Studi e ricerche del Dipartimento di Lettere e Filosofia
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Odio della musica?
cura e prefazione di
Valerio Magrelli
con interventi di
Michele Napolitano, Annie Oliver, Susanna Pasticci,
Luciana Pirè, Francesco Pontuale, Maria Valentini
Cassino
Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale
Dipartimento di Lettere e Filosofia
2014
Copyright © Dipartimento di Lettere e Filosofia
Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale (Italy)
ISBN 9788899052003
ISBN (e-book) 9788899052010
Direzione scientifica
Edoardo Crisci
Comitato scientifico
Girolamo Arnaldi, Sapienza-Università di Roma; M. Carmen del Camino Martínez,
Universidad de Sevilla; Giuseppe Cantillo, Università Federico II di Napoli;
Marco Celentano, Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale; Carla
Chiummo, Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale; Mario De
Nonno, Università di Roma Tre; Paolo De Paolis, Università degli Studi di Cassino
e del Lazio Meridionale; Valerio Magrelli, Università degli Studi di Cassino e del
Lazio Meridionale; Marilena Maniaci, Università degli Studi di Cassino e del Lazio
Meridionale; Antonio Menniti Ippolito, Università degli Studi di Cassino e del Lazio
Meridionale; Serena Romano, Université de Lausanne; Manuel Suárez Cortina,
Universidad de Cantabria; Patrizia Tosini, Università degli Studi di Cassino e del
Lazio Meridionale; Franco Zangrilli, The City University of New York, Baruch
College; Bernhard Zimmermann, Albert-Ludwig-Universität Freiburg
Tutti i volumi pubblicati nella collana sono sottoposti ad un processo di peer review
A cura di
Valerio Magrelli
Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale
Dipartimento di Lettere e Filosofia
via Zamosch, 43
I-03043 Cassino
Pubblicato con i fondi del Laboratorio di Studi Letterari e Inter Artes nella collana del
Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Cassino e del Lazio
Meridionale
Finito di stampare nell’ottobre 2014
Indice
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Valerio Magrelli
Introduzione. Melofobia e dintorni
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Michele Napolitano
“Süßer als die Erfüllung ist die Sehnsucht”
Note in margine a I Hate Mozart di Bernhard Lang
31 Annie Oliver
Boléro et Variations. A propos de Ravel de Jean Echenoz
et de Glenn Gould. Piano solo de Michel Schneider
47 Susanna Pasticci
Musica, valori, identità:
il riflesso dell’odio nello specchio dei suoni
77 Luciana Pirè
E.M. Forster e l’inarrivabile espansione della musica
109 Francesco Pontuale
Voodoo Chile: l’artista rock (e non solo) di Don DeLillo
125 Maria Valentini:
Musical Epiphanies in Joyce’s Dubliners
Valerio Magrelli
Introduzione
Melofobia e dintorni
La musica promette, promette,
e non mantiene mai
Federico Fellini
Era il 1947 quando Georges Bataille pubblicò La haine de la poésie
(«L’odio della poesia»). Sotto un’espressione volutamente oscura, si
celava il nucleo di un pensiero sovversivo e complesso. Fu l’autore
stesso, molto più tardi, a riassumerne in pochi tratti l’assunto principale: se solo l’odio può avere accesso all’autentica poesia, è perché
essa trova il suo senso profondo nella violenza della rivolta, ossia evocando l’Impossible. Da qui la decisione di optare per quest’ultimo,
terminale concetto, trasformandolo nel titolo dell’edizione uscita
verso il 1962.
Dovevano passare altri diciassette anni, perché, sulla scia di
Bataille, vedesse la luce il volume a più mani Haine de la poésie.
Nell’opera, immediatamente al centro di un ampio dibattito, spiccava il poemetto La Jeune Carpe, di Jean-Luc Nancy. In essa, il filosofo
proponeva una dissacrante riscrittura della celebre Jeune Parque di
Paul Valéry. Sostituire alla figura mitologica della Parca l’immagine
di un pesce qualsiasi, la dice lunga sul tipo di abbassamento parodico praticato nel testo. Ma si trattava solo dell’inizio delle ostilità:
quasi a rispolverare quello stesso rancore, sia pure in una prospettiva
completamente diversa, nel 1996 Pascal Quignard dava alle stampe
il saggio Haine de la musique («Odio della musica»).
Ebbene, quindici anni più tardi, riannodando l’arte delle lettere
a quella dei suoni, un’équipe dell’Université Stendhal de Grenoble
proponeva un numero di rivista intitolato appunto: La Haine de la
musique (a cura di Claude Coste e Bertrand Vibert, «Recherches &
Travaux», n° 78 , Grenoble, Ellug, 2011). Ma il tema doveva essere
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nell’aria, se pochi mesi dopo «Littératures» proponeva a sua volta il
numero unico La Mélaphobie littéraire (a cura di Frédéric Sounac,
n. 66, 2012). Nel solco di queste ultime due pubblicazioni, e disponendo di molti docenti amici (ma forse anche remotamente nemici?) della musica, oltre che di una musicologa, responsabile dell’insegnamento di Storia della Musica, alcuni afferenti al Laboratorio di
Studi Letterari e Inter Artes del Dipartimento di Lettere e Filosofia
dell’Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale hanno
messo in cantiere il presente volume.
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Ma torniamo al nucleo seminale di questi lavori, ossia il saggio di
Quignard. La riflessione del romanziere parte in realtà dal concetto
di imitazione. Noi siamo tutti totalmente mimetici; come la calamita attira la polvere del ferro, come il sorriso della madre risveglia
quello del bambino, come la paura si trasmette alla folla nel fremito
del panico, così la musica agisce sugli ascoltatori in una sorta di
possessione. Passività e manipolazione costituirebbero insomma i
suoi caratteri principali, il che spiegherebbe, tra l’altro, lo scandaloso, intrinseco legame col nazismo: «Mi stupisce che gli uomini si
stupiscano del fatto che chi è capace di amare la musica più raffinata
e complessa, tanto da piangere ascoltandola, sia al contempo capace
di ferocia. L’arte non è il contrario della barbarie».
Secondo Quignard, la collettività, pur cercando per millenni di
separare l’uomo dall’animale, non sarebbe mai giunta a distaccarsene completamente, come dimostrerebbe la sopravvivenza dell’istinto
ancestrale costituito dalla muta di caccia. La musica costituirebbe
appunto tale residuo bestiale, nascosto nella nostra cultura. L’odio
per questa arte ha dunque origini assai profonde. Se la rivista curata da Coste e Vibert esamina alcuni nomi tra Otto e Novecento
(Heinrich von Kleist, Alexandre Dumas, Louis-René des Forêt),
per spingersi fino al romanzo francese contemporaneo e al mondo
dei fumetti, il primo articolo, a firma Timothée Picard, traccia una
Introduzione
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puntuale genealogia del cosiddetto «meloscetticismo». Vi ritroviamo
alcuni temi canonici: l’incapacità della musica a significare qualcosa
di preciso (e quindi la sua inferiorità rispetto alla pittura, alla scultura e soprattutto alla letteratura), il suo conseguente nesso con la
sfera dell’indeterminato e dell’infinito (emerso soprattutto in epoca
romantica), infine gli effetti psicologici e morali che essa esercita
sull’individuo e la massa (sullo sfondo del pensiero di Elias Canetti
e René Girard).
In tal senso, appare fondamentale il momento in cui assistiamo
alla sua emancipazione dalla parola. La reazione di critica e pubblico
di fronte a tale liberazione del suono dal senso dovette essere impressionante, se in pieno Illuminismo D’Alembert affermò: «Tutta
questa musica puramente strumentale, senza disegno e senza oggetto, non parla né allo spirito, né all’anima». Si colloca del resto in tale
prospettiva il proverbiale aneddoto di Fontenelle, in seguito diversamente declinato da Rousseau, Diderot, Balzac, Hugo, Verlaine,
Pierre Boulez o Astor Piazzolla. Davanti a un concerto di musica
strumentale (vale a dire senza alcun testo cantato), il filosofo si sarebbe alzato furibondo, esclamando: «Sonata, che mi significhi? Che
vuoi da me?» Diversa, ma altrettanto decisa, la resistenza opposta da
Kant all’arte dei suoni: «Alla musica è propria quasi una mancanza
di urbanità a causa della proprietà che hanno i suoi strumenti di
estendere la loro azione sul vicinato, per cui essa si insinua e va a turbare la libertà di quelli che non partecipano all’intrattenimento […] È pressappoco come del piacere che dà un odore che si spande lontano. Colui che tira fuori dalla tasca il suo fazzoletto profumato tratta
quelli che gli sono intorno contro la loro volontà».
Tanta violenza si ritroverà più tardi sotto la penna di Tolstoij, che
arrivò a definire la musica come terribile, temibile, nefasta, per il suo
potere di comunicarsi a chi la ascolta, alla stregua dello sbadiglio e
del riso (ecco la fonte di Quignard). Ma c’è di più: essa irrita e illude,
«senza concludere mai». Non per niente, ricordò il romanziere, la
musica, in Cina, è un affare di Stato. In modo analogo, Paul Valéry e
Thomas Mann insisteranno sulla sua azione di contagio e assuefazione,
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V. Magrelli
il primo paragonandola alla dipendenza dal sesso o dalla droga, il
secondo descrivendola, nella Montagna magica, come un autentico
stupefacente: «La musica è l’informulato, l’equivoco, l’irresponsabile, l’indifferente […]. La musica è pericolosa».
E la famiglia dei «meloscettici» non si ferma qui. Ecco, tra gli altri,
Robert Musil descrivere il suo protagonista nell’atto di sparare a un
pianoforte, per domandarsi: «Esiste una musica idiota?», o addirittura: «L’idiozia non sarà forse musicale?» Proprio sviluppando un simile spunto, Milan Kundera parlerà di una «barbarie sentimentale»
inestricabilmente connessa all’esperienza sonora: «Stravinskij ha un
bel ricusare la musica come espressione di sentimenti; l’ascoltatore
non sa comprenderla in altro modo. È la maledizione della musica,
il suo versante idiota. Basta che un violinista suoni le prime tre lunghe note di un adagio, perché l’ascoltatore sensibile sospiri: “Ah! che
bellezza!”»
A queste osservazioni, proposte nel fascicolo speciale di «Recherches
& Travaux» dell’Université Stendhal, si aggiungono, come si è detto, i testi critici sulla melofobia raccolti nella rivista «Littératures».
Il volume si apre prendendo in considerazione alcuni interessanti casi
di «amusia» (o agnosia musicale), vale a dire disturbi neurologici che
comportano una radicale distorsione della percezione auditiva. Due
di questi illustri pazienti risultano essere stati Theodore Roosevelt e
Che Guevara, ma poco più in là scopriamo, nella testimonianza di
Maxime Du Camp, che forse alla stessa schiera erano appartenuti
anche Flaubert, Hugo e Lamartine.
Il numero prosegue con un gruppo di studi sulla poesia, che spazia dall’estetica simbolista alle opere di Rilke e Prévert. Un saggio
sul tema della «sordità musicale» tratta poi l’ostilità verso la musica
(o verso una certa musica) dimostrata da Freud, Breton e Adorno.
A un intervento su Hegel, seguono poi pagine sul jazz e la techno,
mentre una serie di articoli si concentra in maniera diffusa su narratori francesi e stranieri come Milan Kundera, Dominique Fernandez,
Helmut Kraussner, Richard Powers e Bret Easton Ellis. A margine di
tante analisi strettamente letterarie, il curatore fa comunque notare
Introduzione
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che il carattere «odioso» e deliberatamente, provocatoriamente eccessivo di tanti attacchi alla musica (uno per tutti: Thomas Bernhard)
è spesso legato sì a un desiderio di liquidazione della tradizione romantica, ma andrebbe considerato anche dal punto di vista sociale:
«Capita di frequente che un’avversione d’ordine estetico o morale
dissimuli una resistenza dovuta alla posizione privilegiata della musica in seno a quanto Pierre Bourdieu ha definito la distinzione».
***
È dunque in un contesto tanto ricco, che si collocano le ricerche
del nostro Laboratorio. Sei gli interventi, aperti dalla riflessione di
un grecista e melomane – ma forse sarebbe più adatta l’espressione di
«antidilettante» coniata da Debussy per il personaggio di Monsieur
Croche. Con le sue Note in margine a «I Hate Mozart» di Bernhard
Lang, Michele Napolitano esamina una delle più recenti opere liriche
della scuola tedesca, ripercorrendo usi e abusi del canone musicale.
Questo brillante esperimento di backstage comedy segue il modello
fornito dalla straussiana Ariadne auf Naxos, per altri versi rilanciando
quel trattamento della ripetizione che segna la prosa “musicale” di
Thomas Benhard. Viene così riproposta una forma di metateatro
basata su una corolla di relazioni umane inautentiche e falsificate:
«Metateatro, […] ma anche metamusica, musica al secondo grado».
Diverso il contributo di Annie Oliver, che si concentra invece su
due scrittori francesi contemporanei interessati al rapporto vuoi con
un famoso compositore (ma a quanto pare mediocre pianista), vuoi
con uno fra i massimi pianisti del Novecento. Da un lato abbiamo Jean Echenoz con Ravel, dall’altro Michel Schneider con Glenn
Gould. Piano solo, cui corrispondono due specifici brani: il Boléro
(«una cosa che si autodistrugge») e le Variazioni Golberg di Bach
(«una musica senza inizio né fine, senza vere tensioni né vere risoluzioni»). Pur nel loro diverso dandysmo – Ravel mondano, Gould
anacoretico –, i due protagonisti sono accomunati dal celibato come
silenzio del sesso, dall’insonnia, dalla sofferenza, dalla morte precoce,
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V. Magrelli
ma soprattutto dalla solitudine, vicina alla noia nel primo, prossima
alla vocazione nel secondo, che «eseguiva» la malattia come si suona
il piano («qui jouait de la maladie comme du piano» – per meglio
dire, «aveva con la malattia lo stesso rapporto che con il pianoforte»).
Da parte sua, Susanna Pasticci parte dalle emozioni che la musica
provoca in Gregorio Samsa: «Era davvero una bestia, se la musica lo
commuoveva tanto? Gli sembrava che gli si schiudesse una via verso
un nutrimento sconosciuto e sempre desiderato». Sebbene l’impiegato di Kafka sappia che tale passione lo condurrà alla morte, egli
non vi si sottrae, perché solo attraverso essa giungerà ad «ascoltarsi» fino in fondo, riconoscendo in sé un briciolo di umanità. Dopo
aver esaminato il romanzo Musica, di Yukio Mishima, e il racconto
L’orecchio assoluto, di Daniele Del Giudice, il saggio si sofferma sullo
scetticismo di Freud, che pure visse nella Vienna di Brahms, Mahler,
Strauss e Schönberg. La sua diffidenza, il disprezzo, o addirittura il
suo odio reattivo, si spiegano con il fatto che l’arte dei suoni gli apparve refrattaria a ogni forma di traduzione verbale e impenetrabile
agli strumenti della psicoanalisi, ossia di un’ermeneutica sostenuta
e mediata dal linguaggio referenziale. Lo studio si conclude soffermandosi sull’ostilità nei confronti della musica di due personaggi
diversi quali Piero Gobetti e Lev Tolstoj. Oltre al fatto che le loro
rispettive mogli erano due provette pianiste, ciò che li accomuna fu
la consueta tendenza a considerare la musica come l’emblema di forze oscure, e dunque «come un nemico da combattere fino all’ultimo
respiro, in nome della necessità di riaffermare la supremazia dell’intelletto e della ragione».
Più circoscritto il contributo di Luciana Pirè, la cui analisi testuale affronta il tema della musica nei romanzi di E.M. Forster.
Partendo da «quel canto di pazzia e morte che irrompe nella Lucia
di Lammermoor», il suo intervento ricostruisce il rapporto conflittuale tra musica e letteratura in Monteriano (1905), per poi passare a Donizetti e a Wagner. Il compositore tedesco (che peraltro
disprezzava quello italiano per le sue «stantie banalità») è infatti
l’inarrivabile modello strutturale per Il cammino più lungo (1907),
Introduzione
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prima di cedere il posto a Beethoven, figura centrale in Camera con
vista (1908) – un libro che non per nulla avrebbe dovuto intitolarsi
Il concerto. Luciana Pirè conclude ricordando come, dal 1939,
Forster intraprenda un’impresa musicologica di enorme portata (l’esame delle 32 sonate per pianoforte), forse già conscio che il fallimento sarebbe stato molto più probabile del successo. E in effetti,
«non la portò mai a termine».
Anche Francesco Pontuale ha privilegiato una campionatura specifica, concentrandosi sulla figura dell’artista rock in un romanzo di
Don DeLillo del 1973, Great Street Jones. Pontuale muove da Voodoo
Chile, un brano in cui Jimi Hendrix si definisce «figlio [chile] del
voodoo», riprendendo la millenaria idea di un’origine diabolica della
musica. D’altronde, tra i numerosi scrittori statunitensi e inglesi attratti dall’arte dei suoni, si segnalano Salman Rushdie, Nick Hornby,
Jonathan Lethem e Stephen King. Quanto al libro di DeLillo, benché non abbia riscosso molto successo, «si rivela profetico come
sempre», anticipando eventi e figure che ancora dovevano prendere corpo al tempo della sua pubblicazione. Male, odio, distruzione,
folle oceaniche, delirio e rock and roll sono evocati nelle vicende del
protagonista di Great Jones Street, mentre la musica, questa volta jazz
e classica, tornerà in un volume successivo, Contrappunto (2004), in
cui Pontuale rintraccia nuovamente i temi della pazzia, del genio,
della finzione e dell’artificio.
Maria Valentini ha scelto invece come argomento delle sue indagini un’opera precisa, i Dubliners di Joyce, letta alla luce delle sue
epifanie musicali – non per nulla la moglie dello scrittore affermava
che questi avrebbe fatto meglio a insistere con la musica, invece di
perdere tempo a scrivere… Quella del narratore fu un’infanzia imbevuta di suoni, con il padre tenore dilettante, la madre cantante e
pianista, e lui stesso allievo di pianoforte durante il periodo scolastico. Come se non bastasse, se negli anni universitari egli compose
musica, frequentando music hall e teatri, il soggiorno triestino lo
vide prendere lezioni di canto e accarezzare addirittura l’idea di una
carriera professionistica. Senza soffermarsi sull’episodio delle sirene
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V. Magrelli
in Ulysses o sull’inestricabile combinazione di musica e linguaggio
in Finnegans, il saggio analizza tre dei quindici «epiclets» che compongono Dubliners, ossia Araby, A Painful Case e The Dead, notando
come le allusioni musicali, benché sembrino offrire una via d’uscita
e insieme una strada per la realizzazione dell’io, «in definitiva contribuiscano soltanto a far riconoscere, nel modo più doloroso, la
loro impossibilità». Da qui la citazione di un altro grande irlandese, Oscar Wilde, secondo cui la musica rappresenterebbe «l’arte più
prossima alle lacrime e alla memoria».
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Elencati i contributi della nostra pubblicazione, e tornando alla
lettura delle due riviste francesi da cui abbiamo preso le mosse,
bisogna ammettere che entrambi i loro titoli non avrebbero potuto essere più efficaci. Infatti, le pagine di Haine de la musique e di
La Mélaphobie littéraire descrivono un fenomeno inconsueto, ma insieme alquanto diffuso, mostrando l’ampio potere d’interrogazione
dei discorsi antimusicali. Per questo, dovendo immaginare una conclusione, sarà opportuno provare ad indicarla nell’unanime condanna di un’epoca che, come la nostra, appare completamente pervasa
di stimoli acustici: molestie.
Eppure, sebbene condannati a vivere nell’ambito del «tutto sonoro», su un punto almeno chiunque sia dotato di udito dovrà convenire: l’improrogabile necessità di recuperare e tutelare il silenzio,
sia per meglio disporre l’arrivo della musica, sia per assaporare la
sua squisita assenza. Pertanto, terminando, non posso esimermi dal
citare un titolo di Giorgio Manganelli appena pubblicato: Una profonda invidia per la musica (Invenzioni a due voci con Paolo Terni, a
cura di Andrea Cortellessa, Roma, L’Orma, 2014). Qui l’odio ha
cambiato di segno. Ma non ha forse qualcosa di istruttivo, questa
sua metamorfosi, ovvero questa sua trasformazione nel sentimento
tanto più complesso che unisce, all’acrimonia, un inquietante spirito
di emulazione?