Atti 11, 19 – 26 - diocesi.rimini.it

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Atti 11, 19 – 26. 27 – 30; 12, 24 – 25. 13, 1 – 3.
Dopo l’inizio della missione ai pagani, sancito dall’iniziativa di Pietro su impulso dello Spirito Santo,
ora Luca si concentra sulla fondazione della comunità di Antiochia, la prima comunità in cui
convivono insieme giudeo – cristiani e pagano – cristiani.
Luca si riallaccia direttamente ad At 8, 1b – 4, dove si narra la diffusione della Parola dovuta alla
provvidenziale dispersione dei discepoli dopo la persecuzione scoppiata con il martirio di Stefano.
In tal modo la nascita della Chiesa di Antiochia crocevia della missione cristiana verso l’Asia e in
Europa e vero laboratorio di comunione ecclesiale ed evangelizzazione finisce per dipendere
direttamente dalla Chiesa di Gerusalemme e dalla “fecondità” della persecuzione che tale Chiesa
madre ha dovuto subire.
La breve unità letteraria si può dividere in tre sottounità: vv. 19 – 21: arrivo dei dispersi ad
Antiochia, evangelizzazione e successo. vv. 22 – 24: arrivo di Barnaba, esortazione e successo. vv.
25 – 26 arrivo di Saulo insegnamento e successo. Appendice (v. 26d): nasce la definizione di
cristiani.
La prima missione di anonimi discepoli: pericoloso dilettantismo?
vv. 19 – 21 si riprende con le stesse parole il breve sommario della missione in Samaria e lungo la
costa palestinese per riferire che ora la Parola viene proclamata in Fenicia a Cipro e perfino ad
Antiochia, la metropoli situata sul fiume Oronte, a 35 Km dal mare, nell’attuale Turchia poco
lontana dalla frontiera con la Siria. La diffusione del Vangelo continua senza ostacoli, anzi
ribaltando paradossalmente gli ostacoli e le persecuzioni incontrate in nuove occasioni di
annuncio, sempre più lontano. A questo punto Luca si preoccupa di chiarire che l’annuncio della
Parola era riservato unicamente ai Giudei, come già era avvenuto per la Chiesa di Gerusalemme.
Questa breve annotazione prepara la svolta (v. 20) alcuni giudei provenienti da Cipro e da Cirene,
che erano parte del gruppo dei giudei cacciati da Gerusalemme, incominciano a predicare ai greci,
ossia ai pagani, che “Gesù è il Signore”. Si tratta di una breve formula “kerigmatica” in uso nella
Chiesa pagano cristiana di lingua greca (cfr. Rm 10, 9) e che indica la sovranità di Gesù risorto su
tutta la storia e atteso per la fine dei tempi.
Il successo di questa impresa spontanea è attribuito dal narratore all’azione della mano del
Signore, qui da intendersi come riferimento consueto a Dio (cfr.Ez 40, 1; Lc 1, 66). Tuttavia lo
stesso termine “Signore” viene usato nella stessa frase per indicare colui al quale i pagani credono
e si convertono, ossia Cristo. È evidente allora che qui l’azione provvidenziale di Dio è
cristologizzata. È Cristo che opera con la potenza della sua sovranità, dopo la ascensione al Padre,
per confermare l’azione spontanea di alcuni discepoli e indicare a tutta la Chiesa un modello di
comunicazione del vangelo al passo con i tempi.
È dunque interessante, in questo modello ecclesiale della Chiesa apostolica, come ci sia una
reciprocità tra ministero apostolico e missione spontanea dei discepoli. Pietro era stato il primo
ad annunciare il Vangelo ai pagani su impulso dello Spirito (At 10), poi vi è l’iniziativa dei
discepoli, che appare in un primo momento quasi scollegata. Tuttavia è l’azione stessa di Dio (lo
Spirito nel caso di Pietro e la mano Signore nel caso di discepoli) a garantirne la continuità. Sarà
la presenza di Barnaba ad esplicitare questo legame tra apostolicità e missione dei discepoli.
Barnaba, autorità apostolica e insieme carismatica.
vv. 22 – 24 Così come in 8, 14, avendo saputo dell’evangelizzazione in Samaria, gli apostoli
avevano inviato Pietro e Giovanni, qui la Chiesa di Gerusalemme invia Barnaba ad Antiochia. Egli
giunge e vede la grazia di Dio, che è una conferma del favore divino per questa missione (cfr. At
14, 3). D’altra parte Barnaba è descritto come uomo pieno di fede e di Spirito Santo, dotato
dunque delle lenti giuste per poter osservare l’agire di Dio nella comunità antiochena. Altri due
verbi descrivono la sua azione pastorale: “si rallegrò” e “esortava”. La gioia accompagna sempre la
presenza della grazia di Dio (cfr. charis/chairo), ed è un segno dell’adesione di fede della comunità
o di una singola persona (cfr. At 8, 8. 39). Barnaba sa abbandonarsi alla gioia della fede nel
contemplare i frutti di una missione a cui egli non ha dato inizio in prima persona, di cui non è né il
“padre” né il riferimento insostituibile. Egli in prima istanza non arriva ad Antiochia per imporre
una sua “visione” o per lasciare una qualche “impronta” personale a questa Chiesa, ma
semplicemente per osservare la grazia di Dio, rallegrarsi e infine esortare. Con questo termine si
allude alla funzione di annuncio della Parola non in chiave di prima evangelizzazione, ma di
approfondimento didattico e insieme “profetico” del mistero cristiano. Barnaba, figlio
dell’esortazione (At 4, 36), e profeta (cfr. At 13, 1) è chiamato ad approfondire la fondazione di
questa comunità sulla pietra angolare di Cristo, facendole percorrere un cammino di “mistagogia”,
per approfondire il mistero di quella Parola che gli antiocheni avevano già accolto. Questa azione
di Barnaba porta con se una ulteriore propulsione missionaria della comunità, e nuovi
considerevoli ingressi nella comunità (v. 24).
La comunione resa possibile dal ministero di Barnaba tra la Chiesa madre di Gerusalemme e la
neonata Chiesa di Antiochia, fondata sul discernimento dell’azione dello Spirito nelle iniziative
spontanee dei discepoli, sulla promozione e sull’esortazione è come un moltiplicatore della
potenzialità di questa comunità. Essa lungi dall’esaurire la propria attività all’esterna, appagata
dai suoi risultati, con la guida di Barnaba si abbandona sempre più alla potenza comunicativa
del Vangelo. È interessante la figura di Barnaba. Egli, chiamato a rappresentare le istanze degli
apostoli nella Chiesa di Antiochia, si mostra “profeta e dottore”, in grado di esortare ed
insegnare. Egli partecipa del dono dello Spirito di cui gode questa comunità e si pone a servizio
di esso perché la comunità possa essere sempre più consapevole dell’azione e della volontà di
Dio in essa. Emerge un profilo ecclesiale dell’apostolo che mette in discussione le nostre
tradizionali distinzioni tra “carisma” e “istituzione”.
Barnaba e Paolo modelli di pastorale integrata
vv. 25 – 26. Sospesa in 9, 30 la narrazione riguardante Paolo riprende qui il filo, grazia all’attività
mediatrice di Barnaba. Egli lo trova a Tarso di Cilicia, la sua città natale e lo conduce ad Antiochia.
Anche qui bisogna rendere a Barnaba l’onore della sua apertura di mente, di cuore e della sua
genialità spirituale. Perché andare a chiamare un uomo come Saulo, che a Gerusalemme aveva
fortemente rischiato la vita? In 9, 26 era stato lo stesso Barnaba a presentarlo agli apostoli, che
invece lo evitavano perché ne avevano paura. Anche qui Barnaba, da vero profeta, sa cogliere
l’enorme potenzialità del carisma spirituale di Paolo e al contempo intuisce la possibilità di
metterlo a servizio per la Chiesa di Antiochia, chiesa ricca di carismi e soprattutto di differenze
radicali tra cristiani provenienti dal giudaismo e cristiani provenienti dall’ellenismo. In un tale
laboratorio di fede e missione c’era bisogno di uno che fosse adeguatamente fondato sulla
Scrittura, per comunicare ai greci, che non conoscevano questo patrimonio profetico, il
compimento della Parola di Dio in Cristo. C’era bisogno di un “maestro” riconosciuto, in grado di
“insegnare” insieme a Barnaba alla Chiesa la verità delle Scritture compiuta in Cristo, anche ai
pagani, per completare il disegno formativo della “mistagogia” precedentemente iniziato con
l’esortazione da parte di Barnaba.
Barnaba fornisce un modello innovativo per una spiritualità presbiterale. Egli non solo evita il
rischio di considerarsi unico punto di riferimento della Chiesa di Antiochia e garante dell’azione
dello Spirito. Non solo non azzera tutto ciò che era nato prima che lui arrivasse per ricostruire da
capo secondo la sua volontà. Egli “si rallegra” di ciò che vede e che non è dovuto a lui, si pone a
servizio dell’azione dello Spirito che è già operante e individua gli ulteriori bisogni della
comunità, discernendo la volontà di Dio. A tali bisogni non pensa di dover rispondere solo lui, ma
è in grado di attivare collaborazioni con altri intuendo quali specifici carismi potevano essere
necessari in ordine ai bisogni della comunità. Senza gelosie si mette a lavorare con Saulo di
Tarso, dopo averlo cercato e trovato nella sua città natale.
Koinonìa e missione universale
11, 27 – 30 Un gruppo di profeti viaggia da Gerusalemme fino ad Antiochia. Come abbiamo già
visto per Barnaba si tratta di un carisma che è dono di Dio e non è frutto dell’imposizione delle
mani da parte dell’autorità e la sua parola può avere molti frutti, tra cui incoraggiare nelle prove,
consolare, predire. Il legame tra Gerusalemme e Antiochia non è caratterizzato solo da una
responsabilità ministeriale da parte della Chiesa madre, ma anche da un flusso di carismi, che
arricchiscono Antiochia. La risposta della giovanissima Chiesa di fronte alla profezia di Agabo è la
manifestazione concreta di questa koinonìa, comunione ecclesiale, che si è stabilita con
Gerusalemme. La colletta, di cui Paolo si farà portatore ben oltre i bisogni di questa carestia, è
vista già qui come il dono materiale delle Chiese della gentilità in risposta al dono della fede
ricevuto dalla Chiesa giudeo - cristiana di Gerusalemme (cfr. Rm 15, 25 – 27). Tale colletta viene
consegnata agli “anziani” di Gerusalemme, prima interessante indicazione di un incarico
ministeriale, distinto da quello degli apostoli, a capo della Chiesa madre.
La comunione ecclesiale è un fatto insieme concreto e spirituale, che mostra il disegno di Dio in
atto (giudei e pagani insieme, che fanno della loro differenza un dono reciproco). L’elezione del
popolo di Dio è per i gentili e l’ingresso dei gentili porta a Gerusalemme le ricchezze delle nazioni
(cfr. Is 60, 1 – 5). Tale koinonìa è insieme anche apertura universale della Chiesa, a tutti i tempi e
tutti i luoghi. La Chiesa di Antiochia si mostrerà pronta a donare due dei suoi più autorevoli
membri, Paolo e Barnaba, per una missione che oltrepassa i suoi confini territoriali.
Presbiterio, luogo di profeti e dottori
12, 24 – 25. 13, 1 – 3. Dopo aver narrato l’arresto di Pietro ad opera di Erode e la sua miracolosa
liberazione e la morte di Erode, Luca, con un brevissimo sommario accenna al fatto che la parola di
Dio cresceva e si diffondeva, senza che nessun potere umano potesse ormai ostacolarla. In questo
contesto di persecuzione e di crescita della Parola Paolo e Barnaba avevano compiuto il loro
servizio (diakonìa) verso la Chiesa di Gerusalemme e, avendo preso con se Giovanni Marco,
tornarono ad Antiochia. Questa comunità viene nuovamente descritta da Luca come retta da
profeti e dottori. Preghiera collettiva e digiuno sono la modalità con cui la Chiesa si pone in
comunicazione con Dio per fare la Sua volontà ed è in questo contesto che interviene nuovamente
lo Spirito Santo, che designa Paolo e Barnaba per l’opera alla quale sono stati chiamati e che il
lettore scoprirà essere la grande opera di evangelizzazione delle genti.
La conoscenza e la profezia sono due polarità entrambe necessarie e spesso compresenti in
ciascuno di questi leader della comunità antiochena. Infatti una conoscenza senza profezia
manca di orecchi per ascoltare le indicazioni concrete e spesso improvvise dello Spirito. Ma
anche una profezia senza conoscenza è pericolosa, perché rischia di perdere di vista il disegno
complessivo della missione ecclesiale connessa alla profondità del mistero di Cristo attestato
dalle Scritture. Profondità di visione e capacità di intuire i passi concreti da fare e le persone da
promuovere: questo è mix che la polarità di profeti e dottori può assicurare ad una Chiesa in
cammino.
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