine organizzato come alien conspiracy, complotto straniero di cui la società
americana sarebbe vittima, l’altra invece come american way of life, prodotto e specificità della
complessa e multietnica società americana. All’interno della critica alla visione cospirativa è stata
elaborata la teoria dell’imprenditorialità del crimine organizzato (organized crime), che analizza
l’impresa illecita come una estensione delle attività lecite di mercato in aree proscritte ed in risposta ad una domanda di beni e servizi illeciti. Particolarmente significativa sul tema è la produzione del professor Thomas Crombi Shelling (premio nobel per l’economia nel 2005).
8 (N.d.r.) Più propriamente il crimine organizzato sarebbe consistito nell’attività in cui si erano
specializzati i gangster. In riferimento all’esperienza proibizionista, il termine normalmente
utilizzato era quello di racketeering, genericamente definito come ogni attività economica infiltrata dalla criminalità.
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sono spesso singolarmente presenti in altre rappresentazioni del
fenomeno criminale”9.
Il terreno di coltura di molte forme di criminalità organizzata è
coinciso, dunque, con l’affermazione di mercati proibiti dalle leggi.
Per certi versi, è da ritenersi che le istituzioni dei paesi ricchi e
democratici deputate al controllo criminale intesero definire il
campo in cui la criminalità avrebbe dovuto radicarsi e strutturarsi, ma non riuscirono ad impedire che, in questo, essa instaurasse insidiosi contatti con il mondo della legalità tali e tanti da
minacciarne l’intero impianto democratico. Indirizzare verso
sbocchi criminali, per così dire, precostituiti la devianza emergente avrebbe servito lo scopo di contenerne le perniciose ricadute sociali. In verità, siffatte intenzioni di controllo indussero i
policy maker a sopravvalutare il ruolo dell’universo legale. Il bias
strategico di queste politiche consisteva nel ritenere l’ambiente
istituzionale capace di assorbire e neutralizzare la deriva delinquenziale (di matrice antiproibizionistica): una forza regolativa
intrinseca avrebbe permesso al contesto legale di respingere le
seducenti proposte della criminalità economica. L’identificazione della criminalità organizzata come elemento funzionale alla
gestione dei conflitti può giovare alla sua persistenza, può aiutarla a radicarsi profondamente nel tessuto sociale.
Le politiche criminali assurgono al ruolo non già di politiche di
contenimento (prevenzione e repressione) della devianza, ma di
cardine regolativo del sistema sociale. Le società moderne tendono spesso a darsi ordinamenti indirizzati a minimizzare l’incertezza, nel senso di prevederla, etichettarla, orientarla (in una
parola, a normalizzarla), anche a rischio di potenziarne le manifestazioni. Sostenere questa posizione non significa evidentemente presupporre una precisa intenzionalità nel perseguire un
tale risultato da parte di una qualche autorità o dall’insieme
delle autorità che sovrintendono al governo delle diverse comunità; ma non è altrettanto ipotizzabile che i processi che hanno
condotto a questo risultato abbiano avuto uno svolgimento del
tutto casuale. Il risultato è stato, in altri termini, l’esito di alcune
delle forme del controllo sociale che sono state adottate, anche se
9 Becchi A., Criminalità organizzata. Paradigmi e scenari delle organizzazioni mafiose in Italia, Donzelli, 2000 (pag. 10).
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probabilmente l’adozione di quelle politiche ha prodotto inattese quanto inintezionali conseguenze: tutto questo non può, evidentemente, sorprendere, né scandalizzare.
Nel dibattito italiano, così come in quello americano, le definizioni di criminalità organizzata oscillano tra formule che mettono l’accento sul carattere politico-eversivo del fenomeno e formule che concentrano l’attenzione sulle implicazioni economiche delle manifestazioni, dei comportamenti e nel complesso
delle poliedriche attività devianti. L’organizzazione criminale è
stata in effetti identificata, in Italia e negli USA, da un lato, come
un soggetto sociale in grado di intrattenere proficue relazioni
con pezzi del sistema politico e dell’economia legale, e dall’altro,
come la parte del mondo criminale che svolge attività economiche illecite, ed in particolare di tipo produttivo10.
In Italia l’attenzione al fenomeno criminale si è concentrato,
soprattutto negli ultimi anni, prevalentemente sulla mafia o
sulle c.d. mafie, cioè su organizzazioni la cui genesi ha complesse relazioni di interdipendenza con l’evoluzione politica, economica, sociale e culturale di alcune regioni meridionali11.
L’abbinamento criminalità organizzata-mafie non è tuttavia
scontato. Sotto questo profilo non è insignificante ricordare che
del sussistere di una criminalità autoctona - coincidente con le
c.d. mafie - l’establishment italiano ha lungamente dubitato nel
suo percorso post-unitario. Il riconoscimento delle mafie come
criminalità, o rectius come criminalità organizzata, ha ricevuto la
sua sanzione formale solo a partire dagli anni Settanta e, segnatamente, nel 1976, con la conclusione dei lavori della commissione antimafia della VI legislatura12.
10 (N.d.r.) Nelle mafie italiane, a differenza che in altre organizzazioni criminali, è prevalente l’obiettivo del potere rispetto a quello dell’accumulazione della ricchezza. Ciò che risulta predominante è il vincolo associativo (segreto) a scapito della dimensione imprenditoriale, ossia
il fine politico (l’esercizio del potere sulla società) rispetto a quello economico (l’accumulazione di capitali).
11 (N.d.r.) In questa sede non verrà riportata la storia delle diverse mafie italiane, compito svolto da una letteratura specialistica copiosa e qualificata cui si rimanda.
12 (N.d.r.) Il passaggio lessicale che ha portato da un certo punto in poi a identificare le mafie alla
criminalità organizzata non è di facile ricostruzione. La legge sul soggiorno obbligatorio del
1965 ebbe origine in un disegno di legge governativo intitolato alla Prevenzione e repressione di
particolari forme di reati della delinquenza organizzata, ma approdò alla sua definitiva stesura come
Disposizioni contro la mafia, introducendo per la prima volta nell’ordinamento i termini di mafia
e mafioso. La Relazione conclusiva della commissione antimafia della VI legislatura, che concluse
i propri lavori nel 1976, non parla di criminalità organizzata ma di “attività di tipo mafioso, così
da richiamare tutti indistintamente i comportamenti che siano comunque riconducibili, non
solo direttamente, ma anche per assimilazione, alla manifestazione di mafia”.
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La graduale presa di coscienza dei contenuti dell’attività criminale organizzata conduce al 1982, anno dell’approvazione della
legge Rognoni-La Torre (legge n. 646 del 1982). Essa introduce
(all’articolo 1) una fattispecie nuova e più complessa di associazione a delinquere rispetto a quella già delineata dal codice
penale. I suoi elementi di qualificazione risiedono:
• nella specifica abilità di sviluppare capacità di intimidazione
tali da indurre l’assoggettamento di terzi;
• nella specifica capacità di intrattenere con i poteri pubblici
(politici, amministrativi, economici, sociali, culturali) relazioni tali da permettere l’inserimento profittevole in attività economiche legali regolate da questi poteri.
Secondo l’articolo 416 bis del codice penale, si ha, infatti, un’associazione di tipo mafioso “quando coloro che ne fanno parte si
avvalgono della forza dell’intimidazione del vincolo associativo
e della condizione di assoggettamento ed omertà che ne deriva”
non solo per commettere reati redistribuitivi (con vittima) ma
anche per entrare nell’economia legale attraverso la commissione di reati produttivi (senza vittima), o piuttosto per condizionare gli esiti delle consultazioni elettorali, etc.
Fenomenologia mafiosa
Sono rintracciabili due grandi famiglie di definizioni e interpretazioni sociologiche della mafia: l’una sottolinea i fattori culturali,
l’altra vede la mafia soprattutto come una manifestazione organizzativa. La prospettiva culturalista giunge nella sua versione
estrema a ridurre la mafia alla cultura diffusa nei contesti in cui si
è sviluppata. La prospettiva organizzativa nelle tesi più radicali
assimila invece il fenomeno alla delinquenza organizzata.
È la mafia come comunità a richiamare le interpretazioni di
matrice culturalista. L’enfasi è qui posta sulla presenza di una
cultura (o subcultura) mafiosa, in quanto la mafia è considerata
espressione di codici culturali diffusi. La mentalità mafiosa si
fonda sulla forte coesione morale che deriva da valori tradizionali. Il punto di vista adottato crea una sorta di corto circuito tra
interno ed esterno, poiché in definitiva la mafia non è distinguibile dal suo contesto di riferimento manifestandosi vieppiù
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come rappresentazione sociale dal carattere fortemente situato.
Esemplificativa delle spiegazioni di tipo culturalista è la posizione di Hermann Hess, destinata a influenzare molti studi successivi, che considera la mafia non una forma di criminalità organizzata, ma una forma di comportamento rispondente alla specifica
subcultura della società locale13. Per Robert D. Putnam il mancato sviluppo del mezzogiorno italiano è da ricondurre alla carenza
di senso civico (civicness) ereditato dalla dominazione normanna14. Significativa in questa prospettiva è anche l’analisi - datata
1900 - di Gaetano Mosca che parla della presenza di un sentimento di mafia consistente “nel reputare segno di debolezza o di
vigliaccheria il ricorrere alla giustizia ufficiale, alla polizia e alla
magistratura, per la riparazione dei torti o piuttosto di certi torti
ricevuti”15. Scorrendo la letteratura specialistica che cerca di spiegare la persistenza delle mafie, ci si trova di fronte, salvo rare eccezioni, ad una risposta sostanzialmente univoca: le mafie sono
figlie dell’arretratezza culturale del mezzogiorno16.
La principale caratteristica della prospettiva organizzativa non è
quella di negare relazioni con i caratteri della cultura, ma piuttosto ritenere che questi non siano determinanti nella definizione del fenomeno, almeno nella sua configurazione attuale. Rifiutare l’approccio culturalista non comporta tout-court il misconoscimento di valori, norme e rappresentazioni tradizionali, ma
significa non assumere questi fattori come punto di partenza
dell’indagine sociologica sulla criminalità.
L’incipit della riflessione risiede nella constatazione del fatto che la
prima condizione che legittima l’uso della strumentazione teorica
dell’organizzazione, è generalmente il sussistere di gruppi di individui dotati di una struttura, di regole, di vertici, di sistemi di controllo, di codici culturali e simbolici (in buona sostanza dei fondamentali elementi che concorrono alla definizione di una organizzazione) costituiti per commettere crimini ed in particolare per
fini di lucro. Questa condizione, ancorché necessaria, non è
comunque sufficiente, nel senso che è rilevante non solo il sussi13
14
15
16
Cfr. Hess H., Mafia, Laterza, 1984.
Cfr. Putnam R.D., La tradizione civica nelle regioni italiane, Mondadori, 1993.
Mosca G., Che cos’è la mafia, Lacaita, 1993 (pag. 84).
Cfr. Becchi A., Criminalità organizzata. Paradigmi e scenari delle organizzazioni mafiose in Italia,
Donzelli, 2000.
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stere di uno o più di questi gruppi, ma il sussistere di un network
in cui gli stessi gruppi sono inseriti come nodi e in cui alcuni nodi
possono essere sovraordinati rispetto ad altri17.
L’articolazione e il principio gerarchico che animano l’associazione sono i connotati principali della sua struttura e ne fanno
intuire il grado di offensività18.
La formazione di una consorteria criminale ha come presupposto associativo (una sorta di ragione sociale) la possibilità di ricavare un cospicuo reddito dall’esercizio di attività vietate dalla
legge. La redditività delle attività realizzate mette il network in
grado di stabilire relazioni cooperative con il resto del mondo, di
compromettere attraverso la corruzione le stesse prerogative di
enforcement della legge penale.
Come osserva il professor Salvatore Aleo, la teoria dell’organizzazione riempie di contenuti la problematica tradizionale delle
figure delittuose associative provvedendo a favorire il coordinamento, il superamento delle differenze e la mediazione fra i
diversi sistemi giuridici e istituzionali (ma anche culturali) dei
vari stati, nei vari paesi19.
Le scienze sociali definiscono l’organizzazione come un insieme
formalizzato e gerarchizzato di individui finalizzato a garantire
la cooperazione e il coordinamento dei membri per il perseguimento di dati scopi. La mafia è un fenomeno multidimensionale
e complesso sia a livello formale, cioè nelle differenti modalità in
cui può manifestarsi (ed essere percepito), sia a livello sostanziale, cioè nei diversi campi in cui può concretamente operare.
L’immagine del sistema - diffusa tra alcuni settori della magistratura antimafia e ripresa anche dalla recente narrativa di Roberto Saviano20 - tende a vedere la mafia come un sottosistema di un più generale sistema criminale. Quest’ultimo è considerato un dispositivo
altamente integrato e interconnesso, costituito da interazioni organiche tra pezzi di istituzioni, politica ed economia legale: la forza del
17 (N.d.r.) Per ulteriori approfondimenti in tema di teoria dell’organizzazione si veda Hatch
M.J., Teoria dell’organizzazione, Il Mulino, 2006.
18 (N.d.r.) È conseguenza di una evoluzione culturale e normativa alquanto complessa il processo che ha portato - a partire come visto dagli USA - a ritenere la responsabilità dell’individuo che commette determinati reati più grave quando egli contribuisce a dar vita, al fine di
commetterli, ad un consorzio di individui, ovvero ad una organizzazione.
19 Cfr. Aleo S., Causalità, complessità e funzione penale, Giuffrè, 2009.
20 Cfr. Saviano R., Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra, Mondadori, 2006.
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sistema risiede nel convincimento che l’insieme delle parti in esso
strutturate presentino la capacità di vantaggi competitivi maggiori
rispetto alle garanzie operative offerte dalla semplice somma di
componenti criminali non relate. In questa visione può trovare posto
l’idea di un’unica struttura criminale assimilabile a quella della piovra (a quella di una holding criminale internazionale), ovvero l’idea
che presuppone l’esistenza di un terzo livello o di un grande vecchio, la presenza di convergenze parallele o di un doppio stato.
Il modello della rete (network) vuole privilegiare gli aspetti processuali del fenomeno mafioso, prestando attenzione in particolare alle dinamiche di radicamento, di espansione e di riproduzione (ovvero di dipendenza, indipendenza, prevalenza) della
manifestazione de qua21.
Un gruppo mafioso è visto come una organizzazione sufficientemente aperta verso l’esterno, ma, al tempo stesso, distinta e embedded dal/nel contesto specifico di riferimento. In questo modello alle
relazioni verticali si affiancano quelle di carattere orizzontale: grande rilievo è assegnato alle dinamiche di cooperazione e reciprocità.
La dimensione relazionale può essere analizzata alla luce della teoria del capitale sociale22, inteso come insieme di risorse disponibili
nella rete di relazioni degli individui. Per questa via, la mafia può
essere vista come una organizzazione a rete, ma anche come rete di
organizzazioni, mentre l’ottica privilegiata è appunto quella che
focalizza le connessioni tra versante interno e versante esterno.
Dal punto di vista della struttura organizzativa che caratterizza i
gruppi mafiosi si può evidenziare l’esistenza di una dualità: una
21 (N.d.r.) È significativo ricordare il contributo offerto sul tema da alcuni studiosi della Scuola
di Chicago (tra questi R.E. Park, E.W. Burgess, H.W. Zorbaugh, L. Wirth, R. McKenzie, J. Galbin) agli inizi del secolo scorso. Partendo dall’attenzione per la città di Chicago e per le
profonde trasformazioni che essa subisce in quegli anni, questo gruppo di studiosi, subendo
l’influenza del darwinismo, si propone di fondare una nuova disciplina, definita ecologia
umana, che consiste nello “studio delle relazioni spaziali e temporali degli esseri umani in
quanto influenzati da forze selettive, distributive e adottive che agiscono nell’ambiente”(Park
R.E., Burgess E.W. e McKenzie R., La città, Comunità, 1967, pag. 59). Si tratta di meccanismi
comuni a tutti i viventi: competizione per il territorio e per le risorse che esso offre, invasione
da parte di nuovi gruppi, simbiosi tra comunità differenti presenti in una medesima area.
22 (N.d.r.) Il concetto di capitale sociale, su cui si tornerà più compiutamente, è mutuato dagli
studi di James S. Coleman che partendo dalle prospettive dell’individualismo metodologico,
suggerisce di considerare le dotazioni di cui dispone ogni individuo come forme di capitale
distinguibili in capitale fisico, umano e sociale. Il capitale fisico è costituito da beni strumentali tangibili (materiali o monetari) e il capitale umano dalle capacità e abilità della persona. Il
capitale sociale è invece costituito da relazioni sociali che hanno una certa persistenza nel
tempo e che gli individui in parte possiedono acriticamente (per esempio: relazioni parentali
o di ceto), o in parte costruiscono attivamente nel corso della loro vita (per esempio relazioni
di amicizia o conoscenze maturate nelle varie cerchie sociali in cui l’individuo è transitato).
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tendenza alla centralizzazione (indirizzo centripedo) e una tendenza alla fluidità verso l’esterno (indirizzo centrifugo). La prima
tendenza riguarda gli affiliati al gruppo mafioso e si manifesta in
un territorio relativamente circoscritto; la seconda è invece relativa
alle reti di alleanze e di contatti dei mafiosi con altri soggetti e può
manifestarsi in luoghi più dispersi dal punto di vista spaziale.
Secondo il sociologo Rocco Sciarrone “i mafiosi tendono a stabilire
legami forti (strong ties) verso l’interno e legami deboli (weak ties)
verso l’esterno”23. I primi sono quelli che caratterizzano i rapporti
tra parenti ed amici stretti; i secondi sono invece tipici delle relazioni che si intrattengono tra conoscenti alla lontana. Ai fini del
nostro discorso, possiamo dunque definire forti i legami basati su
una comune appartenenza, con un contenuto di carattere affettivo
e un grado elevato di stabilità. Si possono invece considerare deboli i legami di carattere strumentale, tendenzialmente neutri dal
punto di vista affettivo e, comunque, meno stabili e approfonditi24.
Un gruppo mafioso può essere rappresentato nei termini di una
rete sociale altamente coesa, poiché la trama di relazioni interne
tende ad essere basata sul modello dei rapporti familiari. Verso
l’esterno si osserva, invece, la presenza di reti sociali a prevalenza di legami deboli. Dal punto di vista morfologico l’immagine
complessiva che si ricava analizzando un gruppo mafioso è
quella di una rete fittamente interconnessa nel suo nucleo organizzativo, che diventa più rarefatta nella sua trama periferica.
È opportuno precisare che nel caso della mafia i legami deboli devono essere intesi nel senso di legami laschi: “debole suggerisce l’idea
che la connessione possa facilmente spezzarsi, (...), l’aggettivo lasco,
(...), denota invece un nodo non stretto, che lascia gioco alle corde
che lo compongono o che vi scorrono dentro, ma tale nodo non è
affatto debole né sul punto disciogliersi”25 è solo più flessibile26.
23 Sciarrone R., Mafie vecchie. Mafie nuove, Donzelli, 2009 (pag. 49).
24 (N.d.r.) Non bisogna confondere la forza del legame, ovvero la sua intensità, con la densità della
rete. La densità è data dal numero di legami esistenti effettivamente in rapporto al numero di
legami potenziali tra un insieme di soggetti connessi in dato reticolo sociale. Per semplificare si
potrebbe rilevare che in questa sede l’intensità dei legami assume valore qualitativo mentre la
densità ovvero la frequenza dei legami diventa un carattere eminentemente quantitativo.
25 Bonazzi G., Storia del pensiero organizzativo, Franco Angeli, 1995 (pag. 392).
26 (N.d.r.) Per un approfondimento sul tema delle connessioni lasche, quali modalità di interazione all’interno dei sistemi organizzativi, si consulti l’opera dello psicologo sociale Karl
Weick, ed in particolare La psicologia sociale nei processi organizzativi (Isedi, 1993), Le organizzazioni scolastiche come sistemi a legame debole, in Zan S. (a cura di), Logiche di azione organizzativa
(Il Mulino, 1988), Senso e significato dell’organizzazione (Cortina, 1997).
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La criminalità organizzata peninsulare come fatto sociale totale
L’elevato grado di densità sono elementi che incrementano le reciproche obbligazioni degli attori e che, quindi, favoriscono una maggiore disponibilità di capitale sociale. Del resto, una rete tanto più è
densa tanto più è vincolante. Le reti dei mafiosi presentano una elevata forza coesiva non solo dal punto di vista organizzativo interno
ma anche nelle relazioni che si intrattengono con l’esterno.
Per Foucault, il potere non è soltanto una forma di interdizione,
né unicamente una istituzione o una struttura, e neppure “una
certa potenza di cui alcuni sarebbero dotati”27, ma è “qualcosa
che circola, (...), che funziona e si esercita attraverso una organizzazione reticolare”28.
I mafiosi hanno una notevole capacità di networking, cioè di allacciare relazioni, instaurare scambi, creare vincoli di fiducia, incentivare obblighi e favori reciproci. Essi non sono solo interessati a
incorporare nella propria rete un determinato soggetto, ma anche
ad accedere ed eventualmente ad attivare il network in cui, a sua
volta, è inserito quel soggetto. D’altra parte, l’ingresso in un reticolo mafioso può offrire numerosi vantaggi: per molti versi, può
essere equiparato all’appartenenza a certi associazioni esclusive
(c.d. club service) che costituiscono vere e proprie comunità di interessi e mettono a disposizione dei loro membri risorse sociali di
straordinaria efficacia, poiché attivano circuiti molto estesi, irraggiungibili attraverso opere di tessitura individuali.
Un gruppo mafioso può dunque essere rappresentato come un
network costituito sia da legami forti che da legami deboli,
mostrando a seconda delle circostanze rapporti a maglia stretta,
oppure più flessibili e spazialmente ramificati. La presenza di
legami deboli permette alla rete di estendersi verso l’esterno. I
legami deboli sono infatti dotati di una particolare caratteristica.
Tendono a ramificarsi con forza stabilendo connessioni tra soggetti eterogenei, e rendono quindi più aperta e dinamica la rete.
La forza della mafia sta proprio nella capacità di tessere - verso
l’esterno - legami deboli (non intensi), la cui densità (frequenza)
diventa variabile a seconda delle circostanze.
Per altri versi, i mafiosi tendono a porsi spesso come intermediari fra diverse reti di relazioni: le mettono in comunicazione, ma le
27 Foucault M., Microfisica del potere. Interventi politici, Einaudi, 1977 (pag. 184).
28 Ibidem (pag. 184).
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tengono separate. Non hanno interesse a connettere in modo forte
i soggetti che fanno parte della loro rete di relazioni esterne. Essi
tendono a sfruttare i c.d. buchi strutturali delle reti29: cercheranno
di coinvolgere nella rete nuovi soggetti, ovvero di estendere sempre più la rete. Il concetto di buco strutturale indica l’assenza di
relazioni fra cerchie sociali distinte. La presenza di buchi strutturali rappresenta per il criminale l’opportunità imprenditoriale di
porsi come intermediario, di controllare il flusso di informazioni,
di sovrintendere il coordinamento delle azioni fra gli attori che si
trovano da una parte e dall’altra del buco.
Come del resto è noto, le relazioni esterne dei mafiosi sono rivolte non solo verso il mondo dell’illegalità, ma anche verso quello
legale, verso le diverse sfere della società civile e i settori politici e istituzionali, fermo restando che è peculiare della mafia il
collegamento con i pubblici poteri. Il processo di collegamento
avviene prevalentemente sul piano locale, ma può anche interessare contesti più allargati. I mafiosi stabiliscono legami ponte,
cioè legami capaci di mettere in contatto due reticoli ad elevata
interdipendenza interna, altrimenti separati. In tal modo riescono a cumulare i vantaggi che derivano da legami deboli (estensione e diversificazione della rete) a quelli che derivano dall’alta
densità del reticolato (controllo delle relazioni).
Va rilevato altresì che i mafiosi sono interessati ad ottenere la
cooperazione di altri soggetti; tendono a privilegiare più che
l’acquisizione di informazioni nuove ed esclusive il monopolio
delle relazioni che le veicolano. In tali reticoli essi sono dotati di
notevole capacità di dominio, vale a dire della capacità di orientare e condizionare (suggestionare) il comportamento altrui. Per
i mafiosi è prioritaria la funzione controllo delle connessioni
sociali rispetto a quella informativa.
29 (N.d.r.) Il concetto di buco strutturale è riconducibile alla teorizzazione di Ronald S. Burt in
Structural Holes: the Social Strutture of Competition (Harward University Press, 1995). I buchi
strutturali designano l’assenza di legami tra contatti non ridondanti all’interno di una rete. In
questa prospettiva il capitale sociale è funzione delle opportunità che si hanno, all’interno di
una struttura sociale, di esercitare la funzione di broker. Ognuno di questi buchi nella struttura sociale, infatti rappresenta l’opportunità per il soggetto, la cui rete abbraccia questo buco
strutturale, di mediare il flusso di informazioni fra soggetti e di controllare i progetti che connettono gli individui ai lati opposti del buco strutturale.
Questo concetto si estende anche alla creatività, secondo Burt, la scintilla creativa consiste nel
vedere ponti laddove gli altri vedono buchi strutturali. La mediazione fra buchi strutturali
rappresenta capitale sociale. Per gli individui e i gruppi, le reti che abbracciano i buchi strutturali sono associate a creatività e successo, promozioni anticipate e ricompense più alte.
248 - SILVÆ - Anno VI n. 13
La criminalità organizzata peninsulare come fatto sociale totale
Empowerment Criminale
Le immagini ologrammatiche (sistemica, comunitaria e reticolare) fin qui riportate hanno il pregio di illustrare i caratteri strutturali salienti che ricorrono all’interno delle diverse realtà associative. Funzionalmente, invece, le consorterie mafiose si sviluppano su due direttrici principali che tendono a combinarsi
secondo modalità variabili nel tempo e nello spazio:
• quella di organizzazione del controllo del territorio (power
syndicate), da cui deriva il suo potere e agire politico;
• quella di organizzazione dei traffici illeciti (enterprise syndicate), che la caratterizza come impresa che opera a cavallo dei
mercati illegali e degli ambienti legali30.
La mafia è sicuramente un gruppo di potere. L’attenzione è qui
rivolta all’arena politica e, quindi, ai rapporti tra mafia e politica, alle relazioni intrattenute con settori delle classi dirigenti.
Prolifera nell’alveo di questa rappresentazione criminale - dalla
forte connotazione politicoterritoriale - l’idea di borghesia
mafiosa, di mafia in guanti gialli31 (ovvero in colletto bianco32).
Attraverso l’esercizio della violenza, effettivo o potenziale, la strumentalizzazione di specifici codici culturali tradizionali e la manipolazione delle relazioni sociali e politiche, la capacità di procurarsi all’esterno la cooperazione, attiva o passiva, di altri attori sociali
e, in particolare, attraverso l’abilità di instaurare rapporti di scambio nei circuiti politici ed istituzionali, le organizzazioni criminali
peninsulari assicurano un pedissequo controllo del territorio. La
condizione di assoggettamento (e di segretezza) imposta agli affiliati definisce una gerarchia di comando efficace e suggestiva di una
burocrazia ordinata ed votata all’efficienza. La mafia viene considerata una organizzazione prevalentemente chiusa, quasi autosufficiente, con una forte coesione interna (di carattere militare) ed una
rigida struttura gerarchica votata all’esercizio della violenza.
Il sociologo Pino Arlacchi ha presentato l’impresa mafiosa come
un interessante oggetto teorico prodotto dall’incontro tra mafia
30 (N.d.r.) La frequentatissima distinzione tra enterprise syndicate e power syndicate è stata proposta
per la prima volta da Alan Block in riferimento alla criminalità di New York nell’opera East Side
- West Side. Organizing crime in New York 1930-1950 (University College Cardiff Press, 1980).
31 Cfr. Mosca G., Che cos’è la mafia, Lacaita, 1993.
32 Cfr. Sutherland E.H., La criminalità dei colletti bianchi e altri scritti, Unicopli, 1986.
SILVÆ - Anno VI n. 13 - 249
La criminalità organizzata peninsulare come fatto sociale totale
ed imprenditoria che si sarebbe realizzato nel corso degli anni
settanta. In quegli anni una mafia tradizionale in competizione
per l’onore ed il potere avrebbe ceduto il passo ad una mafia
imprenditrice in competizione per la ricchezza.
Sulla scorta di questi elementi di novità si sarebbe verificato un
profondo mutamento dell’agire mafioso: “(...), la tradizionale
fisionomia parassitaria dell’azione mafiosa in campo economico
è passata in secondo piano, in favore di un salto qualitativo
verso una aggressiva presenza imprenditoriale che agisce in
direzione di una espansione e non di un impedimento delle
forze di mercato”33. La nuova impresa criminale è caratterizzata
dal “trasferimento del metodo mafioso nell’organizzazione
aziendale del lavoro e nella conduzione degli affari esterni
all’impresa”34: il fenomeno mafioso non costituisce più una componente subalterna dell’economia, ma una forza della produzione radicata e accreditata nelle strutture portanti dell’universo
socioeconomico di aree sempre più vaste della penisola.
I rapporti sociali si modificano: i fattori economico-finanziari prevalgono sulla dimensione identititaria della memoria e dell’appartenenza. Per Enzo Fantò l’impresa mafiosa si afferma all’interno di un
processo sociale, economico e politico che “vede la mafia divenire
parte essenziale della classe dominante di estese realtà territoriali”35.
Impresa, politica e mafia costituiscono un circolo vizioso e danno
vita ad un meccanismo triadico che mette in relazione politici,
impresa legale e organizzazione mafiosa, fondato su scambi e favori reciproci. L’impresa a partecipazione mafiosa non risolve la contraddizione tra logica mafiosa, improntata pur sempre alla violenza,
agita o minacciata, e attività imprenditoriale: la mafia coniuga insieme ruoli produttivi e parassitari, né rinuncia all’uso della violenza. I
mafiosi non inventano l’uso economico della violenza, che è un
fenomeno carsico della storia umana, lo applicano sistematicamente
e razionalmente, facendolo diventare la risorsa prima e il principale
fattore di produzione, la misura del capitale mafioso e la principale
istituzione della regolazione criminale del mercato36.
33 Arlacchi P., La mafia imprenditrice. L’etica mafiosa e lo spirito del capitalismo, Il Mulino, 1983
(pag.125).
34 Ibidem (pag. 109).
35 Fantò E., L’impresa a partecipazione mafiosa. Economia legale ed economia criminale, Edizioni Dedalo, 1999 (pag. 55).
36 Cfr. Beccucci S. e Massari M. (a cura di), Mafie nostre, mafie loro, Edizioni di Comunità, 2001.
250 - SILVÆ - Anno VI n. 13
La criminalità organizzata peninsulare come fatto sociale totale
Osserva Umberto Santino che i servizi offerti dalla mafia rientrano
in due grandi categorie: offerta di capitali o di beni illeciti, offerta a
prezzi competitivi di beni leciti. Questi servizi costituiscono le articolazioni nevralgiche del rapporto di scambio-alleanza-condivisione di potere che si instaura tra mafiosi ed attori politico-economici: una agenzia sui generis che persegue interessi propri che si
intrecciano con quelli di altri soggetti sociali37.
In un saggio pubblicato sui Quaderni di Sociologia nell’ottobre del
1997 il sociologo calabrese Ercole Giap Parini sottolinea la necessità, per imprimere un mutamento di rotta alle idee circolanti, di
trasformare le diverse ipotesi definitorie del fenomeno mafioso
(mafia-impresa, mafia organizzazione, mafia-comportamento),
da concetti identificanti ed esclusivi a elementi variabili di un
agire mafioso che abbia i caratteri dell’adattività. L’adattività
mafiosa è un fattore sistemicostrategico che esprime la capacità
di realizzare comportamenti orientati a favorire e a perpetuare la
riproduzione dei poteri criminali su di un dato territorio38.
Sebbene la complessità funzionale (ancorché strutturale) dell’organizzazione criminale presenti un diffuso grado di resistenza ai
cambiamenti, è lo spirito di resilienza a rappresentare la vera e
grande risorsa del sistema mafioso. La resilienza è la forza che
permette al sistema (sociale quanto naturale) di tornare nella
condizione precedente ad una perturbazione, “rappresenta la
sua capacità di recupero”39.
L’importanza del concetto dell’adattività, nei termini della soluzione della questione paradigmatica connessa alla complessità,
risiede nel fatto che i comportamenti, ossia gli elementi variabili
dell’agire mafioso, tendono ad adeguarsi in maniera selettiva al
mutare delle condizioni del contesto40. La mafia ha rivelato una
grande capacità di adattamento ai processi di modernizzazione
anche in contesti temporali e spaziali diversi da quelli di origine.
Rimane ancora significativo il caso dell’emigrazione negli Stati
Uniti: esportando il loro sistema di violenza, i mafiosi riuscirono
a controllare le relazioni interne alle comunità di emigrati, nonché quelle con l’esterno.
37 Cfr. Santino U., Dalla Mafia alle mafie. Scienze sociali e crimine organizzato, Rubbettino, 2006.
38 Cfr. Parini E.G., Su alcune recenti interpretazioni del fenomeno mafioso, in Quaderni di Sociologia,
Nuova Serie, vol. XLI, n. 14, 1997.
39 Cfr. Odum E.P., Basi di ecologia, Piccin, 1988 (pag. 4).
40 (N.d.r.) Si veda la nota 20.
SILVÆ - Anno VI n. 13 - 251
La criminalità organizzata peninsulare come fatto sociale totale
Secondo Raimondo Catanzaro una delle caratteristiche principali della mafia, che spiegherebbe anche la sua persistenza nel
tempo, consiste nella “capacità di combinare insieme valori
nuovi con quelli tradizionali attraverso un processo di ibridazione sociale”41, di creolizzazione efficiente.
La forza della mafia, come visto, è conseguenza della sua capacità di networking. Ciò permette ai mafiosi di porsi a seconda
delle circostanze come mediatori, patroni, protettori, in strutture
relazionali di natura diversa che essi riescono a utilizzare per i
propri obiettivi. Il potere di un attore viene infatti considerato
come una misura diretta del capitale sociale di cui questo dispone in un dato sistema di azione (e relazione).
Il richiamato concetto di capitale sociale teorizzato da James
Samuel Coleman fa riferimento all’insieme di risorse di cui un
individuo dispone sulla base della sua collocazione in reti di relazioni sociali42. Un tale approccio analitico si presenta strettamente
relato alle tematiche della fiducia, della reciprocità, dell’identità,
dell’azione collettiva, della società civile, del contesto istituzionale,
dello sviluppo economico e politico. Questi issue, pur collocandosi
su piani analitici diversi, offrono nel loro insieme un quadro dei
vincoli e delle opportunità che si presentano agli attori, individuali e collettivi, in data società locale. Poiché il capitale sociale può
favorire la cooperazione tra gli individui, focalizzarsi sul suo ruolo
vuol dire “riconoscere che la propensione e la capacità a cooperare
espressa dai membri di una data società influenzano in modo
significativo i caratteri dello sviluppo economico e politico perseguibili da quella stessa società”43. La fiducia può costituire una
condizione necessaria per l’insorgenza della cooperazione, ma non
è una condizione sufficiente per il suo effettivo conseguimento e
quindi per la costituzione di capitale sociale stabile.
In realtà nella versione originale della teoria di Coleman il capitale sociale più che alla cultura fiduciaria “è riferito a specifici
assetti delle relazioni sociali che consentono ad una persona di
agire in vista dei propri fini, orientando e riorientando le relazioni stesse”44.
41
42
43
44
Catanzaro R., Il delitto come impresa. Storia sociale della mafia, Liviana, 1988 (pag. 133).
Cfr. Coleman J.S., Fondamenti di teoria sociale, Il Mulino, 2005.
Mutti A., Capitale sociale e sviluppo. La fiducia come risorsa, Il Mulino, 1998 (pag. 12).
Bagnasco A., Teoria sociologia implicita nell’analisi dello sviluppo a economia diffusa, in Teoria,
società e storia. Scritti in onore di Filippo Barbano, Franco Angeli, 2000 (pag. 481).
252 - SILVÆ - Anno VI n. 13
La criminalità organizzata peninsulare come fatto sociale totale
Nella teorizzazione di Coleman quindi questo tipo di capitale è una
risorsa per individui in specifici tessuti di relazione. Ne derivano una
serie di conseguenze. Anzitutto il capitale sociale è una risorsa importante per lo sviluppo solo al concorrere di determinate circostanze
che attengono a una serie di condizioni strutturali e di contesto. In
secondo luogo relazioni sociali che costituiscono capitale sociale per
un tipo di attività possono essere di impedimento per altre.
Il capitale sociale, proprio in quanto inerente alla struttura delle
relazioni sociali, non appartiene in modo esclusivo alle persone
che ne traggono beneficio. Ciò spiega da un lato il fatto che i vantaggi che ne derivano siano sottovalutati, dall’altro la scarsa
disponibilità degli attori ad investire nella sua produzione. Pertanto spesso il capitale sociale è un sottoprodotto di altre attività
sociali. Si tenga presente inoltre che nei suoi aspetti di bene pubblico esso può esaurirsi nel tempo qualora non venga usato.
Lo sviluppo del capitale sociale dipende da alcune proprietà
della struttura sociale quali la chiusura delle reti sociali, la continuità e la molteplicità delle relazioni. Tra i diversi tipi di strutture sociali che favoriscono la formazione di capitale sociale sono
dunque da segnalare:
• reti relazionali chiuse o comunque ad elevata densità;
• organizzazioni sociali appropriabili, vale a dire tessuti relazionali che possono essere orientati in direzioni di fini diversi
da quelli per cui originariamente si sono formati.
La presenza di questi tipi di strutture sociali risulta evidente se si
prende in considerazione il caso della mafia. I mafiosi tendono infatti ad intrecciare reticoli sociali ad elevata densità e a manipolare per
i propri scopi reti di relazioni diversamente finalizzate. Essi riescono così a creare ed accumulare capitale sociale. Una lettura del fenomeno mafioso in termini di capitale sociale presuppone dunque di
focalizzare l’attenzione sulla capacità e sulle risorse relazionali dei
mafiosi. Gli associati presentano una elevata dotazione di capitale
sociale che traggono dalle relazioni instaurate con altri attori.
Conclusioni
A questa punto sarà utile riprendere l’incipit del discorso per chiarire in quale direzione muovano - alla luce di quanto svolto - le
SILVÆ - Anno VI n. 13 - 253
La criminalità organizzata peninsulare come fatto sociale totale
affermazioni sociocentriche di Durkheim. Asserendo esplicitamente che la società viene prima degli individui, che i fatti sociali
possono essere spiegati solo da altri fatti sociali e che non si può
partire dal comportamento degli individui, dalle loro motivazioni
e dalla loro personalità, per arrivare alla società, Durkheim si colloca in una prospettiva precipuamente strutturalista.
La società, configurata come entità sui generis in quanto dotata di
un carattere altero non riconducibile alla pura dimensione psicologica delle intenzioni e delle proiezioni individuali e collettive,
non può essere considerata come il semplice risultato delle azioni
individuali, piuttosto come un sistema autonomo e indipendente,
ovvero come “realtà specifica con i suoi caratteri propri”45.
La dimensione speciale del sistema sociale, in quanto entità sui
generis che persegue finalità proprie, si manifesta per
Durkheim, nel carattere coercitivo che assume il sociale nei confronti dell’individuo: la società infatti impone a quest’ultimo le
sue proprie forme e le sue proprie leggi. Il sociale acquista una
posizione di primato riguardo alla dimensione individuale: è
l’individuo a dover essere compreso a partire dal sociale e non il
sociale a partire dall’individuo, è infatti nella natura della società
stessa “che occorre cercare la spiegazione della vita sociale”46.
Tutte le volte che imputiamo alla società le cause del comportamento di un individuo o di un gruppo, seguiamo, magari senza
rendercene conto, un approccio che parte dalla struttura sociale
per arrivare all’individuo. Le spiegazioni strutturali fanno sempre riferimento a qualche forza che agisce alle spalle degli individui (spesso, a loro insaputa) e li spinge a comportarsi in un
determinato modo47. In altri termini, è la società che spiega gli
individui e non viceversa. Non sono tanto gli individui che scelgono la posizione sociale che occupano e i ruoli che svolgono,
ma è piuttosto la struttura sociale che seleziona e forma gli indi45 Durkheim E., Le regole del metodo sociologico, Comunità, 1963 (pag. 103).
46 Ibidem (pag. 101).
47 (N.d.r.) Le teorie funzionalistiche operano anch’esse con un modello di spiegazione di tipo
strutturale: le parti sono spiegate in relazione alle funzioni che svolgono per il tutto, il percorso non è dalle parti al tutto, ma dal tutto alle parti. La teoria dei ruoli, in quanto parte dell’apparato teorico funzionalistico, spiega il comportamento degli individui in base alla posizione
(lo status) che occupano in uno dei sottosistemi che compongono il sistema sociale. I ruoli sono
strutture normative che determinano le aspettative, vale a dire l’insieme dei diritti e doveri, nei
confronti di chi occupa una determinata posizione sociale. Quando sono noti i ruoli che un
individuo svolge, sappiano già quali sono le costrizioni alle quali è sottoposto il suo comportamento e quindi siamo in grado di prevederlo con un notevole grado di certezza.
254 - SILVÆ - Anno VI n. 13
La criminalità organizzata peninsulare come fatto sociale totale
vidui adatti a ricoprire quei ruoli e occupare quelle posizioni.
Per questa ragione, il paradigma della struttura riflette una concezione olistica del sociale in quanto concepisce la società come
l’unità prioritaria di analisi e gli individui come veicoli attraverso i quali la società si esprime.
Comprendere la complessità delle associazioni criminali richiede uno sforzo di integrazione di differenti prospettive, teorie e
strumenti di numerose discipline nell’ambito delle scienze giuridiche, sociali ed economiche. Tutte le ricerche sostenute da uno
straordinario sforzo di connessione tra conoscenze, culture e
pratiche, sono chiamate a fornire chiavi interpretative della
realtà e proposte di azione più adeguate.
Del resto si vive simultaneamente l’ambiente naturale (il territorio), la società (ambiente sociale o milieu), il sistema economico
nel quale operare. Questi aspetti della vita vengono troppo spesso trattati come se fossero tra di loro separati. I confini sono invece sfumati anche se apparentemente possono sembrare netti, le
connessioni esistenti sono molteplici. Le risposte della politica e
del mondo del mercato, alle sfide che la modernità delinquenziale impone, sono ancora dominate da una visione settoriale e
non integrata della realtà.
Come ricorda Edgar Morin “l’intelligenza parcellizzata, compartimentata, meccanicistica, disgiuntiva, riduzionistica, rompe il
complesso del mondo in frammenti disgiunti, fraziona i problemi, separa ciò che è legato, unidimensionalizza il multidimensionale”48.
Ricomponendo il framework analitico dell’universo criminale
associativo è possibile sostenere che la mafia presenti una struttura frattale, una struttura circolare a forma di spirale i cui elementi si ripetono in continuazione e in modo sempre più sottile.
Le diverse posizioni non sono né disposte lungo un continuum,
né tra loro meramente contrapposte: sono piuttosto organizzate
come in un cerchio e si combinano in forma variabile49.
48 Morin E. e Kern A.B., Terra-Patria, Raffaello Cortina Editore, 1994 (pag. 165).
49 (N.d.r.) Un frattale è un oggetto geometrico che si ripete nella sua struttura allo stesso modo
su scale diverse, ovvero che non cambia aspetto anche se visto con una lente d’ingrandimento. Questa caratteristica è spesso chiamata auto similarità. Il termine frattale venne coniato nel
1975 da Benoît Mandelbrot in Gli oggetti frattali. Forma, caso e dimensione (Einaudi, 1987) e deriva dal latino fractus (rotto, spezzato), così come il termine frazione (non a caso le immagini
frattali sono considerate dalla matematica oggetti di dimensione frazionaria).
SILVÆ - Anno VI n. 13 - 255
La criminalità organizzata peninsulare come fatto sociale totale
La questione criminale obbliga ad un diverso ragionamento,
interdisciplinare e multicriterico, più cosciente e consapevole.
Non sfugge al principio dell’unitarietà della scienza e della
conoscenza (epistemologica) questo complesso fenomeno.
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