LO SPECCHIO MAGICO Urban Art Dance Opera Opera di Firenze - 7 maggio 2016 di FABIO VACCHI su libretto di ALDO NOVE APPROFONDIMENTO Comunicato stampa p. 3 L’opera in breve p. 5 Organico e personaggi p. 7 Sinossi p. 10 Riflessi e Riflessioni di Fabio Vacchi p. 15 Il Rap della libertà di Aldo Nove p. 20 Note dell’autore - Aldo Nove p. 22 Il suono della Storia di Flavio Caroli p. 24 E’ giunto il tempo di Fabio Vacchi di Jean-Jacques Nattiez p. 26 Biografia di Fabio Vacchi p. 31 Cast p. 34 Libretto p. 35 COMUNICATO STAMPA Il melodramma nasceva a Firenze 416 anni fa. Proprio all’Opera di Firenze, per il 79° Maggio Musicale Fiorentino, il 7 maggio va in scena la prima mondiale di uno spettacolo unico nel suo genere. E’ Lo specchio magico, urban art dance opera nata dalla collaborazione tra un compositore di musica colta, Fabio Vacchi, uno scrittore, Aldo Nove, il rapper Millelemmi, e il writer Marco Tarascio, in arte Moby Dick. Tarascio realizzerà una performance visiva a cielo aperto, lungo la parete della cavea, proiettata in sala su grandi schermi dal regista Edoardo Zucchetti, già assistente di Zeffirelli e Jonathan Miller, appena rientrato dal suo allestimento delle Nozze di Figaro mozartiane alla Springfield National Opera. Nello Specchio magico, la nona opera di Vacchi, il musicista fa dialogare la cultura hip hop con la tradizione secolare di madrigali, arie liriche e cori. Perché crede “nella musica colta, nella sapienza del suo patrimonio” ma è pure interessato all’ “hip hop con l’occhio di chi ne sta fuori e lo guarda stupito e attratto”. Vacchi ha coinvolto Millelemmi, abile nel ricondurre il rap italiano a una matrice fiorentina popolare e raffinata. Particolarmente atteso è l’intervento del danzatore Filippo Coffano Andreoli (sarà Piccola Nuvola), diciottenne già attivo sulla scena londinese. Ne Lo specchio magico la nuova Opera di Firenze si spalanca alla città. Lo spettacolo si consuma infatti tra le pareti dell’OF, ma anche all’aperto, con scorci di Firenze come fondale. Il pubblico interno assisterà al lavoro di Tarascio, gli spettatori della cavea ascolteranno la musica di Vacchi diffusa all'esterno. Il protagonista Piccola Nuvola danzerà dentro e fuori. L’urban art dance opera di Vacchi porta la firma di interpreti di classe. Si parte dal direttore d’orchestra statunitense John Axelrod, stabile alla Reale Orchestra Sinfonica di Siviglia e alla Verdi di Milano, ospite di festival e teatri di punta, per arrivare a cantanti di spicco come Roberto Abbondanza, Alda Caiello, Mirko Guadagnini e Marcello Nardis. Il Finale del libretto contiene un estratto dall'ultima pagina del libro di Aldo Nove, Anteprima mondiale, edito dalla Nave di Teseo, maggio 2016. Fabio Vacchi (Bologna, 1949) è uno dei compositori italiani di punta nel panorama internazionale. Eseguito dal teatro alla Scala al Parco della Musica di Roma, Salle Pleyel, Opéra Comique, Comédie-Francaise di Parigi, Gewandhaus di Lipsia, Opéra de Lyon, Berliner Philharmoniker, Musikverein di Vienna, Festival di Salisburgo, di Aix-en-Provence. Fra i committenti e interpreti Claudio Abbado, Luciano Berio, Riccardo Chailly, Myung Wun Chung, Zubin Metha, Riccardo Muti, Antonio Pappano, Giuseppe Sinopoli. David di Donatello per la colonna sonora de Il mestiere delle armi di Ermanno Olmi, Vacchi ha lavorato con artisti come Gianrico Carofiglio, Patrice Chereau, Lella Costa, Dacia Maraini, Moni Ovadia, Amos Oz, Arnaldo Pomodoro, Toni Servillo, Michele Serra. La Giusta Armonia, melologo eseguito da Riccardo Muti con i Wiener Philhamoniker al Festival di Salisburgo, verrà ripreso in prima italiana da Gianandrea Noseda a Torino, il 22 ottobre 2016. Nello stesso mese, Vacchi, che ha in cantiere tre opere per grandi teatri di statura mondiale, sarà presente con una prima assoluta, Vencidos per baritono e orchestra su testo di Léon Felipe, in occasione delle celebrazioni per i quattrocento anni della morte di Cervantes, il 16 ottobre, nel prestigiosissimo Festival Cervantino a Guanajuato in Messico. L’OPERA IN BREVE SINTESI Un Cantastorie recita liberamente in stile rap quando entrano in scena quattro Tiranni della Grecia antica, Dioniso di Siracusa, Alessandro II di Macedonia, Alessandro e il padre Giasone di Fere che racconta di uno specchio magico dove si vede un futuro incredibile. Lo specchio, si legge nel libretto di Aldo Nove, anticipa il crollo dell’Impero romano. Ma si va ancora più in là, nel Texas abitato da tribù Sioux evocate attraverso la pellicola di Kevin Costner Balla coi lupi. Con il terzo Atto si raggiunge il Novecento: la scienza trionfa, ma pure uccide (un aereo carico di bombe è diretto a Hiroshima) E’ l’aria di una donna speciale, Aung San Suu Kyi, a chiudere quest’opera: un inno alla pace e libertà. PERSONAGGI Personaggi storici come Arthur Holly Compton ed Enrico Fermi, icone della storia recente (Aung San Suu Kyi) e antica (Romolo Augusto), si avvicendano con i personaggi del film Balla coi lupi (da Alzata con pugno a Due calzini). Centrali le figure del Cantastorie (rapper) e di Piccola Nuvola: danzatore oltre che voce non impostata. L’OPERA Il ruolo chiave è affidato al Cantastorie che coniuga lo Sprechgesang (stile in cui si fonde parlato e cantato) con il Rap di matrice popolare urbana. Lo sfogo lirico dell’aria di Aung San Suu Kyi si avvicenda con i frammenti melodici dei nativi americani. Un Coro, epico e riflessivo, come da tragedia greca, si insinua fra i madrigali dei Quattro Tiranni. STILE MUSICALE Serio, colto, immune da piaggerie. Ma ancor prima: lo stile di Vacchi è capace di parlare al pubblico che spesso erompe in ovazioni. Perché Vacchi “rivendica il principio di piacere” ricorda Jean-Jacques Nattiez, fra i musicologi di rilievo della scena internazionale. "Ciò che costituisce il valore dell'estetica di Vacchi ancora Nattiez - è la sua capacità di raggiungerci alla fine di infaticabili ricerche, fuse in un linguaggio che gli è proprio ma che restano sempre perfettamente comprensibili da tutti. È giunto il nostro tempo. È giunto il tempo di Fabio Vacchi." E’ artefice di una musica coltissima, ma capace di andare dritta “al cuore e alla mente del pubblico, perché non ha mai smesso di esprimere valori, battendo nuove vie senza nulla scartare di quelle tradizionali che ne sono perenne fon- damento. Uno dei pochi, pochissimi musicisti uscito non indenne, ma rafforzato, da decenni di assurde contrapposizioni tra opposte scuole di musica “colta”. (Aldo Nove). Uno stile che si è riappropriato dell’idea di bellezza e seduzione in musica già in epoche in cui il termine bellezza “appariva impronunciabile” ragion per cui "oggi è lecito dire che Vacchi ha vinto la sua battaglia, e con lui l’abbiamo vinta noi che crediamo nelle stesse idee" (Flavio Caroli). Uno stile che dà voce ai problemi socio-politici come conferma Lo specchio magico. REGIA Fabio Vacchi ha definito Lo specchio magico un Melograffito poiché l’arte di strada entra in simbiosi con la melodia. La regia è infatti affidata alla performance live - proiettata in sala - del writer Marco Tarascio in arte Moby Dick. Che realizzerà la regia a cielo aperto, lungo la parete della cavea. La sua performance sarà riprodotto live dal regista Edoardo Zucchetti (già assistente alla regia di Zeffirelli e Miller) su grandi schermi in sala dove solisti, coro e orchestra eseguono l'urban art dance opera. Uno spettacolo - dunque - da consumarsi fra le pareti dell’Opera, ma anche all’aperto, con il meraviglioso sfondo di Firenze alle spalle. Il pubblico interno assisterà al lavoro di Tarascio, il pubblico della cavea ascolterà la musica di Vacchi diffusa all'esterno. Il protagonista Piccola Nuvola danzerà dentro e fuori. Per informazioni: ANNA FRANINI E: [email protected] T: +39 339 175 5561 www.annafranini.com ORGANICO E PERSONAGGI L’organico vocale comprende due voci naturali, non impostate: il Cantastorie e Piccola Nuvola (quest’ultimo anche danzatore); due tenori, baritono, basso, soprano; coro misto; orchestra. - - due voci non impostate: Cantastorie e Piccola Nuvola (quest’ultimo anche danzatore). tenore I: Dionisio I di Siracusa, poi l’Ambasciatore, poi John Dumbar, poi Arthur Holly Compton. tenore II: Alessandro di Fere, poi il lupo Due calzini, poi Ernest Orlando Lawrence. baritono: Alessandro II di Macedonia, poi Romolo Augusto, poi uno Sioux, poi Julius Robert Oppenheimer, poi Paul Tibbet. basso: Giasone di Fere, poi il Cuoco, poi un Pawnee, poi Enrico Fermi. soprano: Rea, poi Alzata con pugno, poi Aung San Suu Kyi. Coro misto Orchestra PREMESSA Assunto centrale, l’urgenza d’introiettare il pacifismo, la necessità di affrontare i problemi individuali e collettivi cambiando prospettiva rispetto alla guerra e alla sopraffazione. Anche quando, come in questi giorni, si è nella morsa del terrorismo e si parla dell’ennesimo intervento militare (stavolta in Libia). Con questo lavoro gli autori intendono anche proporre, con i mezzi specifici della musica e del teatro, una riflessione sulla bellezza delle storie che raccontano il mondo, in grado di parlare a tutti, dai dieci ai centodieci anni. E’ quindi anche un’opera sulle età della storia e della vita, con particolare empatia verso i bambini e gli anziani. Perché, in fondo, la vera paura dei giovani nasce dai già assimilati timori infantili e dal terrore del futuro. Più si capirà che le paure di quando si era piccoli, se elaborate, serviranno a vivere meglio i trenta, i sessanta, i novant’anni e che crescere e invecchiare non comporta solo un aumento del carico di sofferenza e decadenza, ma anche più saggezza e più amore, meglio si potranno affrontare gli aspetti positivi di ogni epoca storica ed esistenziale, inserendoli in un ciclo continuo, come quello della storia del mondo. STILE MUSICALE Come estrema sintesi del senso musicale si può dire che, pur utilizzando matrici etniche e popolari del passato e del presente con riferimenti ad ambiti del repertorio colto occidentale dall’antichità all’oggi, i diversi materiali e le differenti suggestioni si fondono in uno stile colto contemporaneo tanto comunicativo, evocativo ed emozionale, quanto coerente e rigoroso. Significativo, a questo proposito, come filo conduttore, la voce recitantecantante, alla base non solo della nascita del linguaggio antropologicamente inteso (a partire dalla tradizione omerica), ma anche del melodramma. Ecco dunque il ruolo centrale del Cantastorie, che esegue un Rapgesang, inteso come combinazione dello Sprechgesang (stile in cui si fonde parlato e cantato, adoperato per la prima volta da Schönberg nel Pierrot Lunaire e quindi legato all’Avanguardia del Novecento) con il Rap di matrice popolare urbana, con le sue ascendenze afroamericane e latinoamericane. Il Cantastorie, durante tutta l’opera, intona e recita, ripetendo e ritmando liberamente sul ritornello della musica. Piccola Nuvola danza in diversi momenti dell’opera. La scrittura vocale dei Quattro Tiranni, pur interiormente ispirata ai modelli degli antichi canti greci di matrice orale, si espande in una dimensione contrappuntisticomadrigalistica. Il Coro misto, che assume il ruolo svolto nell’antica tragedia greca, dà voce all’anima universale, in senso antropologico. All’interno di una fitta trama di suggestioni, citazioni e rielaborazioni di musica folcloristica, vi sono episodi più distintamente incentrati su specifici temi etnici, come frammenti melodici dei nativi americani nel secondo atto, o della tradizione birmana nell’aria di Aung San Suu Kyi. LIBRETTO E DRAMMATURGIA Lo stile letterario si modella sul divenire musicale e drammaturgico, sfruttando l’andamento del Rap e della Tradizione Orale (da quella antica, colta e popolare, a quella delle tradizioni etniche del passato e del presente, come, ad esempio, la produzione poetica dei Nativi d’America) per una scrittura che oscillerà dal recitar cantando alla filastrocca, fino alla cronaca verbosa, ritmica e scandita dei rapper urbani. Nelle parti invece destinate al Coro o nelle scene drammaturgiche, la scrittura tenderà al verso e alla scansione poeticodrammaturgica, con un legame plastico e fusionale tra parola, gesto, suono. Le parti affidate al Cantastorie e alla Voce Bianca fanno da filo conduttore narrativo-drammaturgico, dando scansione serrata al succedersi degli avvenimenti e all’alternarsi e combinarsi di dimensioni storiche, realistiche, fantasiose, favolistiche. Le sezioni del Coro hanno carattere epico-riflessivo, ma animato, al suo interno, da una tessitura innervata di scansioni etnico-popolari. Le tre scene scaturite dallo specchio magico sono mosse, teatrali, dialogiche, dirette, anche drammatiche e d’impatto sinfonico (è il caso della bomba atomica su Hiroshima): passano dal grottesco al tragico, per comunicare tenerezza, dolcezza, paura, rammarico, calma, terrore, stupore, meraviglia, ma soprattutto orrore per la guerra e la violenza. Questi piani non sono mai nettamente distinti, ma legati da continui riferimenti, riprese, rimandi interni. IL WRITER Benché non sia stata concepita come dimensione strutturale insita nella drammaturgia (che non esclude altre forme di allestimento), l’idea del Teatro Comunale di Firenze di affidare la regia dell’opera alla performance live di un writer (proiettata in sala, mentre la musica sarà diffusa dove verrà dipinto il murale) risulta quanto mai attinente alle intenzioni del compositore e del librettista. L’interesse per la cultura di strada, di cui il rap e la danza costituiscono l’essenza, trova il logico sbocco in quello che Vacchi ama chiamare, a proposito del suo Specchio magico, Melograffito, simbiosi tra melodia, canto e street art. Si chiude così il cerchio dell’inferenza dell’hip hop in questa sua ultima opera lirica. In particolare, la produzione di Marco Tarascio detto Moby Dick si sposa perfettamente con l’intenzione perseguita da Vacchi in tutto il suo arco creativo, di trovare un punto espressivo d’equilibrio tra il patrimonio colto e quello popolare, tra la forza comunicativa dell’oggi e la sapienza della tradizione, tra la ricerca e la sedimentazione collettiva, tra il passato e il presente, in nome di un futuro aperto e refrattario a ogni rigidità di pensiero. La sensazione che l’aspetto registico-scenografico potesse orientarsi verso una performance pittorica legata all’arte urbana, è scaturita anche dal gioco verbale di Aldo Nove sul segno-disegno che continuamente s’inventa e si reinventa come le dinamiche della vita individuale e sociale. SINOSSI Il Cantastorie avvia da solo l’opera, con una recitazione libera in stile rap, senza musica. - PROLOGO Il Cantastorie prosegue intonando un rapgesang - nato da suggestioni della tradizione afroamericana e latinoamericana - che attraverserà l’opera come un Leitmotiv, ricomparendo anche nel Finale (Cantastorie e Coro). Sul ritornello dell’orchestra, torna a recitare, ripetendo e ritmando liberamente. - ATTO PRIMO Alcuni elementi motivici e ritmici del rapgesang iniziale generano la scrittura vocale dei Quattro Tiranni della Grecia antica: Dioniso di Siracusa, Alessandro II di Macedonia, Giasone di Fere e suo figlio Alessandro. Sono personaggi realmente esistiti. Furono contemporanei ed è ipotizzato in modo del tutto irrealistico ma storicamente non impossibile, che potessero virtualmente essersi incontrati nel 370 a.C. (Dionìsio I, detto il Vecchio, conosciuto anche come Dionigi (430-367 a. C.), fu tiranno di Siracusa; Alessando II (vissuto nel IV sec. a. C.), fu re di Macedonia dal 370 al 368 a. C.; Giasone di Fere, tiranno di Fere in Tessaglia, fu assassinato nel 370 a. C.; Alessandro di Fere (...- 358 a. C), figlio di Giasone, fu tiranno di Fere in Tessaglia dal 369 a. C. fino alla morte). Giasone di Fere racconta di avere appena visto nello specchio di un bambino scene da un futuro incredibile, ma gli altri non gli credono: ciò che verrà e sarà non si può vedere, né sapere. Entra Piccola Nuvola che spiega ai tiranni, con accompagnamento ritmico su temi originali dei Nativi d’America, come lo specchio permetta di vedere il “futuro, che è presente eppure è già passato”. LA CADUTA DELL’IMPERO ROMANO Episodio dinamico e tragicomico, ambientato nel giorno estremo e decisivo per la caduta dell’Impero Romano d’Occidente: la scena di Romolo Augusto, ultimo Imperatore Romano, è liberamente ispirata alla commedia di Friedrich Dürrenmatt Romolo il Grande (1949). Qui la musica elabora i materiali precedenti, assorbendoli in uno stile vocale e sinfonico duttile e teatrale, plasticamente modellato sulle parole, con forti venature comiche. Siamo nella residenza estiva, in Campania, di Romolo Augusto, ultimo imperatore romano. Giunge un Ambasciatore, che viene bloccato dal Cuoco perché l’imperatore sta facendo colazione. L’ambasciatore si spazientisce, si fa largo a forza e raggiunge l’Imperatore, che mangia circondato dai suoi polli. Mentre altercano, poiché l’Ambasciatore è indignato per il disinteresse di Romolo Augusto nei confronti dell’impero che sta andando a catafascio, entra di corsa la figlia Rea. E’ lei l’unica che può salvare l’Impero sposando il ricco tedesco Cesare Krupf. Romolo Augusto, finalmente, si smuove dalla sua apparente e stralunata indifferenza, dimostrando di essere un antieroe anziché un ignavo e un codardo e suggerendo a Rea di rimanere fedele all’amato Emiliano: “Perché sacrificare i propri figli per uno stato che corrompe e uccide?” La scena scompare, e Piccola Nuvola, dopo una breve danza, riprende a cantare: “Così nel tempo scorrono i rigagnoli dei dubbi che diventano presente, si genera il futuro…” Riappaiono i Quattro Tiranni. Ipotizzano che potesse trattarsi di un sogno, ma sono perplessi e disorientati. Alessandro II di Macedonia taglia la testa al toro: di qualunque cosa si tratti, i problemi si possono risolvere solo con la prepotenza e la guerra. Piccola Nuvola, ballando un tip-tap, commenta: “E’ questa vita il sogno. Sono i vostri pensieri di ogni giorno. Non capite? Ciò che sarà è soltanto ciò che è stato…” Il Coro (mentre Piccola Nuvola continua a danzare) canta il senso del cosmo su temi e ritmi di danza di origine mediterranea: “Tutto è movimento, e tutto è danza, non ci si può fermare, e tutto è in apparenza…”. - ATTO SECONDO Il Cantastorie, su un tema rap dal carattere del Native American hip hop intona una poesia sullo scorrere del tempo e sulla natura del futuro che ci attraversa. I Quattro Tiranni guardano con diffidenza Piccola Nuvola. Alessandro II di Macedonia insinua che possa trattarsi di una spia al soldo del nemico. Piccola Nuvola, accerchiato dai diffidenti Tiranni, chiede - su una melodia dolcissima intessuta di frammenti ritmici e melodici originali dei nativi indiani il perché di tanto sospetto e mostra loro, nello specchio magico, una tribù Sioux in mezzo a una prateria del Texas. Ci sono uno Sioux e un Pawnee e l’uomo bianco, diventato con il tempo indiano, John Dumbar. SCENA DI UNA TRIBU’ SIOUX Si riprende la concezione, tipica delle tribù Sioux, del rapporto con gli altri uomini, con gli animali e con l’ambiente, filtrato da nomi e suggestioni tratti da Balla coi lupi, il famosissimo film diretto e interpretato da Kevin Konster (1990), ispirato all’omonimo romanzo di Michael Blake. L’uomo bianco ormai indiano John Dumbar assiste al litigio tra uno Sioux e un Pawnee in mezzo a una prateria del Texas. In un veloce battibecco di botta e risposta in canone, accompagnato da figure guizzanti dell’orchestra, i due rivendicano ossessivamente il diritto di proprietà sullo stesso terreno: “Questo è mio, e pure questo è mio”. Dumbar chiede loro perché stiano litigando. Lo Sioux e il Pawnee gli spiegano i motivi e riprendono ad accusarsi. Arrivano la moglie di Dumbar Alzata con pugno e il loro lupo Due calzini, il quale con piglio autorevole e sdegnato impone il silenzio ai contendenti. Il Lupo inizia a raccontare un antico mito indiano, secondo il quale ogni essere vivente è fratello di tutti gli altri, e che nulla appartiene a nessuno, e tutto è sacro. A quel punto indica i quattro punti cardinali: Il nord è sacro perché è a nord che dimora l’inverno, è li che nasce la saggezza. Il sud è sacro perché è a sud che nascono l’innocenza e la fiducia nel mondo. E’ sacro l’est, è a est che nasce il giorno. E’ sacro l’ovest dove il mondo muore: di qua la luce e al suo opposto c’è il buio, la luce che ci svela e il buio che nasconde. E questo è tutto. Piccola Nuvola, sul tema nativo indiano con il quale aveva contestato la malafede dei Quattro Tiranni prima della Scena Siuox (come se non l’avesse mai interrotto…), si unisce a Due Calzini per sostenerne il punto di vista, e conclude: “Non c’è niente che è più di tutto”. Alzata con pugno, prima di andarsene, si rivolge allo Sioux e al Pawnee indicando il marito: “Adesso lo capite perché preferisce parlare coi lupi?” Lo Sioux e il Pawnee, che pure avevano ascoltato l’animale a bocca aperta, d’un tratto si rendono conto che un lupo non può parlare e lo scacciano. Due calzini, prima di correre dietro a Balla coi lupi e Alzata con pugno, rivolgendosi a Piccola Nuvola, commenta amaramente la cecità degli adulti, che più diventano grandi più si dimenticano la magia del mondo… A questo punto il Coro, prendendo le parti di Due Calzini, alterca con i Tiranni, che sostengono le loro teorie di sopraffazione. Giasone di Fere, più appassionato degli altri, smentisce arrogante tutto quello che ha detto il Lupo ed elogia la prepotenza in un lungo passo assolo, vero e proprio arioso che culmina nel quartetto dei Tiranni che, inneggiando alla guerra, concludono: “Basta con i sogni!” ATTO TERZO Su uno spunto folcloristico inglese, il Cantastorie canta la bellezza dell’universo nell’ottica unificatrice del matematico, fisico e cosmologo britannico Stephen William Hawking (nato nel 1942). Piccola Nuvola e i Tiranni Greci guardano lo specchio magico in cui si vedono immagini delle galassie, del cosmo… Appaiono gli Scienziati Compton, Lawrence, Oppenheimer e Fermi che, in un episodio dal carattere madrigalistico, discutono della bomba atomica difendendo, seppur a malincuore, le ragioni per cui è necessario usarla (si allude alle loro tesi esposte nel Rapporto Franck, giugno 1945). Si alza la voce del Coro, che, ancora su suggestioni etniche mediterranee e in dialogo tra timbri maschili e timbri femminili, commenta la follia dell’uomo e come questa possa portarci alla distruzione se non siamo in grado di comprenderla e superarla. LA BOMBA ATOMICA (Siamo sull’aereo che porta la bomba atomica da sganciare su Hiroshima) In un episodio drammatico e orchestralmente denso, Piccola Nuvola (che qui recita) è a bordo dell’aereo che si dirige verso Hiroshima e cerca inutilmente di fermare il pilota, Paul Tibbet, preannunciandogli che il suo collega (allude a Claude Eatherly) impazzirà quando si renderà conto delle conseguenze di quel gesto. Tibbet, che replica alle suppliche di Piccola Nuvola con un canto declamato scaturito dal materiale sinfonico, lo deride. Tutto si oscura, il tessuto orchestrale s’infittisce in un ulteriore crescendo di tensione, poi silenzio. Il Cantastorie racconta, su una sezione orchestrale molto ritmica di cui segue le scansioni irregolari e percussive, che lo specchio magico non è altro che la nostra attitudine a guardare in noi stessi per scoprire la comune aspirazione a capire. Il Coro riprende le sue riflessioni trasformandosi in un accompagnamento martellante e onomatopeico su “bene, male”, sul quale s’innesta il fugato dei Quattro Tiranni. La loro disquisizione su quanto la perdita della libertà si traduca spesso in comodità, sfrutta una frase di Dostoevskij, dal romanzo L’affittacamere (1846-47) : “Tu dai la libertà all’uomo debole ed egli stesso si legherà a te e te la riporterà come un cane che riporta il bastone al suo padrone”. Dioniso di Siracusa, in particolare, è convinto che l’animo umano desideri voltarsi, guardare altrove, rispetto al peso della libertà: “L’uomo non vuole esser libero e non vuole conoscersi. E se la verità è dentro di lui, come dice qualcuno, beh, non vuole guardarla.” Contesta questo assunto una donna perseguitata dal dispotismo ma amata dal popolo, la birmana Aung San Suu Kyi: “La comodità ci cancella dal mondo e ci fa vivere per finta”. Alla domanda sprezzante dei Quattro Tiranni “Ma cosa dici, donna?”, risponde con un’aria dal forte impatto lirico e simbolico, climax dell’opera. E’ la prima volta che la soprano svolge un ruolo di primo piano, avendo solo partecipato, finora, alle scene evocate dallo specchio magico per interpretare i vari personaggi femminili. La sua voce svetta candida, acuta, commovente, angelica: “ …vengo da dove il tempo si è fermato, travolgendo la dignità degli uomini, afferrandone la storia, stritolandone la vita. E’ la Birmania la terra dove vivo, ma è sempre la stessa storia quella che attraverso adesso, e abbiamo attraversato tutti, la storia del veleno della gloria. Ho difeso il mio popolo, e resto immobile davanti alla violenza, ma l’ho guardata in faccia, l’ho fissata, non ho distolto gl’occhi…” Il Cantastorie recita in stile rap, su accompagnamento percussivo. Il Cantastorie e il coro chiudono cantando, su interventi percussivi, ancora il ritmo immanente e infinito, universale e particolare, del mondo, riallacciandosi al rapgesang iniziale, nato da suggestioni della tradizione afroamericana e latinoamericana. RIFLESSI E RIFLESSIONI di FABIO VACCHI Se c’è una cosa che mi accomuna ad Aldo Nove è la naturale insofferenza - caratteriale e culturale - verso i dogmi, le certezze, le barriere, le verità assolute. Ingredienti che si trovano ben distribuiti tanto nelle aree di commercializzazione dello spettacolo quanto nelle torri adamantine delle élite intellettuali. Refrattario all’algida e mortifera concettualizzazione esaltata messianicamente dal radicalismo modernista (oggi ancora aggressivo benché agonizzante), sono consapevole debitore alle sperimentazioni delle avanguardie di cui la mia scrittura é figlia, ma intollerante ai loro cascami dottrinari e pedanti, e ancor più alla loro saccente produzione di brutture mascherate da pretese filosofiche non di rado banali. Incuriosito dalla cultura hip hop con l’occhio di chi ne sta fuori e la guarda stupito e incantato, amo il dialogo, il raffronto, la vicendevole seduzione, perfino il sospetto che si scioglie in attrazione, tra generi diversi. Come tra culture, religioni, modi di pensare, tradizioni, morali. Quando si misurano senza pregiudizi, ma anche senza con-fusioni. Perché l'incontro chiama e pretende la diversità, non cerca di annullarla. L’identico a se stesso è la sola e vera morte. Come l'autoreferenzialità. Per gli individui, le società, le arti. Se ho deciso di continuare a comporre è perché credo nella musica colta. Credo nella sapienza della sua storia, che è riuscita a scorrere nelle vene popolari grazie alla capacità dei grandi di coniugare somma dottrina e umile sforzo di arrivare agli altri. Per questo non potrei mai sottomettere a una facile, seppur suggestiva, comunicazione la tecnica, la maestria, la perizia, la scienza e la conoscenza di un filone cui appartengo e nel quale voglio saldamente restare. Credo, perché lo tocco con mano, che la musica colta d’oggi rimanga una dimensione viva, universale, intergenerazionale, resistente alle logiche esasperate di un mercato falsamente libero. Niente scorciatoie quindi, niente passatismi, niente occhieggiamenti. Questi paletti etici ed estetici per me inviolabili - tra cui svettano coerenza, rigore, unitarietà stilistica, e che pongo come obiettivo primario sia quando scrivo sia quando insegno - devono, non possono, devono proprio, aprirsi, ammorbidirsi, rendersi friabili, cangianti. In altra parole, permeabili alla varietà dell'essere nel mondo. Per questo mi piace pensare che la musica faccia parte dell'umano e non sia un mondo a parte. L’idea d’inserire un cantastorie è nata dal mio interesse per il rap, rafforzato o forse scatenato dalla lettura di osservazioni straordinarie del fenomeno, come quelle del grande sociologo, filosofo, etnologo Georges Lapassade1 o di David Toop2. Cui sono seguite indagini davvero chiarificatrici da parte di studiosi provenienti da diversi ambiti, spesso apparentate dall’intento di documentare il comune ceppo antropologico del recitar cantando, che ha dato origine alla lirica antica, al melodramma, al rap. La fascinazione per le radici etniche dalla musica afroamericana e latinoamericana è stata oggetto di conversazioni e filature creative con Aldo Nove, possibili grazie ad anni di legame artistico e amicale fortissimo. Cui si é aggiunta, nel tempo, la stima per Millelemmi, con la sua capacità di ricondurre il rap italiano a una matrice fiorentina tanto popolare quanto raffinata, e per Filippo Coffano Andreoli, giovane danzatore dal talento effervescente e tenace. Per chiudere il cerchio di questo sguardo meravigliato sull' hip-hop, metabolizzato ed evocato attraverso il filtro del mio stile – da sempre innervato di musica etnica, vera linfa della mia ispirazione, del mio impegno, delle mie scoperte e delle mie ricerche - si è scelto di affidare al writer Marco Tarascio, in arte Moby Dick, la realizzazione live di una regia virtuale resa performante. L'impatto con il respiro internazionale del suo lavoro, con le sue scelte e i suoi soggetti, a partire da un tema a me così caro e profondamente insito nel messaggio dello Specchio magico come l’animalismo, hanno fatto scattare la scintilla. Fra i tanti testi rivelatori di musicologi, etnomusicologi e storici dell’arte (penso ad esempio alle esplorazioni di Alessandro Riva),3 sono anche incappato, purtroppo, in disquisizioni superficiali sulla street art. Non mancano coloro che pontificano, dai soliti palchi estremi, sull’arena della società. La loro distanza dalla complessità del reale li accomuna. Da un lato c’è chi la considera vandalismo tout court. Sono di solito gli stessi che predicano la necessità di punire, respingere, chiudere a chi dalla strada viene, o da paesi bombardati, o dalla fame. Dall’altro c’è anche chi ritiene che, per avere dignità, l’arte dei murali debba rimanere impertinente, selvaggia, devastatrice. Non credo sia azzardato paragonare queste posizioni a quelle di chi protegge un’avanguardia fine a se stessa, astratta, potente e altezzosa, oppure butta a mare ogni novità e originalità per rifugiarsi nel già noto, che rassicura perché ripropone senza trasformare. 1 G. Lapassade, Ph. Rousselot, Le rap ou la fureur de dire, Paris, Loris Talmart, 1996; Rap, il furor del dire, traduzione italiana, Lecce, Bepress, 2009. 2D. Toop, 3 A. Storia di una musica nera, Torino, EDT, 1992. Riva, Street Art, Sweet Art, Milano, Skira, 2007. C’è un pensiero propositivo che anima Millelemmi, Marco Tarascio, Filippo Coffano Andreoli, Aldo Nove e me, ma posso dire anche l'approccio antidivistico e sostanziale di un direttore d'orchestra innovativo come John Axelroad. Il vero cambiamento si ottiene integrando, riflettendo, desiderando, sperimentando. Assorbendo i valori che si sedimentano collettivamente, nella vita di ogni giorno come nelle arti figurative, nella scienza, nella letteratura, nel cinema. L’arte di Tarascio s’è imbevuta delle sfide nate nelle strade da parte degli afroamericani, fatte proprie dai suburbi del mondo intero, immettendole nel patrimonio della pittura italiana. E’ quanto fanno le amministrazioni illuminate in tanti Paesi, dando spazio fisico e mentale a chi voglia esprimersi senza danneggiare muri e fatiche altrui. Ed ecco metropolitane, pareti, edifici, teatri, affidati ai writer, che hanno vivificato e animato quartieri centrali o periferici. Ed ecco a Milano il coraggio di Carmela Rozza, assessore ai lavori pubblici, di affidare superfici e muri liberi ad artisti liberi. Con il sorriso della gente, con il sostegno degli abitanti. Il messaggio di Aldo Nove, che ha attivato la mia musica, è un no alla trasgressione compiaciuta, tanto simile in fondo alla conservazione museale. Nell’estetica come nella politica, è solo da un confronto che può nascere nuova vita. Attraverso quell'empatia che le neuroscienze stanno indicando essere alla base della nostra fisiologia. Riportandoci al corpo, al nostro, a quello degli altri esseri viventi, a quello che ci contiene e contiene l'arte, che ha ragioni proprie di cui bisogna tenere conto. Un corpo sul quale i suoni agiscono come rinnovatori cellulari - è ciò che sostiene Cristina D’Agostino, scienziata esperta di onde d’urto - e che tanta cosiddetta musica contemporanea ha preso gusto a torturare, a frustrare. Ho trovato ulteriori conferme in tal senso, e spunti di riflessione, nel recente studio elaborato dall’Università di Psicologia e Neuroscienze della California: Neural Processing of natural sounds.4 Smettiamo di bollare il pacifismo, con gergo caro alle xenofobie, come buonismo in senso deteriore. Parlare di pace è l’unica vera trasgressione quando, per l’ennesima volta in questi giorni, s’invoca la guerra contro un terrorismo nato da quella stessa guerra. In un cerchio perverso sordo alle teorie scientifiche (anticipate da antichissime cosmogonie) sulla nascita del tutto da un suono comune originario, biologico, che ci appartiene e a cui apparteniamo.5 Ora che continuamente s’inneggia all’esclusione in nome della difesa, abbiamo sfidato il trend dell'esibizione muscolare proponendo valori costruttivi anziché distruttivi. 4 Theunissen 5 FE, Elie JE, in “Nat Rev Neurosci”, giugno 2014, 15(6), 355-66 Devo queste conoscenze sempre alla Professoressa M. Cristina D’Agostino, specialista ortopedico e responsabile Centro Terapia e Ricerca Onde d’Urto Humanitas Milano. Il mondo degli adolescenti non è il destinatario dello Specchio magico. Alcune idee fondanti derivano in effetti dall'avere inizialmente ricevuto la richiesta di un'opera per ragazzi. Modificatasi la primitiva proposta, abbiamo mantenuto il nucleo fiabesco sul quale Nove e io avevamo già fantasticato. Padre di tre teenager, ho poi lasciato affiorare qua e là echi del loro sentire, mentre scrivevo per rivolgermi al pubblico, al mio solito pubblico, che come ogni vero pubblico contiene età tenere e mature. Convinto che ci si debba sempre e comunque tentare, di superare le barriere demagogiche erette strumentalmente anche fra generazioni. Non dimentichiamo che, dopo le armi, è il consumismo indotto nei giovani e nei giovanissimi (di oggetti, fumo, alcol e droghe) a sostenere la più alta concentrazione di profitto e di criminalità organizzata. Che spesso sfrutta ignominiosamente proprio la manodopera minorile. Il bullismo, l'arroganza, la crudeltà, l'indifferenza ostentata nei branchi giovanili ne sono effetti collaterali, di fronte ai quali molti genitori, professori, istituzioni, fanno finta di non vedere e di non capire, voltandosi dall'altra parte. Con una scuola concentrata sulla catalogazione delle competenze o supposte tali, tutta presa a registrare le entrate, le uscite, le assenze, i permessi, in un controllo vuoto, bugiardo, eccessivo e difensivo, assente di partecipazione e di vera presenza. Dove contano i voti e non i battiti cardiaci, le abilità esibite e non gli afflati per il sapere, la corsa per arrivare prima o meglio degli altri e non il bello d’esserci e d’imparare, la burocrazia e non la lotta contro i baratri delle dipendenze, l'imposizione nozionistica e non il seme della passione per la cultura, l'arte, la scienza. Ho invece pensato ai tanti ragazzi che fanno volontariato negli ospedali, nei centri profughi o nei canili, che si ergono a difensori del verde, che escono dalle nostre vecchie logiche per insegnarci con semplicità la cosa più difficile e rivoluzionaria: l’amore. Ed è a una grande donna che avevo deciso di affidare un’aria emotivamente e strutturalmente conclusiva. Quando l’avevo scritta, Aung San Suu Kyi non aveva ancora vinto le elezioni nella tormentata Birmania. La sua voce sembrava quella di una pacifista valorosa ma di fatto schiacciata, esclusa. Ha dimostrato di non esserlo. Ha recentemente sconfitto i suoi persecutori, dando carica a tutti noi, coinvolti in quest’opera che osa parlare di amore. Senza vergognarsene, e fuori dagli ambiti lacrimevolmente compiaciuti in cui solo sembra lecito farlo. Quasi l'avessimo espulso dalla dignità più nobile cantata in tutti i secoli e in tutte le culture. Relegato alla TV spazzatura, alle dinamiche retrive (non tutte lo sono, proprio no) dei social, al conformismo di facciata. Riappropriamocene. Da un decennio collaboro con un grande scrittore e un grande uomo, Amos Oz, della cui amicizia e del cui sodalizio artistico mi onoro. Ne è nata un'opera per il Petruzzelli di Bari, due melologhi in sinergia con un altro partner di vita e d'arte, Michele Serra, anch'essi ispirati a protagonisti bambini e che hanno debuttato a Milano e Parigi, un poema sinfonico diretto da Chailly al Gewandhaus di Lipsia. Da Oz ho imparato moltissimo. Qui voglio solo ricordare un suo pilastro esistenziale, etico, politico, estetico. Il compromesso. Che non ha alcun retrogusto spregiativo. Che è medietas nella sua accezione più alta. Quella che Oz ritiene necessaria per la convivenza. Evitando la retorica e la demagogia, che sono tali quando non considerano gli oggettivi, concreti problemi legati allo sforzo di rispettare i principi d'accoglienza e i diritti alla sicurezza, entrambi sacrosanti, spesso in complessa contraddizione reciproca. Un equilibrio dinamico da ricercare continuamente, anche quando si tratta di tutelare l'ambiente senza chiudersi in posizioni rigide e preventive, che di frequente, non valutando le molteplici sfaccettature dei fatti, conducono a esiti opposti. Perché non ha senso essere ciechi sui limiti e sulle difficoltà proprie e altrui, soggettive ed oggettive. Bisogna scendere in campo prendendo davvero in esame le esigenze e i punti di vista esterni al nostro pensiero, al nostro obiettivo, per quanto giusto siamo convinti che sia. Solo dopo questa fatica, dopo aver introiettato i chiaroscuri, abbiamo il dovere di non derogare sulla sostanza e sui valori. É lo stesso motivo per cui non si può amare il prossimo se non si ama se stessi. E viceversa. Dobbiamo guardarci nello specchio, e vederci riflessi come ci vedono gli altri. Per dirla con un Leitmotiv dell'opera: "bene -male- universale...." Con la stessa irriverenza - e innocenza - con cui ha avuto il coraggio di condividere anfratti dolorosi e oscuri della sua vita o di dedicare poesie mistiche e raffinate alla figura di Maria, di affrontare temi scottanti fuori da ipocrisie o di sognare con gli occhi di un bambino, Aldo Nove ha inserito in questo libretto la parola amore. Facendone il cuore, la sostanza, la sfida dell'opera. Dapprima stranito per tale audacia, poi abbagliato dalle rime alte di musicalità la cui sapienza antica tanta letteratura aveva dimenticato e tante opere liriche bandito, ne ho recuperato il senso con i suoni e nei suoni. Fuori da un iniziale, sconvolgente e sconvolto, adolescenziale imbarazzo, che s’è poi trasformato in meraviglia commossa e incredula, generatrice, in quanto omogenea e quindi compatibile, dell'essenza creativa. Grazie Aldo. IL RAP DELLA LIBERTA’ di ALDO NOVE Non esiste una cultura di strada. Ma esistono le strade e innanzitutto i crocicchi, cari ai Greci e ai Romani che ne fecero luoghi di culto. Indicano incroci. Dove le storie si incontrano. Le storie sono sempre convergenze di diverse nature. La stessa Natura, quella con la maiuscola, è il continuo ribollire di incontri. Oppure di scontri. E poi c’è la Storia. Quella con la maiuscola, che è il fiume dove sfociano quelle con l’iniziale minuscola, e dai cui riemergono. Integre. Massacrate. Riemergono. Ma non sempre. Lo specchio magico vuole essere una fiaba che ci racconti, attraverso l’anima di un bambino, l’incontro con la Storia e le storie che la formano e che ne scaturiscono. Vuole o meglio vorrebbe mostrare quanto numerosi siano, in quel prisma multicolore o troppo spesso opaco che è la vita, i lati che ci riflettono. Ogni favola è un gioco, un gioco a metà. Diventa altro quando “il gioco si fa duro” e peggio ancora saltano le regole. In realtà, quella che leggiamo sui libri di scuola, quella stessa che noi per convenzione chiamiamo Storia è la costellazione di queste eccezioni, sotto un cielo che diventa sempre meno illuminato, scuro. La Storia diventa sopruso, e quando il sopruso diventa norma la fiaba si trasforma in incubo. A molti piacciono gli incubi. A noi no. Per questo Lo specchio magico racconta storie esemplari. Storie di individui che hanno voluto (re)inventare la vita per il miracolo che è e dovrebbe essere. Una grande scrittrice parlava di un mondo salvato dai ragazzini. Piccola nuvola potrebbe rappresentare proprio loro. I ragazzini che seguono il pifferaio magico della verità. Della giustizia. Della non violenza. Di quei casi esemplari in cui qualcuno ha saputo dire “no” ai sogni guasti che, anche e particolarmente in questo momento storico, rischiano di travolgerci come un mare in tempesta. Un’educazione alla vita, dunque. Ai valori della vita che sono innanzitutto il rispetto della stessa nella molteplicità delle sue espressioni e delle sue culture. Nulla di “puro”. “Contaminazione” come energia. Come quel “brodo primordiale” da cui inaspettata nacque l’inaudita avventura umana e che continuamente, chi non sa giocare, chi non vuole giocare, chi pensa di avere già vinto e chi trucca il gioco rischia di mandare in frantumi. Come uno specchio che non riflette più nulla. Abbiamo scelto così l’intreccio di storie diverse, diversamente collocate nello spazio e nel tempo (dall’antichità ad oggi) ma tutte caratterizzate da una volontà di riscatto, di pace, di giustizia e verità. Parole pericolose, perché chi le usa è spesso chi le nega, truccandole oppure rendendole semplicemente parziali. Piccola Nuvola capisce che noi siamo, alla fine, un’Unità. Spaccata dalla vanità. Dal gonfiore di un “io” che non può che portare all’esplosione del senno. Quello che l’arte, anche la più trasgressiva, come per magia alla fine ripristina. Un romanzo di formazione, quindi. Un altro Pinocchio. Il ventre della Balena è la Storia. Episodi esemplari che abbiamo scelto per renderne alcuni esempi, per farne una possibile Sintesi. La Storia... che poi è la cultura, il dolore e l’amore, le sofferenze e le gioie di tutti noi. Tutti. Lo specchio magico ci conduce attraverso di essa. Aldo Nove NOTE DELL’AUTORE - ALDO NOVE Non ho mai creduto nella supremazia della letteratura sulle altre arti. Anzi, sono scrittore “per caso”. Perché il mio primo insegnante di musica fu pessimo, lasciandomi un imprinting negativo incolmabile e perché con le pitture, da bambino, ci pasticciavo talmente, tornandoci e ritornandoci sopra, da devastarle. Chissà, forse facevo action painting ma non ne ero ancora consapevole. Il teatro poi era letteralmente impraticabile, fino ai vent’anni ho balbettato ai limiti dell’afonia. Ma ho sempre creduto nella poesia. “Poesia”, in Greco, significa, lo sappiamo, “fare”. Non c’è arte che non sia azione. Di più. C’è il fattore storico. Il “fare” dell’arte non è (almeno non lo è immediatamente, non lo è sempre) finalizzato all’unico fare dell’odierna religione di massa che è quella del denaro. È un fare che c’entra con l’utopia. L’utopia è un non luogo. Non è un non tempo. Il fare dell’arte crea nuovi tempi. Li anticipa. Oppure letteralmente li crea. Ho incominciato a scrivere poesie a quattordici anni. Le mie prime prose un paio di anni dopo. Ma scrivevo anche testi di canzoni. Ascoltavo musica. Tanta musica. Si può dire che la musica mi ha salvato nel periodo più difficile della mia vita: quando, tra i sedici e i diciassette anni, ho perso entrambi i genitori. In quel duro ma fecondo apprendistato della vita ho capito che la mia missione era trovare una forma di integrazione che non poteva più essere quella naturale della famiglia. La mia famiglia è diventata l’arte. Una famiglia fatta di poeti, scrittori, musicisti, artisti, fotografi, scultori. Una famiglia in cui da generazione a generazione si trasmette un “sapere” immediatamente inutile perché proiettato altrove ma che, mentre lo si fruisce, lo si interiorizza, diventa germe di futuro. L’arte è una scommessa viscerale sul futuro. La poesia, in qualunque sua forma, ne è l’emersione ma soprattutto la sua messa in comune. In qualunque forma, così come sono svariate le forme della vita stessa. Ho sempre mal tollerato la suddivisione della musica in generi. Credo che abbia una valenza di mercato. La forma della canzone, con l’ausilio del testo, ne svela bellamente l’arcano. Tanto che un orribile aria d’opera crolla di fronte a una “canzone di consumo” di grande qualità. Nel 2016, poi, tale classificazione perde ancora di più senso. Abbiamo passato decenni in cui la “musica colta” poteva definirsi tale solo se letteralmente indigeribile, ponendosi grottescamente in opposizione a una musica “di consumo” rea di essere fruibile. E negli stessi anni, ottimi artisti pop hanno sfiorato il ridicolo componendo “opere” di un’ingenuità degna di una lettura al massimo sociologica. Fabio Vacchi è il musicista che, sulla scorta della conoscenza innanzitutto di Mozart (in questo coadiuvato anche dalla sodale di una vita Lidia Bramani, che di Mozart è una delle massime esperte ma non solo) è uno dei pochi, pochissimi musicisti uscito non indenne, ma rafforzato, da decenni di assurde contrapposizioni tra opposte scuole di musica “colta”. “La musica contemporanea mi butta giù”, cantava Battiato in una delle sue canzoni più popolari. Buttava giù anche me. Non quella di Fabio Vacchi. Coltissima e all’insegna di quella “giusta misura” mozartiana che tiene lontani da eccessi autoreferenziali ma parla al pubblico, alla mente e alla cuore del pubblico. E, animata da una forte tensione etica, non ha mai smesso di cercare di esprimere valori. La magia della musica di Fabio Vacchi è la sua laica sacralità. La sacralità di una società che mai come oggi ha bisogno di riproporsi battendo nuove vie senza nulla scartare di quelle tradizionali che ne sono perenne fondamento. “Il classico – diceva Ezra Pound – è il nuovo che resta nuovo”. Per questo collaborare con Fabio (e diversi sono ormai i lavori che ci hanno visti insieme all’opera, a partire da quella forma oggi piuttosto negletta ma tanto – e giustamente – in auge ai tempi di Mozart, il melologo) è per me un piacere infinito. La consapevolezza ormai di una sfida in comune in cui si mettono in gioco i fondamenti di quell’araba fenice che è l’arte e che ognuno è libero di esercitare come vuole. Purché sia contagio di emozioni. In uno stadio o in una sala di conservatorio. Per strada o al MOMA. L’arte è ovunque. Agli artisti il compito di renderla visibile. Aldo Nove IL SUONO DELLA STORIA di FLAVIO CAROLI Il punto di svolta verso una “nuova” modernità (non so esprimermi diversamente) in tutte le arti (musica, pittura, letteratura, teatro, architettura…) è coincisa con il passaggio dalla “concettualità” del processo creativo alla ricerca di una nuova idea di “bellezza”. Questa parola – magica e primaria nello stesso tempo – all’inizio degli Anni Ottanta appariva ormai impronunciabile. Artisti intrepidi come Fabio Vacchi e Anselm Kiefer cominciarono faticosamente a lacerare un bozzolo di divieti intollerabili, e progressivamente le parole bellezza e seduzione tornarono a far parte – naturalmente, com’è nella logica delle cose – della creazione artistica. Fu un cammino impervio (sostanzialmente il cammino di una generazione), che necessitò di convincenti sostegni anche teorici. Conosco Fabio Vacchi fin dalla nostra prima giovinezza. E mi commuove il fatto che, senza alcuna comunicazione diretta, in quel passaggio contrastatissimo, per sostenere alcune scelte sentimentali e intellettuali evidentemente comuni, ci siamo rivolti alle stesse fonti, ai tempi poco conosciute e pochissimo frequentate. Personalmente ho studiato passo passo la storia della Fisiognomica, cioè la storia, come diceva Cartesio, della rappresentazione delle Passioni attraverso l’Anima e il Volto: la linea introspettiva dell’arte occidentale. Vacchi ha percorso un cammino affine, con un’attenzione più specifica all’ultimo capitolo di tale fiume carsico risolutivo per tutta la civiltà europea, il campo delle neoroscienze; ha studiato cioè la percezione delle emozioni e dei moti di empatia, che è quanto dire l’espressione e la comunicazione delle Passioni. “Ulf Dimberg ha constatato come, nel vedere qualcuno sorridere, si rimanga talmente contagiati da atteggiare analogamente i muscoli del volto”, scrive il compositore in un suo eloquentissimo saggio. La conclusione è perfetta: ”Si può e si deve forzare, spingere, riesaminare, reinventare la tradizione, si può perfino ribaltarla, con l’ironia, con il gioco, con la provocazione, Ciò che non si può fare è prescindere dalla sua esistenza, nasconderla, rifiutarla. Come non si può negare il corpo con le sue ataviche ragioni. Il nostro e quello degli altri, senza i quali nessun compositore e nessun artista, per quanto megalomane possa sentirsi, e per quanto vanaglorioso il sistema dei circuiti organizzativi possa illusoriamente renderlo, esiste davvero nella percezione e nella memoria delle persone” . Oggi è lecito dire che Vacchi ha vinto la sua battaglia, e con lui l’abbiamo vinta noi che crediamo nelle stesse idee. Ma Vacchi ha anche capito che adesso è tempo di allargare, per così dire di universalizzare il discorso. Si tratta di trasferire l’anima delle passioni in una visione filosofica del mondo, e in una creazione che abbracci, anzi utilizzi, l’eternità delle stesse passioni, e applichi creativamente un’idea di bellezza che non può non appartenere anche alle ultime generazioni. L’ambizione è alta: una specie di cosmogonia scritta con gli strumenti della bellezza universale. E’ l’ambizione che anima in primis quest’opera presentata al Maggio fiorentino. Vacchi e Aldo Nove (“La nascita della musica occidentale è inscindibile dall’intonazione delle parola. E in fondo la stessa tradizione strumentale modella in origine le proprie melodie sulle linee vocali che imita e assimila. C’è quindi un rapporto direi quasi simbiotico tra la letteratura e la musica, di cui il teatro si fa mediatore e collante”, scive il musicista); Fabio Vacchi e Aldo Nove si incaricano di parlare contro la guerra, comunicando la necessità di affrontare i problemi individuali e collettivi senza fare ricorso ad alcuna sopraffazione. Il tutto avviene sull’onda per me eccezionalmente emozionante di note governate da una specie di languore malinconico, che io identifico, quanto a suggestioni personali, con il suono della Storia. Ma il messaggio della musica viene diffuso anche in una sala dove opera, crea, il pittore Marco Tarascio, detto Moby Dick, in una sinfonia mirabile che sposa il patrimonio colto della grande musica con quello popolare (quanto a utilizzo sociale) della Street art; una sinfonia, o una “Jam session”, che coniuga il passato e il presente, in nome di un futuro che deve essere refrattario ad ogni sclerosi o rigidità di pensiero. Sapienza della tradizione e nuovi linguaggi. La cosa veramente importante è che tutto ciò avviene sotto l’egida della Bellezza; della nuova Bellezza. E’ GIUNTO IL TEMPO DI FABIO VACCHI di JEAN-JACQUES NATTIEZ Difficile non situare nella storia della musica una nuova opera di Fabio Vacchi, cinque mesi dopo la scomparsa di Pierre Boulez (nato nel 1925), uno dei giganti della modernità e l'ultimo a lasciarci della prestigiosa schiera che ha trasformato il paesaggio musicale moderno: György Ligeti (1923-2007), Luciano Berio (1925-2003), Karlheinz Stockhausen (1928-2007), Henri Pousseur (1929-2009). In molti l'hanno fatto notare: la morte di Boulez segna la fine di un'epoca, si gira pagina. Ma per lasciare il posto a quali nuovi capitoli? Vacchi nasce nel 1949, quando Boulez ha già scritto le sue prime opere: le Notations pour piano (1945), nonché Sonatine pour flûte et piano e la Première sonate pour piano, entrambe del 1946. Fa dunque parte di una nuova generazione che si confronterà, negli anni della formazione, con il radicalismo di un'avanguardia che ha i suoi fondamenti nel ricorso sistematico e talvolta esasperato alla scala dodecafonica di Schönberg, Berg e Webern, e con una militanza politica non meno radicale,1 basata sull'ideologia di Marx e Lenin, volta a promuovere il proletariato come classe universale in una società senza scale gerarchiche od economiche. Per capire l'orientamento estetico delle opere attuali di Vacchi non è inutile ricordare ciò che caratterizzava l’avanguardia di ieri, nel fare proprio un postulato semiologico massimalista: l'essenza della musica risiede nella sua forma. Con una triplice conseguenza: il gioco delle strutture era considerato come più importante rispetto alla dimensione espressiva ed emotiva della quale ci si sforzava persino di negare l'esistenza; il progetto compositivo consisteva essenzialmente nel calcolo combinatorio che era all'origine dell'opera; la forma e la dimensione immanente erano più importanti della sua percezione. Come l'Uomo con la U maiuscola secondo Marcuse, per i seguaci di questo orientamento l'opera era a una dimensione e in quanto tale rientrava nell'ordine della verità, che si manifestava sotto le forme di un proselitismo messianico secondo cui si sarebbe imposta presto come IL PARADIGMA musicale unico e indiscutibile. Questo assunto era motivato, sul piano estetico, da un bisogno esacerbato di purezza che si accompagnava a un atteggiamento per così dire 1 Eccetto Ligeti, che si è rifugiato in Europa occidentale dopo la mancata rivoluzione in Ungheria nel 1956. morale: come per l'espressione dei sentimenti, il piacere che si poteva provare nell'ascoltare musica era oggetto di scherno e l'edonismo era considerato una categoria sospetta. C'era qualcosa di puritano nell'avanguardia musicale del dopoguerra, una dimensione che mi sembra presente anche nell'ideologia politica e, oggi, nel pensiero religioso, quando ciò che c'è di più umano nell'Uomo è negato in nome del futuro dell’evoluzione artistica, o della costituzione prossima di una società perfetta, o dell'obbedienza alla volontà divina. L'affermazione di verità assolute in ambito estetico, politico e religioso si manifesta in fogge simili - dogmatismo, fondamentalismo, integralismo - che si basano sullo stesso principio: ieri come oggi, le realtà empiriche vengono negate in nome di principi trascendenti considerati immutabili. Ma il destino di ogni pensiero e di ogni atteggiamento riduttivo è quello di essere gradualmente reso obsoleto dall'evidenza della concretezza, della tangibilità, della materialità: ciò che è scacciato dalla porta ritorna dalla finestra. Verrà senza dubbio il giorno in cui le distruzioni operate dagli integralismi religiosi, di cui oggi subiamo le sanguinose conseguenze, freneranno la loro avanzata, anche se ci vorrà molto tempo, perché le parole d’ordine delle fedi trascendenti hanno più presa sugli animi dei dogmatismi politici. Il crollo delle società comuniste totalitarie è avvenuto, il ripristino dell'economia di mercato è già acquisito in Cina e sta per realizzarsi a Cuba. Negli anni Ottanta l'avanguardia musicale del dopoguerra ha cominciato a mostrare segni di stanchezza a seguito di una sempre maggiore disaffezione del pubblico. E cosa si vede riemergere, anche nei compositori che incarnavano l'avanguardia? Al di là della purezza puntillistica della musica, il senso della linearità coerente del discorso musicale: questo è il senso delle opere di Berio eloquentemente denominate Sequenze o Chemins, in opposizione a KontraPunkte (Stockhausen), Structures o Éclat (Boulez). Oltre il formalismo, la rivalorizzazione dell'espressione: si è addirittura parlato di “riemersione del represso”. Una nuova attenzione alle possibilità percettive degli ascoltatori, e poco a poco l'idea che si scriva musica non in funzione di un ipotetico futuro estetico-politico, ma per l’ascoltatore concreto, che vive oggi, qui e ora.2 Credo che la scommessa sia stata vinta. Come spiegare, altrimenti, che il 5 luglio 2014, quando l'Orchestre de Paris ha eseguito Dai calanchi di Sabbiuno di Vacchi in omaggio a Patrice Chéreau, il pubblico del Festival di Aix-enProvence abbia tributato un'ovazione incondizionata al compositore? È avendo presente questo contesto che si può a mio avviso comprendere l'orientamento estetico di Fabio Vacchi. Ascolto le sue composizioni sinfoniche: ci sento un uomo che, cresciuto nel serraglio del serialismo imperante degli anni Cinquanta e Sessanta, ha perso le illusioni incantatrici e volontaristiche del periodo modernista, ma che ha saputo integrarne le esperienze, in particolare per quanto riguarda la finezza e il dettaglio della scrittura; che ha 2 Per altre considerazioni su queste analogie fra musica e politica, cfr. Jean-Jacques Nattiez, Il combattimento di Crono e Orfeo, Einaudi, Torino, 2004, cap. I. ereditato da Mahler, Ravel e Berg un senso sottile dell'orchestrazione, cosa che non era sempre vero per alcuni compositori del dopo guerra, più attenti alle strutture che alle sonorità cangianti, troppo superficialmente rifiutate come edonistiche. Ritorno regressivo? Chi si lamenterà per il sopravvivere dell’espressività? Bisogna proprio dirlo: le opere di Vacchi sono belle, spesso cupe e tormentate, talvolta lievi e sognanti o addirittura giocose, mai noiose. Vacchi rivendica il principio di piacere. Anche quando utilizza una scrittura complessa, come è spesso il caso - si pensi agli splendidi Quartetti per archi - le sue opere si riallacciano a quelle che mi sembrano essere le due dimensioni fondamentali della musica, direi anzi dell'essenza stessa musicale: la linearità e l'uso di punti di riferimento. Addirittura non riesco a fare a meno di domandarmi spesso come possa essere successo che queste dimensioni siano state dimenticate od osteggiate. Non è un caso se i compositori della modernità imperante hanno o mancato l'incontro con le opere drammatiche e liriche (Ligeti, Berio) oppure non sono riusciti a comporre un'opera, come invece avevano promesso con insistenza (Boulez). Non è il caso di Vacchi, il quale, al contrario, si trova particolarmente a suo agio nella composizione di brani vocali. Gli dobbiamo nove opere liriche, senza contare i Lieder. E se fossero i lavori per il teatro musicale e più in generale i pezzi vocali a fare da modello a quelli puramente strumentali? Un ritorno a un giusto stato di cose, se si pensa che il 90%, forse più, delle musiche in tutte le culture del mondo sono proprio musiche vocali. In Vacchi domina l’idea di narrazione musicale. Non si tratta però, nei pezzi orchestrali o nella musica da camera, di imitare i procedimenti retorici dei discorsi letterari e linguistici. E non direi che Vacchi ci faccia sentire dei “racconti” musicali, perché la musica in sé stessa, anche quando si tratta di un poema sinfonico, non racconta mai una storia,3 ma può suscitare in noi quelle modalità narrative di ascolto che secondo François Delalande4 facevano dire ad Adorno, a proposito di Mahler, che le sue sinfonie sono “dei romanzi che non raccontano niente”. In tutte le opere di Vacchi ogni momento preciso, ogni lasso di tempo omogeneo, ogni frammento elaborato presuppone quello successivo, perché la risposta data si impone come una necessità dopo ciò che è si è sentito o, altrimenti, perché lo sviluppo sonoro, giocando con le nostre aspettative, ha saputo sorprenderci e aprire il seguito dello sviluppo musicale verso nuove direzioni. Benché non si possa memorizzarne lo sviluppo melodico con la stessa facilità con cui seguiamo le arie di Puccini, le opere di Vacchi hanno un loro modo di cantare e di imprimersi nella nostra memoria. Da assiduo ascoltatore delle musiche della tradizione orale, il Cfr. Jean-Jacques Nattiez, “Racconto letterario e 'racconto' musicale. A proposito di un'illusione omologica”, in La narratologia musicale. Applicazioni e prospettive, a cura di Angela Carone, Torino, Trauben, 2006, pp. 227-284. 3 4 François Delalande, Le condotte musicali, Cluev, Bologna, 1993. compositore ha potuto constatare come la maggior parte delle musiche del mondo, comprese quelle non tonali, siano strutturate intorno a note polari che organizzano la direzione del discorso musicale e permettono all'ascoltatore di seguirne la progressione. Per Vacchi l'opera musicale non è solo un gioco di strutture astratte, ma, senza per questo abbandonare il rigore della scrittura, è anche un progetto destinato a toccare gli ascoltatori nel più profondo di loro stessi. Con l'eloquenza della sua sintassi decisamente affettiva, ma anche perché Vacchi è attento ai problemi sociopolitici, come evidente in molte sue opere, tra cui Dai Calanchi di Sabbiuno (1995), Diario dello Sdegno (2002), Irini Esselam Shalom (2004), Voci di Notte (2006), Teneke (2007), Tagebuch der Empörung (2011), Lo stesso mare (2011), Soudain dans la fôret profonde (2013), Veronica Franco (2014), Sull'acqua (2015), Der Walddämon (2015). Fabio Vacchi è un compositore di oggi perché crede, in campo musicale ma anche in altri ambiti - in letteratura, cinema, pittura - nelle possibilità di una “comunicazione creativa”, per usare un’espressione che gli è cara. Ma nel medesimo tempo è un tenace nemico di ogni concessione alle ricette del passato, a ciò che è facile e scontato. Questo non significa che volti le spalle alle esperienze di altre culture o di altri generi, anzi. In Terra Comune (2002) è riuscito a integrare diversi stili musicali, mescolando melodie popolari siciliane con ritmi e suoni di ispirazione africana, ma il tutto con uno stile che è solo suo. È ciò che ha fatto anche in Mare che fiumi accoglie (2007), quando si è ispirato a musiche arabe ed ebraiche, fondendole con elementi ritmici e melodici del Centro Africa, ma questo à la manière de... Vacchi. E non è per essere alla moda che introduce un “rap” nell'opera creata per il 7 maggio 2016 al Maggio Fiorentino. Pensando ai giovani e agli adolescenti vuole deliberatamente fare allusione a un genere che è loro familiare e facilitare la comprensione del pubblico, ma anche restituircene una sua versione, il Rapgesang, e dimostrare che il compositore contemporaneo può trovare linfa nei modelli di espressione sonora che si collocano al di là del solo campo delle musiche cosiddette serie. Vacchi ci dice quindi che il compositore di oggi ha il diritto d'ispirarsi ad altre musiche, ma non di imitarle pedissequamente, perché si tratta, ogni volta, di inventare. Questo è un altro motivo del piacere che si prova nell'ascoltarlo, perché ci dà l'opportunità di scoprire (e ammirare) il suo modo originale di trasformare e fare proprie prassi musicali a noi note. Non ho dubbi che l'ascolto dello Specchio magico sarà un'ulteriore fonte di scoperte. È vero, e ne sono testimonianza tutte le sue composizioni: per Vacchi è prioritaria l'unità stilistica. Certi compositori della modernità, e non tra i meno importanti come Boulez, avevano pensato di riuscirci proponendo un linguaggio costantemente rinnovato, sbarazzato di ogni reminiscenza stilistica, culturale o storica. Bisognava altresì non perdere i propri ascoltatori e, sensibile al problema, Boulez ha trovato la sua soluzione, al di là dei principi teorici espliciti, in quei due capolavori che sono Répons e Sur Incises. Ma era oltremodo possibile, sulla base di una filiazione storica che riallaccia Vacchi a Berg e ai compositori del XIX secolo in quello che hanno di migliore, ricercare un’imprescindibile coerenza di scrittura con altri mezzi, seguendo una preoccupazione costante dal tempo dei platonici e dei neo-platonici che si ritrova nell'estetica contemporanea.5 Facendo poggiare insieme macro e micro strutture sul ciclo delle quinte, la musica tonale ne aveva fatto il suo principio fondamentale. Ed è questa stessa relazione organica, come testimonia Vacchi in Mare che fiumi accoglie, che preoccupa nelle loro opere e produzioni musicali tanto un Johann Sebastian Bach che un Boulez o un suonatore di tamburo dell'Uganda. Aggiungiamo la ricerca delle compatibilità fra vari stili musicali - Bach aveva fatto qualcosa di diverso combinando stile tedesco, italiano, francese? – e avremo la chiave per comprendere ciò che, in questo periodo di dubbio e di eclettismo, certamente necessario dal punto di vista della democrazia ma non sempre riuscito sul piano estetico per mancanza di rigore e spirito critico, potrebbe indicare la direzione per un nuovo atteggiamento ai compositori di questo inizio secolo. Ciò che costituisce il valore dell'estetica di Vacchi è la sua capacità di raggiungerci alla fine di infaticabili ricerche, fuse in un linguaggio che gli è proprio ma che restano sempre perfettamente comprensibili da tutti. È giunto il nostro tempo. È giunto il tempo di Fabio Vacchi. 5Cfr. Jean Molino-Jean-Jacques Nattiez, “Tipologi e universali”, in Jean-Jacques Nattiez e altri (a cura di), Enciclopedia della Musica, vol. VII, “La globalizzazione musicale”, 2007, Einaudi, Torino e Il Sole 24 Ore, Milano, pp. 331-366. Su questo punto, cfr. pp. 354-359. FABIO VACCHI BIOGRAFIA I suoi lavori sono stati commissionati o diretti, tra gli altri, da Claudio Abbado, Roberto Abbado, John Axelrod, Luciano Berio, Carlo Boccadoro, Riccardo Chailly, Myung Wun Chung, Ivan Fischer, Claire Gibault, Daniel Harding, Neville Marriner, Zubin Metha, Riccardo Muti, Antonio Pappano, Giuseppe Sinopoli. Ha collaborato con registi, attori, artisti e scrittori come Daniele Abbado, Gae Aulenti, Giovanna Bozzolo, Giorgio Barberio Corsetti, Gianrico Carofiglio, Patrice Chereau, Lella Costa, Tonino Guerra, Yashar Kemal, Sandro Lombardi, Dacia Maraini, Franco Marcoaldi, Aldo Nove, Ermanno Olmi, Moni Ovadia, Amos Oz, Giulio Paolini, Arnaldo Pomodoro, Giuseppe Pontiggia, Roberto Roversi, Toni Servillo, Federico Tiezzi, Michele Serra. Alcune tra le opere per il teatro musicale: Girotondo, da Schnitzler (1982 Maggio Fiorentino), Il Viaggio, (1990, Comunale di Bologna), La Station thermale, (1993-95, Opéra de Lyon), Les oiseaux de passage (1998, Opéra de Lyon; 2001), Il letto della storia, (2003, Maggio Fiorentino), La madre del mostro (2007, Siena), Teneke (2007, Teatro alla Scala), Lo stesso mare (2011, Teatro Petruzzelli di Bari). Fra le opere strumentali: Briefe Büchners (1997, commissione di C. Abbado, Berliner Festwochen); Dai calanchi di Sabbiuno (1997, commissione di C. Abbado, Salzburg, brano eseguito più di cento volte in tutto il mondo); Diario dello sdegno (2002, commissione Filarmonica della Scala, dir. R. Muti); Tre Veglie (2000, commissione Festival di Salisburgo, dir. I. Fischer); Terra comune (2002, commissione di L. Berio per inaugurazione Nuovo Auditorium di Roma, dir. Myung-Whun Chung,); La giusta armonia (2006, commissione del Festival di Salisburgo, dir. R. Muti,); Mi chiamo Roberta (2006, testo di A.Nove); Voci di notte (2006, dir. Zubin Metha, Firenze); Mare che fiumi accoglie (2007, dir. A. Pappano, S. Cecilia); Prospero o dell’Armonia (Melologo sinfonico, 2009, dir. R. Chailly, Filarmonica della Scala); Tagebuch der Empörung (2011, dir. R. Chailly, Lipsia, Gewandhaus Orchestra); D’ un tratto nel folto del bosco, melologo, testo di Amos Oz (2010); Notte italiana (2011, dir. David Atherton, London Sinfonietta); Il piacere di leggere, testo di D. Maraini (2012); Soudain dans la forêt profonde, melologo, testo di Amos Oz (2013-14, Parigi, Comédie française, Salle Pleyel, CD a cura del Ministère de l'Éducation Nationale, destinato anche alle scuole di Francia), Veronica Franco, testo di Paola Ponti (2014, La Verdi di Milano, dir. C. Gibault, attrice G. Bozzolo), Il bordo vertiginoso delle cose, testo di G. Carofiglio (2014, Bari, dir. J. Axelroad, attore G. Carofiglio), Der Walddämon (2015, dir. R. Chailly, Lipsia, Gewandhaus Orchestra), Sull’acqua (sotto di noi il diluvio), testo di M.Serra, attrice Lella Costa (2015, Orchestra Sinfonica di Milano G. Verdi). Nel 2014 il Festival Mito gli ha dedicato, primo italiano, una monografia in tre concerti. Nel 2015 è stato responsabile dell’Atelier Opéra en création presso il Festival di Aix-en-Provence, nel cui cartellone, tra il ’14 e il ’15, sono stati inseriti suoi brani. La nuova opera Lo specchio magico, su testo di Aldo Nove, viene allestita nel Maggio Musicale Fiorentino del 2016. Nello stesso anno scrive Vencidos per il Festival Internacional Cervantino (Messico). E’ composer in residence al Teatro Petruzzelli di Bari e all’Orchestra Verdi di Milano. Premi: Koussevitzky Prize in Composition (Tanglewood, USA, 1974); Primo Premio al Concorso Gaudeamus (Olanda,1976); David di Donatello per il miglior musicista (colonna sonora per Il mestiere delle armi di Ermanno Olmi, Roma, 2002); Annual Lully Award 2002 per il miglior nuovo brano dell'anno eseguito negli Stati Uniti con il Quartetto n° 3; Premio Abbiati dell'Associazione Nazionale Critici Musicali per la migliore novità dell'anno (4, Il letto della storia), Rdc Awards per la colonna sonora del film Gabrielle di Patrice Chéreau (2005); Nomination al David di Donatello per il miglior musicista con la colonna sonora del film Centochiodi di Ermanno Olmi (Roma, 2007). E’ membro onorario dell’Accademia Filarmonica Bolognese. E’ membro effettivo dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Tiene un corso di perfezionamento in Composizione presso la Scuola di Musica di Fiesole. Marzo 2016 CAST Direttore d’orchestra John Axelrod Maestro del Coro Lorenzo Fratini Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino Giasone di Fere Roberto Abbondanza Alessandro di Fere Paolo Antognetti Dioniso di Siracusa Marcello Nardis Alessandro di Macedonia Italo Proferisce Rea/Alzata/Aung San Suu Kyi Alda Caiello John Dunbar, Lawrence Luca Casalin Compton, Due Calzini, Ambasciatore Pietro Picone Oppenheimer, Pawnee, Romolo Augusto Matteo Ferrara Cuoco, Sioux, Fermi, Paul Tibbet Pablo Galvez Hernandez Cantastorie Millelemmi Piccola Nuvola Filippo Coffano Andreoli Writer Marco Tarascio (Moby Dick) LO SPECCHIO MAGICO LIBRETTO Cantastorie (solo recitato in stile rap): Cosa fai, ti distrai, non lo sai/ che è adesso o mai/ se ci sei/ se ci siamo/ se restiamo/ se anneghiamo/ nel non senso/ e allora penso/ pensiamo/ se diciamo/ io ti amo/ se parliamo/ se torniamo/ ricordiamo/ la memoria/ non facciamocela rubare/ la nostra storia/ la nostra vita/ prendila/ prendiamola in mano/ è qui adesso/ non lontano/ tutta la storia/ lo sappiamo/ succede adesso/ non è lo stesso/ guardare altrove/ non c’è dove/ non c’è niente/ se non esci/ dalla gente/ che comanda/ e che ti dici/ non sei niente/ non sei niente/ Nello specchio/ ciò che è vecchio/ e soltanto/ finto presente/ è il niente/ che vogliono insegnarti/ per educarti/ a tacere/ adesso è il momento/ di ribellarti/ adesso è il momento/ di ribellarci/ alziamoci in piedi/ dimmelo che lo vedi/ lo specchio è il futuro/ non è muro/ alziamoci in piedi/ alziamoci in piedi/ e andiamo/ corriamo/ se dico/ ti amo/ viviamo/ adesso/ soltanto/ c’è adesso/ c’è, ascoltami, ascolta me/ dove sei adesso/ ascolta la voce/ il mondo/ dov’è/ PROLOGO Il Cantastorie intona come previsto in partitura Non so se avete mai sentito dire che come tutto inizia va a finire bene, male bene, male c’è un cuore in ogni storia che ripete il ritmo di ogni cuore, di ogni storia bene, male dentro ogni storia c’è la nostra vita la nostra vita è il centro d’ogni storia male, bene, universale, universale bene, male viene e scorre il ritmo, il sangue nelle vene male, bene e scorre il ritmo, il sangue nelle vene male, bene male, bene In ogni voce c’è la nostra voce e vibra in ogni luogo, s’attorciglia al tempo e ci promette, ci racconta il tempo che è passato e che verrà, il tempo che è passato e che verrà come uno specchio magico, lo specchio di un bambino speciale che ha trovato nel tempo che è passato il tempo che c’è adesso, che piccolo e perplesso, nel tempo che è passato… Sul ritornello dell’orchestra, il Cantastorie recita, ripetendo e ritmando liberamente. In ogni voce c’è la nostra voce/ e vibra in ogni luogo, s’attorciglia/ al tempo e ci promette, ci racconta/ il tempo che è passato e che verrà, / il tempo che è passato e che verrà/ come uno specchio magico, / lo specchio di un bambino/ speciale che ha trovato/ nel tempo che è passato/ il tempo che c’è adesso, / che piccolo e perplesso, / nel tempo che è passato…/ e vibra in ogni luogo, s’attorciglia/ al tempo e ci promette, ci racconta/ il tempo che è passato e che verrà, / il tempo che è passato e che verrà/ come uno specchio magico, / lo specchio di un bambino/ speciale che ha trovato/ nel tempo che è passato/ il tempo che c’è adesso, / che piccolo e perplesso, / nel tempo che è passato…/ ATTO PRIMO 1.1 Giasone di Fere: Ho visto in uno specchio, lo specchio d’un bambino, il mondo di domani, un mondo dove, non ci crederete, macchine andranno in cielo e ovunque, piene di persone dentro, persone che parlavano con altre che non c’erano, gridando in scatolette, ed altre cose assurde… Dioniso di Siracusa: Lo specchio di cui parli non esiste… Alessandro II di Macedonia: Nessuno può conoscere il futuro! Alessandro di Fere: Nessuno, padre, può vederci dentro! 1.2 Piccola Nuvola: Parlate di futuro e non sapete Ch’è solamente ciò che prepariamo coi nostri desideri e con la sete che avete di dominio. Ora guardate, ora guardate… Nel mio specchio, in questo gioco scorrono le storie, e noi che siamo i granuli del tempo, la sabbia che dall’alto verso il basso continuamente scorre disegnando le trame della vita, colorando il sogno che noi siamo, questo sogno… Ora guardate, ora guardate…. vediamolo il futuro, ma da prima vediamolo il futuro, che è presente eppure è già passato 1.3 Scena della Caduta dell’Impero Romano. Siamo nella residenza estiva, in Campania, di Romolo Augusto, ultimo imperatore romano. Giunge un Ambasciatore, bloccato sulla porta dal Cuoco, che si rifiuta di farlo passare, perché l’imperatore sta facendo colazione. Piccola Nuvola si rinchiude in uno spazio e tempo altro, nel quale danza. Romolo Augusto: Polli o nemici me li mangio tutti. Mi mangio il mondo intero. Chi è che grida? E proprio mentre mangio… Il cuoco: C’è qua un ambasciatore. Romolo Augusto: Sto mangiando… Il cuoco: Sta mangiando… Romolo Augusto:Uccidilo. Il cuoco: Lui dice che è importante. Romolo Augusto: Più dei miei polli arrosto? Ma che impudente! Via! L’ambasciatore: E’ urgente, Sire, Sire! Romolo Augusto: Mi hai rovinato l’appetito… Vieni… Allora parla. E guai a te! Fa’ in fretta. L’ambasciatore: Sire, è la tragedia… Romolo Augusto: Non ci son più polli? L’ambasciatore: E’ il crollo dell’Impero! Romolo Augusto: Devi essere affamato. Vuoi del vino? L’ambasciatore: Sta finendo tutto! L’impero sta crollando! Romolo Augusto: Qua no. Va tutto bene. Rea (figlia di Romolo Augusto, entra in scena correndo): Padre, ascolta! Viviamo in tempi bui, e tu lo sai. E per tenere in piedi questo stato corrotto il compromesso che ci è chiesto è che io sposi il ricco Krupf. L’ambasciatore: così funziona il mondo… Rea: Ti prego padre, non impormi questo! Romolo Augusto: No, no, io non t’impongo nulla. Perché sacrificare i propri figli per uno stato che corrompe e uccide? Resta fedele al tuo Emiliano. (si arresta, pensoso) Ma fammici pensare… Si può perdere tutto per amore? La scena svanisce 1.4 Danza di Piccola Nuvola Piccola Nuvola: Così nel tempo scorrono i rigagnoli dei dubbi che diventano presente, si genera il futuro. Noi ci dimentichiamo del futuro e del presente che è solo il suo cucciolo e tutto cresce, e tutto è stato prima, e nulla resta uguale eppure è questo che siamo, questo nostro ininterrotto andare, un sogno che ci tiene svegli, un cucciolo del tempo che attraversa il tempo di un riflesso nello specchio… Ricompaiono i Quattro Tiranni Greci. Giasone di Fere: Avete visto? Dioniso di Siracusa: Era soltanto un sogno. Giasone di Fere: Lo stesso sogno, insieme? Alessandro di Fere: E’ una stregoneria. Alessandro II di Macedonia: Qualunque cosa fosse, è chiaro ch’è soltanto con la guerra che si risolve tutto. Con la forza e la potenza… Piccola Nuvola danza un tip-tap Piccola Nuvola: E’ questa vita il sogno. Sono i vostri pensieri d’ogni giorno. Non capite? Ciò che sarà è solo ciò che stato… (Piccola Nuvola continua a danzare durante il Coro) Coro: Tutto è movimento, e tutto è danza, non ci si può fermare, e tutto è in apparenza… Com’è abituale agli abissi l’incominciare sempre a perpetuare quanto dell’infinito ha solo il riflesso e come nelle profondità oscure si disegna nei secoli l’ideale che è stato presente, ed è roccia o animale. E’ questo lo specchio del mare? Ci sembrano distanti i continenti, i secoli. Ma sono solo i gesti di un bambino. La danza universale. Noi siamo i movimenti. Noi siamo i continenti. Le stelle. Noi i chilometri, la storia. Gli errori, le illusioni. Noi siamo questo cielo, questa terra, e il mare…. E dunque e per questo bisogna Sì bisogna… ATTO SECONDO 2.1 Ritorna il Cantastorie che, sul tema rap dal carattere del Native American hip hop, canta: Cantastorie: Bisogna e non bisogna, bisogna questa vita che ci sogna viverla tutta senza che sogniamo di non sognarla più, bisogna solo che la sogniamo come il suo respiro ci fa fluire, bisogna e non bisogna cosa non lo so, però bisogna prenderlo per mano, e attraversarlo piano perché il futuro è ciò che nasce, è piccolo e delicato e va protetto e coccolato e preso per la mano, è un cucciolo, ogni giorno è un cucciolo, il futuro è adesso, e nasce, nasce… s’ingegna nel disegno l’aprirsi dei colori se l’impegno che ci dipinge che ci prende e spinge nel mondo è questo muro delle giornate attraversate segno dopo segno disegno segno del mondo le figure sono istanti che guardan dentro noi, davanti a noi, e non c’è poi… ma solo adesso, e tutto quello che adesso c’è di bello, è luce ed ombra, e lì c’è il cielo e il mare e le colline, stelle, le mattine non c’è confine! Segno, disegno, segno, disegno… 2.2 Alessandro di Fere (guardando insieme agli altri tiranni Piccola Nuvola): E’ solamente perdita di tempo restare ad ascoltare i sogni di un bambino Dioniso di Siracusa: Ma tu hai capito cosa vuole questo? Alessandro II di Macedonia: Per me è una spia! Una piccola spia… Giasone di Fere: Ma fatelo parlare… Alessandro II di Macedonia: Una piccola spia… Dioniso di Siracusa: … che ci vuole confondere. Alessandro di Fere: Chissà chi l’ha mandato. Dioniso di Siracusa: E’ un mago. Alessandro di Fere: Pagato dal nemico. Giasone di Fere: Ma ciò che avete visto… Alessandro di Fere, Dioniso di Siracusa, Alessandro II di Macedonia: Noi non abbiamo visto proprio nulla! Piccola Nuvola (accerchiato dai tiranni): Perché avete paura? Perché pensate voglia farvi del male? Perché vedete in ogni cosa il male e il bene ve lo dichiarate vostro? Guardate lo specchio: 2.3 Piccola Nuvola prende lo specchio magico in cui vediamo una tribù Sioux in mezzo a una prateria del Texas: ci sono uno Sioux e un Pawnee e l’uomo bianco diventato con il tempo indiano John Dumbar. Sioux: E’ mio! Pawnee: Che cosa? Sioux: Il terreno! Pawnee: Ma quale? Sioux: Ma questo! Pawnee: Ma questo quale? Sioux: Quello che mi calpesti. E’ mio! Pawnee: Perché? Sioux: O bella! Perché è mio! Pawnee: Non è così. Anzi devo dirti qualcosa… Sioux: Che cosa? Pawnee: Che è mia. Sioux: Cosa? Pawnee: Questa terra è mia! Sioux: Perché? Pawnee: O bella! Perché è mia! Sioux: Ehi, occhio a cosa dici! Attento, amico, attento! John Dumbar (s’intromette tra i due litiganti): Cosa succede? Sioux: Chiedilo a lui! Pawnee: L’amico qua è impazzito. Sioux: Lui vuole la terra che mi spetta! Pawnee: Attento a ciò che dici! Sioux: Questa terra è mia. Arrivano la moglie di Dumbar, Alzata con pugno, e il loro lupo, Due calzini 2.4 Alzata con pugno: Cosa succede? John Dumbar: Si sono innamorati del potere… Alzata con pugno: Del potere? Sioux e Pawnee (Insieme in canone): E’ lui che vuole le mie cose! Vuol derubarmi! Non lo sopporto più. E’ lui che vuole le mie cose! Vuol derubarmi! Non lo sopporto più… Due calzini: Fate silenzio! Dimenticate chi siete? Questa terra che vi sostiene non può esser vostra perché voi le appartenete. Appartenete al cielo ch’è di tutti e tutti ci contiene. Ma chi v’ha messo in testa queste cose? Guardate attorno, è tutto sacro, è uno. E’ uno il cielo e noi siamo quell’uno. Una la terra. Non è di nessuno. Noi siamo il suo respiro. Noi respiriamo e gli alberi respirano, respirano le pietre e il vento, è il mondo che respira. Noi siamo il suo respiro. Non ve lo ricordate quello che dicevano gli anziani delle nostre tribù? (indicando i quattro punti cardinali) Il nord è sacro perché è a nord che dimora l’inverno, è li che nasce la saggezza. Il sud è sacro perché è a sud che nascono l’innocenza e la fiducia nel mondo. E’ sacro l’est, è a est che nasce il giorno. E’ sacro l’ovest dove il mondo muore: di qua la luce e al suo opposto c’è il buio, la luce che ci svela e il buio che nasconde. E questo è tutto. (compare Piccola Nuvola) Piccola Nuvola: Noi siamo questo tutto. E non aggiungo altro. Altro non c’è da dire. Altro sarebbe male. Inutile. Non c’è niente che è più di tutto. Alzata con pugno (prima di andarsene, ai due indiani, indicando loro il marito): Adesso lo capite perché preferisce parlare coi lupi? Sioux e Pawnee: Capisco solo che un lupo no, non parla. Come fa a parlare un lupo? Sioux: Questa terra è mia! Pawnee: Stai zitto tu! E’ mia, lo vuoi capire? Due calzini, prima di correre dietro ad Alzata con pugno e Balla coi Lupi, si rivolge a Piccola Nuvola. Due calzini: Lo vedi come sono i grandi? Non vogliono veder, son ciechi. Loro sanno, almeno così dicono… Non vedono. E ovviamente neppure sanno e quello che sapevano lo han dimenticato… Coro: Gli adulti si dimenticano. Non guardano. Dioniso di Siracusa: Scemenze. Gli animali non parlano. Alessandro II di Macedonia: Ci vuole polso nella vita, forza e volontà. Coro: Ci vuole amore ed umiltà. Dioniso di Siracusa (ironico): Amore, amore, amore… Alessandro di Fere e Alessandro II di Macedonia (insieme, sarcastici): Ma cosa sarà mai codesto amore? Giasone di Fere: Vi spiego io cos’è l’amore. E’ solo la nostra debolezza. Nella vita conta chi vince, e per questo comanda. Così ci sono popoli inferiori, che devono restare sotto, e i grandi eroi, i re, quelli come noi, quelli che vincono… La vita è guerra e chi è più forte vince e io, non per vantarmi, sono forte davvero, e gli altri restino ai miei piedi, e striscino davanti a me. Io sono migliore, e chi non è d’accordo venga qui e lo dimostri! L’ammazzerò! I quattro tiranni (insieme): Viva la guerra! E basta con i sogni! ATTO TERZO 3.1 Cantastorie: Guarda le stelle. Guarda il cielo e il mare. Guarda ogni cosa che c’insegna ad amare. Guarda la vita che ci fa sognare. Guardala e vivila, ogni cosa è viva, ogni vita ci assomiglia, e tutto si compone e si scompiglia, e tutto è sacro, è uguale ed è diverso, e tutto è vivo e vivo è l’universo che è tutto da scoprire e tutto è grande è piccolo e infinito, è tutto da scoprire, è tutto da scoprire…. Ci sono le stelle e mondi lontani, ci sono i gabbiani, ci sono le mani. Se guardi lontano se guardi vicino questo universo non è poi diverso da un grande bambino. E’ un solo organismo e tutto è vicino, lontano. E’ vicino lontano vicino lontano vicino… 3.2 Piccola Nuvola e i Tiranni Greci guardano lo specchio magico in cui vediamo immagini delle galassie, del cosmo…Poi la scena cambia e appaiono gli Scienziati Compton, Lawrence, Oppenheimer e Fermi che discutono della bomba atomica difendendo, seppur a malincuore, le ragioni per cui è necessario usarla. Ormai è stata scoperta, la responsabilità non è degli scienziati, ma dei popoli e dei loro governi. Compton: Dall’atomo all’atomica… Lawrence: Il passo è stato breve… Oppenheimer: Ma noi scienziati volevamo solo scoprire come fa il sole a risplendere, il suo segreto. Fermi: Capirne l’energia. Compton e Oppenheimer (insieme): E ci siamo riusciti. (in canone) Ma chi ha il potere, Compton: chi comanda questa terra ne ha fatto uno strumento per distruggere qualunque cosa, tutti: bambini, adulti. Ogni forma di vita… Coro: Cieco è il potere e tutto vuole rendere strumento e tutto vuole adoperare e annichilire. E cieco è chi comanda, è il contrario della vita, è il freddo che spira sulla morte e sono i morti di ogni guerra, la stupidità. Vedo crollare le vostre città, già vedo i palazzi che un tempo abitati avete sventrato dal sangue che un tempo è stato il mio tempo, nel nulla, nel nero, dov’è il vostro orrore camminano i sogni si allattano al seno del vostro timore che emerge dal fondo del buio, respira, respira… 3.3 Piccola Nuvola è a bordo dell’aereo che porta la bomba atomica da sganciare su Hiroshima e cerca di fermare il pilota, Paul Tibbet. Piccola Nuvola(recitando): Ti rendi conto di quello che fai? Paul Tibbet: Sono un soldato e obbedisco agli ordini. Mi hanno ordinato di andare dove devo andare e …sganciar la bomba. Un lavoro pulito. Devo farlo. Piccola Nuvola: Ma non pensi a quello che accadrà? Paul Tibbet: No. Un soldato non pensa. Non deve farlo. E ora sparisci. Vai! Piccola Nuvola: Ucciderai migliaia di persone! Paul Tibbet: Ma certo, lo faccio per il mio paese. Piccola Nuvola: Il tuo paese è l’umanità. Paul Tibbet: Smettila adesso! Manca poco. Taci. Piccola Nuvola: Ma non capisci? Non capisci l’orrore? non lo vedi? Lo stai facendo tu. Ma puoi fermarti. Non farlo. Torna indietro. Ascolta. Ti prego adesso ascoltami. Un pilota, un tuo collega che è venuto prima, qua dove siamo adesso è diventato pazzo perché si è reso conto delle conseguenze. Paul Tibbet: Le conseguenze a me non interessano. Piccola Nuvola: Ascoltami ti prego, ascoltami. Ascoltami, ti prego, le conseguenze io le conosco. Ti prego guarda qui, ti prego guarda qui. Tutto si oscura. Solo musica e poi silenzio. 3.4 Il Cantastorie (Quasi gridato. Breve pausa dopo ogni barra, più lunga dopo la doppia barra): Attraverso lo specchio/ della nostra coscienza/ vediamo ogni scienza/ sappiamo ogni cosa// vediamo il futuro/ il gioco del mondo/ bisogna sapere giocarlo/ bisogna volerlo// bisogna volerlo/ e amarlo/ e tutto, l’inizio,/ la fine e il percorso/ è dentro noi stessi// il gioco del mondo/ è il solo che abbiamo/ e noi ci giochiamo,/ giochiamoci bene/ il gioco del male/ il gioco del bene/ il gioco del male/ il gioco del bene…// Il coro: Ma il male cos’è? E cosa è il bene? E chi lo decide? Il bene cos’è? e cos’è il male? Ciascuno lo sa se si ascolta. Ciascuno può trovare la risposta, e sa dov’è nascosta. E’ dentro di noi, è dentro di noi. Soltanto va zittito chi ci impone di non ascoltarla, c’è sempre chi ci dice: “non pensare, tu non pensare, tu lasciaci fare”. E’ la volontà di renderci perdenti, di annichilirci. Ma il futuro è dentro di noi. Il futuro siamo noi. Che cosa è il bene, che cosa è il male, che cosa è il bene, che cosa è il male… 3.5 I Quattro Tiranni si trovano a discutere di questi temi con un altro capo di governo, vissuto nel XXI secolo. Questa volta si tratta di una donna, voluta dal popolo, non una tiranna: Aung San Suu Kyi. Dioniso di Siracusa, Alessandro II di Macedonia, Alessandro di Fere e Giasone di Fere (in canone): “Tu dai la libertà all’uomo debole ed egli stesso si legherà a te e te la riporterà come un cane che riporta il bastone al suo padrone”. L’uomo non vuole esser libero. Dioniso di Siracusa: L’uomo non vuole esser libero e non vuole conoscersi. E se la verità è dentro di lui, come dice qualcuno, beh, non vuole guardarla. Alessandro II di Macedonia, Alessandro di Fere e Giasone di Fere: Beh, questo ci fa comodo! Ci fa davvero comodo! Aung San Suu Kyi: La comodità ci cancella dal mondo e ci fa vivere per finta. Dioniso di Siracusa, Alessandro II di Macedonia, Alessandro di Fere e Giasone di Fere: Ma cosa dici, donna? Aung San Suu Kyi: Io sono Aung San Suu Kyi e vengo da dove il tempo si è fermato, travolgendo la dignità degli uomini, afferrandone la storia, stritolandone la vita. E’ la Birmania la terra dove vivo, ma è sempre la stessa storia quella che attraverso adesso, e abbiamo attraversato tutti, la storia del veleno della gloria. Ho difeso il mio popolo, e resto immobile davanti alla violenza, ma l’ho guardata in faccia, l’ho fissata, non ho distolto gl’occhi. Noi guardiamo altrove se il paesaggio non ci piace e così ci travolge tutti. Ma ciò che ci circonda è sempre specchio di ciò che siamo, e in quello specchio ci ritroviamo, dentro quello che siamo, e cresciamo, andiamo incontro al mondo, e il mondo sarà sempre ciò che siamo. 3.7 Il Cantastorie recita in stile rap, su accompagnamento percussivo. Prima la bomba dopo la tomba prima la guerra e giù sottoterra giù sottoterra in mezzo al rumore che cresce, il dolore che aumenta e mai nulla che taccia, che faccia qualcosa ma noi sappiamo che poi se solo vogliamo cambiamo in questo bordello il brutto in bello e questo arsenale si svuoti dal male si riempia di vita si riempia di lotta un colpo, una botta incruenta, un risveglio che è meglio è meglio svegliarsi trovarsi davvero nel mondo, e il mistero di tutto il dolore si cambi in amore ci basta soltanto quel tanto di dire ora basta, ora basta, ora siamo davvero presenti, che il falso ed il vero non sono lo stesso, ed è qui soltanto che inizia l’incanto di tutta la vita che aspetta ci aspetta ed ha fretta, perché c’è il presente e oltre c’è il niente ma noi nel presente spazziamo via il niente che mente e che taccia, si strappi la faccia da gran generale, la faccia del male che arriva e ci assale ma noi gli strappiamo la faccia del male Oltre a tutto quello che c’è iniziamo noi. “Noi” è la spinta verso il mistero che ci lega tutti. Sciolto quello, si ritirano le acque, simbolo conduttore dell’energia, salvezza e pericolo. Noi siamo quello che rimane e che si trasforma. Ma quando nulla rimane, quando la stagnazione blocca il cambiamento, quando le acque si ritirano arriva un presente di quarzo che è prossimo all’orizzonte degli eventi, ai margini di un buco nero. Secondi o millenni, non ha più senso. I fatti non sono più tali. Non come li abbiamo conosciuti o li pensiamo. Ma noi ci siamo lì, fino a che respiriamo. Noi siamo quel di più che accompagna uno scambio di ossigeno in anidride carbonica. C’è un’immensa festa di elementi da fare alla sommità di una montagna, all’inizio di un cammino. Ogni nostra cellula vuole partecipare. Ogni cellula è una copia dell’universo. Un’inaudita esuberanza che nessun pianto cancella o fa disamare. Eppure qualcosa è successa prossima al disamore. Un processo ottuso di disattivazione del vitale. Un sogno guasto e cavo al centro che ha generato un’imitazione algida e al contempo scimmiesca del gioco del mondo. Un mostro che ha svuotato i numeri del loro significato sacro e li ha resi feticci di conteggio mortale. Da una parte la finanza. Dall’altra parte il sangue e il respiro, le colline e l’amore. Tutte le storie, il tempo che è trascorso e che ci rimane. Se da anni stiamo fingendo di giocare un gioco finito, prenderne atto è lo scandalo necessario. Perché giochiamo a che non c’è più scandalo. Voltando la faccia altrove. Ma altrove inizia a erodersi. Dobbiamo sederci adesso, e pensare. Abbandonare la nave che ci ha imbarcati tutti verso un porto allucinato. Scendere e ricominciare su un’altra nave. Tutto e altrove. L’Europa è un posto in cui si arriva morendo. La stanno ancora facendo. Come un disco rotto. Come un’invasione molesta di non senso. Fare la morte. Che si continua a incantare. Come un disco rotto. Come un’invasione molesta di non senso. Fare la morte. Che si continua a incantare. Come un disco rotto. Come un’invasione molesta di non senso. Fare la morte. Che ci continua a incantare. Cantastorie: c’è un cuore in ogni storia che ripete il ritmo di ogni cuore di ogni storia, bene, male, bene, male… Dentro ogni storia c’è la nostra vita, la nostra vita è il centro d’ogni storia, bene, male, bene, male… universale, universale… Viene e scorre il ritmo in ogni cosa, viene, male, bene, male, bene… Viene e scorre il ritmo in ogni cosa. Viene e va, basta guardarlo… Coro: c’è un cuore in ogni storia che ripete il ritmo di ogni cuore di ogni storia. Cantastorie: Dentro ogni storia c’è la nostra vita, la nostra vita è il centro d’ogni storia. Coro: bene, male, bene, male… Cantastorie: Come uno specchio magico che appare a chi lo vuole vedere, in ogni istante è sempre qui presente è sempre adesso il sole che splende, e tutto qui, adesso, è solamente il nostro sogno, è questo sogno che noi facciamo, il nostro specchio è il tempo. Coro: il nostro specchio è il tempo… FINE