Utet Giuridica - La Responsabilità Civile

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CAPITOLO I
DANNO, ILLECITO E RISARCIMENTO
Principi
L’illecito configura concetto trasversale, capace di lambire tanto gli
istituti ancorati al diritto prettamente civile, quanto quelli tipicamente
penali ovvero collocati nel territorio del c.d. «diritto amministrativo».
Pur operando in settori alquanto differenti, ambito civile, ambito
penale e ambito amministrativo condividono la struttura (tripartita)
che li caratterizza: tutti e tre possono esser, infatti, ontologicamente
scomposti in fatto materiale, antigiuridicità e colpevolezza.
L’illecito civile è normativamente previsto agli artt. 2043 e 1218 c.c. e
implica, in entrambi i casi, responsabilità civile: responsabilità extracontrattuale nel caso dell’art. 2043 c.c.; responsabilità contrattuale, per
inadempimento o ritardata esecuzione, nel caso dell’art. 1218 c.c.
Sommario: 1.1. L’illecito in generale. - 1.1.1. (Segue). L’illecito amministrativo. - 1.2. La normativa. - 1.2.1. (Segue). Normativa concernente l’illecito
amministrativo. - 1.3. L’illecito ha sempre struttura tripartita? - 1.4. Illecito
civile e danno risarcibile. - 1.4.1. (Segue). Fatto tipico e offesa in ambito
penale. - 1.5. Trasversalità strutturali necessitate nei diversi ambiti d’illecito.
- 1.6. Le lacune del diritto civile e la responsabilità oggettiva quale momento
di necessitata trasversalità – l’esempio di dolo, colpa e nesso eziologico. 1.6.1. (Segue). La responsabilità oggettiva quale istituto consueto nella dogmatica penalistica. - 1.6.2. (Segue). Conclusioni.
Casistica
COLPA PROFESSIONALE – In tema di colpa
professionale, il Tribunale di Bologna ha
statuito che il concreto e personale espletamento di attività medico-terapeutica da
parte del sanitario comporta sempre l’assunzione diretta della posizione di garanzia
nei confronti del paziente, sicché su di lui in-
combe l’obbligo della osservanza delle leges artis, che hanno per fine la prevenzione
del rischio non consentito ovvero dell’aumento del rischio. Gli eventi traumatici
esterni ai profili di colpa del sanitario possono incidere sul nesso eziologico sussistente
tra l’omissione e l’evento cagionatosi. Tut–
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1.1
Capitolo I
sale, che tuttavia si inserivano nell’alveo di
una situazione (progressivo scompenso psichico del malato) già determinatasi a cagione del comportamento dell’agente. Eventi
che il professionista avrebbe dovuto conoscere e sulla base dei quali avrebbe avuto
l’obbligo di commisurare l’adeguatezza del
suo intervento terapeutico (Trib. Bologna 25
novembre 2005, RIML, 2006, 3, 697).
tavia, rispetto alla condotta oggetto di incolpazione, deve ritenersi che questi fattori abbiano agito solo come concause, da sole
non sufficienti a determinare l’evento. Deve,
infatti, applicarsi, in questa materia, il principio giuridico dell’equivalenza delle cause,
secondo il quale il nesso causale può escludersi solo se si verifichi una causa autonoma e successiva, rispetto alla quale la precedente sia da considerare tamquam non
esset; mentre tale nesso non può essere
escluso allorquando la causa successiva
abbia soltanto accelerato la produzione dell’evento. Nel caso di specie, non si trattava
di cause sopravvenute eccezionali, tali da
interrompere il nesso causale tra la condotta colposa e l’evento dannoso, bensı̀ di
eventi, dotati di una rilevante incidenza cau–
RESPONSABILITÀ DEL SORVEGLIANTE – Per
la responsabilità del sorvegliante dell’incapace, è necessario che il fatto di quest’ultimo, escluso l’elemento psicologico, presenti tutte le caratteristiche di antigiuridicità, di
modo che, se fosse assistito da dolo o colpa, integrerebbe un fatto illecito (Cass. 26
giugno 2001, n. 8740, FI, 2001, I, 3098).
1.1. L’illecito in generale
Legislazione c.c. 2043
Bibliografia Antolisei 2000
Risulta impossibile, qualora s’intenda affrontare il problema a ragion
veduta, discutere di responsabilità oggettiva (o semi-oggettiva) senza
aver prima correttamente collocato l’istituto de quo nell’ambito del risarcimento tout court; e risulta, parimenti, improponibile ragionare in
termini di «risarcimento» senza precedentemente aver almeno abbozzato lo stato dell’arte, attuttoggi esistente nel nostro ordinamento giuridico, in ambito di illecito.
Storicamente, infatti, l’illecito configura concetto trasversale, capace
di lambire tanto gli istituti ancorati al diritto prettamente civile, quanto
quelli tipicamente penali ovvero collocati nel territorio del c.d. «diritto
amministrativo».
A tal proposito, in effetti, l’illecito civile, l’illecito penale e l’illecito amministrativo nascono finalizzati alla realizzazione di ben distinti obiettivi: mentre, a ben vedere, attraverso l’istituto dell’illecito civile l’ordinamento intende tutelare la persona attraverso la riparazione complessiva del danno subito (da interessi privati), l’illecito penale individua
violazioni dell’ordine generale, violazioni di tale gravità da richiedere
un intervento statale, diretto alla punizione del colpevole.
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1.1
Danno, illecito e risarcimento
«Il fallimento delle teorie che sono state enunciate per distinguere il
torto penale da quello civile, induce a concludere che una diversità sostanziale non esiste. La distinzione è puramente estrinseca e legale: il
reato è il torto sanzionato mediante la pena; l’illecito civile è quello che
ha per conseguenza le sanzioni civili (risarcimento, restituzioni, ecc.).
Insomma, è la natura della sancito juris quella che consente di stabilire
se ci troviamo di fronte all’una o all’altra specie di torto.
Ciò non significa che la distinzione dipenda esclusivamente dall’arbitrio
del legislatore. La scelta della sanzione, infatti, non avviene per puro
capriccio, ma in base al criterio che più sopra abbiamo enunciato: la
pena, essendo una sanzione onerosa anche per la comunità sociale,
non viene adottata, se non quando i reggitori dello Stato ritengono che
non se ne possa fare a meno; mentre, come già osservato, rispetto al
risarcimento del danno essa presenta i caratteri della personalità, della
necessaria determinatezza del precetto e della riserva di legge»
(Antolisei 2000, 98).
Naturalmente, si danno ipotesi fattuali concrete, quale ad esempio l’omicidio, ove lo Stato riscontra l’esigenza di tutelare entrambi gli interessi, sia quello eminentemente pubblico e diretto alla punizione del
colpevole (funzione sanzionatoria del diritto penale), sia quello meramente privatistico e diretto all’ottenimento del risarcimento (funzione
reintegratoria e riparatoria del diritto civile):
«in tema di danno biologico, richiesto ‘‘iure hereditatis’’ (ma il discorso è
identico per la richiesta di danno da perdita del diritto alla vita, detto
anche danno tanatologico), la lesione dell’integrità fisica con esito letale,
intervenuto immediatamente o a breve distanza di tempo dall’evento
lesivo, non è configurabile quale danno biologico, dal momento che la
morte non costituisce la massima lesione possibile del diritto alla salute,
ma incide sul diverso bene giuridico della vita, la cui perdita, per il
definitivo venir meno del soggetto, non può tradursi nel contestuale
acquisto al patrimonio della vittima di un corrispondente diritto al risarcimento, trasferibile agli eredi, non rilevando in contrario la mancanza di
tutela privatistica del diritto alla vita (peraltro protetto con lo strumento
della sanzione penale), attesa la funzione non sanzionatoria ma di reintegrazione e riparazione di effettivi pregiudizi svolta dal risarcimento del
danno, e la conseguente impossibilità che, con riguardo alla lesione di un
bene intrinsecamente connesso alla persona del suo titolare e da questi
fruibile solo in natura, esso operi quando tale persona abbia cessato di
esistere»
(Cass. 16 maggio 2006, n. 7632, GI, 2004, 495).
Ulteriormente, in argomento, si confronti la seguente recentissima pronuncia, riguardante la liquidazione dei danni (derivante da illecito extracontrattuale) in fattispecie configurante il reato di diffamazione a
mezzo stampa:
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1.1.1
Capitolo I
«in sede di definitiva liquidazione dei danni derivanti da un illecito extracontrattuale (nella specie, diffamazione a mezzo stampa) il giudice, anche d’ufficio, deve tenere conto dell’eventuale avvenuto riconoscimento,
in sede penale, di una somma a titolo di provvisionale, dovendosi applicare un regime giuridico sostanzialmente coincidente con quello relativo
all’imputazione degli acconti versati nel corso del procedimento civile in
favore dei danneggiati. Non rileva, tuttavia, ai fini della detraibilità della
provvisionale, l’effettiva riscossione o meno della medesima, avendo la
sentenza penale che la dispone efficacia di titolo esecutivo del quale il
danneggiato può avvalersi per conseguire coattivamente il pagamento
spettatogli»
(Cass., sez. III, 24 marzo 2011, n. 6739, GCM, 2011, 3, 455).
1.1.1. (Segue). L’illecito amministrativo
Legislazione c.p.p. 444, 445
Bibliografia Sandulli 1993 - Casetta 1999 - Virga 2001
Anche per il c.d. illecito amministrativo è la natura della sanctio juris
quella che consente di stabilire se ci troviamo di fronte o meno ad un
illecito di tal fatta; manca, infatti, un criterio sicuro per discriminare
l’illecito amministrativo rispetto all’illecito penale (o a quello civile),
essendo rimesso all’apprezzamento discrezionale del legislatore stabilire, ad esempio, se un «reato minore» debba o meno qualificarsi illecito amministrativo e quindi sia o meno da punire con una sanzione
amministrativa:
«le violazioni degli obblighi imposti o dalla legge o dall’ordine amministrativo esecutorio sono punite, oltre che con sanzioni penali (per i casi
più gravi), con misure afflittive irrogate dalla stessa autorità amministrativa e a conclusione di un procedimento amministrativo. Sanzioni amministrative sono previste da parecchie leggi (polizia urbana, urbanistica ed
edilizia, previdenza ed assistenza obbligatoria, polizia valutaria, tutela del
lavoro, tutela dell’ambiente, igiene degli alimenti e delle bevande, tec).
Nella più recente legislazione si è accentuata la tendenza alla depenalizzazione e cioè molte infrazioni, che precedentemente erano sanzionate
penalmente, sono ora punite con sanzioni amministrative»
(Virga 2001, 107-108).
Naturalmente, anche qui si danno ipotesi fattuali dove più tipologie di
illecito coesistono, a fronte di un’unica fattispecie concreta; a riprova, si pensi come, allorché i fatti addebitati costituiscano, al contempo,
un illecito penale ed un illecito amministrativo, in forza del principio di
sostanziale separazione del giudizio penale da quello amministrativo, il
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1.2
Danno, illecito e risarcimento
Giudice contabile possa desumere utili elementi di valutazione dalla
sentenza penale, ai fini della autonoma pronuncia da rendere in tema
di responsabilità:
«la sentenza di condanna penale a seguito di patteggiamento, ai sensi
dell’art. 444 c.p.p. – pur essendo una pronuncia ‘‘sui generis’’, atipica e
non catalogabile secondo schemi giuridici tradizionali e solo a limitati
effetti equiparabile alla sentenza di condanna (contestazione della recidiva, abitualità, iscrizione nel casellario giudiziale, ecc.) – comporta, quale effetto consequenziale ex art. 445, comma 1, c.p.p., che, anche se
pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, non possa esplicare efficacia di giudicato nei giudizi civili o amministrativi; ciò non impedisce,
tuttavia, in forza del principio di sostanziale separazione del giudizio
penale da quello amministrativo, che il Giudice contabile possa desumere
utili elementi di valutazione ai fini della autonoma pronuncia da rendere
in tema di responsabilità soprattutto allorché i fatti addebitati possono
costituire, al contempo, un illecito penale ed un illecito amministrativo»
(Corte dei Conti, reg. Trentino Alto Adige, sez. giurisd., 31 dicembre 2007, n. 56,
RCC, 2007, 6, 173).
1.2. La normativa
Legislazione c.c. 1218, 2043 - c.p. 1, 2, 5
Bibliografia Scognamiglio 1962 - Bettiol 1982 - Crespi, Stella e Zuccalà 1992 Antolisei 2000 - Padovani 2006
L’illecito civile è normativamente previsto agli artt. 2043 e 1218 c.c. e
implica, in entrambi i casi, responsabilità civile: responsabilità extracontrattuale nel caso dell’art. 2043 c.c.; responsabilità contrattuale, per
inadempimento o ritardata esecuzione, nel caso dell’art. 1218 c.c.
Uno stesso fatto, peraltro, può generare entrambe le tipologie di
responsabilità; in tali casi è consentito al danneggiato di agire, cumulativamente) sia ex art. 1218 c.c., sia ex art. 2043 c.c.,
«il principio della cumulabilità, nel nostro ordinamento, dei due tipi di
responsabilità (contrattuale ed extracontrattuale) da illecito civile è legittimamente invocabile quando uno stesso fatto autonomamente generatore di danno integri gli estremi tanto dell’inadempimento contrattuale
(art. 1218 c.c.), quanto del torto aquiliano – art. 2043 c.c. – (come nel
caso, ad esempio, delle lesioni subite dal lavoratore per inosservanza di
norme anti infortunistiche)»
(Cass. 25 luglio 2006, n. 16937, GCM, 2006, 7-8)
anche al fine di opportunamente sfruttare i vantaggi offerti ora dall’una, ora dall’altra delle due diverse azioni:
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1.2
Capitolo I
«il principio secondo cui gli interessi sulle somme di denaro, liquidate a
titolo risarcitorio, decorrono dalla data in cui il danno si è verificato, è
applicabile solo in tema di responsabilità extracontrattuale da fatto illecito, in quanto, ai sensi dell’art. 1219, comma 2, c.c., il debitore del
risarcimento del danno è in mora (mora ex re) dal giorno della consumazione dell’illecito. Invece, se l’obbligazione risarcitoria derivi da inadempimento contrattuale, gli interessi decorrono dalla domanda giudiziale, che è l’atto idoneo a porre in mora il debitore, siccome la sentenza
costitutiva, che pronuncia la risoluzione, produce i suoi effetti retroattivamente dal momento della proposizione della detta domanda»
(Cass., sez. III, 20 aprile 2009, n. 9338, GCM, 2009, 4, 646).
L’illecito penale è, al contrario, soggetto al c.d. principio di legalità,
sicché nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge (art. 1 c.p.); tale principio non può
essere scalfito neppure da orientamenti normativi eventualmente
espressi in sede comunitaria:
«l’obbligo del giudice di interpretare il diritto nazionale conformemente
al contenuto delle decisioni quadro adottate nell’ambito del titolo VI del
trattato sull’Unione europea non può legittimare l’integrazione della norma penale interna quando una simile operazione si traduca in una interpretazione ‘‘in malam partem’’. (In applicazione di tale principio, la
Corte ha escluso che la disciplina in tema di confisca contenuta nella
decisione-quadro del Consiglio dell’Unione Europea 2005/212/GAI del 24
febbraio 2005 possa essere utilizzata per estendere la confisca per equivalente di cui all’art. 322 ter, comma 1, c.p. anche al profitto del reato)»
(Cass. pen., Sez. U., 25 giugno 2009, n. 38691, CP, 2010, 1, 90, con nota di Manes;
CED Cass. pen., 2009, rv. 244191).
Il principio di stretta legalità, vigente in diritto penale, in effetti,
impone al giudice, tra l’altro, di attenersi alla precisa dizione della norma incriminatrice, senza indulgere a interpretazioni analogiche e, ove la
norma del tutto chiara non sia, di attenersi all’interpretazione giurisprudenziale imperante, che la abbia esplicitata (nella fattispecie descritta
nella pronuncia che segue, relativa ad annullamento senza rinvio, perché il fatto non costituisce reato, di sentenza di condanna per avere
l’imputato effettuato scarichi dai servizi civili, in un fosso adiacente alla
propria fabbrica senza avere richiesto la prescritta autorizzazione, la
Suprema Corte ha osservato che la coincidenza dell’epoca dell’accertamento dello scarico con quella del mutamento della giurisprudenza imperante, che non richiedeva l’autorizzazione, avrebbe imposto come
soluzione obbligata l’assoluzione dell’imputato, la quale, oltreché, dettata dall’articolo 5 del codice penale, nella lettura fattane dalla corte
costituzionale, è suggerita prima ancora, dal principio di stretta legalità),
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1.2.1
Danno, illecito e risarcimento
«ad evitare diverse interpretazioni che espongano il cittadino a responsabilità di maggior contenuto a quelle cui il cittadino medesimo, in base
al principio di cui all’art. 1 c.p., era espressamente chiamato dalla norma
incriminatrice e dalla giurisprudenza al riguardo»
(Cass. pen. 6 ottobre 1993, MCP, 1994, 6, 63; GP, 1995, II, 43).
In ossequio ai diversi obiettivi perseguiti, è assolutamente pacifico e
noto come possano aversi reati (e quindi illeciti penali) non implicanti
illecito civile, cosı̀ come esistano svariate ipotesi di responsabilità civile
non previste dalla legge quali reati; per contro, spesso una stessa fattispecie viene a costituire illecito sia civile che penale, pur mantenendo ognuna delle due connotazioni giuridiche la propria autonomia:
«la revoca della sentenza di condanna perabolitio criminis (art. 2 comma 2 c.p.) – conseguente alla perdita del carattere di illecito penale del
fatto – non comporta il venir meno della natura di illecito civile del
medesimo fatto, con la conseguenza che la sentenza non deve essere
revocata relativamente alle statuizioni civili derivanti da reato, le quali
continuano a costituire fonte di obbligazioni efficaci nei confronti della
parte danneggiata»
(Cass. pen. 20 dicembre 2005, n. 4266, CED Cass. pen., 2006, rv. 233598).
1.2.1. (Segue). Normativa concernente l’illecito amministrativo
Legislazione l. 24 novembre 1981, n. 689
Bibliografia Virga 2001
Quanto all’illecito amministrativo, occorre far riferimento alla l. 24 novembre 1981, n. 689 (modificata con d.lg. 30 dicembre 1999, n. 507), la
quale detta i principi dell’illecito amministrativo, di norma mutuandoli
dal diritto penale.
Copiosa, in tal ambito, la giurisprudenza che reputa fondamentale, in
materia di sanzioni amministrative, la l. 24 novembre 1981, n. 689 (l.
689/1981, modificata dal d.lg. 30 dicembre 1999, n. 507), normativa che
ha anche fissato i principi cardine in materia di illecito amministrativo:
«tali principi sono stati in parte mutuati dalla disciplina che il codice
penale detta per l’illecito penale e quindi trovano applicazione per le
sanzioni amministrative il principio di legalità (nel senso che le sanzioni
amministrative possono essere previste solo dalla legge), il principio di
imputabilità (nel senso che è necessaria la coscienza e volontà dell’azione
e dell’omissione), il principio di giustificazione (nel senso che costituiscono esimenti l ostato di necessità o la legittima difesa), la estinzione
dell’obbligazione per decesso del trasgressore)»
(Virga 2001, 108).
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1.2.1
Capitolo I
Per un esempio applicativo, si veda la seguente pronuncia, in tema di
principio di specialità, ove, sulla base dell’enunciato principio, la Suprema Corte ha ritenuto che, in materia di etichettatura di prodotti fitosanitari da immettere sul mercato, le omissioni sugli imballaggi ed i contenitori dei prodotti delle indicazioni prescritte dall’art. 16, d.lg. 17 marzo 1995, n. 194, integranti l’illecito amministrativo punito dall’art. 26, 2º
co., dello stesso decreto, siano del tutto estranee alla norma penale che
concerne la commercializzazione dei prodotti senza autorizzazione, sicché non si possa legittimamente invocarsi, in relazione alle due condotte, l’applicazione del principio di specialità:
«in tema di sanzioni amministrative, l’operatività del principio di specialità dettato dall’art. 9, comma 3, l. 24 novembre 1981 n. 689 – il quale
prevede, nel testo sostituito ad opera dell’art. 95 d.lg. 30 dicembre 1999
n. 507, che ai fatti puniti dall’art. 5 (e dagli art. 6 e 12) l. 30 aprile 1962 n.
283 si applicano soltanto le sanzioni penali, anche quando i fatti stessi
sono puniti con sanzioni amministrative previste da disposizioni speciali
in materia di produzione, commercio ed igiene degli alimenti e delle
bevande – postula che la violazione amministrativa in astratto contestabile costituisca un elemento del fatto-reato, essendone parte integrante»
(Cass. 7 luglio 2009, n. 15956, GCM, 2009, 7-8),
o anche la seguente, in ambito di elemento soggettivo, ove la Suprema
Corte ha confermato la sentenza di merito, che aveva escluso la configurabilità dell’esimente della buona fede, in capo ad un cacciatore, che
era stato sorpreso dal guardiacaccia dopo l’abbattimento di alcuni capi,
avendo già provveduto all’annotazione di essi sulla scheda nominativa
rilasciatagli dalla Regione, ma non ancora alla distinta ed altresı̀ prescritta annotazione di essi nell’apposito tesserino regionale dei capi abbattuti, essendo terminato il recupero dei capi da un lasso di tempo – quindici
o venti minuti – ritenuto significativo e comunque sufficiente a consentire l’annotazione:
«in tema di sanzioni amministrative, ai sensi dell’art. 3 della legge n. 689
del 1981, per le violazioni colpite da sanzione amministrativa è necessaria
e al tempo stesso sufficiente la coscienza e volontà della condotta attiva o
omissiva, senza che occorra la concreta dimostrazione del dolo o della
colpa, giacché la norma pone una presunzione di colpa in ordine al fatto
vietato a carico di colui che lo abbia commesso, riservando poi a questi
l’onere di provare di aver agito senza colpa. Ne deriva che l’esimente
della buona fede, applicabile anche all’illecito amministrativo disciplinato
dalla legge n. 689 del 1981, rileva come causa di esclusione della responsabilità amministrativa – al pari di quanto avviene per la responsabilità
penale, in materia di contravvenzioni – solo quando sussistano elementi
positivi idonei a ingenerare nell’autore della violazione il convincimento
della liceità della sua condotta e risulti che il trasgressore abbia fatto
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1.3
Danno, illecito e risarcimento
tutto quanto possibile per conformarsi al precetto di legge, onde nessun
rimprovero possa essergli mosso»
(Cass. 11 giugno 2007, n. 13610, GCM, 2007, 6; conforme alla prima parte della
massima: Cass. 12 maggio 2006, n. 11012; Cass. 28 aprile 2006, n. 9862).
Naturalmente, quanto invece alla domanda di risarcimento dei danni
vera e propria, essa è, anche nel processo amministrativo, regolata dal
principio dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c., in base al quale
chi vuole far valere un diritto in giudizio deve indicare e provare i fatti
che ne costituiscono il fondamento; grava, quindi, sul danneggiato l’onere di allegare e provare gli elementi costitutivi della domanda di risarcimento del danno per fatto illecito (danno, nesso causale e colpa).
La presenza di un danno risarcibile e la condanna al suo risarcimento
non sono, infatti, una conseguenza automatica e costante dell’annullamento giurisdizionale del provvedimento e richiedono la positiva verifica, oltre che della lesione della situazione soggettiva di interesse tutelata dall’ordinamento, della sussistenza della colpa e del dolo dell’Amministrazione e del nesso causale tra l’illecito e il danno subito.
In particolare, poi, il risarcimento del danno conseguente a una lesione
di interesse legittimo pretensivo è subordinato, pur in presenza di tutti i
requisiti dell’illecito aquiliano (condotta, colpa, nesso di causalità ed
evento dannoso), all’effettiva dimostrazione che l’aspirazione al provvedimento sia in concreto destinata ad avere esito favorevole, quindi all’avvenuta e concludente dimostrazione della spettanza definitiva e ragionevolmente certa, mediante il corretto sviluppo dell’azione amministrativa, del bene sostanziale della vita collegato a un tale interesse, e
comunque fermo l’ambito proprio della discrezionalità amministrativa.
1.3. L’illecito ha sempre struttura tripartita?
Legislazione c.c. 1218, 2043 - c.p. 1, 2, 5 - l. 24 novembre 1981, n. 689
Bibliografia Trimarchi 1970 - Franzoni 1993 - Antolisei 2000 - Padovani 2006 Trabucchi 2006
Pur operando in settori alquanto differenti, ambito civile per l’illecito
civile, ambito penale per l’illecito penale, ambito amministrativo per
l’illecito amministrativo, i tre istituti condividono peraltro – tranne che
per quanto si dirà in relazione al danno – la struttura (tripartita) che li
caratterizza: tutti e tre possono esser, infatti, ontologicamente scomposti
in fatto materiale (od oggettivo: nel diritto penale ed in quello amministrativo, il c.d. fatto tipico), antigiuridicità e colpevolezza.
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1.3
Capitolo I
«Modernamente si usa distinguere nell’analisi dell’atto illecito il fatto
materiale, l’antigiuridicità e la colpevolezza»
(Trabucchi 2006, 109).
«La teoria tripartita succede storicamente alla teoria bipartita classica.
Sviluppatasi in Germania all’inizio del secolo, fu recepita in Italia negli
anni trenta (soprattutto ad opera di G. Delitalia). Essa distingue nel reato
tre componenti fondamentali: il fatto tipico, l’antigiuridicità obiettiva e la
colpevolezza»
(Padovani 2006, 154).
L’evidente similitudine strutturale permette all’interprete di chiedersi se i
tre elementi che compongono i diversi illeciti siano suscettibili di sovrapposizione in identici paradigmi giuridici; se, cioè, ad esempio, il fatto materiale componente l’illecito civile possa esser spiegato ricorrendo alla teoria
del fatto tipico elemento del reato; se la colpevolezza sia un unico concetto
utilizzabile sia in ambito di illecito civile che in ambito di illecito penale ed
amministrativo; se l’antigiuridicità civilistica coincida o meno (ed, eventualmente, in che termini) con l’antigiuridicità obiettiva di penalistica matrice.
Un tanto, ovviamente, senza voler affermare identità di istituti, bensı̀, al
contrario, con la consapevolezza degli ontologici motivi di difformità,
naturalmente conseguenti alle diverse finalità perseguite dai distinti
tipi di illecito; si pensi, soprattutto, alla tipicità che contraddistingue
l’illecito penale (e quello amministrativo) e alla struttura, all’opposto,
atipica, che contraddistingue il neminem laedere civilistico:
«L’art. 2043 c.c. non presuppone la commissione di un illecito penale o
tipizzato per valutare una condotta che abbia provocato un danno ingiusto, ma si accontenta di una valutazione complessiva della portata lesiva
della condotta che si assume negligente (in quanto non conforme a
norme, regolamenti, e regole deontologiche e/o di buona fede contrattuale) tenuta dall’agente, essendo esso un illecito a struttura atipica,
posto a garanzia del principio solidaristico del ‘‘neminem laedere’’, per
il quale non prevalgono le garanzie insite nell’ordinamento penale ai fini
della prova della colpevolezza, ma s’impone solo la produzione di una
prova rigorosa degli elementi posti a fondamento della domanda risarcitoria in capo a chi assume di avere ricevuto un danno ingiusto per un
altrui fatto colposo o doloso»
(Trib. Milano 14 febbraio 2004, GMil, 2004, 155).
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1.4
Danno, illecito e risarcimento
1.4. Illecito civile e danno risarcibile
Legislazione c.c. 2043
Bibliografia Sandulli 1990 - Crespi, Stella e Zuccalà 1992 - Cendon e Ziviz 2003 Trabucchi 2006
Un’unica differenza strutturale sembra distinguere l’illecito civile dagli
illeciti penale ed amministrativo: mentre, invero, l’illecito civile si completa e si contraddistingue per esser produttivo di danno (art. 2043
c.c.: «Qualunque fatto ... che cagiona ad altri un danno ingiusto ...»),
dove il danno è offesa che necessariamente deve seguire il fatto illecito e
giammai può in essa contenersi, pena lo snaturamento dell’istituto aquiliano,
«un modello nel quale il rimedio risarcitorio viene disancorato da qualsiasi considerazione dei riflessi negativi a carico della vittima porta, infatti, ad un inevitabile snaturamento dell’istituto aquiliano; la rinuncia a
transitare attraverso una nozione di danno distinta dall’illecito spinge,
infatti, verso un allargamento ingovernabile dei confini del danno risarcibile.
Né tale problema può essere aggirato attraverso l’introduzione di un filtro
selettivo, costituito dalla rilevanza costituzionale dell’interesse leso. Proprio dalle applicazioni giurisprudenziali emerge, infatti, la tendenza a
ravvisare la violazione di un interesse protetto a livello costituzionale
qualunque sia il genere di torto in questione; le corti pervengono, cioè,
all’individuazione (o, meglio, vera e propria creazione) di diritti soggettivi
aventi rilevanza costituzionale al solo scopo di assicurare alla vittima il
risarcimento di questa nuova voce di danno»
(Cendon e Ziviz 2003, 169),
l’illecito penale e quello amministrativo tendono generalmente ad essere
considerati in sé e per sé offensivi, ritenendo i più che (e ciò è riferito
soprattutto per il diritto penale, ma con affermazioni affatto estendibili
all’illecito amministrativo) l’offesa coincida, in tali ambiti, con il contenuto di disvalore del fatto tipico.
«Impossibilità di distinguere la lesione dell’interesse tutelato dal fatto
conforme al modello legale: poiché ... (omissis) ... l’interesse protetto
si ricava dall’intera struttura della fattispecie legale, ivi compresa ogni
modalità dell’azione, l’oggetto materiale, l’evento naturalistico, situazioni
scriminanti, circostanze, ecc. ..., nonché l’elemento soggettivo, la possibilità di uno sfasamento tra tipicità ed offesa viene ad essere esclusa in
radice; un fatto conforme al tipo è pertanto sempre, per definizione, un
fatti lesivo dell’interesse tutelato»
(Crespi, Stella e Zuccalà 1992, 854).
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1.4.1
Capitolo I
1.4.1. (Segue). Fatto tipico e offesa in ambito penale
Legislazione c.c. 1218, 2043 - c.p. 1, 2, 5, 482, 624 - l. 24 novembre 1981, n. 689
Bibliografia Scognamiglio 1962 - Bettiol 1982 - Crespi, Stella e Zuccalà 1992 Antolisei 2000 - Mantovani 2001 - Padovani 2006 - Trabucchi 2006
In verità, anche nel moderno diritto penale (non invece, nell’ambito
amministrativo, ove la funzione soprattutto preventiva delle previsioni
d’illecito, nonché l’assenza di sanzioni che intacchino la libertà delle
persone, paiono consentire – e legittimare – l’esistenza di illeciti amministrativi punibili in assenza di offesa concretamente riscontrabile), letto
alla luce dei principi costituzionali, emerge sempre più l’importanza di
considerare come entità distinte il fatto tipico e l’offesa, ponendosi
il problema dell’eventuale frattura, riscontrabile in concreto, fra la tipicità formale (integrata compiutamente dal fatto tipico) e la sua offensività sostanziale:
«cosı̀, ad esempio, Tizio falsifica una carta d’identità in modo cosı̀ grossolano che nessuno potrebbe mai essere ingannato; Caio si impossessa di un
comune tappo di bottiglia di birra per soddisfare una risibile mania collezionistica. In queste ipotesi, il fatto corrisponde formalmente alla previsione,
rispettivamente, degli artt. 482 e 624 c.p., ma non implica alcuna possibilità
di offesa per l’interesse protetto: la pubblica fede non è compromessa da un
documento che chiunque riconoscerebbe per falso; il patrimonio non è leso
dalla sottrazione di una cosa priva di significato economico»
(Padovani 2006, 352).
Oltre a qualificata dottrina (Mantovani 2001; Neppi Modona 1996), anche la giurisprudenza inizia a determinarsi nel senso sopra descritto,
trovando idoneo appiglio normativo nel 2º co. dell’art. 49 c.p., disciplinante il reato impossibile:
«l’inidoneità dell’azione che rende impossibile il verificarsi dell’evento
dannoso o pericoloso (con la conseguente non punibilità del fatto ai sensi
dell’art. 49 comma 2 c.p.) va accertata alla stregua delle circostanze
obiettive del caso concreto, secondo un giudizio ‘‘ex post’’, poiché l’art.
49 comma 2 c.p. afferma il principio dell’offensività del reato per cui non
è punibile, ma eventualmente può dar luogo alla misura di sicurezza, il
comportamento conforme alla fattispecie legale penale che tuttavia non
manifesti obiettivamente, nel caso concreto, l’attitudine causale a ledere
o porre in pericolo il bene giuridico protetto. (Nella fattispecie erano stati
esplosi colpi di pistola contro una persona che si trovava dietro un vetro
antiproiettile)»
(Cass. pen. 15 maggio 1989, GP, 1990, II, 312).
Una scelta, quest’ultima, probabilmente obbligata, per chi intenda rispettare al massimo grado la concezione sostanziale-formale del
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1.5
Danno, illecito e risarcimento
reato adottata dalla Costituzione, ove per la Costituzione italiana è
reato il fatto previsto come tale dalla legge, irretroattivamente, in forma
tassativa, materialmente estrinsecatesi nel mondo esteriore, offensivo di
valori costituzionalmente significativi (o comunque non incompatibili
con la Costituzione), casualmente e psicologicamente attribuibile al soggetto, sanzionato con pena proporzionata, astrattamente, innanzitutto al
valore tutelato e, concretamente, anche alla personalità dell’agente,
umanizzata e tesa alla rieducazione del condannato:
«sempreché la sanzione penale sia necessaria per l’inadeguatezza delle
sanzioni extrapenali a tutelare tali valori. In assenza di certi connotati
formali o sostanziali del reato, la norma incriminatrice è incostituzionale»
(Mantovani 2001, 213).
1.5. Trasversalità strutturali necessitate nei diversi ambiti
d’illecito
Legislazione c.c. 1218, 2043 - c.p. 1, 5, 40, 41 - l. 24 novembre 1981, n. 689
Bibliografia Bettiol 1982 - Franzoni 1993 - Mazzarolli, Pericu, Romano, Roversi
Monaco e Scoca 1998 - Bassi 1998 - Visintini 1998 - Trabucchi 2006
Il parallelismo strutturale tra le diverse tipologie di illecito (ma, in
particolare, tra l’illecito civile e quello penale: cfr. §§ precedenti, 1.4 e
1.4.1) può apparire, a questo punto, completo: fatto tipico, antigiuridicità, colpevolezza e offesa conseguente da una parte (illecito penale);
fatto materiale, antigiuridicità, colpevolezza e conseguente danno dall’altra (illecito civile), con l’avvertenza che, in questo secondo caso, non
sempre risulta di facile percezione la distinzione tra l’evento lesivo interno al fatto materiale e il danno risarcibile conseguente all’illecito (ma
la difficoltà ha la stessa matrice della spesso impercettibile differenza tra
offesa e tipicità, constatata in ambito penale):
«per poter attribuire alla p.a. un addebito di responsabilità da fatto illecito è necessaria la compresenza dell’elemento soggettivo, costituito dalla
colpa o dal dolo dell’agente, e degli elementi oggettivi, individuati in una
condotta posta in essere in violazione di una norma giuridica e in un
danno conseguente qualificabile come ingiusto (contra ius), ossia ledendo una situazione giuridica altrui, e non nell’esercizio di un proprio diritto, nonché un nesso eziologico che leghi il fatto come descritto al
danno. Per rinvenire il collegamento materiale tra condotta ed evento
occorre considerare ed utilizzare gli art. 40 e 41 c.p.: sulla base della
teoria della condicio sine qua non, la condotta risulta causativa dell’evento dannoso qualora si accerti che essa ha posto in essere una condizione senza cui l’evento non si sarebbe verificato; il rapporto di causalità
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1.6
Capitolo I
si ritiene escluso per il sopravvenire di un fatto che, pur non agendo del
tutto indipendentemente dalla condotta del soggetto della cui responsabilità si controverte, giacché altrimenti darebbe luogo ad una serie causale autonoma, si pone come fattore interruttivo della catena causale, in
grado, cioè, di deviare lo sviluppo normale di quest’ultima»
(Cons. St. 8 marzo 2006, n. 1228, DeG, 2006, 14, 102).
Ciò che qui interessa, peraltro, è evidenziare come tanto nel caso di illecito
penale (nonché, effettuati gli opportuni distinguo, amministrativo), quanto
nel caso di illecito civile, l’interprete si trovi a dover confrontarsi con istituti
quali la condotta, il nesso eziologico, l’evento (momenti interni al fatto), il
dolo, la colpa, la responsabilità oggettiva (concetti propriamente attinenti
alla c.d. colpevolezza), l’antigiuridicità, l’offesa conseguente all’illecito: siffatta constatazione autorizza a ricercare se – ed eventualmente in che
termini – tali istituti seguano le medesime regole; se, cioè e più
esplicitamente, le definizioni e la disciplina riguardanti condotta, nesso
eziologico, evento, dolo, colpa, responsabilità oggettiva e antigiuridicità
obiettiva possano ritenersi identiche per tutti e tre i tipi d’illecito de quibus.
1.6. Le lacune del diritto civile e la responsabilità oggettiva quale momento di necessitata trasversalità – l’esempio
di dolo, colpa e nesso eziologico
Legislazione c.c. 2043 - c.p. 40, 41, 43
Bibliografia Virga 2001 - Bonilini e Confortini 2005 - Padovani 2006 - Trabucchi
2006
Dolo, colpa e nesso di causalità rappresentano istituti cardine della
scienza del diritto penale e, come tali, sono disciplinati e definiti nel
codice positivo agli artt. 43, 40 e 41.
«Manca una definizione di colpa nel codice civile, occorre rifarsi all’art.
43, 3º comma del codice penale, secondo cui si ha delitto colposo, o
contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto
dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia,
ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline»
(Bonilini e Confortini 2005, 3519).
«Nel codice civile manca una definizione di nesso di causalità a differenza del
codice penale, il quale disciplina il rapporto di causalità agli artt. 40 e 41»
(Bonilini e Confortini 2005, 3518).
«Come per la colpa manca ne codice civile una definizione di dolo; in
dottrina (per tutti: Cendon, Gaudino, in La responsabilità civile, a cura di
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1.6
Danno, illecito e risarcimento
Alpa e Bessone, I, in Giur. Sist. Bigiavi, Torino, 1987, 79) si ritiene che
occorra rifarsi alla definizione dell’art. 43 c.p., secondo cui il delitto è
doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che
è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere
l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione»
(Bonilini e Confortini 2005, 3527).
Il codice penale, in effetti, espressamente fornisce definizione e disciplina relativamente agli istituti del dolo, della colpa e del nesso di causalità: non altrettanto esplica il codice civile, autorizzando (e forse imponendo) all’interprete civilista di ricercare compiuti elementi, atti a
risolvere le inevitabili problematiche connesse a tali concetti giuridici,
nella più fornita normativa e dogmatica penale.
Per quanto concerne l’ambito amministrativo (e il parallelo con l’ambito
penale), si rimanda a quanto affermato nel § 1.2.1.
Si vedano, all’uopo e ad esempio, le seguenti sentenze, ove sia la Corte
di Cassazione Penale, sia la Corte di Cassazione Civile affermano il
medesimo principio comportante unitarietà concettuale riferita agli
istituti in esame; la prima in ambito di responsabilità di dipendente della
pubblica amministrazione,
«il dipendente della P.A., sia esso impiegato od ausiliario, risponde direttamente nei confronti dei terzi per i danni derivati dal fatto illecito,
oltreché in caso di dolo, solo per colpa grave. Tale limitazione è operante
anche quando l’illecito costituisce al tempo stesso una fattispecie di reato
non essendo ammissibile ritenere che nel nostro ordinamento la violazione colposa della legge penale implichi sempre colpa grave. Il concetto di
colpa, infatti, è unitario con la conseguenza che, sia in penale sia in civile,
trovano applicazione le distinzioni tra colpa lieve, lievissima e grave,
fermo restando che, in mancanza di disposizioni capaci di fornire criteri
discretivi, tra l’altro di difficilissima formulazione per il variegato atteggiarsi della realtà, è rimasto al prudente apprezzamento del giudice stabilire di volta in volta il grado di colpa sussistente nella fattispecie»
(Cass. pen. 19 giugno 1978, GP, 1979, 113, II);
la seconda, riguardante la prevenzione degli infortuni sul lavoro:
«in materia di prevenzione degli infortuni, l’art. 1 d.p.r. 27 aprile 1955 n.
547, richiamato dal capo I d.p.r. 7 gennaio 1956 n. 164, allorquando parla
di lavoratori subordinati e di soggetti ad essi equiparati non intende
individuare in costoro i beneficiari della normativa antinfortunistica, ma
ha solo la finalità di definire l’ambito di applicazione di detta normativa,
ossia di stabilire in via generale, quali siano le attività assoggettate all’osservanza di essa; ne consegue che, ove un infortunio si sia verificato
per inosservanza degli obblighi di sicurezza normativamente imposti, tale
inosservanza dovrà far carico, a titolo di colpa specifica ex art. 43 c.p., su
chi (appaltatore o direttore dei lavori) detti obblighi avrebbe dovuto
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1.6
Capitolo I
rispettare, a nulla rilevando che ad infortunarsi sia stato un lavoratore
dipendente, un soggetto ad esso equiparato od una persona estranea
all’ambito imprenditoriale, purché sia ravvisabile il nesso causale tra l’infortunio e l’accertata violazione»
(Cass. 20 luglio 2002, n. 10641, GCM, 2002, 1300).
Quest’ultima, ulteriormente, costantemente afferma che il giudice di
merito, per stabilire se sussista il nesso di causalità materiale – richiesto dall’art. 2043 c.c. in tema di responsabilità extracontrattuale –
tra un’azione o un’omissione ed un evento deve applicare il principio
della conditio sine qua non, temperato da quello della regolarità causale, sottesi agli artt. 40 e 41 c.p. (nella pronuncia che segue, ad esempio, la Suprema Corte, sulla scorta di tale principio, ha confermato la
sentenza di merito impugnata con la quale era stato ritenuto – con
riguardo ad un giudizio di responsabilità extracontrattuale a carico dell’appaltatore e dell’esecutore dei lavori relativi alla posa in opera di una
porta in ferro di un garage che si era sganciata dai sostegni che la
reggevano per il difettoso sistema di apertura ed aveva travolto, causandone la morte, una signora – che se un soggetto costruisca o sistemi una
porta in modo che si scardini e produca un danno per il semplice fatto di
venire aperta, la serie causale riconducibile a tale soggetto non rimane
interrotta dal comportamento della vittima che, pur consapevole del
pericolo ed invitata a non aprire la porta, la apra e ne provochi con
questo solo atto lo scardinamento, non presentando tale comportamento
il carattere di atipicità ed eccezionalità):
«pertanto, alla stregua di ciò, se la condotta della vittima si inserisce in
una serie causale avviata da altri, concorrendo alla produzione dell’evento dannoso, il suo apporto non vale ad interrompere quella serie in
quanto non è possibile distinguere fra cause mediate o immediate, dirette o indirette, precedenti o successive e si deve riconoscere a tutte la
medesima efficacia; l’interruzione si verifica, invece, se la condotta della
vittima, pur inserendosi nella serie causale già intrapresa, ponga in essere un’altra serie causale eccezionale ed atipica rispetto alla prima, idonea
da sola a produrre l’evento dannoso, che sul piano giuridico assorbe ogni
diversa serie causale e la riduce al ruolo di semplice occasione»
(Cass. 6 aprile 2006, n. 8096, GCM, 2006, 4).
D’altro canto, anche il giudice amministrativo si è espresso, forse ancor
più esplicitamente, nello stesso senso, sostenendo a chiare lettere che,
ai fini della determinazione dell’elemento soggettivo, nel giudizio
sulla risarcibilità del danno da parte del giudice amministrativo, deve
farsi riferimento all’art. 43 c.p., che contiene un principio generale, in
forza del quale la colpa non va solo individuata nella negligenza, impru-
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1.6.1
Danno, illecito e risarcimento
denza o imperizia, ma anche nella violazione di leggi, regolamenti, ordini
e discipline, ovvero nell’inosservanza delle regole di ogni tipo:
«che chi è investito di funzioni pubbliche ha il dovere di conoscere nella
materia in cui è tenuto ad agire e coerenti con il raggiungimento dei fini
predeterminati nella particolare fattispecie, in modo da assicurare il buon
andamento dell’amministrazione ed il rispetto delle situazioni garantite ai
singoli dall’ordinamento»
(T.A.R. Campania 22 febbraio 2001, n. 182, FA, 2001, 1354).
Contra, ma destando non poche perplessità (la colpa non può che
esprimere valutazioni personalistiche), datata e sparuta giurisprudenza
di merito, assolutamente non condivisibile:
«la colpa penale è di tipo soggettivo e concreto, comporta cioè, come
l’illecito penale, una valutazione in termini personalistici, mentre la colpa
civile è un comportamento contrario ad una norma di condotta cui si
dovrebbe attenere qualsiasi uomo saggio ed avveduto e perciò si ispira,
come l’illecito civile, ad un paradigma di tipo oggettivo ed astratto. La
responsabilità per danno cagionato da animali è oggettiva e non, invece,
fondata su colpa presunta»
(Pret. Forlı̀ 16 febbraio 1986, RIML, 1988, 284).
1.6.1. (Segue). La responsabilità oggettiva quale istituto consueto
nella dogmatica penalistica
Legislazione c.c. 1227, 2043, 2051 - c.p.c. 113, 360 - c.p. 40, 41, 43
Bibliografia Delpino 2001 - Virga 2001 - Bonilini e Confortini 2005 - Mazzon 2006
- Padovani 2006 - Trabucchi 2006
La responsabilità oggettiva, invece, al pari della condotta, dell’evento
e dell’antigiuridicità obiettiva, pur non trovando esplicita definizione
all’interno del codice penale (al contrario, come riferito al precedente
paragrafo, di quanto accade agli istituti del dolo, della colpa e del nesso
di causalità), tuttavia rappresenta un cardine insostituibile dell’intero
sistema jus-penalistico, con evidenti ed ovvie ripercussioni in ordine
all’esistenza di numerosissime teorie da sempre dirette a sviscerarne
contenuti, funzioni e disciplina:
«il principio di personalità della responsabilità è dettato in Costituzione
con riferimento agli illeciti penali e non si estende sic et simpliciter alla
responsabilità civile ed amministrativa od ai rapporti contrattuali con la
p.a., dove ulteriori interessi in gioco possono essere legittimamente bilanciati dal legislatore per introdurre forme di responsabilità oggettiva o
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1.6.1
Capitolo I
anticipazioni della soglia di tutela dell’ordine pubblico, come nel caso
della legislazione antimafia in materia di contrattazione con la p.a.»
(T.A.R. Sicilia, Palermo, sez. I, 7 settembre 2011, n. 1621, TAR, 2011, 09).
In ambito civile (e l’affermazione vale anche per il diritto amministrativo), più sobriamente, il concetto di responsabilità oggettiva viene dai
più richiamato ed utilizzato quale elemento d’analisi dell’elemento soggettivo, in posizione antitetica alla colpevolezza:
«in relazione ai danni verificatisi nell’uso di un bene demaniale, tanto nel
caso in cui risulti in concreto configurabile una responsabilità oggettiva
della p.a. ai sensi dell’art. 2051 c.c., quanto in quello in cui risulti invece
configurabile una responsabilità ai sensi dell’art. 2043 c.c., l’esistenza di
un comportamento colposo dell’utente danneggiato (sussistente anche
quando egli abbia usato il bene senza la normale diligenza o con un
affidamento soggettivo anomalo sulle sue caratteristiche) esclude la responsabilità della p.a., qualora si tratti di un comportamento idoneo ad
interrompere il nesso eziologico tra la causa del danno ed il danno stesso,
mentre in caso contrario esso integra un concorso di colpa ai sensi dell’art. 1227, comma 1, c.c., con conseguente diminuzione della responsabilità del danneggiante (e, quindi, della p.a.) in proporzione all’incidenza
causale del comportamento stesso»
(Cass. 6 luglio 2006, n. 15383, GCM, 2006, 7-8).
Ugual sorte, per la verità, spetta alla condotta e all’evento, spesso
relegati a meri corollari del «fatto materiale» (si confronti, a tal proposito, la seguente pronuncia, ove, nell’affermare, a chiare lettere, in tema
di colpa professionale, che il concreto e personale espletamento di attività medico-terapeutica da parte del sanitario comporta sempre l’assunzione diretta della posizione di garanzia nei confronti del paziente –
sicché su di lui incombe l’obbligo della osservanza delle leges artis,
che hanno per fine la prevenzione del rischio non consentito ovvero
dell’aumento del rischio, si precisa altresı̀ che
«gli eventi traumatici esterni ai profili di colpa del sanitario possono incidere sul nesso eziologico sussistente tra l’omissione e l’evento cagionatosi.
Tuttavia, rispetto alla condotta oggetto di incolpazione, deve ritenersi che
questi fattori abbiano agito solo come concause, da sole non sufficienti a
determinare l’evento. Deve, infatti, applicarsi, in questa materia, il principio giuridico dell’equivalenza delle cause, secondo il quale il nesso causale
può escludersi solo se si verifichi una causa autonoma e successiva, rispetto alla quale la precedente sia da considerare tamquam non esset;
mentre tale nesso non può essere escluso allorquando la causa successiva
abbia soltanto accelerato la produzione dell’evento. Nel caso di specie, non
si tratta, invero, di cause sopravvenute eccezionali, tali da interrompere il
nesso causale tra l’evidenziata condotta colposa e l’evento dannoso, bensı̀
di eventi, dotati di una rilevante incidenza causale, che tuttavia si inseriscono nell’alveo di una situazione (progressivo scompenso psichico del
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1.6.1
Danno, illecito e risarcimento
malato) già determinatasi a cagione del comportamento dell’agente. Peraltro, come si è dimostrato, si tratta di eventi che il professionista avrebbe dovuto conoscere e sulla base dei quali avrebbe avuto l’obbligo di
commisurare l’adeguatezza del suo intervento terapeutico)»
(Trib. Bologna 25 novembre 2005, RIML, 2006, 3, 697)
nonché all’antigiuridicità, sovente dimensionato a mero elemento
strutturale dell’atto illecito:
«per la responsabilità del sorvegliante dell’incapace, è necessario che il
fatto di quest’ultimo, escluso l’elemento psicologico, presenti tutte le
caratteristiche di antigiuridicità, di modo che, se fosse assistito da dolo
o colpa, integrerebbe un fatto illecito»
(Cass. 26 giugno 2001, n. 8740, FI, 2001, I, 3098).
Raramente dunque, in verità, la responsabilità oggettiva, in ambito civile,
risulta onorata di autonoma e ordinata vivisezione, come invece è d’uso
effettuare nell’ambito penale!
Dato per accertato, per i motivi espressi nel presente capitolo, il parallelismo
esistente tra gli elementi tutti dell’illecito civile – ma, mutando mutandis,
l’affermazione è recepibile anche quanto al diritto amministrativo:
«sussiste la violazione dell’art. 7, l. n. 241 del 1990, per non avere i
soggetti privati interessati potuto partecipare al procedimento di irrogazione della sanzione loro inflitta, in assenza del preavviso di avvio del
procedimento, con correlativa impossibilità di agire in contraddittorio
con la p.a. contestante l’omessa vigilanza sull’accumulo dei rifiuti, l’ordine
della cui rimozione può essere adottato esclusivamente in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, da chi
sia preposto al controllo; rispetto a tale contraddittorio la comunicazione
dell’avvio del procedimento si configura come un adempimento indispensabile al fine della sua effettiva instaurazione, fermo restando che, per il
configurarsi di una responsabilità per dolo o colpa del proprietario o di
chi abbia, anche se in via di mero fatto, la disponibilità della discussa
area, occorre che il suo coinvolgimento a titolo di dolo o colpa risulti a
seguito di un’adeguata istruttoria e con l’ausilio del privato stesso, da
convocarsi in contraddittorio (il che, nella specie, non è avvenuto) per
fornire elementi utili di valutazione per l’accertamento delle reali responsabilità, ex art. 192, d.lg. n. 152 del 2006 (già art. 14, d.lg. 5 febbraio 1997
n. 22), in quanto la norma configura l’ordinanza di rimozione di rifiuti
abbandonati come ingiunzione di sgombero a carattere sanzionatorio,
esigente l’imputazione a carico dei soggetti obbligati per dolo o colpa
nel comportamento tenuto in violazione dei divieti di legge, esclusa ogni
forma di responsabilità oggettiva per violazione di un generico dovere di
vigilanza»
(T.A.R. Emilia Romagna, Parma, sez. I, 12 luglio 2011, n. 255, TAR, 2011, 7-8)
con i corrispondenti elementi dell’illecito penale, pare pertanto opportuno affermare la necessitata utilizzabilità della scienza penalistica
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1.6.2
Capitolo I
(onde consentire un maggior approfondimento dell’istituto de quo),
senza dubbio utilizzabile, dall’operatore del diritto tout court, per la
concreta applicazione dell’istituto succitato, alle fattispecie d’interesse.
1.6.2. (Segue). Conclusioni
Cosı̀, non si vede, in verità, ragione alcuna per non attribuire, ad esempio, all’antigiuridicità civilistica la qualifica di «antigiuridicità obiettiva» – istituto, come visto, caro al diritto penale –, se è vero, com’è vero,
che il danno, ex art. 2043 c.c., per essere risarcito deve essere «ingiusto», ossia in contrasto (obiettivo: la soggettività è relegata, dallo stesso
articolo, nella dicitura «Qualunque fatto doloso o colposo») con un
dovere giuridico (si confronti, ad esempio, l’interessante fattispecie
che segue, laddove, nella specie, la Suprema Corte ha cassato con rinvio
la sentenza del giudice di pace che, decidendo secondo equità, aveva
liquidato all’attore, riconosciuto invalido civile dall’amministrazione, una
somma a titolo di danni morali e materiali per il ritardo dell’amministrazione nell’emettere il libretto di pensione, senza precisare la posizione
soggettiva in virtù della quale aveva agito l’attore, necessariamente tutelata da norma diversa da quelle dettate in tema di inadempimento, e
senza indicare quale fosse la fonte di prova dei danni morali e materiali
conseguenti al ritardo):
«in tema di giudizio di equità, tra i principi informatori della materia, ai
quali il giudice di pace è vincolato ai sensi dell’art. 113, comma 2, c.p.c. –
nel testo risultante dalla pronuncia di parziale illegittimità costituzionale
emessa dalla Corte cost. con sentenza n. 206 del 2004 – e la cui violazione è deducibile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 n. 3
c.p.c., rientra la necessità, nel giudizio di risarcimento del danno, di
accertare che il danneggiante abbia cagionato un danno ingiusto, violando un interesse di altro soggetto tutelato dal diritto, ovvero violando la
norma giuridica che attribuisce protezione a tale interesse, e che sia
fornita la prova dell’esistenza del danno stesso»
(Cass., sez. lav., 15 novembre 2005, n. 23029, GCM, 2005, 11).
Si pensi anche, ad esempio, in tema di sinistro occorso durante una
partita di calcio amatoriale, al caso in cui l’esercizio di attività sportiva,
implicante il contatto fisico, operi come scriminante in relazione all’uso
della violenza connaturata al gioco consensuale (esercizio del diritto, ex
art. 51 c.p. e difetto di antigiuridicità sotto il profilo civile): confini della
suddetta scriminante sono la commissione di un atto non finalizzato al
gioco ma meramente alla lesione (esclusione di natura subiettiva) ovvero l’impiego di violenza trasmodane (esclusione obiettiva).
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1.6.2
Danno, illecito e risarcimento
Ulteriormente e allo stesso modo non v’è ragione alcuna per negare alla
colpevolezza civilistica (da tener presente, in argomento, come spesso, ai sensi dell’art. 651 c.p.p., la sentenza penale irrevocabile di condanna manifesti indubbiamente efficacia di giudicato nel processo civile
di risarcimento del danno, quanto all’accertamento della sussistenza del
fatto e della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha
commesso, con esclusione però proprio della colpevolezza, il cui esame è
autonomamente demandato al giudice civile – detta sentenza non è,
tuttavia, vincolante con riferimento alle valutazioni e qualificazioni giuridiche attinenti agli effetti civili della pronuncia, quali sono quelle che
riguardano l’individuazione delle conseguenze dannose che possono dare luogo a fattispecie di danno risarcibile –) ed a quella relativa all’illecito amministrativo la definizione di «attribuibilità del fatto al soggetto
attraverso un giudizio normativo di rimproverabilità personale» – definizione tanto cara alla dottrina penalistica –, atteso che, pacificamente,
«oltre che antigiuridico, l’atto per essere qualificato illecito dev’essere
colpevole, cioè frutto di un contegno riprovato dal’ordine giuridico. Sempre l’art. 2043 c.c. nelle prime parole prevede il fatto doloso e colposo.
Pertanto, mentre l’antigiuridicità si riferisce oggettivamente all’atto come
lesivo del diritto, la colpevolezza riguarda il soggetto che ha compiuto
l’atto, cioè il suo contegno»
(Trabucchi 2005, 89).
SINTESI
Tanto nel caso di illecito penale (nonché, effettuati gli opportuni
distinguo, amministrativo), quanto nel caso di illecito civile, l’interprete si trova a dover confrontarsi con istituti quali la condotta, il
nesso eziologico, l’evento (momenti interni al fatto), il dolo, la colpa,
la responsabilità oggettiva (concetti propriamente attinenti alla c.d.
colpevolezza), l’antigiuridicità, l’offesa conseguente all’illecito: siffatta constatazione autorizza a ricercare se – ed eventualmente in che
termini – tali istituti seguano le medesime regole; se, cioè e più esplicitamente, le definizioni e la disciplina riguardanti condotta, nesso
eziologico, evento, dolo, colpa, responsabilità oggettiva e antigiuridicità obiettiva possano ritenersi identiche per tutti e tre i tipi d’illecito
de quibus.
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