Domenica il fatto L’impossibile ritorno della Guerra fredda La DOMENICA 22 LUGLIO 2007 di VIKTOR EROFEEV e PETER SCHNEIDER il reportage Repubblica Dharavi, il ventre del miracolo indiano FRANCESCA CAFERRI e PANKAJ MISHRA Mussolini i diari della caduta I National Archives inglesi restituiscono l’originale di un documento dato per perso: i “Pensieri pontini e sardi” FOTO A3 scritti dal Duce dopo il 25 luglio ATTILIO BOLZONI tormenti del Duce in un blocco per appunti. Tristezze e paure che affiorano in ogni ricordo, in ogni pensiero. Quei suoi giorni drammatici sono raccolti in ottantotto fogli a quadretti. È in pena quello che chiamavano fino a qualche anno prima «l’uomo della Provvidenza». Per la moglie Rachele, per i figli, per se stesso. È angustiato, abbattuto. «Il sangue, la voce infallibile del sangue mi dice che il mio astro è tramontato per sempre», scrive. E rincorre con la memoria certi pomeriggi a Villa Torlonia, i suoi incontri con Hitler in Veneto, l’ultimo bombardamento di Roma, gli anni «solari» dell’Italia. Ogni sofferenza è accompagnata da un numero. Dall’1 al 75. È il diario della sua caduta. Una cronaca dal 25 luglio del 1943 alla solitudine sulle isole del Tirreno. Prima a Ponza fino al 7 agosto, poi alla Maddalena fino al 27. Sono i Pensieri pontini e sardi di Benito Mussolini. Quel suo manoscritto — che probabilmente è andato perduto — era stato però fotografato pagina dopo pagina dai tedeschi e custodito in un sotterraneo del Ministero degli Esteri a Berlino. Le riproduzioni sono state ritrovate dagli inglesi nel maggio del ‘45, portate in Gran Bretagna e conservate ancora oggi — con altri 650 fascicoli sul Duce — ai National Archives di Kew Gardens nel Surrey, a sud di Londra. Carte classificate con la sigla GFM (German Foreign Ministry) e tutte inserite nell’«Italian Collection». I A scoprire quel blocco per appunti — che i tedeschi avevano catalogato dal numero 263617 al numero 263705 — è stato Mario J. Cereghino, il ricercatore che da anni collabora con gli storici Nicola Tranfaglia e Giuseppe Casarrubea. Nel dossier «Duce-Dokumente» ci sono le stampe fotografiche degli ottantotto fogli a quadretti del manoscritto originale e poi altre ventotto pagine, una copia battuta a macchina da un tedesco. Una trascrizione imprecisa nella numerazione, come del resto nell’autografo di Mussolini. Semplici distrazioni, verosimilmente, che abbiamo rispettato nella pubblicazione. Fra i «Duce-Dokumente» c’è anche una lettera di quattro pagine datata Ponza 2 agosto 1943. È firmata da Mussolini e ha un’intestazione: «La giornata del 25 luglio». È dedicata agli avvenimenti della notte del Gran Consiglio e alle ore decisive del Duce nella giornata seguente. La colazione con la moglie Rachele, alle otto come ogni mattina a Palazzo Venezia, l’incontro nel pomeriggio a Villa Savoia con Vittorio Emanuele III. E poi un capitano dei Reali carabinieri che lo invita a salire su un’ambulanza «perché Sua Maestà mi ha ordinato di proteggere la vostra persona». Il Duce fa sapere che andrebbe volentieri alla Rocca delle Caminate, ma si accorge che la strada che stanno percorrendo «non è la Flaminia ma l’Appia». Un piccolo viaggio verso Gaeta, l’incrociatore pronto a salpare, l’isola di Ponza in lontananza, l’inizio della fine di Benito Mussolini. nelle pagine della Cultura brani dei diari di Mussolini e un commento di NICOLA CARACCIOLO la memoria Il duello secolare tra la Cina e la Chiesa FEDERICO RAMPINI i luoghi La Foce, un giardino come sfida PAOLO PEJRONE spettacoli Gaber e il suo doppio, i taccuini segreti D. CRESTO-DINA, G. GABER, S. LUPORINI e F. MERLO le tendenze Mimetizzarsi per diventare visibili NATALIA ASPESI Repubblica Nazionale 28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22 LUGLIO 2007 il fatto Risiko 2007 Gli Stati Uniti rilanciano lo scudo spaziale e progettano basi negli ex Stati sovietici. La Russia si ritira dal trattato europeo sulle armi convenzionali. Il grande disarmo si è fermato Due testimoni degli anni del Muro, entrambi fuori dal coro, ricordano quando il mondo era diviso e riflettono su quanto lo sia ancora La nuova vecchia Guerra fredda PETER SCHNEIDER ome è noto, la gigantesca sperimentazione umana del comunismo condotta in Russia, dopo circa settant’anni di durata si è interrotta. Lo sfidante ha perso la gara contro il sistema capitalistico che si era prefisso di sconfiggere. Tuttavia il titolo di vincitore assegnato all’Occidente non mi ha mai convinto del tutto. Senza dubbio dalla caduta del muro di Berlino in poi il capitalismo ha vissuto uno sviluppo mai conosciuto. Gli Stati-satellite dell’ex Urss sono passati a frotte nel campo occidentale. Ma fortunatamente non si è trattato di una vittoria per ko come proclamano esaltati i neocon americani. Il comunismo ha gettato la spugna all’undicesimo o dodicesimo round, fiaccato dai suoi stessi cittadini. Molti lo hanno dimenticato: è stato un processo unico nella storia. Una potenza imperiale (sovietica) maggiore dell’antico impero romano, estesa quasi quanto l’ex impero britannico, è uscita di scena senza colpo ferire. Gli Usa e l’Occidente vincitori? Diciamo piuttosto che sono sopravvissuti a questo sorprendente duello tra sistemi senza spargimento di sangue. Non meraviglia davvero che nel frattempo abbia fatto il suo ingresso sul palcoscenico della storia un nuovo uomo forte, un karateka. La sfida ideologica posta all’Occidente dal comunismo non interessa Putin, che non farà rivivere una battaglia già da tempo decisa. Si guarda intorno in ciò che resta della sua sfera di potere, pur sempre un enorme impero, e valuta le sue opzioni strategiche. A occidente si vede circondato da ex Stati-satellite che ormai non prestano più orecchio agli ordini di Mosca. Anche C sare degli anni diverse strutture di pena sud e a nord l’impero si sbriciola. Non siero e sensibilità in puntuale reciproca può riconquistare militarmente le zone contraddizione. di influenza perdute, ma ha un’altra arIn occasione delle mie visite nella Ddr ma a disposizione, scarsamente utiliznel corso degli anni appurai che io e i zata ai tempi della Guerra fredda: immiei interlocutori coetanei, per lo più mense riserve di petrolio e di gas da cui dissidenti, di Berlino Est reagivamo dipendono non solo gli ex Stati-satellite, istintivamente agli stessi avvenimenti e ma anche gli Stati che formano il nucleo alle stesse notizie in maniera diversissidella vecchia Europa. Perché farsi prenma. Un esempio: Helmut Schmidt, allodere per il naso dall’Occidente? Gli Usa ra cancelliere federale, consigliò al suo intendono installare negli ex “Stati fracollega della Ddr, Erich Honecker, di actelli” dell’Unione Sovietica, come la Poquisire la serie televisiva americana Ololonia e la Repubblica Ceca, uno scudo causto trasmessa in Occidente. La prospaziale contro i missili intercontinenposta mi trovava perfettatali. Putin sospende il Tratmente d’accordo. Il mio tato sulle armi convenzioamico di Berlino Est ThoL’AUTORE nali in Europa (Cfe), che immas Brasch, tutt’altro che Peter Schneider pone limiti ai blindati, alsimpatizzante di Erich Hoè uno dei più noti l’artiglieria e agli aerei. La scrittori tedeschi necker, a questa notizia picpotenza egemone dell’Occontemporanei chiò il pugno sul tavolo con cidente si mostra sorpresa, Nasce a Lubecca una forza tale da procurarsi commentatori allarmisti in piena guerra un livido: «Ma ti pare che un ventilano già un ritorno ai mondiale e dal 1962, ex ufficiale della Wehrmatempi della Guerra fredda. cht dia consigli a un comcome racconta Chi parla in questi termibattente della resistenza annell’articolo ni non sa che cosa è stata la tifascista che è stato in priqui accanto, Guerra fredda. Arrivai a Begione dieci anni per le sue vive a Berlino lino Ovest da ragazzo, nel Ha pubblicato idee!». 1962, un anno dopo la couna ventina di libri, Di ogni avvenimento, di struzione del Muro, e da altra i quali il romanzo ogni notizia, a sinistra e a delora sono rimasto. Il Muro, autobiografico stra del Muro esistevano eretto letteralmente nello Nemico due versioni opposte: quella spazio di una notte, è stato a dei media dell’Ovest e queldella Costituzione suo tempo definito, non la dei media dell’Est. Natu(Feltrinelli) senza motivo, il più odioso e ralmente chi fruiva dei mepeggior confine del mondo. dia in maniera critica, teNon solo dilaniò di colpo nendo alla propria opinione, non credecentinaia di migliaia di famiglie, non sova né all’una né all’altra versione e se ne lo divise una città in due, segnò anche la confezionava una da sé. Tuttavia ne sudemarcazione tra due sistemi politici biva l’influenza. Le stesse parole, conmondiali, tra la democrazia liberale e la cetti chiave come “libertà”, “uguagliandittatura comunista. L’Occidente si è a za”, “pace” non avevano lo stesso signilungo cullato nell’illusione che questa ficato a sinistra e a destra del Muro. Un divisione riguardasse solo la sovrastrutdissidente che parlasse di “libertà” nella tura politica e non le convinzioni degli Ddr non intendeva affatto “libere elezioindividui e la loro cultura quotidiana. ni”, ma piuttosto libertà di viaggiare, liMa si trattava di un pio desiderio. Albertà di movimento. Il concetto di “pal’ombra del Muro si costruirono col pasce” degenerò nella Ddr a sinonimo di ubbidienza allo Stato. Chi — come Tho- mas Brasch — protestava contro l’invasione sovietica a Praga, si sentì chiedere durante gli interrogatori se non volesse la “pace”. Il contrasto con il sistema alternativo aveva però anche un che di illuminante. In mezzo a tutte le bugie che soprattutto i media comunisti governati dallo Stato avevano la sfacciataggine di diffondere, c’era di tanto in tanto un granello di verità, assente nelle cronache occidentali. Il fruitore critico dei media non aveva mai l’illusione di ricevere un’informazione completa e poteva tenere le distanze dalle notizie veicolate dalle due o tre agenzie che oggi operano in tutto il mondo. Anche se non avrebbe scommesso un centesimo sul futuro del sistema comunista, esisteva almeno una tesi alternativa. Il capitalismo aveva concorrenza. Probabilmente chi ha guadagnato di più da questa concorrenza e più ha perso dopo il crollo del suo maldestro concorrente è stato proprio il capitalismo. Di nuova Guerra fredda non si può naturalmente parlare. Putin non ha da offrire alternative al capitalismo occidentale, lotta per preservare e ristabilire il potere perduto. In realtà nel caso del nuovo dissidio con la Russia non si tratta della lotta tra due sistemi, ma di un contrasto tra due diversi stadi del capitalismo. La Russia pre-democratica, sempre più autoritaria, è consapevole della propria forza e non intende farsi dettar legge dal moderno capitalismo degli Stati industriali occidentali. Purtroppo la vittoria e la sconfitta non hanno insegnato niente ai due antagonisti. A parte gruppi marginali come Greenpeace e i no global, non c’è traccia di una nuova etica critica del capitalismo. I più vocianti paladini di quest’etica sono proprio i partiti comunisti dell’Occidente, moralmente del tutto inattendibili, che non si sono mai confrontati con il fallimento mondiale del comunismo e con il loro passato stalinista: Die Linke in Germania, Rifondazione comunista in Italia e il Partito comunista francese. Traduzione di Emilia Benghi Stati Uniti 528,7 mld $ la spesa militare sostenuta dagli Usa nel 2006 5045 le testate nucleari dispiegate dagli Usa dal 1945 4.663 le armi nucleari strategiche Usa nel 2007 115 i bombardieri Usa attualmente a disposizione LA FOTO Berlino, 1982 Una coppia in costume gioca a pallone su un prato mentre a poche decine di metri i carri armati fanno esercitazioni È una foto che ha fatto storia di Gianni Berengo Gardin (Contrasto) Repubblica Nazionale DOMENICA 22 LUGLIO 2007 Russia 34,7 mld $ la spesa militare sostenuta dalla Russia nel 2006 5614 FONTI: SIPRI Yearbook 2007; FAS Federation of America Scientists le testate nucleari russe dispiegate dal 1949 3.340 le armi nucleari strategiche russe nel 2007 78 i bombardieri russi attualmente a disposizione LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29 La solitudine della cortina perduta VIKTOR EROFEEV iamo stati noi i primi a iniziare la Guerra fredda, « non faceva che ripetermi, non senza un certo orgoglio, mio padre, Vladimir Ivanovic Erofeev, che dalla metà degli anni Quaranta era stato assistente di Molotov al Cremlino nonché interprete ufficiale di Stalin durante le trattative coi francesi. Dai suoi ricordi capivo come i piani napoleonici di Stalin per assoggettare l’Europa, fomentando insurrezioni comuniste, fossero maturati ben prima della fine della Seconda guerra mondiale. Di ciò, secondo le parole di mio padre, Stalin aveva parlato apertamente al Cremlino durante i suoi colloqui con esponenti del Partito comunista francese. Mio padre era una piccola, ma essenziale pedina dell’ingranaggio della politica estera sovietica, che mirava a diffondere la rivoluzione nel mondo. Non ho motivo di non credergli. Da questo punto di vista il discorso di Churchill a Fulton del marzo del 1946, nel quale l’ex premier britannico affermava per la prima volta che una cortina di ferro era scesa sull’Europa — discorso che per molti storici segna l’inizio della Guerra fredda — non sarebbe stato che una tardiva, impotente reazione alle brillanti conquiste staliniane. Mezza Europa ormai apparteneva a Stalin. Gli alleati anglo-americani avevano confidato in larga misura nel generalissimo trionfante, che di fatto aveva abbindolato gli amici-avversari, proseguendo i suoi attacchi ideologici, fondamento della Guerra fredda. Solo certi popoli, dalla Polonia alla Bulgaria, avevano già di che lamentarsi del comunismo sovietico, mentre tutti gli altri (e tra costoro molti francesi e italiani) continuavano a credere ingenuamente nell’utopia comunista. Oggi si può affermare che l’indigente Europa occidentale postbellica è sfuggita quasi per miracolo all’esperimento comunista. Stalin era un geniale stratega politico dal carattere «S smo. Di più: il cosmo era diventato accessibiaggressivo, capace di anticipare l’avversario le all’uomo sovietico, mentre le scarpe italia(la Russia non ha mai più avuto leader come ne no. Stavamo per perdere la Guerra fredda lui): escogitava sempre nuove forme di lotta perché collettivamente sognavamo i jeans contro l’Occidente, fondendo il cinismo e americani, la Coca Cola, il rock’n’roll, Holun’abile propaganda alla conoscenza delle lywood, le canzoni dei Beatles. La leadership debolezze della natura umana. Aveva orgasovietica si era ammorbidita, si stavano liquinizzato in tutta Europa un’incessante camdando i Gulag, si era indebolita la censura letpagna pacifista che dipingeva gli americani teraria, veniva consentita la pubblicazione di come gli istigatori di un nuovo conflitto, faversi con un sottotesto erotico. Da avanguarcendo sì che una parte considerevole dell’india del progresso sociale, da regno del proletellighenzia europea credesse ai suoi slogan. tariato ci stavamo trasformando in tristi imi“Cortina di ferro” è un termine teatrale. La tatori. L’America faceva furore presso quelli saracinesca di sicurezza che si abbassa in teadella mia generazione e nulla è più pericolotro in caso d’incendio, sbarrando il palcosceso di un nemico ideologico che nico. Tutto il mondo si è trovato diventi attraente. coinvolto in una messinscena L’AUTORE La nostra ultima fede nel coteatrale e ha avuto inizio un acViktor Erofeev (Mosca munismo era legata a Gagarin e cattivante reality show fatto di 1947) si è affermato a Cuba, dopo rimanevano solcorse agli armamenti, guerre ai tempi dell’Unione tanto la grigia quotidianità e le locali, conflitti psicologici. L’avSovietica come uno lunghe code per la vodka e il saveduta America ha costruito in dei più apprezzati lame. Era una lenta agonia. Per contrapposizione a Stalin il miscrittori del dissenso, la gioia degli americani, il goto ideologico del mondo libero pubblicato verno sovietico commetteva e, grazie al piano Marshall, ha in Occidente un errore dopo l’altro. Aveva lisommerso l’Europa di dollari e censurato in patria tigato con la Cina, spaventato il americani. Sono dell’avviso Il suo romanzo mondo intero nei giorni della che, se l’economia statale soLa bella di Mosca crisi caraibica, minacciando cialista avesse potuto compete(Rizzoli) è diventato un conflitto nucleare, aveva re col liberalismo di mercato, alun best seller eretto il Muro di Berlino, amla fine ad aggiudicarsi la vittoria internazionale tradotto mettendo di fatto la sua inconnella Guerra fredda sarebbe in 56 lingue. Erofeev sistenza politica e la sua debostata l’Unione Sovietica. Ciò vive e lavora a Mosca lezza economica. Breznev si nonostante, almeno fino alla ristava trasformando rapidavoluzione d’Ungheria del 1956, mente in una macchietta polisoffocata, com’è noto, dai carri tica. Lo sbeffeggiavamo pubblicamente, racarmati sovietici, la fulgida immagine dell’Ucontavamo barzellette su di lui. A governarci nione Sovietica, come della nazione che aveerano dei vecchi, amanti dell’adulazione, va sconfitto Hitler, rappresentò un’autentica delle onorificenze, delle bande militari e del minaccia per il mondo capitalista. A credere gioco del domino nelle lussuose dacie nei nell’esistenza dei Gulag erano solo dei fanatidintorni di Mosca. ci anticomunisti che attaccavano le forze delLa Guerra fredda era il momento magico la sinistra europea. dell’Occidente. Al cospetto dell’impero soSono convinto che il comunismo reale si vietico era pronto a esibire le conquiste del sia concluso in Russia con la morte di Stalin. progresso tecnico, che spianavano la via ai Col Disgelo sono cominciate la corruzione, le computer. L’Occidente era dinamico, agconcessioni alla società dei consumi. Ricorgressivo, ingegnoso, ironico, baldanzoso. do come durante la mia adolescenza, traL’Occidente aveva fatto di Berlino Ovest scorsa sotto il segno di Krusciov, l’apparizioun’allettante vetrina dell’edonismo. Dall’ene delle scarpe italiane fosse un fenomeno sempio dell’Unione Sovietica aveva persino paragonabile solo al volo di Gagarin nel cotratto qualche lezione, cercando di attenuare l’ingiustizia sociale. Durante la Guerra fredda aveva commesso a sua volta degli im- perdonabili errori e tuttavia, paradossalmente, l’aggressione americana al Vietnam era stata per l’Europa e per gli americani stessi un avvenimento assai più doloroso che per i sovietici, indifferenti alle disgrazie altrui. Ricordo come noi studenti dell’Università statale di Mosca ci burlavamo degli esili studenti vietnamiti, impegnati a cucinare pesce maleodorante: non c’era in noi nessun sentimento di solidarietà. «Il marasma cresce»: ecco qual è la formula più calzante per quegli anni sovietici. Al Cremlino venivano accolti bizzarri reucci africani, che si proclamavano comunisti e chiedevano soldi per la rivoluzione, mentre al corso di addestramento militare s’imparavano le sette ragioni per cui l’America non poteva ritenersi una grande nazione (una consisteva nel fatto che laggiù era emigrata la feccia di tutti Paesi europei), c’era poi stata la Primavera di Praga, la sua repressione e i decenni di stagnazione che si erano conclusi con l’assurda guerra (assurda sul piano politico) dell’Afghanistan. Tuttavia l’Unione Sovietica ha perduto la Guerra fredda non tanto perché a vincerla sia stata l’America ma, prima di tutto, perché le donne sovietiche hanno cominciato a desiderare di vestirsi bene e di dipingersi le labbra con rossetti francesi. La società degli anni Settanta si decomponeva irreparabilmente al suo interno. Quando all’inizio degli anni Novanta l’Occidente si proclamò vincitore della Guerra fredda, non sospettava affatto che la perdita del suo nemico gli sarebbe costata tanto cara. Come esito della vittoria perse la sua baldanza, s’invischiò nel conflitto col mondo islamico, si burocratizzò in un mondo unipolare e nei corridoi dell’Unione Europea a Bruxelles. L’America, almeno inconsciamente, prova nostalgia per la Guerra fredda. È probabile che la Russia di Putin, che si arricchisce a dismisura grazie al petrolio e intende ridiventare una superpotenza con le sue rivendicazioni di sovranità nazionale, non del tutto comprensibili al mondo circostante, possa spingerla ad allenarsi di nuovo nella vecchia arena sportiva per ritornare in forma. Ma la Russia non ha più nessuna ideologia, né alleati. Il mio solitario paese è roso dal suo complesso dell’impero, ma questa non è ancora una premessa per un serio conflitto. La guerra fredda non ci sarà. Traduzione di Nadia Cicognini Repubblica Nazionale 30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22 LUGLIO 2007 il reportage Economia sommersa Si chiama Dharavi, è lo slum più grande di Mumbai e dell’intera Asia. Nei 220 ettari di vicoli e fogne a cielo aperto vivono un milione di persone. Non hanno nulla, lavorano per salari da fame e producono un Pil di 650 milioni di dollari all’anno. Ma adesso il governo ha deciso di smantellare e di mettere in vendita l’area Nel ventre del miracolo indiano l limbo di Mumbai è una strada larga, coperta di spazzatura e fogli di plastica e attraversata dalle solite mucche: collega la città all’aeroporto internazionale. A prima vista non sembra molto diversa dalle altre, ma la gente la percorre poco volentieri: «Porta a Dharavi, ma qui preferiscono dire che finisce all’inferno», dice con un sorriso l’amica indiana. A Ravi Mishra questa storia l’hanno raccontata qualche anno fa, quando era da poco arrivato in città. Curioso, decise di esplorare quel territorio proibito: da allora non l’ha più lasciato. Novello Virgilio, oggi vive guidando la gente alla scoperta della baraccopoli più grande di Mumbai e dell’intera Asia: Dharavi, o «l’inferno» come lo chiamano i suoi concittadini. «Chi parla così qui non c’è mai venuto — dice lui — Dharavi non è pericolosa, è solo molto grande, molto povera e molto affollata. Ma la maggior parte della gente che ci sta lavora duro per costruirsi una vita migliore». Mentre Ravi parla, fa strada fra vicoli sempre più stretti. Ci vuole un po’ per mettere a fuoco il senso delle sue parole: anche per chi conosce l’India e le sue sacche di povertà, il primo impatto con Dharavi è scioccante. Il principale slum asiatico, il secondo al mondo, è un formicaio brulicante dove occorre fare attenzione a ogni passo. Nei 220 ettari dei suoi vicoli vivono fra le 700mila e il milione di persone, le fogne sono rivoli puzzolenti che scolano in un unico canale torbido. I bambini giocano fra montagne di spazzatura trasformate in campi di cricket: solo un miracolo sembra tenerli lontano, tiro dopo tiro, dalle centinaia di fili elettrici scoperti che vanno a rubare l’elettricità dai pali che la portano in città. Ma il segreto di Dharavi è altrove. Ci vuole un po’ perché lo sguardo ricostruisca i pezzi del puzzle: quando gli occhi si abituano alle case di lamiera e i piedi prendono confidenza con il terreno polveroso si capisce quella dove il giovane Virgilio con il cappello da baseball ci sta guidando non è solo una baraccopoli, ma anche una città industriale. Camminarci per qualche ora è come scoprire decine di diversi distretti produttivi, ciascuno concentrato nella sua zona. Con un Pil annuo stimato in 650 milioni di dollari — pari al bilancio di una grande agenzia Onu come la Fao o alla quantità complessiva di aiuti stanziati globalmente per il rilancio dell’Afghanistan more assordante denuncia la presenza di centinaia di macchine da cucire: realizzano ricami e impunture su camicie che presto finiranno nei negozi del centro o all’estero. Seguono la zona dei conciatori, annunciata dall’odore, e poi quella dei cardatori. Per arrivare al cuore dell’industria dello slum ci vuole ancora un po’: si capisce che è vicina quando i colori perdono di intensità e una sottile patina di polvere comincia a ricoprire tutto. È l’effetto di decine di macchinari da fusione che lavorano tutti insieme per mandare avanti la ve- ra specializzazione del distretto di Dharavi, l’industria del riciclo. Nella baraccopoli le migliaia di tonnellate di rifiuti che Mumbai produce trovano nuova vita: le scaricano in continuazione, da camion stracolmi, raccolte in enormi balle. Una volta stoccate, vengono aperte una per una, divise a seconda del materiale e poi portate nelle apposite zone di lavorazione. Quella della plastica sta vicino al rigagnolo che fa da fogna a buona parte dello slum. Fra gli scarichi industriali e quelli umani, l’odore è insopportabile: ammirare buste, teli e oggetti di plastica cadere dentro al macchinario che li fonde e li fa rinascere in nuove forme è consentito solo per pochi minuti, poi la puzza si fa troppo forte. Il vicolo accanto è occupato dai lavoratori del metallo e dell’alluminio: protetti da mascherine che coprono a malapena naso e bocca, gruppi di uomini fanno di vecchie lattine viti nuove di zecca. Girando l’angolo il paesaggio cambia completamente: Shabi, panettiere, lavora in uno dei 25 forni di Dharavi. Quando tira fuori i suoi biscotti al Un Paese che vive di baraccopoli aspettando il riscatto che non arriva PANKAJ MISHRA el discorso pronunciato a mezzanotte del 15 agosto 1947, nel momento in cui l’India conquistava la libertà dal dominio coloniale, il primo ministro Jawaharlal Nehru dichiarò che il suo Paese aveva «un appuntamento col destino». Non si soffermò a definire in cosa dovesse consistere quel destino, ma il concetto che aveva in mente era ben chiaro. Nehru dissentiva profondamente dall’aspirazione del Mahatma Gandhi di dotare questo Paese prevalentemente agricolo di un’economia rurale autosufficiente. A suo modo di vedere, il dominio britannico aveva ritardato la modernizzazione dell’India, mantenendola sprofondata nella sua povertà rurale. Oramai il paese doveva impegnarsi sulla via dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione, per colmare il divario che lo separava dall’Europa occidentale e dall’America. Grazie a un sistema scolastico basato su metodi scientifici e razionali, l’influenza della religione e della superstizione si sarebbe attenuata; come già nei paesi occidentali sviluppati, l’agricoltura avrebbe cessato di detenere un ruolo primario, e le migrazioni di massa dalle aree rurali ai centri urbani avrebbero reso disponibile una nuova forza lavoro per il settore manifatturiero e i servizi. Al pari di molti altri leader post-coloniali della metà del Ventesimo secolo, Nehru credeva che la modernizzazione fosse alla portata di tutti. Era solo questione di tempo: alla fine ognuno avrebbe potuto raggiungerla — nel senso di portare una cravatta, lavorare in una fabbrica o in un ufficio, andare a votare, pagare le tasse e guidare un’automobile. A sei decenni dalla conquista dell’indipendenza, sembra che il programma di modernizzazione di Nehru abbia raggiunto un sia pur parziale successo. Grazie a un’economia protezionista e alle sue strutture industriali, dal 1991 l’India è riuscita ad accedere all’economia globale senza subire i gravi traumi che hanno scosso la Russia e l’America Latina. Benché le misure di riforma agraria siano state parziali, l’India ha oggi l’autosufficienza alimentare; e grazie agli ingegneri ed esperti in software usciti dagli istituti scientifici e tecnici creati da Nehru, è ormai competitiva a livello mondiale nelle tecnologie informatiche di punta. Con l’aiuto dell’outsourcing praticato da molte aziende europee e americane, l’economia indiana cresce oggi a un ritmo del nove per cento l’anno. Questo Paese, che nell’immaginario occidentale è stato a lungo immobile nella sua povertà e arretratezza, percorso da frequenti episodi di violenza, penalizzato da un’economia socialista inefficiente e da una dinastia politica in contrasto con la rivendicata democraticità, appare oggi — per usare i termini della rivista americana Foreign Affairs — come uno strepitoso esempio di successo capitalistico, una sorta di «poster della globalizzazione». Spesso citata come «la più grande democrazia del mondo», agli occhi di gran parte dei media e dell’intellighenzia Usa l’India è diventata non solo una fonte di profitti per le imprese transnazionali, ma anche una N I bambini giocano fra montagne di spazzatura trasformate in campi da cricket: FOTO COLIN MCPHERSON/CORBIS FOTO CORBIS solo un miracolo sembra tenerli lontano dai fili scoperti che rubano l’elettricità FOTO REUTERS I MUMBAI — lo slum è il centro di alcune delle più importanti industrie di Mumbai e dell’intera India. La prima che si incontra è quella della terracotta. Ogni giorno fra i vicoli di Dharavi vengono prodotte migliaia di vasi e ciotole che poi prendono la strada della città. La famiglia di Kishore Bai, da 15 anni a Dharavi, da 12 lavoratore in proprio, è una delle 800 coinvolte nel business: con l’aiuto di moglie e genitori, il signor Bai produce ducento scodelle al giorno e mantiene otto persone. Nella strada accanto alla sua un ru- FOTO AP FRANCESCA CAFERRI DONNE Dall’alto, donne al lavoro a Dharavi; donne in fila per comprare cherosene; una fabbrica di vasi Nell’altra pagina, donne che lavano i vestiti in una strada dello slum L’AUTORE Pankaj Mishra è autore di La fine della sofferenza, I romantici e il recente La Tentazione dell’Occidente. India, Pakistan e dintorni: come essere moderni, tutti pubblicati in Italia da Guanda. Pollo al burro a Ludhiana Viaggio nell’India delle piccole città è pubblicato da Tea realtà capace di imporsi in senso esistenziale e ideologico. Ma la rappresentazione di quest’identità nuova e ambiziosa non tiene conto delle esperienze laceranti e spesso tragiche di questo Paese nel suo sviluppo verso la modernità: la rivolta anti-indiana del Kashmir, costata nell’ultimo quindicennio più di ottantamila vite umane; la violenza negli Stati del NordEst, spesso ignorata ma non per questo meno aspra; o l’esodo di milioni di persone cacciate dalle loro case in nome dei megaprogetti di costruzione di dighe. L’agricoltura, che dava lavoro al sessanta per cento della popolazione indiana, è in uno stato di stagnazione che in questi ultimi dieci anni ha spinto al suicidio più di centomila coltivatori. La malnutrizione colpisce il cinquanta per cento dei bambini indiani, e il sistema della scuola primaria è limitato alle aree più popolose del Paese. La miseria e l’assenza di prospettive delle popolazioni rurali alimentano i movimenti comunisti militanti, che esplodono in tutte le zone del Centro e del Nord dell’India. Le testimonianze più vistose delle crescenti disuguaglianze, che saltano agli occhi di chiunque visiti il paese anche solo di sfuggita, sono le immense baraccopoli delle grandi città quali Mumbai, Delhi e Calcutta, popolate per lo più dai lavoratori sottopagati del cosiddetto settore “informale”, in rapida crescita, creato nei centri urbani da un’economia privatizzata, in particolare nel campo dei servizi. Si tratta generalmente di immigrati dalle aree rurali, attratti in città dalla prospettiva di una vita migliore, che vivono ormai da anni, se non da decenni, in condizioni di estremo squallore, aspettando il riscatto dal mondo moderno. Spesso si sorvola su queste condizioni di degrado, liquidandole con spiegazioni che fanno riferimento alla storia europea: l’India si troverebbe in una fase di transizione dall’economia agraria verso un tipo di vita urbano e un modello moderno di produzione e di consumo, orientato prevalentemente ai servizi, sull’esempio dell’Europa e dell’America; e la transizione sarebbe necessariamente dolorosa, come lo è stata in Europa. Questa la tesi delle élite. Di fatto però, centinaia di milioni di indiani tardivamente approdati al mondo moderno si trovano oggi a confronto con i limiti naturali della crescita economica, evidenziati in particolare dai problemi dell’effetto serra e delle risorse energetiche, sempre più costose e in via di esaurimento. Se un milione di indiani — in contemporanea con due miliardi di cinesi — aderiscono al modello del capitalismo consumistico occidentale, andiamo incontro a danni ambientali irreversibili per un pianeta già messo a dura prova dalle esigenze dello stile di vita di alcune centinaia di milioni di americani ed europei. In seguito a un’ondata di suicidi di massa di coltivatori, nel luglio 2006, il primo ministro Manmohan Singh ha esortato la popolazione rurale a voltare le spalle al modello consumistico e «sprecone» dell’Occidente, prendendo esempio dalla frugalità di Gandhi, definita una «necessità» per l’India. A sentir invocare l’insegnamento di Gandhi da questo tecnocrate di stampo occidentale, uscito da un College di Oxford, si può certo accusarlo di retorica. E sospettare che intenda rinviare all’infinito, o magari annullare l’appuntamento dell’India col suo destino. Ma probabilmente Manmohan Singh sa bene che non vi sono molte vie d’uscita dal vicolo cieco — il rischio di una spirale di violenza e distruzione dell’ambiente — in cui i processi di modernizzazione e globalizzazione stanno spingendo la più grande democrazia del mondo. Traduzione di Elisabetta Horvat Repubblica Nazionale LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31 FOTO MAGNUM/CONTRASTO DOMENICA 22 LUGLIO 2007 sesamo il profumo si diffonde per tutta la strada. «Se i signori degli alberghi in centro sapessero che i migliori dolci della città arrivano da qui morirebbero», sussurra Ravi. Nella bottega del fornaio la temperatura è altissima: Shabi la sopporta senza problemi sei mesi l’anno. Poi, prima dell’arrivo del monsone, lascia il lavoro e torna al suo villaggio in Kerala, migliaia di chilometri più a sud. Ci resta sei mesi, quindi rientra al lavoro: «Lì vivo da ricco», spiega. Ricco lo è davvero invece Gulam Nabi: da 15 anni gestisce la fabbrica di sapone dello slum, l’unico luogo che davvero somiglia al girone dantesco evocato dai cittadini di Mumbai: dentro a enormi pentoloni neri il grasso si squaglia e si fonde per ore, prima di finire nelle piccole forme da cui escono i saponi. La camicia all’ultima moda e la grande catena d’oro al collo raccontano il benessere dell’uomo, che non ama le domande sui suoi guadagni e dice solo di avere dieci dipendenti. Gulam vive da sempre a Dharavi e anche ora che ha fatto fortuna non pensa a spostarsi: «Il mio business è qui, la mia vita è qui. I miei figli cresceranno qui: dove altro dovrei andare?», chiede. Dal suo punto di vista non ha tutti i torti: la ricchezza sua e di quelli come lui è legata a filo doppio a Dharavi: solo qui c’è un ricambio continuo di manodopera che accetta salari bassissimi anche per la media indiana, solo qui si può lavorare senza pagare tasse e affitto, solo qui per avere più elettricità basta allungare un altro cavo verso i pali della conduttura comunale che porta la luce in città. Ali Ahmed ascolta tutta la conversazione con rabbia malcelata: è qui da tre giorni e Gulam è il suo padrone. Nella scala di Dharavi sta negli ultimi gradini, quelli di chi è appena arrivato. Guadagna l’equivalente di due dollari al giorno e dorme nella baracca di suo fratello, sbarcato nello slum due anni fa: «Qui è l’inferno — dice — ma per ora non ho scelta, non posso andar via». Crescent Heights e Buckley Court, le zone della nuova borghesia di Mumbai, distano qualche decina di chilometri ma da Dharavi sembrano distanti anni luce anche a quelli che potrebbero permettersi di vivere in quei quartieri. Il richiamo della baraccopoli è come quello delle sirene di Ulisse: chi cede una volta non torna più indietro. Amil, 19 anni, è studente di scienze in un college privato di Mumbai: di mattina studia, di sera torna nella sua casa di muratura blu da dove arrivano il suono dello stereo e le immagini della televisione. La famiglia è arrivata a Dharavi nel ‘54 e oggi suo padre è il leader di una delle gang che tengono sotto controllo lo slum. La sua attività ha regalato alla famiglia il benessere e al figlio l’arroganza, insieme alla possibilità di evadere per qualche ora dal puzzo di fogna. «Perché dovremmo andar via? — risponde Amil a chi lo interroga — qui siamo rispettati. E abbiamo una bella casa». Una rarità, nello squallore di Dharavi, dove la maggior parte delle abitazioni sono baracche di lamiera a volte a più piani. E un lusso a Mumbai, dove il mercato immobiliare è uno dei più cari al mondo. Gli analisti stimano che nei prossimi dieci anni varrà 102 miliardi di dollari, contro i 14 di oggi. Per questo le imprese di costruzione sono alla continua ricerca di spazi nuovi dove investire e quelli di Dharavi, economici e relativamente centrali, fanno gola a molti. Da qualche tempo, gli interessi dei costruttori si sono sposati con quelli del governo del Maharashtra, che punta a fare di Mumbai la Shangai indiana. Le autorità hanno dapprima lanciato un programma di riqualificazione che ha offerto agli abitanti degli slum incentivi per trasferirsi in nuove case, poi sono passate alle maniere forti: è di giugno l’annuncio fatto pubblicare dal governo su 16 quotidiani internazionali per la vendita, al prezzo di 2,6 miliardi di dollari di 214 ettari di terreno su cui sorge la bidonville. Lo scopo è quello di livellare il terreno, strategicamene posizionato fra la ferrovia e la zona degli affari, e di farne una nuova cittadella del business. Per sapere chi vincerà la gara, occorrerà aspettare settembre, ma gli abitanti di Dharavi giurano già che faranno opposizione a un progetto che minaccia di lasciare senza tetto centinaia di migliaia di persone e bloccheranno chiunque si avvicini alle loro case. Dalla parte dei ribelli ci sono anche quelli come Sumah Kharatman che due anni fa ha accettato di lasciare con la famiglia una baracca nella zona vecchia di Dharavi per trasferirsi in un palazzo poco lontano. Da vent’anni lavora in un laboratorio che prepara fili di seta destinati alla tessitura, guadagnando 100 rupie (meno di quattro euro) al giorno: sperava di andare a stare meglio ma ora che paga 2000 rupie al mese per l’affitto e le spese, del fatto che la nuova casa sia più grande e più pulita della vecchia non le importa più molto: «Si mangia tutti i miei guadagni. Ho sbagliato ad andarci», dice. Ravi la guarda e fa segno che è ora di andare: è domenica, Dharavi non si concede riposo, ma Virgilio sì. Gulam vive qui da sempre e anche ora che ha fatto fortuna non pensa a spostarsi: “Il mio business è qui, la mia vita è qui. I miei figli cresceranno qui: dove altro dovrei andare?” Repubblica Nazionale 32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22 LUGLIO 2007 la memoria Missioni Il 30 giugno Benedetto XVI ha indirizzato una lettera ai cattolici della Repubblica popolare, uno Stato con cui il Vaticano non ha relazioni dal 1951. Si è rimessa così in movimento una storia di coraggio e di fede iniziata dai gesuiti alla fine del Cinquecento e precipitata duecento anni dopo in uno scontro che dura ancor oggi LE IMMAGINI Le fotografie d’epoca che illustrano queste pagine, custodite presso gli archivi del Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime) di Milano, sono tratte dal libro Cina perduta nelle fotografie di Leone Nani, Skira 2003 (224 pagine, euro 49) Leone Nani, missionario lombardo, partì per la Cina nel 1904, a soli 23 anni, e vi rimase per un decennio, spostandosi in regioni interne difficilmente raggiungibili e realizzando moltissime foto che sviluppava e stampava da solo Nella foto grande a destra, padre Nani mentre battezza un gruppo di bambini A sinistra, in senso orario a partire da qui accanto: un autoritratto di padre Nani; lavori di cucito presso l’orfanotrofio femminile di Hanzhong; la cattedrale dedicata ai santi Pietro e Paolo a Guluba; padre Nani durante l’esame di catechismo a Chekiading FEDERICO RAMPINI R PECHINO esiste in cima a una scalinata nel cuore di Macao: una superba facciata barocca che sembra appesa alle nuvole. Solo l’azzurro del cielo l’avvolge e buca le sue porte. Sta in piedi per miracolo, la facciata da sola. Dietro di lei la chiesa intera, le pareti, il soffitto, il tetto sono crollati da tempo, travolti da tifoni e incendi. È quel che resta di São Paulo, la più celebre cattedrale di tutta l’Asia quando Macao era una colonia del Portogallo e la “base” di penetrazione del proselitismo cristiano verso l’Estremo Oriente. Nel collegio dei gesuiti di Macao studiarono alla fine del Cinquecento i missionari Matteo Ricci e Adam van Schall prima di andare a evangelizzare la Cina. Ai loro tempi la cattedrale era di legno e di terra, la facciata di pietra venne aggiunta dal gesuita italiano Carlo Spinola nel 1602. Degli artigiani giapponesi fuggiti da Nagasaki per le persecuzioni religiose la decorarono di curiose sculture, una loro visione originale del cristianesimo in Asia. La statua della Vergine Maria ha ai suoi fianchi una peonia che rappresenta la Cina, un crisantemo per il Giappone. Quella facciata diroccata, fragile rovina abbandonata, racconta un pezzo di storia del cattolicesimo in Cina: l’impresa di missionari che quattro secoli fa vennero fin qui sfidando pericoli mortali, seminarono i germi di una nuova fede nel popolo cinese, per poi fuggire travolti da una drammatica crisi politica. All’avventura dei gesuiti lo storico americano Liam Brockey ha dedicato un nuovo saggio, Journey to the East. The Jesuit Mission to China, 1579-1724. Brockey ha riesumato i ricordi di un’antica processione che sfilò davanti alla cattedrale di São Paulo per festeggiare la beatificazione di Francesco Saverio, pioniere dei missionari in Asia e patrono di Macao. Nel pittoresco corteo i fedeli cinesi recitavano scene di teatro di strada, allegorie di storia vissuta. Un attore personificava la Cina dei Ming: vestita sontuosamente, con monili d’oro e argento e pietre preziose, lacrimava per aver chiuso le porte in faccia a Francesco Saverio: «Ecco l’Impero di Mezzo con tutte le sue vane ricchezze, condannato a piangere sui suoi sbagli». Ma errori, incomprensioni e incompatibilità ci furono da ambedue le parti, nel primo dialogo tra i vertici della Chiesa romana e il Figlio del Cielo, come si definiva il sovrano cinese. Il tormentato rapporto tra la Cina e il Cristianesimo è tornato d’attualità il 30 giugno scorso quando papa Benedetto XVI ha indirizzato per la prima volta una lettera ai cattolici della Repubblica popolare: uno Stato con cui il Vaticano non ha più relazioni dal 1951. Agostino Giovagnoli, docente di storia all’Università cattolica di Milano, ricorda che «per molti decenni agli occhi del cattolicesimo mondiale è sembrato che Dopo Francesco Saverio e Matteo Ricci esplose nell’Europa della Controriforma una febbre delle vocazioni per generazioni di giovani sacerdoti attirati dall’Oriente in Cina prevalesse il concentrato di tutti i mali: era il solo Paese in cui il comunismo non solo perseguitava la Chiesa, ma riusciva anche a penetrare al suo interno, dividendola in fazioni e contrapponendo gli uni agli altri». Lo scontro che da mezzo secolo oppone il regime di Pechino al Vaticano presenta delle singolari analogie con il braccio di ferro ai tempi della Controriforma e della dinastia Qing. Il comunismo all’epoca di Mao e della Rivoluzione culturale ha aggiunto di suo una virulenta persecuzione ateista contro tutte le religioni. Ma al cuore della crisi che Roma e Pechino oggi tentano faticosamente di superare, c’è una questione di potere quasi immutata da trecento anni. La penetrazione dei gesuiti in Cina è associata indissolubilmente alla figura di Matteo Ricci, il maceratese che nel 1583 sbarcò vicino a Canton e nel 1601 ottenne udienza al Palazzo imperiale nella Città Proibita di Pechino. Ricci non era certo il primo cristiano in Cina (la presenza di nuclei di nestoriani si segnala fin dall’ottavo secolo dopo Cristo) e neanche il primo missionario visto che i francescani si erano affacciati alla corte del Gran Khan nel XIII secolo. Ma l’impatto intellettuale di Ricci è senza precedenti. Erudito e geniale, primo sinologo della storia, Ricci adatta il messaggio dei Vangeli all’etica confuciana e conquista il rispetto dell’alta burocrazia mandarina grazie alle sue conoscenze di matematica e astronomia. Crea un ponte tra due civiltà, offre all’Europa intera le chiavi di comprensione della millenaria cultura cinese. Insieme a Francesco Saverio, Ricci diventa un mito per generazioni di giovani sacerdoti attirati dal proselitismo in Estremo Oriente. Passando in rassegna una vasta mole di documenti d’epoca, lettere e diari personali, Brockey ricostruisce un’autentica febbre delle vocazioni esplosa in Europa: la Compagnia di Gesù deve operare una selezione spietata, i candidati sono troppi, solo una minoranza viene prescelta per partire in Asia. A volte le strade dei missionari incrociano quelle dei mercanti europei, ma spesso i religiosi affrontano il pericolo da soli. Gli italiani non hanno dietro di sé una potenza coloniale. Anche i portoghesi, gli spagnoli, i francesi, una volta entrati nell’Impero di Mezzo non possono fare affidamento sulla protezione dei propri Stati. Il martirio non li spaventa: per alcuni, è la fine che sognano. Contrariamente agli stereotipi sulla Compagnia di Gesù, non cercano solo di convertire la classe dirigente, i colti e i potenti. In realtà i gesuiti conquistano una base popolare, nell’anno 1700 hanno duecentomila fedeli, diffusi anche tra i ceti umili e nelle regioni di provincia. Una traccia di questa devozione si ritrova in opere di artisti anonimi che applicano lo stile cinese ai soggetti cristiani: come una bellissima Madonna con Gesù bambino, tutti e due con gli occhi a mandorla, fisionomie e abiti inconfondibilmente locali, in un dipinto del XVII secolo ritrovato nel centro della Cina, nella provincia dello Shaanxi. Repubblica Nazionale DOMENICA 22 LUGLIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33 La Chiesa e la Cina un duello di secoli A conferma del loro successo, ben presto i gesuiti sono sopraffatti dal lavoro. Ci sono troppi fedeli rispetto al numero limitato dei missionari e formarne di nuovi richiede tempi lunghi. Si arrangiano con soluzioni originali, come l’uso della “confessione con l’interprete”. Inoltre nel 1700 il gesuita José Monteiro inventa per i suoi confratelli il primo manualetto di conversazione rapida in mandarino. S’intitola Vera et unica praxis breviter ediscendi, ac expeditissime loquendi sinicum idioma, suapte natura adeo difficile (L’autentico e unico metodo breve, per imparare rapidamente a parlare la lingua cinese, per sua natura assai difficile). Contiene le frasi essenziali per catechizzare i cinesi, e anche qualche espressione utile per i bisogni più materiali della vita quotidiana: «Questa carne non è cotta abbastanza. Il riso è scotto. Le verdure non sanno di niente. Questo tè fa schifo». I gesuiti applicano la lezione del loro pioniere per aprirsi un varco nella mentalità cinese. Ricci ha stabilito che il confucianesimo non va trattato da avversario, È un’etica che può conciliarsi coi principi cristiani, così come un europeo può apprezzare Aristotele senza essere sospettato di eresia. Dunque i cinesi convertiti vadano pure nei templi di Confucio: non è un idolo pagano, solo un maestro di vita. La stessa tolleranza viene applicata alla venerazione degli antenati, un culto che ha radici millenarie. Da questo pragmatismo nasce il cattolicesimo di “rito cinese”. Diventa la pietra dello scandalo quando nell’Impero celeste nella seconda metà del XVII secolo affluiscono altre ondate di missionari. Domenicani e francescani attaccano la tolleranza dei gesuiti, denunciano le liturgie locali come idolatria. Scoppia la Questione dei Riti, che papa Clemente XI risolve nel 1704 dando torto alla Compagnia di Gesù. La querelle dei riti ha avuto grande notorietà, ma non è lì che si consuma definitivamente il divorzio tra la Chiesa e la Cina. Lo scontro più importante è su un altro punto. La svolta decisiva avviene quando il Papa, per informare l’Imperatore della sua decisione sui riti, invia a Pechino un’ambasciata guidata da un giovane prelato piemontese, Carlo Tommaso Maillard de Tournon. De Tournon è ricevuto dall’Imperatore Kangxi nel dicembre 1705 e pone una condizione per stabilire relazioni dirette fra la Santa Sede e la dinastia Qing: il pontefice designerà un superiore di tutti i missionari cattolici in Cina. Per l’Imperatore la richiesta è inaccettabile. Egli non ammette che possa esistere sotto il suo regno una “gerarchia parallela”, un’armata di sacerdoti che obbediscono a un sovrano straniero. Con un editto imperiale del dicembre 1706 Kangxi stabilisce la regola opposta: i missionari cattolici per esercitare in Cina devono ottenere una licenza speciale, il piao. L’imposizione del piao, scrive Brockey, «è un esercizio del controllo imperiale sui missionari», non diverso dal principio di autorità a cui devono sottostare i monaci buddisti e taoisti. Diventa uno Con un editto del 1706 l’imperatore Kangxi respinse le richieste di papa Clemente XI e impose ai missionari l’obbligo del “piao”, una licenza speciale concessa dal Figlio del Cielo ORI DEI CAVALIERI DELLE STEPPE Collezioni dai Musei dell’Ucraina Trento, Castello del Buonconsiglio, 1 giugno - 4 novembre 2007 ORARI 10.00 - 18.00, chiuso il lunedì INFO www.buonconsiglio.it [email protected] tel. 0461 23 37 70 - 0461 49 28 11 www.oridellesteppe.it CATALOGO SilvanaEditoriale Provincia autonoma di Trento strumento per dividere i sacerdoti tra buoni e cattivi. La situazione precipita. Mentre de Tournon viene ricacciato a Macao, ai missionari presenti sul territorio cinese s’impone un’alternativa drammatica. Devono scegliere tra il Papa e l’Imperatore, ma anche fra continuare l’apostolato in Cina o rinunciarvi. Lasciare il Paese vuol dire abbandonare i propri fedeli. Fare atto di sottomissione a Pechino significa sfidare la condanna papale. È un dilemma che anticipa quello che vivranno i preti cinesi nel 1957, quando Mao Zedong deciderà di istituire la “Chiesa patriottica”, l’unica autorizzata dal Partito comunista, i cui vescovi e sacerdoti devono essere nominati dal governo e fare giuramento di fedeltà al regime. Come accadrà nella Repubblica popolare, anche tra i sacerdoti europei del Settecento la reazione non è compatta. Quarantuno domenicani partono in esilio, espulsi dai confini dell’impero dalla dinastia Qing. Una cinquantina di gesuiti seguaci dei “riti cinesi” ricevono il piaoe decidono di rimanere, sperando di guadagnare tempo e di ottenere un ripensamento del Papa. Un manipolo di religiosi scelgono una terza via, rifiutano il piao ed entrano nella clandestinità, continuando a praticare di nascosto in alcune regioni rurali della Cina meridionale (proprio come i preti cinesi della “Chiesa sommersa” ai nostri tempi). La crisi precipita con la morte di Kangxi e l’avvento al trono di suo figlio Yongzheng nel 1723. Il nuovo Imperatore promulga un editto in cui condanna il cattolicesimo come «setta perversa e dottrina sinistra». La repressione si scatena sui fedeli, chiese e seminari vengono sequestrati e convertiti ad altri usi: diventano scuole, ospedali, granai. Nella provincia del Fujian, con un crudele scherzo alla memoria di Ricci, le parrocchie cattoliche vengono trasformate in templi per il culto degli antenati. «Nell’ottobre 1724», scrive Brockey, «sedici anni dopo che i gesuiti hanno sfidato Clemente XI accettando il piao, vengono arrestati in massa dalle autorità imperiali, deportati a Canton, da lì imbarcati per l’esilio a Macao». Yongzheng fa sapere a Ignatius Koegler, un sacerdote tedesco che dirige il laboratorio astronomico alla corte imperiale, che i gesuiti devono considerarsi fortunati per essere stati cacciati da vivi. Nello stesso anno, in un giro di vite per riaffermare il suo controllo su tutti i culti, l’Imperatore ha «ordinato la distruzione in massa di molti templi buddisti e lo sterminio di oltre un migliaio di lama». I missionari cattolici torneranno nel secolo successivo in una Cina indebolita e decadente, piegata dalla superiorità militare delle nuove potenze occidentali. Poi le porte si chiuderanno di nuovo con la rivoluzione comunista. Adesso la lettera di Benedetto XVI cerca una soluzione all’impasse: per la prima volta il Papa non disconosce la Chiesa patriottica, propone di fonderla con quella clandestina. Pechino deve ancora rispondere. Repubblica Nazionale 34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22 LUGLIO 2007 i luoghi Paesaggi storici Un grande architetto del verde ci guida alla scoperta delle terrazze, delle piante e dei fiori della proprietà che Iris e Antonio Origo, “pionieri” nella Val d’Orcia degli anni Venti del secolo scorso, fecero costruire e poi ampliare: un piccolo capolavoro di semplicità e armonia affacciato sull’orizzonte intatto dell’Amiata La Foce, un giardino come sfida PAOLO PEJRONE ultima volta che incontrai Iris Origo fu a Lerici, una estate di trent’anni fa. Antonio era ancora vivo, non stava bene: Iris lo assisteva. Fu un incontro facile e discorsivo: l’occasione per passeggiare in un’ora fresca della sera, in giardino, parlando di piante e del giardino stesso. Quel giardino che era stato a suo tempo molto coltivato, molto amato e che stava, con dignità, subendo i danni di un elegante, quieto e leggero disinteresse. Come si sa, l’economia d’acqua, la vicinanza del mare, il vento, il sale rendono spesso difficile la vita di un giardino sulla costa... Del giardino di Lerici ricordo una gradevole sensazione di ordine e pulizia: la dignità del posto era preservata e mantenuta, e la siccità non era vista come un ripiego o peggio come una sconfitta. Il bello è spesso figlio di sottili armonie e di tanto coraggio che agli Origo non mancavano proprio. Nei loro più svariati aspetti erano di uso quotidiano. L’ *** Tra qualche settimana i vecchi muri della Foce saranno coperti dai fiori bellissimi e bizzarri dello “stocco di San Pietro” la campanula pyramidalis: non conosco luogo, in Italia, dove stia più felice. Tanto si compiace del posto da seminarsi da sola, di anno in anno, nelle fessure dei muri, sui bordi dei vialetti, un po’ dappertutto. Proveniente, pare, in origine, dalla Dalmazia, alla Foce ha trovato il posto adatto per crescere, fiorire ed invadere. Invasione pacifica, gradevole, piena di divertita ironia, di successo e di reciproco amore. Come fu reciproco amore quello che intercorse tra gli Origo e le povere terre di Val d’Orcia. Antonio e Iris nel lontano 1924 belli, giovani, volenterosi e soprattutto pieni di temerarie speranze, approdarono, per vivere e per lavorare, nel basso Senese tra le crete poverissime della Foce e Castelluccio. Erano terre lontane dall’amata Firenze, lambite dalla interminabile e polverosa via Cassia, vantavano una storia antica e soprattutto una dignitosa ed inequivocabile povertà. La Foce mancava di tutto, dall’acqua alle strade, dalla luce alla scuola: vi regnavano indisturbati l’a- nalfabetismo e l’indigenza e, insieme a loro, tutti i tristi ed inevitabili corollari. Le crete dilavate, sterili ed inerti dominavano il paesaggio rendendo più spinosa, difficile e definitiva quell’antica sfida tra il posto ed i suoi abitanti. Antonio e Iris, uniti e temerari, desiderosi di sottrarsi ad una facile e disinvolta esistenza, anche se intelligente e colta, si gettarono, con tutto l’entusiasmo dei loro anni, in una nuova, affascinante aspra e difficile sfida: la bonifica della Foce stessa. Cecil Pinsent, il Lutyens d’Italia, il grande architetto del Per cominciare furono restaurati i fabbricati, disegnati quattrocento anni prima rinnovamento storico, il raffinato ed intelligente scenografo di una committenza anch’essa intelligente e colta, fin dall’inizio fu accanto a loro, aiutandoli a costruire i giardini e a ricostruire e a restaurare i fabbricati della Foce, che da Baldassarre Peruzzi erano stati più di quattrocento anni prima delineati e definiti con grandissima eleganza e insuperabile sapienza. Nei fabbricati di un tempo, un’antica locanda appartenuta all’ospedale della Madonna della Scala di Siena, furono sistemati i nuovi alloggiamenti e con essi venne previsto un piccolo e rigoroso giardino a terrazze. Fu costruito a tappe strette e con metodo e, come insegna il buon senso e l’armonia, un poco alla volta, con i sani e scanditi tempi dell’agricoltura. Con un equilibrio preciso, in sottile ed affettuosa sintonia con l’evoluzione della grandissima e poverissima proprietà terriera che lo circondava. Gli Origo, corrette ed educate figure, non anteponevano le loro “esigenze” di coltivato benessere a quelle delle persone della Foce (e che dalla Foce traevano la quotidiana sopravvivenza): quel benessere che, secondo Antonio ed Iris, cresceva e si espandeva passando prima per le strade, poi per l’acqua potabile, e con loro, la scuola e le infrastrutture mediche. *** Quello della Foce è un giardino all’italiana, piantato di piante all’italiana, vissuto, cresciuto ed arredato, però, all’inglese, con quel semplice ed elegante understatement che solo l’Inghilterra puritana del “dopo Cromwell” può avere. Minuta semplicità e puntigliosa eleganza si fondono in un paesaggio ampio, aperto sull’assolata e larghissima valle dominata dall’Amiata. Paesaggio forte, romantico, luminoso, e spesso “turneriano”: gli orizzonti anche essi vasti, larghi e forti dominano, contrastano e definiscono. Semplice, razionale e schematica è la divisione a stanze dei “primi” giardini: erano il frutto moderno e maturo di un modo nuovo, speciale ed affascinante di fare giardino “all’antica”. Gertrud Jekyll, Edwin Lutyens, Harold Nicolson e Vita Sackville-West nella loro felice colta e ricca Inghilterra post-edoardiana ne suggerirono, a loro modo, i termini e ne misero in pratica i semplici e sottintesi messaggi. Con giuste e “moderne” proposte sperimentavano, provavano ed avevano successo sia nei loro (rispettivi) giardini sia in quelli del loro affascinante e preparato “set” sociale ed intellettuale. Fondamentale per loro era l’uso di piante facili e semplici (come, appunto, la “nostra” campanula pyramidalis), che felici e soddisfatte, si potevano appropriare di parte dei giardini con successo e facilità, derivandone un’aria naturale, rigogliosa e felice. L’uso di piante robuste, semplici e adatte al luogo (e alle sue temperature e agli strapazzi di una vita rustica), era preciso e nello stesso tempo fantasioso. E di conseguenza per nulla noioso o Repubblica Nazionale DOMENICA 22 LUGLIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35 LE IMMAGINI Le immagini che illustrano questa pagina sono tratte dal volume La Foce. Un giardino in Val d’Orcia di Benedetta Origo, Morna Livingston, Laurie Olin e John Dixon Hunt, Editrice Le Balze 2004 (302 pagine, 70 euro). Il grande acquerello di Laurie Olin è una sezione trasversale delle terrazze e del viale dei cipressi Le fotografie raffigurano vari fiori, siepi e piante dei giardini de La Foce e alcune vedute del luogo. In particolare, nel basso della pagina, in senso orario da sinistra, la strada per San Bernardino, fatta costruire da Antonio Origo dopo il 1935; la casa, con le finestre di tre camere da letto; le siepi sagomate nel giardino dei limoni retorico. Dopo anni di privazioni e di umiliazioni, le erbacee perenni avevano finalmente avuto uno “status”. Arbusti ed erbacee non erano più e soltanto delle modeste comparse di un giardino fatto, spesso e soltanto, di grandi alberi o di vasti prati. Le piante, quelle piante, non erano per Gertrud, per Vita e per Iris un colore o una massa: erano foglie, tessiture, profumi e portamenti (e soprattutto ricordi e memorie). L’autunno e l’inverno assumevano pari dignità e pari importanza, a scapito dei trionfi e delle glorie primaverili ed estive. Il vuoto autunnale-invernale non dava più gioie magre e minimali: l’esigenza d’esser di “buon” aspetto ed in “ordine” per tutto l’anno si contrapponeva alle sovrabbondanze primaverili ed estive, giudicate a questo punto un po’ pacchiane e demodées. I giardini della Foce ebbero un ultimo e rinnovato impulso alla fine degli anni Trenta, poco prima della Seconda guerra mondiale, con l’addizione di un giardino nuovo dal forte disegno a siepi. Quasi fosse un alto parterre, a forma di ventaglio, e dominato da vigorosi e scenografici scaloni di travertino. Era un giardino meno “povero”, decisamente più sfarzoso di quelli finiti precedentemente (ed a quel punto già al lavoro e “funzionanti”): è un giardino che abbandona gli schemi rigorosi e semplici, quasi primitivi, di cinquecentesco e fiorentino sapore, per una postconciliare, quasi barocca proposta “romana”. La Val d’Orcia non era forse al confine con gli Stati pontifici? E Roma, con le sue barocche armonie e le sue grandiose scenografie, era in fondo più vicina di Firenze. Il nuovo “pezzo” è parte coerente di una nuova evoluzione stilistica del giardino della Foce, cresciuto in due epoche vicine, ma volutamente differenti. Una piccola terrazza, a lato dei giardini, fa da anticamera ad un gradevolissimo sentiero nella macchia. La vista, la grandissima e luminosa vista sulla Val d’Orcia è, come già detto, appassionante, antica ed intatta: Montalcino sulla destra di chi guarda, a causa della distanza, è ridotto ad un piccolo e modesto borgo. Lo stretto sentiero porta al piccolo cimitero chiuso da un alto muro e da svettanti cipressi: rinchiudono e proteggono tutta la grande famiglia della Foce, in un corale ed ultimo viaggio. La Foce non c’è dubbio, è un posto romantico e pieno di bellezza: da tempo però non è più soltanto un luo- go, anche se affascinante ed attraente, gli Origo, con il loro amore intenso e sincero, lo fecero diventare qualcosa di più. Guerra in Val d’Orcia fu il primo libro scritto da Iris. Uscì nel 1947, fu una testimonianza vivace ed acuta dell’orrore di un passato recente, portando direttamente ed indirettamente alla conoscenza del mondo intero la sua amatissima Foce, la sua vita, i suoi felici e meno felici trascorsi. Fu seguito, dopo dieci anni, dal conosciuto e speciale best-seller Il Mercante di Prato che portò Iris Origo nel- I tronchi dei glicini e gli antichi rosai suggeriscono un passato lontano e glorioso, ne sono la memoria le biblioteche di tutto il mondo, come eccellente, profonda e seria scrittrice di storia. *** I vasi di limoni hanno una loro lunga storia in Toscana: dal grande Cosimo in poi, tra le frequenti siepi di bosso c’era, d’abitudine scandito da ritmi agricoli ed architettonici, il posto per variati e speciali agrumi in vaso. Alla Foce fu prevista proprio per questo una capiente e bellissima limonaia, disegnata sempre negli anni Trenta con armoni- ca cadenza dal Pinsent. Come dallo stesso Pinsent furono delineate nel paesaggio delle crete, delle utili (e bellissime) strade. Il Lorenzetti ne fece da maestro ispiratore: i cipressi con i loro scuri e rigorosi punti esclamativi servirono da punteggiatura. Limiti e percorsi vennero da loro marcati e sottolineati. Ancora ora se ne può sentire la poetica e la storica valenza. A suo tempo Iris lavorò in modo continuo e sapiente nei suoi giardini: i tronchi dei glicini diventati vigorosissimi ed enormi ne suggeriscono un passato lontano e glorioso, così come i vecchi rosai banziani, o come il grande roseto, che è stato da poco, come di dovere, felicemente rinnovato. Molte piante ora sono ancora testimoni felici di memorie lontane, e quasi tutte, a suo tempo, arrivarono dall’Inghilterra: era l’unica strada da battere in una Italia dai vivai autarchici, poveri e retrò. *** Le figlie Benedetta e Donata mantengono con amore, dedizione e successo i giardini della Foce e quelli di Chiarentana, sia quelli storici che quelli “nuovi”. Nuovo è quello di Donata, che circonda appunto Chiarentana: una grande fattoria quasi fortificata, dominata da un verde e fitto bosco, nella quale, al centro della corte quadrata, è incastonato un tiglio ombroso e fresco. Chiarentana a sua volta domina la svettante Radicofani e la luminosa (ed amatissima) Val d’Orcia. La Foce e Chiarentana sono diventate, nel loro evolversi, posti di turismo intelligente: il bello, la quiete, l’olio buono e, per un certo periodo dell’anno, della buonissima musica, hanno, per fortuna, i loro amici, i loro estimatori ed i loro ammiratori. Da tanti anni “Incontri in terra di Siena” porta della gran qualità musicale tra le crete bruciate dal sole. Fare musica alle ultime luci del giorno in mezza estate, nei silenzi assoluti degli antichi boschi della Foce è un vero grande e raro privilegio. Qui, come in altre parti d’Italia, la natura a fine luglio, esausta e stanca, va in riposo: regna su tutto una atmosfera speciale, leggera, aperta ed ospitale. Quella stessa, forse, che rapì Antonio e Iris quasi un secolo fa, ammaliandoli, trascinandoli, facendoseli suoi per sempre. Repubblica Nazionale 36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22 LUGLIO 2007 Il 25 luglio 1943 Mussolini perde la sua libertà: per un mese è confinato a Ponza e alla Maddalena, prima del Gran Sasso e del blitz nazista. In totale isolamento scrive i “Pensieri pontini e sardi”, in forma di appunti numerati, finora noti soltanto in una traduzione in tedesco. Ora “Repubblica” ha ritrovato nei National Archives di Londra la versione originale e completa di quell’intenso diario di un uomo sconfitto L’ultimo Mussolini BENITO MUSSOLINI 1. Tutto ciò che accade, deve accadere, perché se non dovesse accadere non sarebbe accaduto. 2. Gli animali sono superiori agli uomini in fatto di gratitudine forse perché hanno l’istinto e non la ragione. 3. Pare che i dittatori non abbiano scelta — non possono perché devono cadere — Però la loro è una caduta che non suscita l’ilarità anche quando non sono più temuti, continuano ad essere odiati o amati. 4. Quella che chiamiamo «vita» non è che un quasi impercettibile «punto» fra due eternità, quella di prima e quella di dopo. — Confortante pensiero. 5. Due libri mi hanno particolarmente interessato in questi ultimi tempi. La Vita di Gesù di S. Ricciotti e Giacomo Leopardi di Saponaro. Anche Leopardi è stato un po’ crocefisso. 6. Secondo Delcroix la vita avrebbe dei cicli settennali, con avvenimenti determinanti… 1922 Marcia su Roma — 1929 Conciliazione fra Stato e Chiesa — 1936 Fondazione dell’Impero — 1943 Caduta — 1950 Già morto finalmente! 7. I pensieri pontini sono finiti perché stanotte all’una sono stato svegliato con queste parole «Pericolo imminente». Bisogna partire. Mi sono vestito in fretta e furia, ho raccolto panni e carte e ho raggiunto l’incrociatore che attendeva, sono salito e ho ritrovato l’ammiraglio Maugeri, il quale mi ha detto che la nuova meta era l’isola di Santa Maddalena in Sardegna. Oggi il mio pensiero vola a Bruno. È il secondo anniversario della sua morte. Nel- le circostanze in cui mi trovo, sento ancora più profonda la ferita. Caro Bruno! Ecco che la tua immagine mi è davanti, mentre scrivo queste parole nella nuova casa di esilio... Il viaggio è durato dodici ore con un mare tempestoso. La villa dove mi hanno condotto apparteneva a un suddito inglese... è circondata da un parco di pini... Un anno fa circa, visitai la Maddalena, fra l’entusiasmo del popolo. Oggi, arrivo clandestino. Chi sa, se oggi — qualcuno — si è ricordato di mio figlio e di quanto fece nella sua breve meravigliosa vita! Venti anni di lavoro sono stati cancellati in poche ore... Il Fascismo era un’iniziativa che aveva interessato il mondo e indicato nuove vie. Non è possibile che tutto sia crollato… Tutto fu un’illusione? 8. Al termine di questa prima giornata d’esilio alla Maddalena una profonda melanconia mi afferra. Sento che il mio Bruno è — ora — veramente morto! 9. Di me e di queste mie vicende fra pochi anni sarà illanguidito il ricordo e dopo poco, cancellato. 10. Dal 25 luglio a mezzogiorno, non ho più visto giornali. È curioso che non senta questa mancanza, io lettore infaticabile di decine di giornali al giorno. 11. Scherzi del destino: dal massimo del potere alla totale impotenza; dalle moltitudini acclamanti, alla solitudine assoluta. 12. Sin dall’ottobre del ‘42 io ho avuto crescente il presentimento della crisi che mi avrebbe travolto. La mia malattia vi ha avuto gran parte. 13. In questi ultimi tempi, la richiesta di mie fotografie era molto diminuita e di altrettanto — se non più — era aumentata la mia riluttanza a firmarle. 14. Il film Sant’Elena, piccola isola fu seguito da tutti noi... con un’attenzione accorata. Così finì un grandissimo uomo; perché un uomo di gran lunga minore non potrebbe avere una sorte “Il mio astro è tramontato per sempre” Repubblica Nazionale DOMENICA 22 LUGLIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37 Gli 88 fogli dei Pensieri Nel settembre 1943 i Tedeschi liberano Mussolini al Gran Sasso e requisiscono tutte le sue carte che finiscono nel dossier “Duce Dokumente” alla cancelleria del Reich. Nel maggio 1945 gli inglesi trovano questi fascicoli in mezzo ad altre migliaia di carte Per un anno li fotografano, pagina dopo pagina. Negli scaffali nazisti c'è anche un “blocco per appunti” sul quale Benito Mussolini aveva scritto con una matita nera fra il 7 e il 27 agosto 1943 i “Pensieri pontini e sardi”. Il ricercatore Mario J. Cereghino ha recuperato questo materiale finora inedito (in piccola parte riprodotto in queste pagine) ai National Archives di Kew Gardens, nei pressi di Londra Le riflessioni del Duce sono contenute in 88 fogli a quadretti che sono diventati altrettante stampe fotografiche ingiallite dal tempo. I brani pubblicati in queste pagine sono tratti da quei fogli LA CADUTA Il Gran Consiglio che il 25 luglio 1943 votò contro Mussolini. A destra, uno strillone annuncia la caduta del Duce simile o quasi? 15. Dopo quindici giorni non so ancora che cosa «sono» o piuttosto che cosa sono diventato. 16. Secondo l’ammiraglio Maugeri di Gela non ci sono a La Maddalena che venti giorni all’anno senza vento. Oggi 10 agosto 1943 è uno di questi. Mare che sembra una tavola. Alberi immobili. 17. Talete (?) ringraziava gli dei di averlo fatto nascere: uomo e non bestia, maschio e non femmina, greco e non barbaro. 18. Quando una piramide politica speciale crolla, le conseguenze si fanno sentire sino alla base. Sorge un piccolo problema anche per i bambini che portavano le racchette del tennis. 19. Il mio piantone si chiama Felice Nunzio ed è della provincia di Roma. I piantoni di Ponza si chiamavano Tirella (Frosinone). Tizzoni (Rieti). Minuzie della storia... 20. Quelle che si chiamano dittature nel mondo moderno sono dittature a tipo indiretto collettivo e pare che la loro durata non possa superare il ventennio. Assistiamo però ad un’eccezione: la dittatura del bolscevismo sul proletariato. 21. Stanotte le sentinelle hanno fatto fuoco contro «rumori sospetti». 22. Un uomo che deve essere stato più di ogni altro sorpreso dagli avvenimenti deve essere l’Ambasciatore del Giappone, che ricevetti alle ore 13 del 25 luglio. 23. Le zanzare: l’altoparlante della notte. Ce ne sono troppe qui! 25. Villa Torlonia. Scoppiata la guerra nel giugno del 1940 il primo rifugio di V.T. fu ricavato da alcune grotte... Ma dopo i bombardamenti di Torino e Milano, Genova nell’ottobre del 1942, si disse che occorreva fare un rifugio alla «prova», cioè capace di resistere anche alle bombe di massimo peso... Preventivo 240.000 lire. Durata dei lavori tre mesi… I lavori divennero più complessi e più lunga la loro durata. È curioso che mano a mano che i lavori si avviavano al compimento... la mia antipatia per il rifugio aumentava e non soltanto per la spesa ormai raddoppiata ma per qualcosa di oscuro che sentivo in me. Sentivo, cioè, che una volta finito, quel rifugio sarebbe stato completamente inutile. 26. È la prima volta dal ‘40, che il Bollettino Italiano parla dell’attività del nemico — sul fronte terrestre — senza accennare minimamente alla nostra. Si può interpretare ciò come una prepa- razione a comunicare che ormai in Sicilia siamo all’ultima ora. 27. Un partito sciolto, cioè proibito, diventa per molti italiani interessante. Ci provano gusto ad essere fascisti quando con ciò si è «sovversivi». 28. Ricevuta una seconda lettera da Rachele che non sa più nulla di Vittorio. Il tenente Faiola che lo conosce sin da ragazzo, dice che non gli può essere accaduto nulla di ingrato. 29. Nel Partito, accanto alle scorie, c’era il fin fine dei combattenti di tutte le guerre. 30. Stamani le novità sono rappresentate dalla partenza del Colonnello Merli, del Tenente Di Lorenzo e di altri 30 Allievi Carabinieri. 31. È curioso che in questi ultimi tempi mi ero stancato di lavorare nella grande sala di P.V. (Palazzo Venezia). Avevo già deciso di trasferirmi al Ministero della Marina... Progetti procrastinati dalla mia infermità. 32. I primi giorni della nuova esistenza — nel mio caso di prigionia — sono veramente interminabili. Poi si riempiono di piccole cose e incominciano a trascorrere. 33. Oggi 13 agosto, una strana inquietudine mi ha afferrato e mi tiene... alle 17 mi viene consegnato il bollettino che annuncia... il secondo bombardamento di Roma. Il mito della città «pa- pale» e perciò risparmiata, è crollato. Così pure l’altra leggenda che Roma veniva bombardata perché sede del Fascismo. 34. Com’è possibile che un capitano aviatore come Vittorio non riesca a dare notizie di sé, dopo ventun giorni dal «cambio della guardia». 35. Gli argomenti di conversazione tra me i miei vari interlocutori si esauriscono e tra poco vigerà la regola della «trappa». Silentium. 36. Non mi sono mai interessato ai giochi delle parole incrociate, alle sciarade, ai giochi enigmistici: oggi in mancanza di libri, avrei modo di ammazzare il tempo, come si dice, prima che il tempo ammazzi me. 37. L’Ispettore di P. S. Polito... è venuto stamani, 14 agosto, qui per un’ispezione e gli ho chiesto di venire a vedermi. Ecco quanto ha detto l’Ispettore: «Ho accompagnato Donna Rachele alla Rocca... Alla Rocca erano già Romano e Anna. Di Vittorio non so nulla... Quanto alla promessa di Badoglio, per voi, non è stato possibile realizzarla, poiché telegrammi concordi del Prefetto, del Questore, del Comandante di Zona facevano prevedere gravi disordini se foste andato alla Rocca...». «Voi dovete sapere che il capovolgimento della situazione è to- “Scherzi del destino: dal massimo del potere alla totale impotenza, dalle moltitudini acclamanti alla solitudine assoluta” “La giornata del 25 luglio”: lettera di Mussolini scritta a Ponza “Ormai sono uno qualunque” T erminata la seduta del Gran Consiglio alle 2,30 circa, rientrai nel mio ufficio, dove fui raggiunto da Scorza, Buffarini, Tringali, Biggini, Galbiati. Fu discusso se tutto ciò che si era votato era legale, ma io non mi interessai gran che alla questione. Scorza, che aveva pronunciato durante la seduta, quale ultimo oratore, un discorso senza colore e forse senza convinzione, chiese di accompagnarmi a casa. Il che avvenne… Congedato lo Scorza a Villa T., trovai mia moglie — inquieta — che mi attendeva. Colla sensibilità delle donne — coll’intuito delle donne, essa aveva l’impressione che qualcosa di grosso si preparava. Povera Rachele! Quante poche gioie le ho dato e quanti dolori! Non mai durante trenta anni una settimana di pace. Essa meritava, forse, un altro migliore destino, che non fosse quello di essere legata alla mia turbinosa esistenza! Ci scambiammo poche parole e mi addormentai con uno di quei sonni brevi nel tempo e malgrado ciò, eterni, che hanno sempre preannunziato gli eventi decisivi della mia vita. Alle sette ero in piedi. Alle otto a Palazzo Venezia. Regolarmente, come sempre, da 21 anni, aveva inizio la mia giornata di lavoro. — l’ultima. Nel corriere non vi era nulla di molto importante, salvo una domanda di grazia per due partigiani dalmati condannati a morte. Telegrafai al Governatore Giunta, favorevolmente. Sono lieto — ora — che il mio ultimo atto di governo abbia salvato due vite, anzi due giovani vite... Rientrai a Villa T… Consumai la solita colazione e trascorsi un’ora a conversare con Rachele, nel saloncino cosiddetto della musica. Mia moglie più che impressionata, era ormai allarmata davanti a qualche cosa che stava per succedere. Alle 16 mi vestii in borghese e accompagnato da De Cesare mi recai a Villa Savoia dove S.M. mi attendeva sulla soglia della Palazzina. Il colloquio durò mezz’ora. Al momento del congedo sulla soglia, il Re mi strinse la mano con molta cordialità. La mia macchina mi attendeva dal lato destro della palazzina, ma mentre mi dirigevo da quella parte, un capitano dei Carabinieri si... (parola incomprensibile, ndr) dicendomi: «S.M. mi ha ordinato di proteggere la vostra persona» e poiché io accennavo ancora di salire nella mia macchina, egli mi fece salire su un’auto-ambulanza già pronta da tempo. Evidentemente! Salì con me anche De Cesare. Guardati a vista da due agenti in borghese muniti di moschetti mitragliatori, fecero un lungo accidentato percorso — con sbalzi notevoli — che misero qualche volta in pericolo la stabilità del veicolo. Dopo una breve sosta in una caserma dei RR.CC., che non ricordo, giungemmo alla Caserma Allievi Carabinieri. Io fui condotto nell’ufficio del Colonnello. Guardie con baionetta furono messe nel corridoio. Da parte degli ufficiali trattamento cordialissimo. Alle ore 1 del 26, il generale Ferone, che avevo conosciuto in Albania, mi portò un biglietto del maresciallo Badoglio che qui trascrivo: «All’Eccellenza il Cav. etc... Il sottoscritto Capo del Governo tiene a far sapere a V.E. che quanto è stato eseguito nei vostri riguardi è unicamente dovuto al vostro personale interesse, essendo giunte da più parti precise segnalazioni di un serio complotto verso la vostra persona. Spiacente di questo, tiene a farvi sapere che è pronto a dare ordini per il vostro sicuro accompagnamento, con i dovuti riguardi, nella località che vorrete indicare». Seguiva la firma autografa. Dettai una risposta alla missiva del Maresciallo e dissi che sarei andato volentieri alla Rocca delle C… Così trascorse il lunedì. Spesso conversarono come il colonnello Chirico, il maggiore Bonitatibus, il colonnello Tabellini (non dimenticherò la amabilità della di lui moglie che mi mandò tè e gelati di frutta) il Generale Delfini, il medico Ten. Col. Santillo casertano e quindi inguaribilmente afflitto per la soppressione della provincia di Caserta. Fu un errore! Ero ormai convinto che sarei andato alla Rocca. Viceversa il martedì sera, verso le ore 10, venni fatto discendere e consegnato al Generale Polito, della Polizia Militare, nel quale riconobbi il Commissario di P.S. Polito, che aveva per 17 anni lavorato con me e al quale avevo affidato clamorose e fortunate operazioni di polizia. Durante il tragitto si parlò del più e del meno, dopo che avevo constatato la direzione della marcia: non la Flaminia, ma l’Appia — meta Gaeta, molo Ciano Corvetta Persefone — con un Ammiraglio, il Maugeri di Gela, decoratissimo e compitissimo... Sosta a Ventotene e impossibilità di soggiorno. Continuazione verso Ponza, dove arrivavo verso le 11. Non è la residenza che avevo o avrei scelto. Trattamento cordiale. Nel primo giorno il Colonnello Pelaghi e successivamente il Colonnello Meoli e il Tenente Di Lorenzo continuano ad occuparsi con molto tatto della mia “incolumità” personale non so da chi più minacciata, ora, che l’obiettivo dei complottatori è stato raggiunto e la mia persona fisica non ha più alcun valore, cioè, è uguale a quella di uno qualunque. Ponza 2 agosto 1943 P. S. 1) Questo è un rapporto di natura confidenziale che affido alla discrezione del Colonnello Meoli, il quale non è autorizzato a comunicarlo a chicchessia, salvo decisioni in contrario. 2) Può darsi che alcuni dei giudizi sopra-esposti non corrispondano del tutto alla realtà, data la mia ignoranza su quanto è accaduto dal 25 luglio in poi, dovuta al totale isolamento morale, al quale sono stato da quel giorno sottoposto. tale. Non solo non si vedono più distintivi in Italia, ma tutti i fascisti si sono più che dispersi “vaporizzati”. Le manifestazioni di odio contro di voi non si contano. Io stesso ho visto un vostro busto in un cesso pubblico di Ancona...». «Si sono fatti molti arresti, ma i capi del Fascismo sono quasi tutti liberi, non escluso il molto odiato Starace. Il Conte Ciano fu visto il 26 in uniforme di ufficiale… Grandi, Bottai e gli altri sono scomparsi dalla circolazione». «Tutta la vostra costruzione è crollata: vi basti dire che capo degli operai è oggi Bruno Buozzi». «Conquistata tutta la Sicilia gli inglesi effettueranno uno sbarco nel mezzogiorno d’Italia… la superiorità aerea degli anglo-sassoni è schiacciante...». Il Generale Polito mi ha consigliato di stare tranquillo… e ha aggiunto che calmate le passioni sarebbe stato possibile un più equo giudizio, poiché «nessuno può negare che voi vi proponevate di rendere grande e prospero il paese». E ancora «Nessuno vi informava? Che hanno fatto quelli che vi circondavano?». Il colloquio è durato circa un’ora e mezza. Pur sfumato del «colore» che i funzionari di P.S. amano dare ai loro rapporti, a due conclusioni posso arrivare: 1) che il mio sistema è crollato 2) che la mia caduta è definitiva Il sangue, la voce infallibile del sangue mi dice che il mio astro è tramontato per sempre 38. Calma di ferragosto: il mare non ha un brivido, l’aria un soffio. Tutto sembra fermo sotto il sole. Anche il mio destino. 39. Nel pomeriggio è venuto a visitarmi il tenente colonnello medico dott. Mendini... mi ha ordinato diverse medicine... Gli ho domandato: Vale ancora la pena? Egli mi ha risposto: Come medico e come uomo, dico di sì. 40. Quando un uomo crolla con il suo sistema, la caduta è definitiva, specie se l’uomo ha oltre sessant’anni. 41. Dio mi è testimone degli sforzi disperati e angosciosi — dico disperati e angosciosi — da me fatti per salvare la pace nel fatale agosto del 1939. Gli sforzi fallirono. Ciò si deve in parti quasi eguali agli inglesi e ai tedeschi. Agli inglesi per la garanzia data alla Polonia, ai tedeschi che avendo pronta una macchina militare potente, non resistettero alla tentazione di metterla in movimento. (continua nelle pagine seguenti) Repubblica Nazionale 38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22 LUGLIO 2007 In questi taccuini scritti a mano e per punti Mussolini ripercorre il ventennio in un misto di analisi politiche, rimpianti e rancori, frecciate per amici e gerarchi, timori per i familiari. E di giudizi su se stesso: “Se gli uomini stessero sempre sugli altari finirebbero per ritenersi superuomini, la caduta nella polvere li riconduce all’umanità” L’ultimo Mussolini BENITO MUSSOLINI (segue dalle pagine precedenti) 42. Oggi, 16 agosto, ho ricevuto per la prima volta la «Radio Navi» del 14 agosto con notizie da Berlino, Tangeri, Lisbona, Madrid, Istanbul, Stoccolma. 43. È chiaro che se il 10 luglio gli anglo-sassoni avessero subito sulla rada di Gela una «Dieppe» in grande stile, oggi non sarei in quest’isola. 44. Come sempre, si vorrà anche nella mia vicenda «cercare la donna». Ora le donne non hanno avuto la minima influenza sulla mia politica. È forse stato male. Le donne talvolta vedono — attraverso la loro sensibilità — più lontano degli uomini. 45. Crispi e quel fenomeno complesso che fu allora chiamato «crispismo» caddero sotto la disfatta di Adua e Felice Cavallotti diventò popolarissimo. Anche allora il popolo repentinamente cambiò. 46. Si passa dal massimo dell’esaltazione al massimo dell’esecrazione. 47. Un giorno un papa mi chiamò «l’uomo della Provvidenza». Era l’epoca felice. 48. Se gli uomini rimanessero sempre (parola incomprensibile, ndr) sugli altari finirebbero per ritenersi superuomini, o essere divini: la caduta nella polvere li riconduce all’umanità... 49. ...La perdita di Augusta e di Siracusa... Da quel giorno ebbe inizio l’atto quinto del dramma. Accuse e contraccuse avvelenarono l’atmosfera. Si parlò di tradimento di ammiragli prima per Pantelleria, poi per Augusta... 50. Di tutti i regimi cosiddetti «totalitari» sorti dopo il 1918, quello turco sembra il più solido: vi è un solo partito, quello del popolo, di cui è capo il Presidente della Repubblica. 51. Può darsi che qualche commentatore straniero, abbia sottolineato la volubilità in fatto di convinzioni politiche del popolo italiano. 52. Nuovo pomeriggio — 16 agosto — di grave inquietudine. Ho il sangue in fermento. 53. Penso oggi a tre uomini che pur venuti dal nazionalismo, tanto lume di dottrina, tanto fervore di fede, tanta realtà di leggi diedero al Fascismo: Alfredo… Enrico Corradini, Forges Davanzati. 54. Saranno stati rispettati i «sacrari» del Fascio? 52.Ci fu «congiura» contro di me? Sì, altrimenti non si spiegherebbe il biglietto che il Maresciallo Badoglio mi mandò nella notte del 25-26… e nel quale si parlava di un «serio complotto contro la mia persona». 53.È dal 23 ottobre del 1942 che la fortuna mi ha voltato decisamente le spalle. La celebrazione del ventennale fu turbata dai bombardamenti e dall’offensiva nemica in Libia... 54.I miei incontri nel Veneto con Hitler sono stati seguiti nelle due volte da avvenimenti ingrati. 55.17 agosto. Il mare sembra un lago alpino. Una enorme monotonia pesa su tutto... Stento a credere che in casa Farinacci si siano trovati 80 kg d’oro... Il Comandante del distaccamento che mi «protegge» è il tenente Faiolo, laziale di Segni... Egli conobbe nel 1935 in Eritrea Bruno e Vittorio, allora adolescenti, andati volontari. Il 24 agosto p.v. si compiono gli otto anni dal giorno in cui partivano dall’Africa... Erano gli anni 1935-1936 gli anni «solari» nella storia dell’Italia e del Regime. Vale la pena di averli vissuti... anche se oggi, tutte le autorità di Roma sono incapaci di darmi notizie di mio figlio e di mio nipote. 56. ...La morte improvvisa di Bruno fu una pre- dilezione del destino: quanto avrebbe sofferto in questi giorni. 57. Una voce mi dice: se tu fossi morto, non avresti lasciato P.V. e V.T. e la Rocca delle Camminate e i parenti e gli amici e tutto ciò che ti fu caro? La voce non tiene conto che ho lasciato tutto ciò, da vivo. Però è come se fossi morto… 58. Verso le 17 di oggi 17 agosto è venuto — da me cercato — il parroco de La Maddalena... «Lasciate», egli ha detto, «che vi parli sincero: non sempre siete stato grande nella fortuna, ora dovete essere grande nella sventura. Il mondo vi giudicherà più da quello che sarete d’ora in poi, che da quel che eravate fino a ieri...». 59. Il tenente Faiolo... ci dice che il Contrammiraglio Bona gli ha detto che... Eden ha dichiarato che «la Libia non sarà più restituita all’Italia»… 60. Un mese fa vidi l’ultima volta a Riccione Romano, Anna, Guido, Adria. 61. Fisso nelle linee che seguono l’atteggiamento di Dino Grandi... dall’inizio del ‘43 sino al luglio… Sino al febbraio, tale atteggiamento pareva chiaro. Dopo la crisi ministeriale... cominciò ad “Anche nella mia vicenda si vorrà cercare la donna Ora le donne non hanno avuto la minima influenza sulla mia politica E forse è stato male” Il ritrovamento dell’originale dei “Pensieri” chiarisce un dubbio storico Le parole di un “dead man walking” NICOLA CARACCIOLO l ritrovamento del testo originale, nei “National Archives” di Londra, dei Pensieri pontini e sardi di Mussolini, scritti di pugno dall’ex dittatore, scioglie un vero e proprio piccolo enigma storico. Finora questi Pensieri erano considerati di incerta attendibilità. Del testo si conosceva infattisoltantounaversionesullacuiautenticitàc’era qualche sospetto. Ma andiamo per ordine: è una storia complicata. Dopo la caduta del regime, il 25 luglio del 1943, Mussolini, com’è noto, fu arrestato per ordine del re e trasferito prima a Ponza, poi alla Maddalena. Di lì fu poi portato a Campo Imperatore sul Gran Sasso dove venne liberato dalle Ss del capitano Skorzeny. Il suo stato d’animo era di autentica disperazione. Scrive infatti: «Una profonda malinconia mi afferra. Sento che mio figlio Bruno è ora veramente morto». Bruno, aviatore caduto in guerra, era il figlio forse più amato. Aggiunge: «Non so ancora cosa sono, cosa sono diventato»; e constata: «Gli argomenti di conversazione tra me e i miei interlocutori si esauriscono e tra poco vigerà la regola della trappa: Silentium». Vede nel paesaggio qualcosa di mortuario: «Calma di ferragosto, il mare non ha un brivido, l’aria un soffio. Tutto sembra fermo sotto il sole. Anche il mio destino». Si paragona a Napoleone nella sventura. Ponza come Sant’Elena. Annota ancora: «Ho lasciato Piazza Venezia, Villa Torlonia, la Rocca delle Caminate, i parenti, gli amici e tutto ciò che mi fu caro. E ho lasciato tutto questo da vivo. Però è come se fossi morto». E conclude: «Neppure Dio può revocare ciò che è stato». Il primo documentario che ho fatto per la Rai su Mussolini e il fascismo, Tutti gli uomini del Duce, uscì con la consulenza storica di Renzo De Felice — per me una guida e un maestro — nel lontano 1983. Da allora sull’argomento di documentari ne ho fatti tanti. Credo di essere in assoluto il giornalista che ha più frequentato il materiale fotografico e cinematografico relativo. Ho a suo tempo riscoperto e tirato fuori il filmato sul salvataggio di Mussolini a Campo Imperatore e poi sul suo incontro con Hitler pochi giorni dopo la stesura dei Pensieri. Il Duce ha un cappellaccio a larghe tese, un cappotto scuro sdrucito, è mal rasato, ha una faccia magra e tesa con gli occhi spiritati. È l’immagine di un vecchio barbone con alle spalle una vita sventurata, non quella di un capo di Stato. Occuparsi come ho fatto io per tanti anni di un I essere ambiguo. In taluni circoli lo si chiamava l’«attendista». In altri, lo si definiva senz’altro «anglofilo». Accusa, quest’ultima, ingiusta... ...Rividi il Grandi, il quale mi ringraziò in termini enfatici e mi disse testualmente: «Prima di incontrarti io ero un cronista del Carlino, un modesto giornalista. Tu mi hai creato. Io devo tutto a te. Tutto ciò che sono diventato nella vita, è opera tua. La mia devozione per te non ha limiti, perché — lasciamelo dire — ti voglio anche bene». Era sincero? In quel momento lo credetti. ...Le accuse di «attendismo» ripresero... Giacché manifesto il passato degli uomini che mi furono vicini, parlo anche di Bottai. Come soldato, valoroso; come scrittore velleitario... Più che un volto la sua è una maschera. Non puro sino in fondo al bicchiere... 63. Non ho avuto «amici» nella mia vita e più volte mi sono domandato se ciò fosse un bene o un male. Oggi rispondo che era un «bene». Oggi molta gente è così dispensata dal «compatirmi», cioè dal «patire con me». 64. Chissà se al Museo della Guerra di Milano sono ancora esposti e rispettati i cimeli di Bruno! 65. ...In data 30 (luglio, ndr) Göring mi spediva questo telegramma: «Duce... vi saluto in questa guisa in occasione del vostro compleanno... mia moglie ed io vi trasmettiamo i nostri cordiali auguri per il vostro personale benessere...». Questo telegramma mi ha convinto ancora di più che G. è un amico dell’Italia. 66. Albini: mio errore delusione. Brutto nel volto e nell’anima. Sapeva tutto e non mi ha detto nulla! 67. La mia figura giuridica sarebbe questa? Excapo del Governo protetto per sottrarlo al furore del popolo. 68. 18 agosto (1937 o 38?) volo da Roma a Pantelleria e ritorno. 69. È difficile esagerare la gravità del trauma psichico da cui deve essere stata colpita nella notte del 25 luglio la Gioventù organizzata nella «GIL»... Questa gioventù che era stata ammirata in quasi tutte le nazioni d’Europa... dove andrà domani? Verso sinistra, verso le idee più estreme; oppure, delusa e sfiduciata non crederà più personaggio così ingombrante determina una forse mal riposta simpatia umana. Il Mussolini dei Pensieri, quest’uomo prematuramente invecchiato, sconfitto, malato, che ricorda il figlio morto, si preoccupa per la moglie Rachele, o per l’altro figlio Vittorio di cui non ha notizie, è indubbiamente patetico. Tuttavia c’è qualcosa che stride, come una sordità morale: il Paese è a pezzi, la politica del Duce ha causato immense sciagure, immensi dolori. Alla tragedia di un popolo martoriato l’ex Duce non dedica nemmeno una riga. Ma perché finora l’attendibilità di questo testo pareva dubbia? Nell’opera omnia di Mussolini (curata dai fratelli Edoardo e Duilio Susmel) è stata pubblicata — sembra un gioco di parole — la traduzione italiana della traduzione tedesca. L’originale era scomparso. Copre il periodo tra il 27 luglio e il 20 agosto, prima che il Duce venisse trasferito nell’Italia centrale. Lo scritto cadde in mano dei nazisti che lo fecero tradurre. Poteva servire a capire qualcosa della psicologia e delle intenzioni di Mussolini, l’uomo che Hitler in passato aveva tanto ammirato. Di questa traduzione il Führer pare abbia ricevuto una copia accompagnata da un breve resoconto del 25 luglio. Hitler non rinnegò mai Mussolini però qualche dubbio cominciava ad averlo. Si confiderà con una delle anime più nere del nazismo, Göbbels, che scrisse nel diario: «Il Duce non ha tratto dalla catastrofe le conclusioni che il Führer si aspettava. Non pensa a vendicarsi». Conclude: «Il Duce a differenza di Hitler e di Stalin non è un vero rivoluzionario. Il Führer è deluso». Comunque gli originali del testo dei Pensieri vennero bruciati al momento del crollo della Germania nazista. Un ufficiale delle Ss ne salvò tuttavia una copia appunto nella traduzione tedesca. Se la tenne nascosta per qualche anno poi si decise a farla pubblicare su un giornale austriaco il Salzburger Nachrichten: troppi passaggi. C’era quindi il timore di manipolazioni. Grazie alla copia rinvenuta da Repubblicaoggi sappiamo che il testo pubblicato a suo tempo è nella sostanza esatto anche se c’è per la doppia traduzione qualche variazione nella scelta dei vocaboli e nel giro delle frasi. I Pensieri pontini e sardirivelano quindi davvero lo stato d’animo di Mussolini. Sta per cominciare la Repubblica di Salò, il momento più feroce e forsennato del fascismo. Mussolini, prima di rientrare nella fornace, sembra avere una sola speranza, quella di morire. Firma in quei giorni qualche lettera «Mussolini defunto», il che storicamente non è senza significato. Nelle prigioni americane il passaggio di un condannato a morte viene annunziato col grido «dead man walking», uomo morto che cammina. Repubblica Nazionale DOMENICA 22 LUGLIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39 ROMA BOMBARDATA Nelle foto, da sinistra, case distrutte a Roma dopo il bombardamento sul quartiere di San Lorenzo Benito Mussolini con la moglie Rachele e i figli a Villa Torlonia Saluto al Duce al momento della fuga dal Gran Sasso a bordo di un aereo tedesco La foto grande di Mussolini che illustra questa pagina e la pagina precedente è stata scattata al Gran Sasso in occasione della fuga Nella foto di copertina, Benito Mussolini alla scrivania a Palazzo Venezia a nulla e a nessuno. 70. È tornato dal Continente un maresciallo, tale Daini di Ciociaria, e ho scambiato con lui quattro parole. È un uomo schietto, di modeste facoltà mentali, per cui le sue parole hanno un certo sapore. 71. Fra gli umili che mi hanno servito ne voglio ricordare due: Ridolfi e Navarra. Il primo per vent’anni ha cavalcato accanto a me tutte le mattine o quasi. È stato il mio maestro di scherma e di equitazione. Scrupoloso, disinteressato, fedele nel vero senso della parola. Gli avranno fatto delle miserie? Navarra è stato il capo dei miei uscieri… Educato, discreto, rispettoso, anche lui disinteressato. Una parola di elogio va detta anche per il mio autista Borath (il nome esatto è Boratto, ndr) che ha rischiato la pelle con me negli attentati e salvo un cane ucciso a Montefrosinone non ha mai avuto il minimo incidente di macchina, pur essendo portato a correre velocemente. 72. E dopo gli uomini, perché non dovrei ricordare gli animali? Anch’essi sono stati nella mia vita. Sono i nomi dei cavalli Ruzowich, Ziburoff, Ned, Thiene, Fron... E i cani Carlot (brutto ma intelligentissimo), Bar, il cane di Bruno. Esso stette alcuni giorni accovacciato davanti alla stanza di Riccione, dov’erano le cose di Bruno. Fedeltà di una bestia! 73. 19 agosto. Se così può chiamarsi la mia settimana di passione comincia esattamente un mese fa col mio incontro col Führer a Feltre. Tale incontro era stato progettato di una durata di quattro giorni... senonché gli avvenimenti di Sicilia lo fecero anticipare al 19 luglio e ne fissarono la durata a un giorno solo... Il convegno ebbe inizio alle ore 12... il Führer cominciò a parlare per due ore... il mio segretario entrò nella sala e mi consegnò una telefonata da Roma che diceva: «Dalle ore 11 Roma è sottoposta a intenso bombardamento aereo». Comunicai la notizia al Führer e agli astanti... creò un’atmosfera pesante di tragedia... Terminata l’esposizione del Führer, ebbi un primo scambio di vedute a quattr’occhi. Egli mi disse due cose importanti: la prima che la campagna sottomarina sarebbe stata ripresa con altri mezzi e che a fine agosto la flotta aerea della rappresaglia avrebbe cominciato ad agire su Londra... Fu solo nell’ora trascorsa in treno che feci chiaramente intendere quanto segue: e cioè che l’Italia reggeva — ora — l’intero peso di due imperi come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti... Egli mi disse che avrebbe mandato altri rinforzi aerei e nuove divisioni per la difesa della penisola… Quando l’aeroplano del Führer partì... decollai anch’io facendo rotta direttamente su Roma... Vidi una grande densa nube che offuscava l’orizzonte. Era il fumo degli incendi della stazione del Littorio… centinaia di vagoni bruciavano, le officine distrutte... lo stesso spettacolo al deposito locomotive e al quartiere San Lorenzo. I danni apparivano immensi. Scesi all’aeroporto di Centocelle. Dirigendomi a Villa Torlonia rimontai un’immensa fiumana di gente che a piedi e con ogni veicolo si dirigeva verso la campagna. La città aveva un aspetto buio… Nei giorni successivi mi recai a visitare alcuni dei luoghi più colpiti... ma ordinai che non se ne parlasse sui giornali. 74. Il molto atteso ammiraglio Brivonesi, tornato stamane 19 da Roma, ha rotto il mio isolamento portandomi una lettera di mia moglie in data 13 agosto, nella quale mi dice che anch’essa praticamente è isolata, che non ha telefono e che vive in continuo allarme, non so se aereo o di altra natura... Poi in una lettera l’ammiraglio Brivonesi mi comunica... che Vittorio è riparato all’estero ed è stato dichiarato disertore, la qual cosa mi dispiace immensamente, che Vito è alla Rocca... Circa la mia posizione personale niente di nuovo. 75. Qui finisce il primo quaderno dei Pensieri pontini e sardi, ore 15 del giorno 20 agosto 1943. Repubblica Nazionale 40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22 LUGLIO 2007 Sandro Luporini ha lavorato per quarant’anni al fianco di colui che egli stesso chiamava il “Brel italiano”. Insieme hanno condiviso tutto: arte e miseria, passioni e delusioni politiche, sofferenze e successi. Ora, per la prima volta e mentre si preparano le celebrazioni per l’anniversario della morte dello chansonnier, “Lupo” apre i suoi cassetti e sfoglia per noi le pagine fittissime scritte a quattro mani in giornate di rabbia, ispirazione e nicotina Gaber segreto DARIO CRESTO-DINA C’ VIAREGGIO è un luogo dove il signor G. continua a vivere, all’insaputa di tutti noi. Si trova da qualche parte dentro un uomo che è stato il prolungamento, non si sa in quale punto innestato, se nei piedi, nella testa o nell’anima, di quel corpo che pareva potersi tirare e torcersi all’infinito contro il fondale di un palcoscenico. Guardi le foto che li ritraggono uno accanto all’altro, i gomiti che si toccano, e intuisci che devono essere ancora lì, in qualche loro rifugio segreto. A discutere, a fumare, a ridere di noi. Gaber scrive le sue canzoni su fogli bianchi, senza righe. Lettere tonde, parole distanziate, qualche volta in stampatello. Numeri ai margini della pagina, forse un riferimento alla metrica. Annota i temi che vuole affrontare. Stampa, Giustizia, Borsa, Partiti, Potere, Vaticano, Burocrazia. Alcuni li sottolinea, altri li cancella con un rigo. Gli piacciono i pennarelli blu, ma predilige un blu che tende all’azzurro, per le correzioni e i cambi di rotta adopera quelli neri. Luporini ha una vecchia agenda con la copertina di pelle marrone consumata dalle mani sue e da quelle di Giorgio. Le pagine ingiallite sono fitte di appunti. Usa una stilografica con un pennino fine e morbido. Lampi, bellissimi: «La Settimana enigmistica ha la capacità di assumere in sé due concezioni del mondo opposte. Infatti, di alcuni quiz, la soluzione non c’è e bisogna aspettare la prossima Settimana, uguale “Storia”. Di altri esiste a pagina 44, uguale “Dio”». Se ci sono uomini che riescono a vivere con due cuori tanto da consentire a quello di una persona che si è molto amata di continuare a battere anche dopo la sua morte o il suo addio, uno di questi è Sandro Luporini. Mentre a ottobre, a quasi cinque anni dalla scomparsa avvenuta il primo gennaio 2003, la fondazione diretta dalla figlia Dalia, in collaborazione con il Piccolo Teatro, dedicherà a Gaber due settimane di incontri, spettacoli e inediti a Milano, un’iniziativa che ripercorrerà tutta la sua straordinaria carriera, Luporini accetta di raccontare i sentimenti e le anse più nascoste di un’amicizia e una simbiosi artistica durate più di quarant’anni. Lo fa nella sua piccola casa di Viareggio, dalla quale non si vede il mare che lui immagina soltanto e dipinge dentro un minuscolo studio con una finestra ancora più piccina affacciata sulle nuvole lunghe e sottili che aderiscono perfettamente alla sommità del cielo. Nei suoi quadri il mare è sempre grigio. È un mare di lavoro, di fatica, non di villeggiatura e castelli di sabbia. Quasi sempre d’inverno. Giovani donne camminano senza che i loro piedi tocchino terra, uomini imbacuccati in lunghi cappotti trascinano sulla battigia la loro solitudine “Non ci siamo mai scritti, non ci siamo mai detti grazie. Sappiamo una cosa entrambi: che nella vita si soffre solo per amore Il resto sono preoccupazioni” I RICORDI Nella foto grande Giorgio Gaber e Sandro Luporini sulla scena dello spettacolo Il grigio; qui in alto, Notte di Carnevale sulla spiaggia (2002) di Luporini; Gaber e Ombretta Colli in viaggio di nozze in Marocco nel ’65 come in un tempo sospeso, clown e fate dolenti all’ultima notte di carnevale sotto la luna pallida cercano di farsi vicendevolmente coraggio con sguardi muti per togliere la maschera della giostra e rimettersi addosso quella di tutti i giorni. Lupo ha settantasette anni, una figlia di quattordici, una fidanzata di ventidue che lo ha appena chiamato per dirgli che ha preso trenta all’università e una faccia che è un misto tra John Wayne e Jack Lemmon. È lungo, magro, porta camicia e pantaloni azzurri. Da ragazzo studia ingegneria e legge libri su Van Gogh. Si innamora di Morandi e De Chirico. Nel ’52 va a Roma. «Ma Roma è solo cinema, anzi er cinema. Pensano solo a quello. A teatro non vanno oltre Zio Vania e Goldoni, mentre a Milano già si mette in scena Ionesco, Beckett, Brecht. E c’è Strehler. Allora mi dico: è a Milano che devi andare. Scopro una città magnifica, all’avanguardia, accogliente. I tassisti apostrofano i meridionali con un hei terùn, ma c’è un non so che di affabile e scherzoso nella battuta, quasi un abbraccio che scalda». Apre scrivanie, sfoglia libri, cerca come chi si prende gioco di te, come chi non vuole dividere i ricordi con uno straniero. «Non ho più niente di Giorgio». Mi mostra una chitarra che tiene sopra un armadio. «Un suo regalo, tento qualche accordo, ogni tanto. Io gli ho dato in cambio Minima Moralia di Adorno. Io e Giorgio non ci siamo mai scritti una lettera, non ci siamo mai detti grazie. Abbiamo conservato una verecondia antica, abbiamo persino il pudore di abbracciarci. Negli anni più recenti al termine dello spettacolo lui mi chiama sul palco, io mi nascondo, ho sempre il timore di inciampare nei gradi- ni e nella mia timidezza. Siamo anche poco atti a raccontarci le cose intime, i nostri stati d’animo, l’amore. Sappiamo una cosa entrambi, cioè che nella vita si soffre soltanto per amore. Il resto sono preoccupazioni». Nel ’59 Luporini a Milano abita in via Procaccini con i colleghi pittori Banchieri, Martinelli e Ferroni, assieme confluiranno nel gruppo del realismo esistenziale. Ha ventinove anni. Il ventenne Gaber sta lì vicino, in via Landonio. Si sfiorano per il cappuccino al bar Sempione, fino a quando Luciano, un amico comune, li fa incontrare. «Io canto», dice Gaber. «Io dipingo, ma verrò a sentirti», risponde Lupo. «La prima volta vado in una balera nei pressi di Varese. Canta in inglese, una roba rock. Non capisco un cazzo, ma resto affascinato dalla sorprendente energia che sprigiona quel corpo magro e secco. La nostra amicizia comincia così, una simpatia anche fisica, senza scomodare l’omosessualità. Giorgio ha sete di conoscere, esce da ragioneria, io ho già letto Platone e RobbeGrillet e ho un cassetto pieno di poesie. Lui è allegro, divertente. Giochiamo a calcio balilla, a biliardo, a scacchi. Più che di politica ci piace parlare dell’atteggiamento verso la vita. Siamo molto politici senza fare politica, senza alcuna simpatia nei confronti dei politici. Un giorno mi dice: scrivimi una canzone. Lo faccio. Nasce Il signor G. incontra un albero». Gaber la interpreta per gioco in casa, le sere in cui invita un po’ di gente. Verrà recuperata nei Borghesi, quando Giorgio abbandona la tv e con Sandro inventa il teatro canzone. Cominciano gli anni Settanta, il debutto al Piccolo con il primo spettacolo firmato assieme, dal titolo Dialogo tra un impegnato e un non so. Non si fermano più. Lavorano a Viareggio, poi alla Padula, l’ex convento che Gaber compra a Montemagno di Camaiore, sopra il mare della Versilia. «Ogni volta parliamo per venti giorni, un mese, senza prendere un appunto. Trovato il titolo e gli argomenti, ci barrichiamo in una stanza dalle tre del pomeriggio alle otto di sera. Fumiamo una sessantina di sigarette ciascuno, la stanza diventa una camera a gas. Io scrivo come un forsennato, anche cinquanta pagine in un’ora, lui taglia questo fiume di parole, perché è Giorgio l’architetto. Ha il senso del passo, della ritmica, una rara speculazione del pensiero, un’intelligenza a cuneo. È quello che fa i salti mortali tra le mie sestine e ottavine e mette a posto le cose. Se me la prendo e gli dico: “Cristo santo, quel pezzo potevi lasciarlo”, lui mi zittisce: “Sandro basta, il pubblico si stanca presto”. Io copio a man bassa da Céline, il più grande, pesco un po’ di Borges, rubo a Shakespeare e Pessoa. Ci divertiamo come matti. Io gli dico: Giorgio, tu sei come Brel mentre De André è il nostro Brassens. E io sono un pittore al quale hai donato la parola per dire cose che con il suo mestiere non sarebbe riuscito a esprimere». Li affascina la prima fase del Sessantotto, quella antiautoritaristica. Contro la famiglia, contro la scuola, contro lo Stato. Li delude la svolta politica della ribellione, ne prendono le distanze nel ’77 con la messa in scena di Polli di allevamento. Attaccano la sinistra, litigano con l’Unità, per una battuta sui “grigi compagni” di Io se fossi Dio si vedono negare i teatri dell’Emilia, si stancano presto di Craxi, quasi risparmiano Berlusconi. Gaber soffre il passaggio della moglie Ombretta Colli nelle file di Forza Italia, eppure non c’è solo questo. «Ci è più congeniale picchiare i vicini Repubblica Nazionale FOTO DI ENRICA SCALFARI I taccuini del Signor L l’altra metà del Signor G DOMENICA 22 LUGLIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41 L’INEDITO Voi, figli rassegnati a un mondo di noia GIORGIO GABER E SANDRO LUPORINI o, quella volta lì, avevo sessant’anni. Eravamo nel 2000 o giù di lì. Praticamente ora. E vedendo le nuove generazioni, i venticinquenni di ora così diversi mi domando: che eredità abbiamo lasciato ai nostri figli? Forse, in alcuni casi, un normale benessere. Ma non è questo il punto. Voglio dire... un’idea, un sentimento, una morale, una visione del mondo... No, tutto questo non lo vedo. Allora ci saranno senz’altro delle colpe. Sì, il coro della tragedia greca: i figli devono espiare le colpe dei padri. Siamo stati forse noi padri insensibili, autoritari, legislatori di stupide istituzioni? No. Allora dove sono le nostre colpe. Un momento, era troppo facile per noi essere pacifisti, antiautoritari e democratici. I nostri padri avevano fatto la Resistenza. Forse avremmo dovuto farla anche noi, la Resistenza. È sempre tempo di Resistenza. Perché invece di esibire il nostro atteggiamento libertario non abbiamo dato uno sguardo all’avanzata dello sviluppo insensato? Perché invece di parlare di buoni e di cattivi non abbiamo alzato un muro contro la mano invisibile e spudorata del mercato? Perché avvertivamo l’appiattimento del consumo e compravamo motorini ai nostri figli? Perché non ci siamo mai ribellati alla violenza dell’oggetto? Il mercato ci ringrazia. Gli abbiamo dato il nostro prezioso contributo. Ma voi, sì, voi come figli, non avete neanche una colpa? Dov’è il segno di una vita diversa? Forse sono io che non vedo. Rispondetemi: dov’è la spinta verso qualcosa che sta per rinascere? Dov’è la vostra individuazione del nemico? Quale resistenza avete fatto contro il potere, contro le ideologie dominanti, contro l’annientamento dell’individuo? D’accordo, non posso essere io a lanciare ingiurie contro la vostra impotenza. C’ho da pensare alla mia. Però spiegatemi perché vi abbandonate ad un’inerzia così silenziosa e passiva? Perché vi rassegnate a questa vita mediocre senza l’ombra di un desiderio, di uno slancio, di una proposta qualsiasi? Forse il mio stomaco richiede qualcosa di più spettacolare, di più rabbioso, di più violento? No! Di più vitale, di più rigoroso, qualcosa che possa esprimere almeno un rifiuto, un’indignazione, un dolore… Quale dolore? Ormai non sappiamo neanche più cos’è, il dolore! Siamo caduti in una specie di noia, di depressione... Certo, è il marchio dell’epoca. E quando la noia e la depressione si insinuano dentro di noi tutto sembra privo di significato. Si potrebbe dire la stessa cosa del dolore? No! Il dolore è visibile, chiaro, localizzato, mentre la depressione evoca un male senza sede, senza sostanza, senza nulla... salvo questo nulla non identificabile che ci corrode. I I DOCUMENTI Dall’alto: il testo del ’72 di L’ingenuo; quello di Il potere dei più buoni del ’97 e un appunto dall’agenda di Luporini sulla Settimana enigmistica della seconda metà degli anni Settanta piuttosto che gli estremamente lontani, meglio bastonare i compagni che Andreotti. Ma decidiamo anche che sulla politica non c’è più nulla da dire. Giorgio e io siamo dei veri comunisti, i soli rimasti. Crediamo nel comunismo antropologico, stessi diritti e stessi bisogni alla nascita per ogni essere umano, e non assolviamo questa sinistra che non è più sinistra, una sinistra che quando va al potere diventa quasi di centrodestra. Ci è cara una frase del subcomandante Marcos: bisogna sempre combattere il potere per non prenderlo. Il potere, prima o poi, si estingue da solo. Sepolta la politica, ci restano i sentimenti». Li raccontano, li mettono in musica. Sono tre le canzoni che non dimenticheranno mai e di cui vanno orgogliosi: Il dilemma, Quando sarò capace di amare e Illogica allegria. Gaber si ammala di cancro, Luporini continua a stare con lui, su alla Padula, tra le colline. Scrivono uno spettacolo in prosa di sei racconti, più un’introduzione e un epilogo (inedito pubblicato in queste pagine) che devono essere intervallati da una canzone. Lo chiamano Io quella volta lì avevo 25 anni. Rimarrà in un cassetto. «Siamo alla fine. Giorgio non riesce più nemmeno a sollevare la chitarra. Ma facciamo finta di lavorare, facciamo finta di essere sani. Lui rivela un coraggio incredibile. Come ha saputo amare, sa soffrire. Una delle ultime sere mi dice: “Purtroppo non si muore mai”. Quando succede, smetto di scrivere. Per tre anni non riesco più a prendere la penna in mano». Un giorno ricorda le parole di Gaber: «Vivi sempre come un bambino». Allora lo fa: «Come se avessi davanti altri cent’anni di stupori». Oggi Luporini, l’uomo nel quale battono due cuori, scrive di nuovo. L’ultima risata di un anti-italiano sui professionisti del culto postumo MARCO TRAVAGLIO Mordacchia Mastella FRANCESCO MERLO CINZIA SCIUTO Chiesa pigliatutto: le carte truccate dell’otto per mille ono tra quelli che amano Marx, ma non sopportano i marxisti. Allo stesso modo, non sono un gaberista. Peggio: da morto, Gaber non mi piace più. Penso infatti che in Italia la gran parte degli omaggi funebri sono sigilli cimiteriali, pietre tombali che chiudono ermeticamente e definitivamente i sarcofagi. E dunque anche Gaber, che da vivo sfuggiva all’appartenenza e non voleva consegnarsi «a quei bordelli di pensiero / che chiamano giornali», da morto ha avuto i suoi becchini, e ovviamente in molti lo hanno tumulato per pareggiare i conti della serva. A sinistra, quelli che egli aveva ridicolizzato e che sempre più lo trattavano come un ospite impresentabile, come un qualunquista (o, peggio, come un traditore per vie coniugali) si sono presi la rivincita sul morto: oggi sono diventati tutti “gaberiani”. Potesse vederli, sono sicuro che il poeta degli sconfortati che non trovano mai la posizione comoda, che lo sgraziato e affascinante mimo che introduceva la distanza cantando la vicinanza, li tratterebbe con il solito devastante sarcasmo, beccando a nasate la malafede celebrativa dei «colitici psicosomatici». Più facile da immaginare è l’ironia che riserverebbe alla destra che, lui vivo, si era frustrata in manovre di accostamento, e adesso che è morto e sepolto incredibilmente si riconosce nel “Gaber giovane”, si è appropriata dello stralunato compagno che cantava il «Primo maggio di lotta e di coraggio», del malinconico poeta di ringhiera, di quello che fischiava «in un cortile largo fatto a sassi». Ricordate? Berlusconi ai funerali arrivò a dire: «È stato il cantautore della mia Milano, quello della mia giovinezza». Evidentemente scambiava Il Giambellino con Milano 2. Ma ve lo immaginate il giovane Silvio che canta alla luna «nelle strade di notte»? La verità è che Gaber, che ha sempre cantato il disagio della inadeguatezza, l’ossimoro dell’anarchia solidaristica, l’impossibile solidarietà dell’individualista, ha lasciato un disco postumo che si intitola Io non mi sento italiano. Anch’egli faceva parte dei grandi italiani anti-italiani, grandi di varie grandezze, dai Manzoni sino ai Gassman. Perché ci sono solo due modi di essere italiano. O assumendo su di sé i vizi e i difetti d’Italia, o sentendosi sempre altrove, sempre contro, sempre fuori. Potesse vedere come l’hanno ridotto, cosa farebbe, secondo voi, Giorgio Gaber? Secondo me si farebbe uno shampoo. S GIOVANNA CORRIAS LUCENTE Il business della diffamazione CATERINA MALAVENDA Una proposta democratica, dunque indecente GIAN CARLO CASELLI ORESTE FLAMMINII MINUTO GAETANO PECORELLA LUCIANO VIOLANTE Il bavaglio bipartisan, ovvero la legge Mastella contro la libertà di stampa GIUSEPPE GIUSTOLISI e MARCO TRAVAGLIO Anna Finocchiaro, vita e opere di una Ségolène con l’inciucio FURIO COLOMBO Sotto il “riformismo”, niente MASSIMO CACCIARI Partito democratico? Purché federalista PANCHO PARDI OLIVIERO DILIBERTO GIANFRANCO BETTIN MARCO REVELLI La partitocrazia può essere di sinistra? Repubblica Nazionale 42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22 LUGLIO 2007 i sapori Sgargiante e colmo di vitamina C, straordinariamente piccante in alcune varietà, ha dimostrato in cucina una versatilità che ha ben pochi paragoni. È buono crudo o cotto, intero o a filetti , accoppiato con carne o con pesce, pasta e riso Verdure a colori E adesso è partito alla conquista delle ricette dolci, cominciando dai dessert per finire in gelateria... Peperoni I belli dell’orto innamorati del caldo LICIA GRANELLO n gelato al limone», cantava Paolo Conte. Nessuno canterebbe mai un gelato al peperone. Eppure, è un vero godimento per il palato, tanto che a Senise, terra benemerita per il prodotto più carnale dell’orto, la seconda settimana di agosto bar e pasticcerie faranno a gara per realizzare coni e coppette golosissime. Siamo tradizionalisti: i peperoni sono verdura, e quindi da collocare nella casella del “salato”. Eppure, le tante ricette in agrodolce dovrebbero insinuare una piccola crepa nel nostro castello di certezze gastronomiche. I fortunati che hanno assaggiato gli strabilianti fagottini di fagioli e peperoni con crema al peperoncino di Fulvio Pierangelini — dessert impossibile da gustare oltre il secondo boccone senza chiedere un bis preventivo — sanno quanto poco valgano nella cucina d’autore le divisioni tra dolce e salato. Il peperone è così: sfrontato, intenso, tanto pieno di colori da poter simboleggiare il potere della cromoterapia: rosso, giallo, verde, ovvero vitamine a gogo (C in primis, con percentuali maggiori che in pomodori e agrumi!). In più, l’esile manciata di calorie lo rende perfetto — arrostito, con un filo d’olio e un trito di odori — per un antipasto dietetico ma tutt’altro che punitivo nel sapore. Se il fuori è sgargiante, l’interno è infuocato: merito della capsicina, alcaloide che conferisce il tipico gusto piccante, annidata nella parte membranosa biancastra. La presenza di capsicina si misura con la scala Scoville: se nel peperone dolce la quota massima è di 500 unità, nell’Habanero si arriva fino a 300.000, roba da vigili del fuoco... Eliminata la buccia, che può appesantire il lavoro dello stomaco, l’unica altra controindicazione è di tipo familiare. Come pomodoro, melanzana, tabacco e patata, infatti, il peperone appartiene alle solanacee. Come dire, ortaggi a rischio di intolleranze (tutta colpa della solanina, altro alcaloide lievemente tossico). A completarne la personalità intrigante, i fiori ermafroditi e quindi capaci di autofecondarsi senza attendere l’operoso spendersi degli insetti da una pianta all’altra. Una fioritura tanto prolungata da far scoprire sullo stesso fusto infiorescenze e frutti (bacche) a diversi punti di maturazione, così da poterli raccogliere freschi per molte settimane consecutive. Tanto sfacciato quanto modesto: Eduardo De Filippo lo celebra come protagonista nelle sue ricette di cucina povera e popolare all’ombra del Vesuvio. Perché col peperone si può far di tutto: cuocerlo intero o in filetti, addentarlo crudo come natura l’ha fatto, battezzato con una lacrima d’extravergine grintoso e un grano di fleur de sel o immerso nella perversa, irresistibile bagna caoda (salsa calda di aglio, olio e acciughe), accoppiarlo con carne o pesce, pasta e riso, frutta e verdura, zucchero e sale, olio e aceto, farne salse, gelatine, biscotti. Sulle rive del Mediterraneo, dalla Puglia alla Turchia, per sopperire all’astinenza invernale dei frutti coltivati en plein air (le serre non rendono mai merito ai profumi scatenati dalla maturazione al sole, assaggiare per credere) è diffusa la pratica dell’essiccazione. Due, tre giorni dopo averli appoggiati su teli o reti lontano dalla luce, s’infilano dal lato dei peduncoli con uno spago sottile. Le collane, esposte all’aria perché perdano l’acqua residua, diventano monili da appendere in cucina, facili da ritrasformare in cibo tagliandoli fini o dando loro qualche attimo di bollore. Ma il loro vero trionfo è nelle ricette d’estate. Innamorati del caldo, si esaltano nel gazpacho andaluso, farciti al forno, con l’insalata di pasta. Se poi frullate la peperonata raffreddata insieme a qualche foglia di basilico e mentuccia, diventeranno impagabile salsa da crostini. Un bicchiere di Sauvignon — profumo di foglia di peperone! — vi accompagnerà nella cena fredda più appetitosa dell’estate. «U Quadrato Croccante, spesso, uniforme nella pezzatura, ha sapore dolce e aromatico, colore variabile tra giallo e rosso Famoso quello di La Motta, frazione agricola di Costigliole d’Asti Corno di bue Ha forma conica e molto allungata. Polpa compatta e colore netto lo rendono adatto per le conserve È la varietà d’elezione per il piatto-culto piemontese bagna caoda Trottola Dimensioni contenute, forma a cuore, consistenza molto carnosa, colore soprattutto giallo (tre quarti della produzione) e rosso Ottimo per le conserve Tra le varietà, quarantino e pimento Topepo Il peperone-pomodoro deve il nome alla superficie costoluta e al contorno sferico. Ha colore verde intenso che vira al giallo e al rosso quando matura La polpa è spessa e dolce Ottimo anche sotto aceto ‘‘ Isabella Quarantotti De Filippo Eduardo aveva invitato a pranzo Nilde Iotti, una gran bella persona, e voleva farle assaggiare i mucilli Così vengono chiamati a Napoli i peperoni imbottiti di spaghetti, e cioè micini, perché, messi stretti stretti in una teglia da forno, sembrano una nidiata di gattini appena nati Da Si cucine cumme vogli’i’... La cucina povera di Eduardo de Filippo raccontata dalla moglie Isabella, Guido Tommasi Editore 31 le calorie per cento grammi di peperone 51% della produzione proviene da coltivazioni del sud 14.000 gli ettari dedicati alla coltura del peperone Papacella Battezzato riccia per la superficie diseguale, ha polpa carnosa e molto saporita Viene impiegato in sottaceti e sottoli, o farcito con ripieno di tonno, alici, mollica e pomodorini Repubblica Nazionale DOMENICA 22 LUGLIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43 Carmagnola (To) itinerari Il toscano Maurizio Galligani è il garbato, colto proprietario del ristorante “La Refezione” di Garbagnate Milanese, dove si alternano ricette tradizionali e rivisitazioni intelligenti Tra i piatti più golosi del suo menù, una soave terrina di peperoni con melanzane e ricotta Senise (Pz) Martina Franca (Ta) Nome ultramillenario per lo storico polmone agricolo della provincia torinese Le quattro varietà coltivate in zona — quadrato, trottola, corno di bue e tumaticot — protette dal Presidio Slow Food, vengono festeggiate tra agosto e settembre Il bel borgo lucano, impreziosito dalle sue ricchezze architettoniche, è l’epicentro di una zona benedetta per la produzione del peperone crusco Igp. Tredici i comuni interessati, affacciati sulle valli del Sinni e dell’Agri, parco del Pollino Impreziosita dal bel centro storico barocco, è appoggiata davanti alla Valle d’Itria, punteggiata di trulli La cucina manda in passerella gli ortaggi della campagna, a cominciare dai peperoni, fritti, arrostiti o farciti a mo’ di involtini DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE AGRITURISMO LA BENVENUTA (con cucina) Via San Pietro 10 Tel. 011-9795062 Camera doppia da 55 euro, colazione inclusa AGRITURISMO COSTA CASALE contrada Vito Chiaromonte Tel. 0973-642346 Camera doppia da 55 euro, colazione inclusa CASABELLA B&B Via Tiro a segno 6 Tel. 080-4303647 Camera doppia da 90 euro, colazione esclusa DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE LA TORRE Via Carlo Costa 17/a Racconigi Tel. 0172-811539 Chiuso lunedì sera e martedì, menù da 25 euro LUNA ROSSA Via Marconi 18 Terranova di Pollino Tel. 0973-93254 Chiuso mercoledì, menù da 30 euro CIACCO Via Conte Ugolino 14 Tel. 080-4800472 Chiuso lunedì Menù da 35 euro DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE BANCARELLE CONTADINE lungo la statale Carmagnola-Poirino ORTOFRUTTA GAZZANEO Via Carlo Marx 17 Tel. 0973-585000 ORTOFRUTTA DOMENICO TOPO Via della Libertà 34 Tel. 080-4808094 È lo Zelig degli ortaggi MARINO NIOLA embrerebbe un cibo se non fosse per il suo sapore strano e intenso. Con queste parole Cristoforo Colombo, esploratore dei mari, ma anche esploratore del gusto, annuncia all’Occidente la scoperta del peperone. Proprio come gli uomini del Nuovo mondo, anche i loro cibi suscitano diffidenza. Se i nativi americani appaiono ai bianchi come degli pseudoumani, i loro cibi sembrano degli pseudo-alimenti. D’altra parte il povero ammiraglio del Gran Mare Oceano bisogna anche capirlo. Abituato a rape, fave e fagioli il suo palato non poteva che naufragare nei vertiginosi abissi di sapore del peperone. Con questo edificante esempio di eurocentrismo militante comincia l’avventura europea del “pepe d’India”. Così viene chiamato all’inizio per il suo gusto forte come quello del pepe. Tanto sapido e profumato che gli spagnoli lo scambiano per una spezia e lo importano sicuri di fare un grande business, come con la noce moscata, la cannella, lo zafferano e il cacao. Ma fanno i conti senza la prodigiosa capacità del peperone, dolce e piccante, di adattarsi a tutti i climi. In pochi decenni orti e giardini d’Europa e d’Africa si popolano di peperoni di ogni colore e dimensione. Così il sogno monopolistico dei conquistadores fallisce miseramente. Ogni contadino, anche il più povero, può fabbricarsi la sua dose di pepe d’India. Prezioso esaltatore di sapori, la spezia dei poveri conquista le nostre tavole con una irresistibile spinta dal basso. Mentre l’aristocrazia si sazia di carni grasse farcite di tartufi, insaporite da chiodi di garofano, zafferano e cannella, i poveri, maestri nel fare di necessità virtù, inventano capolavori di gastronomia democratica. Che costituiscono ancora oggi un patrimonio di sapori con pochi eguali al mondo. Dal Piemonte alla Sicilia sua maestà il peperone regna sovrano sulle mense del Bel Paese. Crudo e cotto, arrostito e fritto, secco e in polvere, buono con carni e pesci. Sublime con la pasta. Contenitore e contenuto, imbottito e imbottitore, dolce e piccante. Contorno speciale per colpi di teatro gastronomici grazie anche ad una fantasmagoria di colori che sembra fatta apposta per appagare insieme l’occhio e il palato. Sottaceto al nord, spellato vivo al sud, questo jolly della cucina pop si trova dovunque. E ovunque rispecchia l’identità alimentare del luogo, ne prende i sapori e i profumi. Il mimetismo di questo Zelig degli ortaggi ha dato vita ad un ampio spettro di variazioni locali. Dal peperone con le acciughe, gloria degli antipasti piemontesi, alle peperonate lombardo-venete fino alle peverade che esaltano il gusto dei bolliti padani. E scendendo giù per lo Stivale lo si ritrova sposato con il baccalà come lungo il Tirreno o fritto in padella con olive, capperi e pinoli come a Napoli, dove si celebra anche il culto dei peperoncini verdi, dal gusto sexy ed austero, prima fritti, poi ripassati nel pomodorino, infine buttati sugli spaghetti. Un vero inno al piacere. Come i peperoni croccanti che colorano di rosso acceso balconi e finestre dei paesi arrampicati sull’Appennino meridionale, dall’Irpinia alla Lucania. Fino alla Puglia dove i cosiddetti friggitelli, verdi e lunghi, vengono consumati semplicemente fritti, con quella raffinatissima sobrietà che è tipica di quella terra. Mentre la Sicilia ha fatto della caponata un sontuoso saggio di gastronomia barocca. Per non dire delle imparabili salsicce calabresi infuocate dal peperoncino. Un connubio coronato da un successo planetario. Al punto che la pizza col salamino piccante, da Los Angeles a Pechino, da Sidney a Nairobi si chiama “peperoni”. E basta. Insomma è il sapore esplosivo la costante che segna, sempre e dovunque, il destino del peperone. Dalla diffidenza degli inizi al trionfo attuale. Da quasi-cibo a gusto globale. S Involtino La farcitura varia da una fettina di roast-beef o una crema di tonno e ricotta (senza cottura), ai composti da spalmare su fettine di peperone spellato. Chiusura con stecchino bagnato e passaggio in forno Ripieno Cento ricette con il peperone in versione contenitore Spellato per renderlo più digeribile, si farcisce con carne, riso, verdure, pesce, formaggi Per i vegetariani pasta, tofu, spezie e carne di soia Agrodolce Salsa agrodolce unita ai peperoni in tocchetti direttamente nei vasi prima di bollirli Oppure cottura dei peperoni in olio e cipolla, poi pomodori Aceto e zucchero alla fine Peperonata Fatti sudare in olio gli anelli di cipolla, si aggiungono sbucciati i peperoni privati dei semi e tagliati a listarelle o i pomodori a tocchetti Una volta insaporito il primo ortaggio, si aggiunge il secondo. Basilico alla fine Infornato Nella tradizione siciliana la teglia, abbondantemente unta d’extravergine, ospita peperoni a tocchetti, olive nere, capperi, basilico, prezzemolo, sale, pangrattato, aglio Repubblica Nazionale 44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22 LUGLIO 2007 le tendenze È il simbolo di ogni conflitto: così vestono i soldati e i manifestanti per la pace, le rockstar e i no global, i teenager e gli ecologisti Lo hanno celebrato Andy Warhol e Veruska, se ne sono impadroniti i grandi stilisti da Gaultier a Yamamoto fino alle nuove collezioni Prada e Fendi. Per questo una grande mostra a Londra all’Imperial Donne in divisa War Museum rende onore al secolo breve della mimetica ORME SUL TERRENO Camouflage in rosa per le stiletto disegnate da Philip Tracy per Gina Couture e, in basso, prototipo di anfibio di Pittards CAMALEONTI VOLANTI L’adozione del camouflage da parte degli aerei da guerra trasformò il secondo conflitto mondiale anche in una guerra di colori tra la Raf britannica e la Luftwaffe. A fianco un modello di British Hawker Hurricane Mark I Arte da camaleonti per la guerra contro l’invisibilità NATALIA ASPESI l titolo dell’opera d’arte del giovane giapponese Hiroharu Mori alla Biennale di Venezia si intitola A Camouflaged Question in The Air e viene definita nel catalogo «un pallone-pensiero, alla portata di chiunque voglia intrattenere dei pensieri sulle proprie incertezze». Cioè? Si tratta di un video in cui l’artista, poi una signora, poi una famigliola con cane, su un prato idillico, trattengono con un filo un grande pallone gonfiato bianco, decorato da un punto di domanda gigante di disegno chiazzato, cioè mimetico, o se si vuol essere alla moda, camo (da camouflage). Quindi par di capire che le incertezze dell’artista siano rappresentate non tanto dal punto di domanda, quanto dal camouflage che lo compone. Insomma se vuoi dire qualcosa dai mille significati, rivolgiti al camo che va sempre bene: anche se, in fatto di uso universale, ha sempre avuto i suoi alti e bassi, sin da quando se ne scoprirono le virtù di occultamento, cancellazione, protezione e disorientamento durante la prima guerra mondiale, virtù già praticate da sempre in natura dagli animali per rendersi invisibili agli occhi dei predatori e dei cacciatori, a loro volta mimetizzati, i primi dai colori delle pelli, i secondi con un abbigliamento molto maschile color foresta, con berretti coperti di foglie e piume, per turlupinare i poveri cacciati. Oggi il camo si trova dappertutto, è il suo momento, a cominciare da una grandiosa mostra in uno dei più affascinanti e frequentati (quasi esclusiva- I mente da uomini) musei del mondo, il londinese Imperial War Museum, dove viene sottoposta a muta devozione ogni sorta di bombardiere o carro armato o divisa delle varie guerre ovviamente vinte dalla Gran Bretagna. A Milano si è più artisticamente pratici e sono i contenitori dell’Amsa ad essere dipinti a margherite o a foglie di quercia o a felci, per alleviare almeno visivamente le puzze che emanano; abbondano ovunque in strada i pantaloni chiazzati da paracadutista carichi di cinghie e tasche per eventuali shopping pesanti, e anche la moda firmata quest’anno si è mimetizzata soprattutto nelle borse: per uomo di Fendi di tessuto militare, per signore di Prada di raso macchiato a colori accesi, oltre ai parka di Angela Missoni. Certo negli anni scorsi si era osato di più e sono esposti alla mostra londinese meraviglie di lusso eccentrico come il miniabito di Versace in camoverde smeraldo, indossato nella sfilata del 1996 dalla turbolenta Naomi Campbell, e poi sontuose crinoline da Imperatrice Eugenia di massima ironia bellico-frivola, con montagne di chiffon maculato (Gaultier, 2000), in raso a doppia gonna a fogliami autunnali (Valentino, 1994), e tutta una asimmetria di teli a disegno che più camo non si può (Yamamoto, 2006) anche nel trucco della stravolta modella. Il camouflage rappresenta il disorientamento, la maschera, il cambio di identità, la contraddizione, l’invisibilità, è il Dorian Gray dell’apparenza; immagine tradizionale della guerra ancora oggi in Iraq e nei mille sanguinosi disordini del mondo, fu indossato contro la guerra nelle manifestazioni per la pace dai veterani del Vietnam, piace adesso ai no global in funzione anticonsumo, lo indossano i gruppi pop per far casino, lo sbandierano i protettori della natura come simbolo ecologico. L’arte vi ricorre vantandosi di esserne stata la fonte di ispirazione, sin dai tempi del cubismo. O viceversa? Sempre alla Biennale, la franco marocchina Yto Barrada espone Public Park, una serie di foto che rappresentano ognuna una persona distesa su un prato con la faccia nascosta sotto un telo o un cappuccio; ma il surrealista inglese Roland Penrose, biografo di Picasso, era stato più ardito. Nel 1940, a seconda guerra mondiale iniziata, tenne delle conferenze all’esercito, illustrandole con foto della sua amante del momento, la modella e fotografa Lee Miller, bellissima, distesa su un prato, completamente nuda sotto una rete, per dimostrare l’efficacia voyeur di questo tipo di camouflage. Come si vede nei quadri antichi, o nei film che rievocano battaglie del passato, sino alla fine dell’Ottocento i soldati indossavano divise riconoscibili, rosse, bianche, azzurre, diventando facili bersagli: carne da cannone, o da sciabola, come si diceva una volta. In realtà il camouflage come arma di difesa e comunque di inganno (nell’estate del ‘44 gli Alleati schierarono un gigantesco contingente di mezzi corazzati finti per far credere ai tedeschi che lo sbarco sarebbe avvenuto a Calais e non in Normandia) divenne indispensabile con la Prima guerra mondiale quando per la prima volta l’aviazione venne usata per le ricognizioni dall’alto. Furono chiamati artisti di fa- Repubblica Nazionale DOMENICA 22 LUGLIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45 FRONTE OCCIDENTALE Campioni di colore utilizzati dall’esercito francese per riprodurre su divise e mezzi le diverse tonalità del terreno sul fronte occidentale MILITAR-CHIC Apertura di millennio con dedica a una moda che non tramonta mai: è un abito della collezione primavera/estate del 2000 firmato Jean Paul Gaultier RUNNER NEL PARCO Un astuccio per contenere iPod o cellulari aggiunge un tocco di stile, con il motivo “Bonsai Forest”, al jogging quotidiano ADATTAMENTO POP WAR Un particolare dello studio del 1940 di Hugh Cott, zoologo e consulente dell’esercito britannico, in base al quale venne adottato il colore delle divise nella Seconda guerra Andy Warhol si confrontò anche con la moda militare producendo stampe poi utilizzate da stilisti come Stephen Sprouse STREET W(E)AR Una linea di skateboard Powell-Peralta camouflage sottolinea il fascino che questo esercita ancora sui giovani ma, tradizionali o anche d’avanguardia come Jacques Villon e André Mare, arruolati nell’esercito, per escogitare i giusti colori, le forme, le stoffe, per occultare carri armati, mezzi di trasporto, armi, munizioni, postazioni, poi navi, fabbriche, magazzini. Quando Picasso, indifferente alla guerra, vide per le strade di Parigi un cannone mimetizzato, esclamò orgoglioso: «Siamo noi cubisti ad averlo inventato». E a Jean Cocteau: «Se vogliono rendere l’esercito invisibile a distanza, vestano i soldati da arlecchini». Alla fine della guerra, agli inizi del ‘19, al Chelsea Arts Club festeggiarono la pace con un festosissimo Dazzle Ball, una gran festa dedicata al più cubista dei disegni camouflage, applicato soprattutto alle navi, appunto il dazzle (abbagliante), che ispirò alla fine degli anni Cinquanta l’Op Art. La Prima guerra mondiale aveva trascurato di mimetizzare i soldati, che portavano divise grigie, i tedeschi, caki e verdi gli americani e gli inglesi caki o verde, gli italiani il grigioverde. Solo con la seconda il camouflage passò anche agli individui, con una infinità di macchie e colori studiati da specialisti questa volta non artisti ma scienziati: alla mostra c’è una immensa vetrina dove sono allineate decine e decine di divise camo, ognuno diversa dall’altra. Quando negli anni Sessanta i co- ORIGINAL MARINE In alto, una giacca della Us Air Force e sotto una del corpo dei Marines adottata nel 1968. L’anno prima la mimetica era riservata soltanto ai corpi speciali; dopo il Vietnam fu adottata da tutti i militari Quando Picasso, indifferente alla guerra, vide per le strade di Parigi un cannone mimetizzato, esclamò orgoglioso: “Siamo stai noi cubisti a inventarlo” mandi militari inglesi e americani cercarono di tornare ai colori uniti, ci fu un rifiuto generale: e gli psicologi spiegarono che era, è la divisa mimetica ad assicurare aggressività e violenza e persino patriottismo. Anche l’arte continuò a lasciarsi sedurre dal mimetismo: Veruska, la celebre modella anni Sessanta, divenne artista rendendo invisibile il suo corpo da lei stessa dipinto come sasso o come muro. Nel 1986, un anno prima di morire, Andy Warhol produsse una serie di opere ispirate ai quattro colori del camouflagescelto dall’esercito americano per le divise da combattimento, nero, grigio e due verdi, ma anche in vari rosa, giallo e blu. Di quelle ultime opere del pop artista si servì vent’anni fa lo stilista americano Stephen Sprouse, per farne dei vistosi completi maschili, primo ingresso del camouflage nel mondo onnivoro e predatorio dell’alta moda. Repubblica Nazionale 46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22 LUGLIO 2007 l’incontro Artista senza briglie, talento carismatico, personalità debordante e irregolare (Nikita Magaloff la definì “un cavallo da corsa che non andrà mai al trotto”), è oggi la massima pianista al mondo Allergica ai condizionamenti del mercato, non si esibisce più come solista ed è famosa per le sue fughe e i forfait dell’ultima ora. Nella vita come nella musica, dichiara, “mi piace quando qualcosa sfugge al controllo” Stelle nascoste Martha Argerich ntra in scena ed è un’apparizione buffa e stregata. Chioma fluente e selvaggia con striature bianche, tacchi alti su cui incede con qualche incertezza, giacchetta nera col bordo sghembo. E sotto, uno dei suoi gonnoni vasti e fuori dalle mode. Una profuga di nobili ascendenze o un’avventuriera in fuga. Il volto è chiuso, emana quasi imbarazzo. Come a dire: non guardatemi troppo, non mi giudicate, attenti che sono pronta a scappare. «Subito prima del concerto mi assale il panico», confesserà più tardi Martha Argerich. «Da giovane avevo veri e propri attacchi, mani gelate, gambe che tremavano così forte che dovevo colpirle per bloccarle. Ma quando suono passa tutto». E infatti appena siede alla tastiera c’è il miracolo. Lievità nella padronanza ferrea dello strumento, profondità del gioco emotivo, naturalezza che dà l’illusione di un suono che sembra sgorgarle dalle dita. Il viso prende luce, conquista magnetismo e bellezza. È la bellezza leggendaria della Argerich, oggi la massima pianista al mondo. Detto così pare semplificatorio e di cattivo gusto. Certe classifiche funzionano per le vendite dei dischi, o quando si confrontano i cachet dei concerti. Ma che nel pianoforte Martha sia la migliore tra le donne è un fatto. Persino su quel versante “commerciale” che detesta, non per snobismo o per artifici moralistici, ma perché è un’artista libera e senza briglie, allergica ai condizionamenti di mercato. «Di denaro ne ho avuto pochissimo, poco e molto», spiega, «e non è mai cambiato nulla». La verità è che potrebbe registrare con chi vuole la musica che vuole, le basta alzare un dito e ha i discografici ai suoi piedi. O una mattina potrebbe svegliarsi e decidere di suonare in una sala l’indomani, e avere il tutto esau- ne. Mi piace quando qualcosa sfugge al controllo. Uno squarcio imprevisto, visioni inaspettate e preziose». A Lugano, appuntamento fisso d’inizio estate, Martha è serena. Non flagella mai gli organizzatori con i suoi celebri forfait dell’ultima ora. È famosa per le sue fughe: un incubo per i programmatori di concerti. Ma non si sente in colpa: «Non ho mai obbligato nessuno a invitarmi. Non ho mai disdetto un impegno per la semplice ragione che non firmo contratti. Non mi sento costretta a suonare se non me la sento». Cancellò per la prima volta a diciassette anni: «Leggevo Delitto e castigo e volevo sentirmi trasgressiva. Avrei dovuto suonare a Empoli, ma scrissi che rinunciavo per una ferita alla mano. Poi mi spaventai della bugia e per non essere scoperta mi feci un taglio a un dito con un coltello, mettendomi fuori gioco per un po’». C’è chi ragiona, pianifica, analizza, e chi si lascia travolgere dal flusso della vita: la vita con le sue passioni, i suoi dolo- Ho dato il primo concerto a quattro anni e ho continuato, ma detestavo esibirmi Amo il pianoforte ma non sopporto l’idea di essere la sacerdotessa di un’arte FOTO AFP E LUGANO rito. Però quel tipo di valore non c’entra. La misura della sua grandezza è altrove, nel talento prorompente e irrinunciabile, nel suo stile troppo personale per adattarsi alle categorie stilistiche segnate dalle poetiche del pianismo. In più ha una personalità debordante, irregolare e incline a farsi enfatizzare: un po’ come la Callas, Edith Piaf, Glenn Gould o Nureyev. Creature “diverse”, spesso sofferte nel rapporto tra arte e vita, portatrici di un’ispirazione che ci sfugge e di una possibilità di contatto con zone sconvolgenti, che sanno farci intravedere l’espressione pura, ciò che non può dirsi se non in un linguaggio che si nutre di se stesso. Nata nel 1941, e frutto della prodigiosa scuola di Buenos Aires, la stessa di Daniel Barenboim, l’argentina Martha Argerich, che dai cinque ai dieci anni studiò col magico didatta Vincenzo Scaramuzza, conta rari pianisti al suo livello, come Alfred Brendel e Maurizio Pollini, unica donna nel ristretto olimpo dei campioni. Il suo pianismo esorbita dalla “sola” bravura. Possiede qualcosa che non si studia e che ha a che fare col carisma di miti scomparsi: Rubinstein, Horowitz (lo definisce «la cosa migliore che sia mai arrivata al pianoforte»), Richter e Arturo Benedetti Michelangeli, con cui studiò nel ‘61: «In pratica non parlava mai. Ma trascorrendo con lui qualche ora ho imparato la musica del silenzio». Siamo a Lugano, in uno studio della Radio della Svizzera italiana, ed è notte. Lei è lì, circondata da lucidi pianoforti neri, pronta a lanciarsi nella consueta maratona notturna. «Fa sempre così», riferisce il musicologo Carlo Piccardi, ex direttore della rete culturale della Rsi. «Termina il concerto, gli altri musicisti vanno a cena e lei resta a suonare fino all’alba». È in questo studio che avviene il nostro incontro. Di interviste Martha non ne dà mai. Per principio. Fa parte del suo pudore senza affettazione, del suo rifiuto di aspetti promozionali. Va acchiappata come per caso, come se non lo sapesse. Per fortuna a Lugano è in vena, rilassata dal contesto. Qui, da sei anni, ha dato vita a un festival, il Progetto Martha Argerich, sponsorizzato dalla banca Bsi e coordinato da Piccardi. Nell’ultima edizione ha ospitato 17 eventi, con nomi come Mischa Maisky, Lylia Zilbertsein, Renaud Capuçon, Nicholas Angelich e accanto a loro artisti freschi e sconosciuti. «Si lavora insieme. Giovani solisti con musicisti d’esperienza. Un laboratorio di scambio in un clima di entusiasmo. Niente star-system, è molto rigenerante. Una specie di famiglia che da un anno all’altro si ritrova e si rinnova». Martha ha bisogno del consolidamento “familiare”: è una costante necessaria del suo mondo. Le piace lo stare insieme «dove non si danno né si prendono lezioni e si può contare sugli altri. Ci si sente perduti, si ha un dubbio e c’è qualcuno a sostenerti. A chi esibisce sicurezze preferisco le persone che dubitano. Stesso discorso per l’interpretazio- ri e i suoi paradossi. Martha è così, cova uno spirito sfrenato. Forse per questo ha avuto tre figlie da tre uomini diversi, tutti musicisti. Padre della maggiore, Lyda, oggi violista e unica musicista fra le tre, è il compositore Robert Chen, sposato nel ‘63, mentre Annie, nata nel ‘70, è figlia del direttore d’orchestra Charles Dutoit, e il padre di Stéphanie, la più giovane, è il pianista Stephen Kovacevich. «Sono un casino, credo di non essere nata per l’amore», dice. «E poi ogni volta che ti danno il caviale ti tolgono il pane». Bisogna risalire alla sua infanzia a Buenos Aires, tormentata dagli obblighi di enfant prodige, per comprendere le radici della sua inquietudine: «A due anni e otto mesi un amichetto mi sfidò: non sai suonare il pianoforte. Mi piazzai davanti allo strumento e riprodussi all’istante l’aria che canticchiava la mia tata. Ho dato il primo concerto a quattro anni e ho continuato, ma detestavo esibirmi. Amo il pianoforte, non essere pianista. Sognavo di diventare un medico. Non sopporto l’idea di essere la sacerdotessa di un’arte, né i troppi viaggi. Da bambina ero capace di cose orrende per far saltare le serate, tipo mettermi carta bagnata nelle scarpe per provocare la febbre». Nel ‘55 la portano a studiare a Vienna con Friedrich Gulda, una delle icone del pianismo del Novecento: «Era un genio della curiosità e della ricerca, uno sperimentatore straordinario. Mi ha influenzato più di chiunque». Studia anche a Ginevra con Nikita Magaloff, che dice di lei: «È un cavallo da corsa, non si potrà mai metterla al trotto». Nel ‘57, a 16 anni, vince i concorsi di Bolzano e Ginevra: «Presi a vivere come una quarantenne: viaggiavo da una città ignota all’altra, non avevo amici, ero timidissima. Nello studio ero caotica. Una bella pittura senza cornice. Giocavo d’azzardo. Studiando non suonavo mai un concerto dall’inizio alla fine. Lo imparavo a pezzi e lo eseguivo per la prima volta tutto insieme solo davanti al pubblico. Dormivo di giorno e studiavo di notte. Il Terzo Concerto di Prokofiev l’ho imparato così, in modo quasi subliminale». Nel ‘60 un arresto, un equilibrio che si spezza. Martha va a vivere a New York e smette di suonare per tre anni: «Tutto ciò che facevo durante il giorno era guardare la televisione». Riprende con l’aiuto del pianista polacco Stefan Askenase e di sua moglie: «Li andavo a trovare molto spesso, e più che suonare parlavamo. Grazie a loro ho ritrovato la fiducia». A 24 anni vince lo Chopin di Varsavia, un trionfo: «Fu in quel periodo che a mia figlia Lyda spuntò il primo dente». Nel ‘67 la sua incisione del Terzo Concerto di Prokofiev con la direzione di Claudio Abbado è un successo da hit-parade. Eppure, con la carriera alle stelle, affiorano altri periodi di silenzio. Altre sospensioni, paure, sofferenze. Viene aggredita da un grosso male, un’affezione cancerosa, e sparisce per un po’, andan- do a operarsi negli Stati Uniti. Poi però risorge con più energia di prima. E ogni volta meno jet-set, maggiore discrezione e ancora più determinazione nel negarsi ai ricatti del divismo. Ormai da tempo la Argerich non suona più come solista. Basta coi recital dedicati a Chopin, a Schumann e soprattutto a Ravel, l’autore forse più compreso e amato. Vuole esibirsi con gli altri, fare musica da camera e concerti con orchestra, sempre con partner con i quali è in sintonia anche personale: Maisky, Gidon Kremer, Abbado o l’ex marito Dutoit, con cui il 19 novembre sarà al Carlo Felice di Genova, insieme alla Ubs Verbier Festival Orchestra. E prima, il 5 agosto, suonerà a Cortina d’Ampezzo, con l’Orchestra di Padova e del Veneto, in un concerto promosso dall’Associazione Dino Ciani, «pianista che morì a soli 33 anni, dotato di una sensibilità talmente cristallina da mettere paura». Racconta che suonare da sola la faceva sentire una reclusa, «forse perché da piccola mi esercitavo per ore, in solitudine, senza giocare con gli altri bambini. I miei dicevano che il mio unico compagno di giochi doveva essere il pianoforte. Oggi stare insieme a musicisti che ammiro, e sono anche persone che mi piacciono, mi dà un conforto speciale». Teme l’età che avanza? «Macché. Mi cullo nell’idea di diventare una vecchia piuttosto ridicola». Il presente e il futuro sono i “suoi” ragazzi, i giovani pianisti che promuove nelle rassegne che fonda e dirige (oltre a quella di Lugano ne guida una in Giappone, a Beppu, e prima ancora ne organizzò una a Buenos Aires). Li accoglie spesso nella sua casa di Bruxelles, in Rue Bosquet, detta “Rue des Pianistes” per la presenza di Martha e dei suoi amici: «Vengono per farsi conoscere e aiutare. Arrivano, mi pregano di ascoltarli, io lo faccio. A volte mi sentono suonare e sono loro a darmi consigli. Non insegno perché non potrei imporre niente a nessuno. Ho ancora troppe cose da imparare». ‘‘ LEONETTA BENTIVOGLIO Repubblica Nazionale