Domenica
il fatto
L’impossibile ritorno della Guerra fredda
La
DOMENICA 22 LUGLIO 2007
di
VIKTOR EROFEEV e PETER SCHNEIDER
il reportage
Repubblica
Dharavi, il ventre del miracolo indiano
FRANCESCA CAFERRI e PANKAJ MISHRA
Mussolini
i diari
della caduta
I National Archives inglesi restituiscono
l’originale di un documento dato
per perso: i “Pensieri pontini e sardi”
FOTO A3
scritti dal Duce dopo il 25 luglio
ATTILIO BOLZONI
tormenti del Duce in un blocco per appunti. Tristezze e
paure che affiorano in ogni ricordo, in ogni pensiero. Quei
suoi giorni drammatici sono raccolti in ottantotto fogli a
quadretti. È in pena quello che chiamavano fino a qualche
anno prima «l’uomo della Provvidenza». Per la moglie Rachele, per i figli, per se stesso. È angustiato, abbattuto. «Il
sangue, la voce infallibile del sangue mi dice che il mio astro è tramontato per sempre», scrive. E rincorre con la memoria certi
pomeriggi a Villa Torlonia, i suoi incontri con Hitler in Veneto,
l’ultimo bombardamento di Roma, gli anni «solari» dell’Italia.
Ogni sofferenza è accompagnata da un numero. Dall’1 al 75. È
il diario della sua caduta. Una cronaca dal 25 luglio del 1943 alla solitudine sulle isole del Tirreno. Prima a Ponza fino al 7 agosto, poi alla Maddalena fino al 27. Sono i Pensieri pontini e sardi di Benito Mussolini.
Quel suo manoscritto — che probabilmente è andato perduto — era stato però fotografato pagina dopo pagina dai tedeschi e custodito in un sotterraneo del Ministero degli Esteri
a Berlino. Le riproduzioni sono state ritrovate dagli inglesi nel
maggio del ‘45, portate in Gran Bretagna e conservate ancora
oggi — con altri 650 fascicoli sul Duce — ai National Archives
di Kew Gardens nel Surrey, a sud di Londra. Carte classificate
con la sigla GFM (German Foreign Ministry) e tutte inserite
nell’«Italian Collection».
I
A scoprire quel blocco per appunti — che i tedeschi avevano
catalogato dal numero 263617 al numero 263705 — è stato Mario J. Cereghino, il ricercatore che da anni collabora con gli storici Nicola Tranfaglia e Giuseppe Casarrubea.
Nel dossier «Duce-Dokumente» ci sono le stampe fotografiche degli ottantotto fogli a quadretti del manoscritto originale e
poi altre ventotto pagine, una copia battuta a macchina da un tedesco. Una trascrizione imprecisa nella numerazione, come del
resto nell’autografo di Mussolini. Semplici distrazioni, verosimilmente, che abbiamo rispettato nella pubblicazione.
Fra i «Duce-Dokumente» c’è anche una lettera di quattro pagine datata Ponza 2 agosto 1943. È firmata da Mussolini e ha
un’intestazione: «La giornata del 25 luglio». È dedicata agli avvenimenti della notte del Gran Consiglio e alle ore decisive del Duce nella giornata seguente. La colazione con la moglie Rachele,
alle otto come ogni mattina a Palazzo Venezia, l’incontro nel pomeriggio a Villa Savoia con Vittorio Emanuele III. E poi un capitano dei Reali carabinieri che lo invita a salire su un’ambulanza
«perché Sua Maestà mi ha ordinato di proteggere la vostra persona». Il Duce fa sapere che andrebbe volentieri alla Rocca delle
Caminate, ma si accorge che la strada che stanno percorrendo
«non è la Flaminia ma l’Appia». Un piccolo viaggio verso Gaeta,
l’incrociatore pronto a salpare, l’isola di Ponza in lontananza, l’inizio della fine di Benito Mussolini.
nelle pagine della Cultura brani dei diari di Mussolini
e un commento di NICOLA CARACCIOLO
la memoria
Il duello secolare tra la Cina e la Chiesa
FEDERICO RAMPINI
i luoghi
La Foce, un giardino come sfida
PAOLO PEJRONE
spettacoli
Gaber e il suo doppio, i taccuini segreti
D. CRESTO-DINA, G. GABER, S. LUPORINI e F. MERLO
le tendenze
Mimetizzarsi per diventare visibili
NATALIA ASPESI
Repubblica Nazionale
28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 22 LUGLIO 2007
il fatto
Risiko 2007
Gli Stati Uniti rilanciano lo scudo spaziale e progettano basi
negli ex Stati sovietici. La Russia si ritira dal trattato europeo
sulle armi convenzionali. Il grande disarmo si è fermato
Due testimoni degli anni del Muro, entrambi fuori dal coro, ricordano
quando il mondo era diviso e riflettono su quanto lo sia ancora
La nuova vecchia Guerra fredda
PETER SCHNEIDER
ome è noto, la gigantesca
sperimentazione umana
del comunismo condotta in
Russia, dopo circa settant’anni di durata si è interrotta. Lo sfidante ha perso la gara contro il sistema capitalistico
che si era prefisso di sconfiggere. Tuttavia il titolo di vincitore assegnato all’Occidente non mi ha mai convinto del tutto. Senza dubbio dalla caduta del muro
di Berlino in poi il capitalismo ha vissuto uno sviluppo mai conosciuto. Gli Stati-satellite dell’ex Urss sono passati a
frotte nel campo occidentale. Ma fortunatamente non si è trattato di una vittoria per ko come proclamano esaltati i
neocon americani. Il comunismo ha gettato la spugna all’undicesimo o dodicesimo round, fiaccato dai suoi stessi cittadini. Molti lo hanno dimenticato: è
stato un processo unico nella storia. Una
potenza imperiale (sovietica) maggiore
dell’antico impero romano, estesa quasi quanto l’ex impero britannico, è uscita di scena senza colpo ferire. Gli Usa e
l’Occidente vincitori? Diciamo piuttosto che sono sopravvissuti a questo sorprendente duello tra sistemi senza spargimento di sangue.
Non meraviglia davvero che nel frattempo abbia fatto il suo ingresso sul palcoscenico della storia un nuovo uomo
forte, un karateka. La sfida ideologica
posta all’Occidente dal comunismo non
interessa Putin, che non farà rivivere
una battaglia già da tempo decisa. Si
guarda intorno in ciò che resta della sua
sfera di potere, pur sempre un enorme
impero, e valuta le sue opzioni strategiche. A occidente si vede circondato da ex
Stati-satellite che ormai non prestano
più orecchio agli ordini di Mosca. Anche
C
sare degli anni diverse strutture di pena sud e a nord l’impero si sbriciola. Non
siero e sensibilità in puntuale reciproca
può riconquistare militarmente le zone
contraddizione.
di influenza perdute, ma ha un’altra arIn occasione delle mie visite nella Ddr
ma a disposizione, scarsamente utiliznel corso degli anni appurai che io e i
zata ai tempi della Guerra fredda: immiei interlocutori coetanei, per lo più
mense riserve di petrolio e di gas da cui
dissidenti, di Berlino Est reagivamo
dipendono non solo gli ex Stati-satellite,
istintivamente agli stessi avvenimenti e
ma anche gli Stati che formano il nucleo
alle stesse notizie in maniera diversissidella vecchia Europa. Perché farsi prenma. Un esempio: Helmut Schmidt, allodere per il naso dall’Occidente? Gli Usa
ra cancelliere federale, consigliò al suo
intendono installare negli ex “Stati fracollega della Ddr, Erich Honecker, di actelli” dell’Unione Sovietica, come la Poquisire la serie televisiva americana Ololonia e la Repubblica Ceca, uno scudo
causto trasmessa in Occidente. La prospaziale contro i missili intercontinenposta mi trovava perfettatali. Putin sospende il Tratmente d’accordo. Il mio
tato sulle armi convenzioamico di Berlino Est ThoL’AUTORE
nali in Europa (Cfe), che immas Brasch, tutt’altro che
Peter Schneider
pone limiti ai blindati, alsimpatizzante di Erich Hoè uno dei più noti
l’artiglieria e agli aerei. La
scrittori tedeschi
necker, a questa notizia picpotenza egemone dell’Occontemporanei
chiò il pugno sul tavolo con
cidente si mostra sorpresa,
Nasce a Lubecca
una forza tale da procurarsi
commentatori allarmisti
in piena guerra
un livido: «Ma ti pare che un
ventilano già un ritorno ai
mondiale e dal 1962,
ex ufficiale della Wehrmatempi della Guerra fredda.
cht dia consigli a un comcome racconta
Chi parla in questi termibattente della resistenza annell’articolo
ni non sa che cosa è stata la
tifascista che è stato in priqui accanto,
Guerra fredda. Arrivai a Begione dieci anni per le sue
vive a Berlino
lino Ovest da ragazzo, nel
Ha pubblicato
idee!».
1962, un anno dopo la couna ventina di libri,
Di ogni avvenimento, di
struzione del Muro, e da altra i quali il romanzo
ogni notizia, a sinistra e a delora sono rimasto. Il Muro,
autobiografico
stra del Muro esistevano
eretto letteralmente nello
Nemico
due versioni opposte: quella
spazio di una notte, è stato a
dei media dell’Ovest e queldella Costituzione
suo tempo definito, non
la dei media dell’Est. Natu(Feltrinelli)
senza motivo, il più odioso e
ralmente chi fruiva dei mepeggior confine del mondo.
dia in maniera critica, teNon solo dilaniò di colpo
nendo alla propria opinione, non credecentinaia di migliaia di famiglie, non sova né all’una né all’altra versione e se ne
lo divise una città in due, segnò anche la
confezionava una da sé. Tuttavia ne sudemarcazione tra due sistemi politici
biva l’influenza. Le stesse parole, conmondiali, tra la democrazia liberale e la
cetti chiave come “libertà”, “uguagliandittatura comunista. L’Occidente si è a
za”, “pace” non avevano lo stesso signilungo cullato nell’illusione che questa
ficato a sinistra e a destra del Muro. Un
divisione riguardasse solo la sovrastrutdissidente che parlasse di “libertà” nella
tura politica e non le convinzioni degli
Ddr non intendeva affatto “libere elezioindividui e la loro cultura quotidiana.
ni”, ma piuttosto libertà di viaggiare, liMa si trattava di un pio desiderio. Albertà di movimento. Il concetto di “pal’ombra del Muro si costruirono col pasce” degenerò nella Ddr a sinonimo di
ubbidienza allo Stato. Chi — come Tho-
mas Brasch — protestava contro l’invasione sovietica a Praga, si sentì chiedere
durante gli interrogatori se non volesse
la “pace”.
Il contrasto con il sistema alternativo
aveva però anche un che di illuminante.
In mezzo a tutte le bugie che soprattutto
i media comunisti governati dallo Stato
avevano la sfacciataggine di diffondere,
c’era di tanto in tanto un granello di verità, assente nelle cronache occidentali.
Il fruitore critico dei media non aveva
mai l’illusione di ricevere un’informazione completa e poteva tenere le distanze dalle notizie veicolate dalle due o
tre agenzie che oggi operano in tutto il
mondo. Anche se non avrebbe scommesso un centesimo sul futuro del sistema comunista, esisteva almeno una tesi
alternativa. Il capitalismo aveva concorrenza. Probabilmente chi ha guadagnato di più da questa concorrenza e più ha
perso dopo il crollo del suo maldestro
concorrente è stato proprio il capitalismo.
Di nuova Guerra fredda non si può naturalmente parlare. Putin non ha da offrire alternative al capitalismo occidentale, lotta per preservare e ristabilire il
potere perduto. In realtà nel caso del
nuovo dissidio con la Russia non si tratta della lotta tra due sistemi, ma di un
contrasto tra due diversi stadi del capitalismo. La Russia pre-democratica,
sempre più autoritaria, è consapevole
della propria forza e non intende farsi
dettar legge dal moderno capitalismo
degli Stati industriali occidentali. Purtroppo la vittoria e la sconfitta non hanno insegnato niente ai due antagonisti. A
parte gruppi marginali come Greenpeace e i no global, non c’è traccia di una
nuova etica critica del capitalismo. I più
vocianti paladini di quest’etica sono
proprio i partiti comunisti dell’Occidente, moralmente del tutto inattendibili,
che non si sono mai confrontati con il
fallimento mondiale del comunismo e
con il loro passato stalinista: Die Linke in
Germania, Rifondazione comunista in
Italia e il Partito comunista francese.
Traduzione di Emilia Benghi
Stati Uniti
528,7 mld $
la spesa militare
sostenuta
dagli Usa nel 2006
5045
le testate nucleari
dispiegate
dagli Usa dal 1945
4.663
le armi nucleari
strategiche Usa
nel 2007
115
i bombardieri Usa
attualmente
a disposizione
LA FOTO
Berlino, 1982
Una coppia
in costume gioca
a pallone su un prato
mentre a poche
decine di metri
i carri armati
fanno esercitazioni
È una foto
che ha fatto storia
di Gianni Berengo
Gardin (Contrasto)
Repubblica Nazionale
DOMENICA 22 LUGLIO 2007
Russia
34,7 mld $
la spesa militare
sostenuta
dalla Russia nel 2006
5614
FONTI: SIPRI Yearbook 2007; FAS Federation of America Scientists
le testate nucleari
russe dispiegate
dal 1949
3.340
le armi nucleari
strategiche russe
nel 2007
78
i bombardieri russi
attualmente
a disposizione
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29
La solitudine della cortina perduta
VIKTOR EROFEEV
iamo stati noi i primi a iniziare la Guerra fredda, «
non faceva che ripetermi,
non senza un certo orgoglio, mio padre, Vladimir
Ivanovic Erofeev, che dalla
metà degli anni Quaranta era stato assistente di Molotov al Cremlino nonché interprete
ufficiale di Stalin durante le trattative coi
francesi. Dai suoi ricordi capivo come i piani
napoleonici di Stalin per assoggettare l’Europa, fomentando insurrezioni comuniste,
fossero maturati ben prima della fine della
Seconda guerra mondiale. Di ciò, secondo le
parole di mio padre, Stalin aveva parlato
apertamente al Cremlino durante i suoi colloqui con esponenti del Partito comunista
francese.
Mio padre era una piccola, ma essenziale
pedina dell’ingranaggio della politica estera
sovietica, che mirava a diffondere la rivoluzione nel mondo. Non ho motivo di non credergli. Da questo punto di vista il discorso di
Churchill a Fulton del marzo del 1946, nel
quale l’ex premier britannico affermava per
la prima volta che una cortina di ferro era scesa sull’Europa — discorso che per molti storici segna l’inizio della Guerra fredda — non
sarebbe stato che una tardiva, impotente reazione alle brillanti conquiste staliniane. Mezza Europa ormai apparteneva a Stalin. Gli alleati anglo-americani avevano confidato in
larga misura nel generalissimo trionfante,
che di fatto aveva abbindolato gli amici-avversari, proseguendo i suoi attacchi ideologici, fondamento della Guerra fredda. Solo certi popoli, dalla Polonia alla Bulgaria, avevano
già di che lamentarsi del comunismo sovietico, mentre tutti gli altri (e tra costoro molti
francesi e italiani) continuavano a credere ingenuamente nell’utopia comunista.
Oggi si può affermare che l’indigente Europa occidentale postbellica è sfuggita quasi per
miracolo all’esperimento comunista. Stalin
era un geniale stratega politico dal carattere
«S
smo. Di più: il cosmo era diventato accessibiaggressivo, capace di anticipare l’avversario
le all’uomo sovietico, mentre le scarpe italia(la Russia non ha mai più avuto leader come
ne no. Stavamo per perdere la Guerra fredda
lui): escogitava sempre nuove forme di lotta
perché collettivamente sognavamo i jeans
contro l’Occidente, fondendo il cinismo e
americani, la Coca Cola, il rock’n’roll, Holun’abile propaganda alla conoscenza delle
lywood, le canzoni dei Beatles. La leadership
debolezze della natura umana. Aveva orgasovietica si era ammorbidita, si stavano liquinizzato in tutta Europa un’incessante camdando i Gulag, si era indebolita la censura letpagna pacifista che dipingeva gli americani
teraria, veniva consentita la pubblicazione di
come gli istigatori di un nuovo conflitto, faversi con un sottotesto erotico. Da avanguarcendo sì che una parte considerevole dell’india del progresso sociale, da regno del proletellighenzia europea credesse ai suoi slogan.
tariato ci stavamo trasformando in tristi imi“Cortina di ferro” è un termine teatrale. La
tatori. L’America faceva furore presso quelli
saracinesca di sicurezza che si abbassa in teadella mia generazione e nulla è più pericolotro in caso d’incendio, sbarrando il palcosceso di un nemico ideologico che
nico. Tutto il mondo si è trovato
diventi attraente.
coinvolto in una messinscena
L’AUTORE
La nostra ultima fede nel coteatrale e ha avuto inizio un acViktor Erofeev (Mosca
munismo era legata a Gagarin e
cattivante reality show fatto di
1947) si è affermato
a Cuba, dopo rimanevano solcorse agli armamenti, guerre
ai tempi dell’Unione
tanto la grigia quotidianità e le
locali, conflitti psicologici. L’avSovietica come uno
lunghe code per la vodka e il saveduta America ha costruito in
dei più apprezzati
lame. Era una lenta agonia. Per
contrapposizione a Stalin il miscrittori del dissenso,
la gioia degli americani, il goto ideologico del mondo libero
pubblicato
verno sovietico commetteva
e, grazie al piano Marshall, ha
in Occidente
un errore dopo l’altro. Aveva lisommerso l’Europa di dollari
e censurato in patria
tigato con la Cina, spaventato il
americani. Sono dell’avviso
Il suo romanzo
mondo intero nei giorni della
che, se l’economia statale soLa bella di Mosca
crisi caraibica, minacciando
cialista avesse potuto compete(Rizzoli) è diventato
un conflitto nucleare, aveva
re col liberalismo di mercato, alun best seller
eretto il Muro di Berlino, amla fine ad aggiudicarsi la vittoria
internazionale tradotto
mettendo di fatto la sua inconnella Guerra fredda sarebbe
in 56 lingue. Erofeev
sistenza politica e la sua debostata l’Unione Sovietica. Ciò
vive e lavora a Mosca
lezza economica. Breznev si
nonostante, almeno fino alla ristava trasformando rapidavoluzione d’Ungheria del 1956,
mente in una macchietta polisoffocata, com’è noto, dai carri
tica. Lo sbeffeggiavamo pubblicamente, racarmati sovietici, la fulgida immagine dell’Ucontavamo barzellette su di lui. A governarci
nione Sovietica, come della nazione che aveerano dei vecchi, amanti dell’adulazione,
va sconfitto Hitler, rappresentò un’autentica
delle onorificenze, delle bande militari e del
minaccia per il mondo capitalista. A credere
gioco del domino nelle lussuose dacie nei
nell’esistenza dei Gulag erano solo dei fanatidintorni di Mosca.
ci anticomunisti che attaccavano le forze delLa Guerra fredda era il momento magico
la sinistra europea.
dell’Occidente. Al cospetto dell’impero soSono convinto che il comunismo reale si
vietico era pronto a esibire le conquiste del
sia concluso in Russia con la morte di Stalin.
progresso tecnico, che spianavano la via ai
Col Disgelo sono cominciate la corruzione, le
computer. L’Occidente era dinamico, agconcessioni alla società dei consumi. Ricorgressivo, ingegnoso, ironico, baldanzoso.
do come durante la mia adolescenza, traL’Occidente aveva fatto di Berlino Ovest
scorsa sotto il segno di Krusciov, l’apparizioun’allettante vetrina dell’edonismo. Dall’ene delle scarpe italiane fosse un fenomeno
sempio dell’Unione Sovietica aveva persino
paragonabile solo al volo di Gagarin nel cotratto qualche lezione, cercando di attenuare l’ingiustizia sociale. Durante la Guerra
fredda aveva commesso a sua volta degli im-
perdonabili errori e tuttavia, paradossalmente, l’aggressione americana al Vietnam
era stata per l’Europa e per gli americani stessi un avvenimento assai più doloroso che per
i sovietici, indifferenti alle disgrazie altrui. Ricordo come noi studenti dell’Università statale di Mosca ci burlavamo degli esili studenti vietnamiti, impegnati a cucinare pesce maleodorante: non c’era in noi nessun sentimento di solidarietà.
«Il marasma cresce»: ecco qual è la formula più calzante per quegli anni sovietici. Al
Cremlino venivano accolti bizzarri reucci
africani, che si proclamavano comunisti e
chiedevano soldi per la rivoluzione, mentre
al corso di addestramento militare s’imparavano le sette ragioni per cui l’America non poteva ritenersi una grande nazione (una consisteva nel fatto che laggiù era emigrata la feccia di tutti Paesi europei), c’era poi stata la Primavera di Praga, la sua repressione e i decenni di stagnazione che si erano conclusi con
l’assurda guerra (assurda sul piano politico)
dell’Afghanistan.
Tuttavia l’Unione Sovietica ha perduto la
Guerra fredda non tanto perché a vincerla sia
stata l’America ma, prima di tutto, perché le
donne sovietiche hanno cominciato a desiderare di vestirsi bene e di dipingersi le labbra
con rossetti francesi. La società degli anni
Settanta si decomponeva irreparabilmente
al suo interno.
Quando all’inizio degli anni Novanta l’Occidente si proclamò vincitore della Guerra
fredda, non sospettava affatto che la perdita
del suo nemico gli sarebbe costata tanto cara. Come esito della vittoria perse la sua baldanza, s’invischiò nel conflitto col mondo
islamico, si burocratizzò in un mondo unipolare e nei corridoi dell’Unione Europea a
Bruxelles. L’America, almeno inconsciamente, prova nostalgia per la Guerra fredda.
È probabile che la Russia di Putin, che si arricchisce a dismisura grazie al petrolio e intende ridiventare una superpotenza con le
sue rivendicazioni di sovranità nazionale,
non del tutto comprensibili al mondo circostante, possa spingerla ad allenarsi di nuovo
nella vecchia arena sportiva per ritornare in
forma. Ma la Russia non ha più nessuna ideologia, né alleati. Il mio solitario paese è roso
dal suo complesso dell’impero, ma questa
non è ancora una premessa per un serio conflitto. La guerra fredda non ci sarà.
Traduzione di Nadia Cicognini
Repubblica Nazionale
30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 22 LUGLIO 2007
il reportage
Economia sommersa
Si chiama Dharavi, è lo slum più grande di Mumbai
e dell’intera Asia. Nei 220 ettari di vicoli e fogne a cielo
aperto vivono un milione di persone. Non hanno nulla,
lavorano per salari da fame e producono un Pil di 650
milioni di dollari all’anno. Ma adesso il governo ha deciso
di smantellare e di mettere in vendita l’area
Nel ventre del miracolo indiano
l limbo di Mumbai è una strada
larga, coperta di spazzatura e fogli di plastica e attraversata dalle
solite mucche: collega la città all’aeroporto internazionale. A prima vista non sembra molto diversa dalle altre, ma la gente la percorre poco volentieri: «Porta a Dharavi, ma qui preferiscono dire che finisce all’inferno», dice
con un sorriso l’amica indiana. A Ravi
Mishra questa storia l’hanno raccontata qualche
anno fa, quando
era da poco arrivato in città. Curioso,
decise di esplorare
quel territorio
proibito: da allora
non l’ha più lasciato. Novello Virgilio, oggi vive guidando la gente alla
scoperta della baraccopoli
più
grande di Mumbai
e dell’intera Asia:
Dharavi, o «l’inferno» come lo chiamano i suoi concittadini. «Chi parla così qui non c’è
mai venuto — dice
lui — Dharavi non
è pericolosa, è solo
molto grande,
molto povera e
molto affollata. Ma
la maggior parte
della gente che ci
sta lavora duro per
costruirsi una vita
migliore».
Mentre Ravi
parla, fa strada fra
vicoli sempre più
stretti. Ci vuole un
po’ per mettere a
fuoco il senso delle
sue parole: anche
per chi conosce
l’India e le sue sacche di povertà, il
primo impatto con
Dharavi è scioccante. Il principale
slum asiatico, il secondo al mondo, è
un formicaio brulicante dove occorre fare attenzione a ogni passo.
Nei 220 ettari dei
suoi vicoli vivono
fra le 700mila e il
milione di persone, le fogne sono
rivoli puzzolenti
che scolano in un
unico canale torbido. I bambini
giocano fra montagne di spazzatura trasformate in
campi di cricket:
solo un miracolo
sembra tenerli
lontano, tiro dopo
tiro, dalle centinaia di fili elettrici
scoperti che vanno
a rubare l’elettricità dai pali che la
portano in città.
Ma il segreto di
Dharavi è altrove.
Ci vuole un po’
perché lo sguardo
ricostruisca i pezzi
del puzzle: quando gli occhi si abituano alle case di
lamiera e i piedi
prendono confidenza con il terreno polveroso si capisce quella dove il giovane Virgilio con
il cappello da baseball ci sta guidando
non è solo una baraccopoli, ma anche
una città industriale. Camminarci per
qualche ora è come scoprire decine di
diversi distretti produttivi, ciascuno
concentrato nella sua zona. Con un Pil
annuo stimato in 650 milioni di dollari
— pari al bilancio di una grande agenzia Onu come la Fao o alla quantità
complessiva di aiuti stanziati globalmente per il rilancio dell’Afghanistan
more assordante denuncia la presenza
di centinaia di macchine da cucire: realizzano ricami e impunture su camicie
che presto finiranno nei negozi del centro o all’estero. Seguono la zona dei
conciatori, annunciata dall’odore, e
poi quella dei cardatori. Per arrivare al
cuore dell’industria dello slum ci vuole
ancora un po’: si capisce che è vicina
quando i colori perdono di intensità e
una sottile patina di polvere comincia a
ricoprire tutto. È l’effetto di decine di
macchinari da fusione che lavorano
tutti insieme per mandare avanti la ve-
ra specializzazione del distretto di
Dharavi, l’industria del riciclo. Nella
baraccopoli le migliaia di tonnellate di
rifiuti che Mumbai produce trovano
nuova vita: le scaricano in continuazione, da camion stracolmi, raccolte in
enormi balle. Una volta stoccate, vengono aperte una per una, divise a seconda del materiale e poi portate nelle
apposite zone di lavorazione. Quella
della plastica sta vicino al rigagnolo che
fa da fogna a buona parte dello slum.
Fra gli scarichi industriali e quelli umani, l’odore è insopportabile: ammirare
buste, teli e oggetti di plastica cadere
dentro al macchinario che li fonde e li fa
rinascere in nuove forme è consentito
solo per pochi minuti, poi la puzza si fa
troppo forte.
Il vicolo accanto è occupato dai lavoratori del metallo e dell’alluminio: protetti da mascherine che coprono a malapena naso e bocca, gruppi di uomini
fanno di vecchie lattine viti nuove di
zecca. Girando l’angolo il paesaggio
cambia completamente: Shabi, panettiere, lavora in uno dei 25 forni di Dharavi. Quando tira fuori i suoi biscotti al
Un Paese che vive di baraccopoli
aspettando il riscatto che non arriva
PANKAJ MISHRA
el discorso pronunciato a mezzanotte
del 15 agosto 1947, nel momento in cui
l’India conquistava la libertà dal dominio coloniale, il primo ministro Jawaharlal
Nehru dichiarò che il suo Paese aveva «un appuntamento col destino». Non si soffermò a
definire in cosa dovesse consistere quel destino, ma il concetto che aveva in mente era
ben chiaro. Nehru dissentiva profondamente dall’aspirazione del Mahatma Gandhi di
dotare questo Paese prevalentemente agricolo di un’economia rurale autosufficiente. A
suo modo di vedere, il dominio britannico
aveva ritardato la modernizzazione dell’India, mantenendola sprofondata nella sua povertà rurale. Oramai il paese doveva impegnarsi sulla via dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione, per
colmare il divario che
lo separava dall’Europa occidentale e dall’America. Grazie a un
sistema scolastico basato su metodi scientifici e razionali, l’influenza della religione
e della superstizione si
sarebbe attenuata; come già nei paesi occidentali sviluppati, l’agricoltura avrebbe
cessato di detenere un
ruolo primario, e le migrazioni di massa dalle
aree rurali ai centri urbani avrebbero reso
disponibile una nuova
forza lavoro per il settore manifatturiero e i
servizi.
Al pari di molti altri
leader post-coloniali
della metà del Ventesimo secolo, Nehru credeva che la modernizzazione fosse alla portata di tutti. Era solo
questione di tempo: alla fine ognuno avrebbe potuto raggiungerla — nel senso di portare una cravatta, lavorare in una fabbrica o in
un ufficio, andare a votare, pagare le tasse e
guidare un’automobile. A sei decenni dalla
conquista dell’indipendenza, sembra che il
programma di modernizzazione di Nehru
abbia raggiunto un sia pur parziale successo.
Grazie a un’economia protezionista e alle
sue strutture industriali, dal 1991 l’India è
riuscita ad accedere all’economia globale
senza subire i gravi traumi che hanno scosso
la Russia e l’America Latina. Benché le misure di riforma agraria siano state parziali, l’India ha oggi l’autosufficienza alimentare; e
grazie agli ingegneri ed esperti in software
usciti dagli istituti scientifici e tecnici creati
da Nehru, è ormai competitiva a livello mondiale nelle tecnologie informatiche di punta.
Con l’aiuto dell’outsourcing praticato da
molte aziende europee e americane, l’economia indiana cresce oggi a un ritmo del nove
per cento l’anno.
Questo Paese, che nell’immaginario occidentale è stato a lungo immobile nella sua povertà e arretratezza, percorso da frequenti
episodi di violenza, penalizzato da un’economia socialista inefficiente e da una dinastia
politica in contrasto con la rivendicata democraticità, appare oggi — per usare i termini della rivista americana Foreign Affairs —
come uno strepitoso esempio di successo capitalistico, una sorta di «poster della globalizzazione». Spesso citata come «la più grande
democrazia del mondo», agli occhi di gran
parte dei media e dell’intellighenzia Usa l’India è diventata non solo una fonte di profitti
per le imprese transnazionali, ma anche una
N
I bambini giocano
fra montagne
di spazzatura
trasformate
in campi da cricket:
FOTO COLIN MCPHERSON/CORBIS
FOTO CORBIS
solo un miracolo
sembra tenerli
lontano dai fili
scoperti
che rubano
l’elettricità
FOTO REUTERS
I
MUMBAI
— lo slum è il centro di alcune delle più
importanti industrie di Mumbai e dell’intera India. La prima che si incontra
è quella della terracotta. Ogni giorno
fra i vicoli di Dharavi vengono prodotte
migliaia di vasi e ciotole che poi prendono la strada della città. La famiglia di
Kishore Bai, da 15 anni a Dharavi, da 12
lavoratore in proprio, è una delle 800
coinvolte nel business: con l’aiuto di
moglie e genitori, il signor Bai produce
ducento scodelle al giorno e mantiene
otto persone.
Nella strada accanto alla sua un ru-
FOTO AP
FRANCESCA CAFERRI
DONNE
Dall’alto, donne al lavoro
a Dharavi; donne in fila
per comprare cherosene;
una fabbrica di vasi
Nell’altra pagina,
donne che lavano i vestiti
in una strada
dello slum
L’AUTORE
Pankaj Mishra
è autore di La fine
della sofferenza,
I romantici e il recente
La Tentazione
dell’Occidente. India,
Pakistan e dintorni:
come essere moderni,
tutti pubblicati in Italia
da Guanda. Pollo
al burro a Ludhiana
Viaggio nell’India
delle piccole città
è pubblicato da Tea
realtà capace di imporsi in senso esistenziale
e ideologico.
Ma la rappresentazione di quest’identità
nuova e ambiziosa non tiene conto delle
esperienze laceranti e spesso tragiche di questo Paese nel suo sviluppo verso la modernità:
la rivolta anti-indiana del Kashmir, costata
nell’ultimo quindicennio più di ottantamila
vite umane; la violenza negli Stati del NordEst, spesso ignorata ma non per questo meno
aspra; o l’esodo di milioni di persone cacciate dalle loro case in nome dei megaprogetti di
costruzione di dighe. L’agricoltura, che dava
lavoro al sessanta per cento della popolazione indiana, è in uno stato di stagnazione che
in questi ultimi dieci anni ha spinto al suicidio più di centomila coltivatori. La malnutrizione colpisce il cinquanta per cento dei
bambini indiani, e il sistema della scuola primaria è limitato alle aree più popolose del
Paese. La miseria e l’assenza di prospettive
delle popolazioni rurali alimentano i movimenti comunisti militanti, che esplodono in
tutte le zone del Centro e del Nord dell’India.
Le testimonianze più vistose delle crescenti disuguaglianze, che saltano agli occhi di
chiunque visiti il paese anche solo di sfuggita, sono le immense baraccopoli delle grandi
città quali Mumbai, Delhi e Calcutta, popolate per lo più dai lavoratori sottopagati del cosiddetto settore “informale”, in rapida crescita, creato nei centri urbani da un’economia
privatizzata, in particolare nel campo dei servizi. Si tratta generalmente di immigrati dalle aree rurali, attratti in città dalla prospettiva
di una vita migliore, che vivono ormai da anni, se non da decenni, in condizioni di estremo squallore, aspettando il riscatto dal mondo moderno.
Spesso si sorvola su queste condizioni di
degrado, liquidandole con spiegazioni che
fanno riferimento alla storia europea: l’India
si troverebbe in una fase di transizione dall’economia agraria verso un tipo di vita urbano
e un modello moderno di produzione e di
consumo, orientato prevalentemente ai servizi, sull’esempio dell’Europa e dell’America;
e la transizione sarebbe necessariamente dolorosa, come lo è stata in Europa.
Questa la tesi delle élite. Di fatto però, centinaia di milioni di indiani tardivamente approdati al mondo moderno si trovano oggi a
confronto con i limiti naturali della crescita
economica, evidenziati in particolare dai
problemi dell’effetto serra e delle risorse
energetiche, sempre più costose e in via di
esaurimento. Se un milione di indiani — in
contemporanea con due miliardi di cinesi —
aderiscono al modello del capitalismo consumistico occidentale, andiamo incontro a
danni ambientali irreversibili per un pianeta
già messo a dura prova dalle esigenze dello
stile di vita di alcune centinaia di milioni di
americani ed europei.
In seguito a un’ondata di suicidi di massa di
coltivatori, nel luglio 2006, il primo ministro
Manmohan Singh ha esortato la popolazione
rurale a voltare le spalle al modello consumistico e «sprecone» dell’Occidente, prendendo esempio dalla frugalità di Gandhi, definita una «necessità» per l’India. A sentir invocare l’insegnamento di Gandhi da questo
tecnocrate di stampo occidentale, uscito da
un College di Oxford, si può certo accusarlo di
retorica. E sospettare che intenda rinviare all’infinito, o magari annullare l’appuntamento dell’India col suo destino. Ma probabilmente Manmohan Singh sa bene che non vi
sono molte vie d’uscita dal vicolo cieco — il rischio di una spirale di violenza e distruzione
dell’ambiente — in cui i processi di modernizzazione e globalizzazione stanno spingendo la più grande democrazia del mondo.
Traduzione di Elisabetta Horvat
Repubblica Nazionale
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31
FOTO MAGNUM/CONTRASTO
DOMENICA 22 LUGLIO 2007
sesamo il profumo si diffonde per tutta
la strada. «Se i signori degli alberghi in
centro sapessero che i migliori dolci
della città arrivano da qui morirebbero», sussurra Ravi. Nella bottega del fornaio la temperatura è altissima: Shabi
la sopporta senza problemi sei mesi
l’anno. Poi, prima dell’arrivo del monsone, lascia il lavoro e torna al suo villaggio in Kerala, migliaia di chilometri
più a sud. Ci resta sei mesi, quindi rientra al lavoro: «Lì vivo da ricco», spiega.
Ricco lo è davvero invece Gulam Nabi: da 15 anni gestisce la fabbrica di sapone dello slum, l’unico luogo che davvero somiglia al girone dantesco evocato
dai cittadini di Mumbai: dentro a enormi
pentoloni neri il grasso si squaglia e si fonde per ore, prima di finire nelle piccole forme da cui escono i saponi. La camicia all’ultima moda e la
grande catena d’oro
al collo raccontano il
benessere dell’uomo, che non ama le
domande sui suoi
guadagni e dice solo
di avere dieci dipendenti. Gulam vive da
sempre a Dharavi e
anche ora che ha fatto fortuna non pensa
a spostarsi: «Il mio
business è qui, la mia
vita è qui. I miei figli
cresceranno qui: dove altro dovrei andare?», chiede. Dal suo
punto di vista non ha tutti i torti: la ricchezza sua e di quelli come lui è legata
a filo doppio a Dharavi: solo qui c’è un
ricambio continuo di manodopera che
accetta salari bassissimi anche per la
media indiana, solo qui si può lavorare
senza pagare tasse e affitto, solo qui per
avere più elettricità basta allungare un
altro cavo verso i pali della conduttura
comunale che porta la luce in città. Ali
Ahmed ascolta tutta la conversazione
con rabbia malcelata: è qui da tre giorni e Gulam è il suo padrone. Nella scala
di Dharavi sta negli ultimi gradini,
quelli di chi è appena arrivato. Guadagna l’equivalente di due dollari al giorno e dorme nella baracca di suo fratello, sbarcato nello slum due anni fa: «Qui
è l’inferno — dice — ma per ora non ho
scelta, non posso andar via».
Crescent Heights e Buckley Court, le
zone della nuova borghesia di Mumbai, distano qualche decina di chilometri ma da Dharavi sembrano distanti anni luce anche a quelli che potrebbero permettersi di vivere in quei quartieri. Il richiamo della baraccopoli è come quello delle sirene di Ulisse: chi cede una volta non torna più indietro.
Amil, 19 anni, è studente di scienze in
un college privato di Mumbai: di mattina studia, di sera torna nella sua casa di
muratura blu da dove arrivano il suono
dello stereo e le immagini della televisione. La famiglia è arrivata a Dharavi
nel ‘54 e oggi suo padre è il leader di una
delle gang che tengono sotto controllo
lo slum. La sua attività ha regalato alla
famiglia il benessere e al figlio l’arroganza, insieme alla possibilità di evadere per qualche ora dal puzzo di fogna.
«Perché dovremmo andar via? — risponde Amil a chi lo interroga — qui
siamo rispettati. E abbiamo una bella
casa». Una rarità, nello squallore di
Dharavi, dove la maggior parte delle
abitazioni sono baracche di lamiera a
volte a più piani. E un lusso a Mumbai,
dove il mercato immobiliare è uno dei
più cari al mondo. Gli
analisti stimano che
nei prossimi dieci anni varrà 102 miliardi
di dollari, contro i 14
di oggi. Per questo le
imprese di costruzione sono alla continua
ricerca di spazi nuovi
dove investire e quelli di Dharavi, economici e relativamente
centrali, fanno gola a
molti.
Da qualche tempo,
gli interessi dei costruttori si sono sposati con quelli del governo del Maharashtra, che punta a fare
di Mumbai la Shangai indiana. Le autorità hanno dapprima
lanciato un programma di riqualificazione che ha offerto agli
abitanti degli slum
incentivi per trasferirsi in nuove case,
poi sono passate alle
maniere forti: è di giugno l’annuncio
fatto pubblicare dal governo su 16 quotidiani internazionali per la vendita, al
prezzo di 2,6 miliardi di dollari di 214 ettari di terreno su cui sorge la bidonville.
Lo scopo è quello di livellare il terreno,
strategicamene posizionato fra la ferrovia e la zona degli affari, e di farne una
nuova cittadella del business. Per sapere chi vincerà la gara, occorrerà aspettare settembre, ma gli abitanti di Dharavi giurano già che faranno opposizione a un progetto che minaccia di lasciare senza tetto centinaia di migliaia
di persone e bloccheranno chiunque si
avvicini alle loro case.
Dalla parte dei ribelli ci sono anche
quelli come Sumah Kharatman che
due anni fa ha accettato di lasciare con
la famiglia una baracca nella zona vecchia di Dharavi per trasferirsi in un palazzo poco lontano. Da vent’anni lavora in un laboratorio che prepara fili di
seta destinati alla tessitura, guadagnando 100 rupie (meno di quattro euro) al giorno: sperava di andare a stare
meglio ma ora che paga 2000 rupie al
mese per l’affitto e le spese, del fatto che
la nuova casa sia più grande e più pulita della vecchia non le importa più molto: «Si mangia tutti i miei guadagni. Ho
sbagliato ad andarci», dice. Ravi la
guarda e fa segno che è ora di andare: è
domenica, Dharavi non si concede riposo, ma Virgilio sì.
Gulam vive qui
da sempre
e anche ora
che ha fatto
fortuna non pensa
a spostarsi:
“Il mio business
è qui, la mia vita
è qui. I miei figli
cresceranno qui:
dove altro
dovrei andare?”
Repubblica Nazionale
32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 22 LUGLIO 2007
la memoria
Missioni
Il 30 giugno Benedetto XVI ha indirizzato una lettera
ai cattolici della Repubblica popolare, uno Stato
con cui il Vaticano non ha relazioni dal 1951. Si è rimessa
così in movimento una storia di coraggio e di fede iniziata
dai gesuiti alla fine del Cinquecento e precipitata
duecento anni dopo in uno scontro che dura ancor oggi
LE IMMAGINI
Le fotografie d’epoca che illustrano
queste pagine, custodite presso
gli archivi del Pontificio Istituto
Missioni Estere (Pime) di Milano,
sono tratte dal libro Cina perduta
nelle fotografie di Leone Nani,
Skira 2003 (224 pagine, euro 49)
Leone Nani, missionario lombardo,
partì per la Cina nel 1904, a soli 23
anni, e vi rimase per un decennio,
spostandosi in regioni interne
difficilmente raggiungibili
e realizzando moltissime foto
che sviluppava e stampava da solo
Nella foto grande a destra,
padre Nani mentre battezza
un gruppo di bambini
A sinistra, in senso orario a partire
da qui accanto: un autoritratto
di padre Nani; lavori di cucito
presso l’orfanotrofio femminile
di Hanzhong; la cattedrale dedicata
ai santi Pietro e Paolo a Guluba;
padre Nani durante l’esame
di catechismo a Chekiading
FEDERICO RAMPINI
R
PECHINO
esiste in cima a una scalinata nel cuore
di Macao: una superba facciata barocca che sembra appesa alle nuvole. Solo
l’azzurro del cielo l’avvolge e buca le sue
porte. Sta in piedi per miracolo, la facciata da sola.
Dietro di lei la chiesa intera, le pareti, il soffitto, il tetto sono crollati da tempo, travolti da tifoni e incendi.
È quel che resta di São Paulo, la più celebre cattedrale di tutta l’Asia quando Macao era una colonia del
Portogallo e la “base” di penetrazione del proselitismo cristiano verso l’Estremo Oriente.
Nel collegio dei gesuiti di Macao studiarono alla fine del Cinquecento i missionari Matteo Ricci e Adam
van Schall prima di andare a evangelizzare la Cina. Ai
loro tempi la cattedrale era di legno e di terra, la facciata di pietra venne aggiunta dal gesuita italiano Carlo Spinola nel 1602. Degli artigiani giapponesi fuggiti
da Nagasaki per le persecuzioni religiose la decorarono di curiose sculture, una loro visione originale del
cristianesimo in Asia. La statua della Vergine Maria ha
ai suoi fianchi una peonia che rappresenta la Cina, un
crisantemo per il Giappone.
Quella facciata diroccata, fragile rovina abbandonata, racconta un pezzo di storia del cattolicesimo in
Cina: l’impresa di missionari che quattro secoli fa
vennero fin qui sfidando pericoli mortali, seminarono i germi di una nuova fede nel popolo cinese, per
poi fuggire travolti da una drammatica crisi politica.
All’avventura dei gesuiti lo storico americano Liam
Brockey ha dedicato un nuovo saggio, Journey to the
East. The Jesuit Mission to China, 1579-1724. Brockey
ha riesumato i ricordi di un’antica processione che
sfilò davanti alla cattedrale di São Paulo per festeggiare la beatificazione di Francesco Saverio, pioniere
dei missionari in Asia e patrono di Macao. Nel pittoresco corteo i fedeli cinesi recitavano scene di teatro
di strada, allegorie di storia vissuta. Un attore personificava la Cina dei Ming: vestita sontuosamente, con
monili d’oro e argento e pietre preziose, lacrimava
per aver chiuso le porte in faccia a Francesco Saverio:
«Ecco l’Impero di Mezzo con tutte le sue vane ricchezze, condannato a piangere sui suoi sbagli». Ma
errori, incomprensioni e incompatibilità ci furono da
ambedue le parti, nel primo dialogo tra i vertici della
Chiesa romana e il Figlio del Cielo, come si definiva il
sovrano cinese.
Il tormentato rapporto tra la Cina e il Cristianesimo
è tornato d’attualità il 30 giugno scorso quando papa
Benedetto XVI ha indirizzato per la prima volta una
lettera ai cattolici della Repubblica popolare: uno Stato con cui il Vaticano non ha più relazioni dal 1951.
Agostino Giovagnoli, docente di storia all’Università
cattolica di Milano, ricorda che «per molti decenni
agli occhi del cattolicesimo mondiale è sembrato che
Dopo Francesco Saverio e Matteo Ricci
esplose nell’Europa della Controriforma
una febbre delle vocazioni per generazioni
di giovani sacerdoti attirati dall’Oriente
in Cina prevalesse il concentrato di tutti i mali: era il
solo Paese in cui il comunismo non solo perseguitava la Chiesa, ma riusciva anche a penetrare al suo interno, dividendola in fazioni e contrapponendo gli
uni agli altri».
Lo scontro che da mezzo secolo oppone il regime
di Pechino al Vaticano presenta delle singolari analogie con il braccio di ferro ai tempi della Controriforma e della dinastia Qing. Il comunismo all’epoca di
Mao e della Rivoluzione culturale ha aggiunto di suo
una virulenta persecuzione ateista contro tutte le religioni. Ma al cuore della crisi che Roma e Pechino oggi tentano faticosamente di superare, c’è una questione di potere quasi immutata da trecento anni.
La penetrazione dei gesuiti in Cina è associata indissolubilmente alla figura di Matteo Ricci, il maceratese che nel 1583 sbarcò vicino a Canton e nel 1601
ottenne udienza al Palazzo imperiale nella Città Proibita di Pechino. Ricci non era certo il primo cristiano
in Cina (la presenza di nuclei di nestoriani si segnala
fin dall’ottavo secolo dopo Cristo) e neanche il primo
missionario visto che i francescani si erano affacciati
alla corte del Gran Khan nel XIII secolo. Ma l’impatto
intellettuale di Ricci è senza precedenti. Erudito e geniale, primo sinologo della storia, Ricci adatta il messaggio dei Vangeli all’etica confuciana e conquista il
rispetto dell’alta burocrazia mandarina grazie alle
sue conoscenze di matematica e astronomia. Crea un
ponte tra due civiltà, offre all’Europa intera le chiavi
di comprensione della millenaria cultura cinese.
Insieme a Francesco Saverio, Ricci diventa un mito per generazioni di giovani sacerdoti attirati dal proselitismo in Estremo Oriente. Passando in rassegna
una vasta mole di documenti d’epoca, lettere e diari
personali, Brockey ricostruisce un’autentica febbre
delle vocazioni esplosa in Europa: la Compagnia di
Gesù deve operare una selezione spietata, i candidati sono troppi, solo una minoranza viene prescelta
per partire in Asia. A volte le strade dei missionari incrociano quelle dei mercanti europei, ma spesso i religiosi affrontano il pericolo da soli. Gli italiani non
hanno dietro di sé una potenza coloniale. Anche i portoghesi, gli spagnoli, i francesi, una volta entrati nell’Impero di Mezzo non possono fare affidamento sulla protezione dei propri Stati. Il martirio non li spaventa: per alcuni, è la fine che sognano. Contrariamente agli stereotipi sulla Compagnia di Gesù, non
cercano solo di convertire la classe dirigente, i colti e
i potenti. In realtà i gesuiti conquistano una base popolare, nell’anno 1700 hanno duecentomila fedeli,
diffusi anche tra i ceti umili e nelle regioni di provincia. Una traccia di questa devozione si ritrova in opere di artisti anonimi che applicano lo stile cinese ai
soggetti cristiani: come una bellissima Madonna con
Gesù bambino, tutti e due con gli occhi a mandorla,
fisionomie e abiti inconfondibilmente locali, in un dipinto del XVII secolo ritrovato nel centro della Cina,
nella provincia dello Shaanxi.
Repubblica Nazionale
DOMENICA 22 LUGLIO 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33
La Chiesa e la Cina
un duello di secoli
A conferma del loro successo, ben presto i gesuiti
sono sopraffatti dal lavoro. Ci sono troppi fedeli rispetto al numero limitato dei missionari e formarne
di nuovi richiede tempi lunghi. Si arrangiano con soluzioni originali, come l’uso della “confessione con
l’interprete”. Inoltre nel 1700 il gesuita José Monteiro
inventa per i suoi confratelli il primo manualetto di
conversazione rapida in mandarino. S’intitola Vera et
unica praxis breviter ediscendi, ac expeditissime loquendi sinicum idioma, suapte natura adeo difficile
(L’autentico e unico metodo breve, per imparare rapidamente a parlare la lingua cinese, per sua natura
assai difficile). Contiene le frasi essenziali per catechizzare i cinesi, e anche qualche espressione utile
per i bisogni più materiali della vita quotidiana: «Questa carne non è cotta abbastanza. Il riso è scotto. Le
verdure non sanno di niente. Questo tè fa schifo».
I gesuiti applicano la lezione del loro pioniere per
aprirsi un varco nella mentalità cinese. Ricci ha stabilito che il confucianesimo non va trattato da avversario, È un’etica che può conciliarsi coi principi cristiani, così come un europeo può apprezzare Aristotele
senza essere sospettato di eresia. Dunque i cinesi
convertiti vadano pure nei templi di Confucio: non è
un idolo pagano, solo un maestro di vita. La stessa tolleranza viene applicata alla venerazione degli antenati, un culto che ha radici millenarie. Da questo
pragmatismo nasce il cattolicesimo di “rito cinese”.
Diventa la pietra dello scandalo quando nell’Impero
celeste nella seconda metà del XVII secolo affluiscono altre ondate di missionari. Domenicani e francescani attaccano la tolleranza dei gesuiti, denunciano
le liturgie locali come idolatria. Scoppia la Questione
dei Riti, che papa Clemente XI risolve nel 1704 dando
torto alla Compagnia di Gesù.
La querelle dei riti ha avuto grande notorietà, ma
non è lì che si consuma definitivamente il divorzio tra
la Chiesa e la Cina. Lo scontro più importante è su un
altro punto. La svolta decisiva avviene quando il Papa, per informare l’Imperatore della sua decisione sui
riti, invia a Pechino un’ambasciata guidata da un giovane prelato piemontese, Carlo Tommaso Maillard
de Tournon. De Tournon è ricevuto dall’Imperatore
Kangxi nel dicembre 1705 e pone una condizione per
stabilire relazioni dirette fra la Santa Sede e la dinastia
Qing: il pontefice designerà un superiore di tutti i missionari cattolici in Cina. Per l’Imperatore la richiesta
è inaccettabile. Egli non ammette che possa esistere
sotto il suo regno una “gerarchia parallela”, un’armata di sacerdoti che obbediscono a un sovrano straniero.
Con un editto imperiale del dicembre 1706 Kangxi
stabilisce la regola opposta: i missionari cattolici per
esercitare in Cina devono ottenere una licenza speciale, il piao. L’imposizione del piao, scrive Brockey,
«è un esercizio del controllo imperiale sui missionari», non diverso dal principio di autorità a cui devono
sottostare i monaci buddisti e taoisti. Diventa uno
Con un editto del 1706 l’imperatore Kangxi
respinse le richieste di papa Clemente XI
e impose ai missionari l’obbligo del “piao”,
una licenza speciale concessa dal Figlio del Cielo
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strumento per dividere i sacerdoti tra buoni e cattivi.
La situazione precipita. Mentre de Tournon viene ricacciato a Macao, ai missionari presenti sul territorio
cinese s’impone un’alternativa drammatica. Devono scegliere tra il Papa e l’Imperatore, ma anche fra
continuare l’apostolato in Cina o rinunciarvi. Lasciare il Paese vuol dire abbandonare i propri fedeli. Fare
atto di sottomissione a Pechino significa sfidare la
condanna papale.
È un dilemma che anticipa quello che vivranno i
preti cinesi nel 1957, quando Mao Zedong deciderà
di istituire la “Chiesa patriottica”, l’unica autorizzata dal Partito comunista, i cui vescovi e sacerdoti devono essere nominati dal governo e fare giuramento
di fedeltà al regime. Come accadrà nella Repubblica
popolare, anche tra i sacerdoti europei del Settecento la reazione non è compatta. Quarantuno domenicani partono in esilio, espulsi dai confini dell’impero dalla dinastia Qing. Una cinquantina di gesuiti seguaci dei “riti cinesi” ricevono il piaoe decidono di rimanere, sperando di guadagnare tempo e di ottenere un ripensamento del Papa. Un manipolo di religiosi scelgono una terza via, rifiutano il piao ed
entrano nella clandestinità, continuando a praticare di nascosto in alcune regioni rurali della Cina meridionale (proprio come i preti cinesi della “Chiesa
sommersa” ai nostri tempi).
La crisi precipita con la morte di Kangxi e l’avvento
al trono di suo figlio Yongzheng nel 1723. Il nuovo Imperatore promulga un editto in cui condanna il cattolicesimo come «setta perversa e dottrina sinistra».
La repressione si scatena sui fedeli, chiese e seminari
vengono sequestrati e convertiti ad altri usi: diventano scuole, ospedali, granai. Nella provincia del
Fujian, con un crudele scherzo alla memoria di Ricci,
le parrocchie cattoliche vengono trasformate in templi per il culto degli antenati. «Nell’ottobre 1724», scrive Brockey, «sedici anni dopo che i gesuiti hanno sfidato Clemente XI accettando il piao, vengono arrestati in massa dalle autorità imperiali, deportati a
Canton, da lì imbarcati per l’esilio a Macao».
Yongzheng fa sapere a Ignatius Koegler, un sacerdote tedesco che dirige il laboratorio astronomico alla
corte imperiale, che i gesuiti devono considerarsi fortunati per essere stati cacciati da vivi. Nello stesso anno, in un giro di vite per riaffermare il suo controllo su
tutti i culti, l’Imperatore ha «ordinato la distruzione
in massa di molti templi buddisti e lo sterminio di oltre un migliaio di lama».
I missionari cattolici torneranno nel secolo successivo in una Cina indebolita e decadente, piegata
dalla superiorità militare delle nuove potenze occidentali. Poi le porte si chiuderanno di nuovo con la rivoluzione comunista. Adesso la lettera di Benedetto
XVI cerca una soluzione all’impasse: per la prima volta il Papa non disconosce la Chiesa patriottica, propone di fonderla con quella clandestina. Pechino deve ancora rispondere.
Repubblica Nazionale
34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 22 LUGLIO 2007
i luoghi
Paesaggi storici
Un grande architetto del verde ci guida alla scoperta
delle terrazze, delle piante e dei fiori della proprietà
che Iris e Antonio Origo, “pionieri” nella Val d’Orcia
degli anni Venti del secolo scorso, fecero costruire
e poi ampliare: un piccolo capolavoro di semplicità
e armonia affacciato sull’orizzonte intatto dell’Amiata
La Foce, un giardino come sfida
PAOLO PEJRONE
ultima volta che incontrai Iris Origo fu a Lerici,
una estate di trent’anni
fa. Antonio era ancora
vivo, non stava bene:
Iris lo assisteva. Fu un
incontro facile e discorsivo: l’occasione per passeggiare in un’ora fresca della sera, in giardino, parlando di piante
e del giardino stesso. Quel giardino che
era stato a suo tempo molto coltivato,
molto amato e che stava, con dignità,
subendo i danni di un elegante, quieto
e leggero disinteresse.
Come si sa, l’economia d’acqua, la vicinanza del mare, il vento, il sale rendono spesso difficile la vita di un giardino sulla costa... Del giardino di Lerici
ricordo una gradevole sensazione di
ordine e pulizia: la dignità del posto era
preservata e mantenuta, e la siccità non
era vista come un ripiego o peggio come una sconfitta. Il bello è spesso figlio
di sottili armonie e di tanto coraggio
che agli Origo non mancavano proprio.
Nei loro più svariati aspetti erano di uso
quotidiano.
L’
***
Tra qualche settimana i vecchi muri
della Foce saranno coperti dai fiori bellissimi e bizzarri dello “stocco di San
Pietro” la campanula pyramidalis: non
conosco luogo, in Italia, dove stia più
felice. Tanto si compiace del posto da
seminarsi da sola, di anno in anno, nelle fessure dei muri, sui bordi dei vialetti, un po’ dappertutto. Proveniente, pare, in origine, dalla Dalmazia, alla Foce
ha trovato il posto adatto per crescere,
fiorire ed invadere. Invasione pacifica,
gradevole, piena di divertita ironia, di
successo e di reciproco amore.
Come fu reciproco amore quello che
intercorse tra gli Origo e le povere terre
di Val d’Orcia. Antonio e Iris nel lontano 1924 belli, giovani, volenterosi e soprattutto pieni di temerarie speranze,
approdarono, per vivere e per lavorare,
nel basso Senese tra le crete poverissime della Foce e Castelluccio. Erano terre lontane dall’amata Firenze, lambite
dalla interminabile e polverosa via
Cassia, vantavano una storia antica e
soprattutto una dignitosa ed inequivocabile povertà. La Foce mancava di tutto, dall’acqua alle strade, dalla luce alla
scuola: vi regnavano indisturbati l’a-
nalfabetismo e l’indigenza e, insieme a
loro, tutti i tristi ed inevitabili corollari.
Le crete dilavate, sterili ed inerti dominavano il paesaggio rendendo più spinosa, difficile e definitiva quell’antica
sfida tra il posto ed i suoi abitanti.
Antonio e Iris, uniti e temerari, desiderosi di sottrarsi ad una facile e disinvolta esistenza, anche se intelligente e
colta, si gettarono, con tutto l’entusiasmo dei loro anni, in una nuova, affascinante aspra e difficile sfida: la bonifica della Foce stessa. Cecil Pinsent, il
Lutyens d’Italia, il grande architetto del
Per cominciare
furono restaurati
i fabbricati,
disegnati
quattrocento anni
prima
rinnovamento storico, il raffinato ed
intelligente scenografo di una committenza anch’essa intelligente e colta, fin
dall’inizio fu accanto a loro, aiutandoli
a costruire i giardini e a ricostruire e a
restaurare i fabbricati della Foce, che
da Baldassarre Peruzzi erano stati più
di quattrocento anni prima delineati e
definiti con grandissima eleganza e insuperabile sapienza.
Nei fabbricati di un tempo, un’antica
locanda appartenuta all’ospedale della Madonna della Scala di Siena, furono
sistemati i nuovi alloggiamenti e con
essi venne previsto un piccolo e rigoroso giardino a terrazze. Fu costruito a
tappe strette e con metodo e, come insegna il buon senso e l’armonia, un poco alla volta, con i sani e scanditi tempi
dell’agricoltura. Con un equilibrio preciso, in sottile ed affettuosa sintonia
con l’evoluzione della grandissima e
poverissima proprietà terriera che lo
circondava.
Gli Origo, corrette ed educate figure,
non anteponevano le loro “esigenze” di
coltivato benessere a quelle delle persone della Foce (e che dalla Foce traevano la quotidiana sopravvivenza):
quel benessere che, secondo Antonio
ed Iris, cresceva e si espandeva passando prima per le strade, poi per l’acqua
potabile, e con loro, la scuola e le infrastrutture mediche.
***
Quello della Foce è un giardino all’italiana, piantato di piante all’italiana,
vissuto, cresciuto ed arredato, però, all’inglese, con quel semplice ed elegante understatement che solo l’Inghilterra puritana del “dopo Cromwell” può
avere. Minuta semplicità e puntigliosa
eleganza si fondono in un paesaggio
ampio, aperto sull’assolata e larghissima valle dominata dall’Amiata. Paesaggio forte, romantico, luminoso, e
spesso “turneriano”: gli orizzonti anche essi vasti, larghi e forti dominano,
contrastano e definiscono.
Semplice, razionale e schematica è
la divisione a stanze dei “primi” giardini: erano il frutto moderno e maturo
di un modo nuovo, speciale ed affascinante di fare giardino “all’antica”.
Gertrud Jekyll, Edwin Lutyens, Harold
Nicolson e Vita Sackville-West nella
loro felice colta e ricca Inghilterra post-edoardiana ne suggerirono, a loro
modo, i termini e ne misero in pratica
i semplici e sottintesi messaggi. Con
giuste e “moderne” proposte sperimentavano, provavano ed avevano
successo sia nei loro (rispettivi) giardini sia in quelli del loro affascinante e
preparato “set” sociale ed intellettuale. Fondamentale per loro era l’uso di
piante facili e semplici (come, appunto, la “nostra” campanula pyramidalis), che felici e soddisfatte, si potevano appropriare di parte dei giardini
con successo e facilità, derivandone
un’aria naturale, rigogliosa e felice.
L’uso di piante robuste, semplici e
adatte al luogo (e alle sue temperature
e agli strapazzi di una vita rustica), era
preciso e nello stesso tempo fantasioso. E di conseguenza per nulla noioso o
Repubblica Nazionale
DOMENICA 22 LUGLIO 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35
LE IMMAGINI
Le immagini che illustrano questa pagina sono tratte
dal volume La Foce. Un giardino in Val d’Orcia di Benedetta Origo,
Morna Livingston, Laurie Olin e John Dixon Hunt, Editrice Le Balze 2004
(302 pagine, 70 euro). Il grande acquerello di Laurie Olin
è una sezione trasversale delle terrazze e del viale dei cipressi
Le fotografie raffigurano vari fiori, siepi e piante dei giardini
de La Foce e alcune vedute del luogo. In particolare, nel basso
della pagina, in senso orario da sinistra, la strada per San Bernardino,
fatta costruire da Antonio Origo dopo il 1935; la casa, con le finestre
di tre camere da letto; le siepi sagomate nel giardino dei limoni
retorico. Dopo anni di privazioni e di
umiliazioni, le erbacee perenni avevano finalmente avuto uno “status”. Arbusti ed erbacee non erano più e soltanto delle modeste comparse di un
giardino fatto, spesso e soltanto, di
grandi alberi o di vasti prati. Le piante,
quelle piante, non erano per Gertrud,
per Vita e per Iris un colore o una massa: erano foglie, tessiture, profumi e
portamenti (e soprattutto ricordi e memorie).
L’autunno e l’inverno assumevano
pari dignità e pari importanza, a scapito dei trionfi e delle glorie primaverili
ed estive. Il vuoto autunnale-invernale
non dava più gioie magre e minimali:
l’esigenza d’esser di “buon” aspetto ed
in “ordine” per tutto l’anno si contrapponeva alle sovrabbondanze primaverili ed estive, giudicate a questo punto
un po’ pacchiane e demodées.
I giardini della Foce ebbero un ultimo e rinnovato impulso alla fine degli
anni Trenta, poco prima della Seconda
guerra mondiale, con l’addizione di un
giardino nuovo dal forte disegno a siepi. Quasi fosse un alto parterre, a forma
di ventaglio, e dominato da vigorosi e
scenografici scaloni di travertino. Era
un giardino meno “povero”, decisamente più sfarzoso di quelli finiti precedentemente (ed a quel punto già al
lavoro e “funzionanti”): è un giardino
che abbandona gli schemi rigorosi e
semplici, quasi primitivi, di cinquecentesco e fiorentino sapore, per una
postconciliare, quasi barocca proposta
“romana”. La Val d’Orcia non era forse
al confine con gli Stati pontifici? E Roma, con le sue barocche armonie e le
sue grandiose scenografie, era in fondo
più vicina di Firenze.
Il nuovo “pezzo” è parte coerente di
una nuova evoluzione stilistica del
giardino della Foce, cresciuto in due
epoche vicine, ma volutamente differenti. Una piccola terrazza, a lato dei
giardini, fa da anticamera ad un gradevolissimo sentiero nella macchia.
La vista, la grandissima e luminosa vista sulla Val d’Orcia è, come già detto,
appassionante, antica ed intatta:
Montalcino sulla destra di chi guarda,
a causa della distanza, è ridotto ad un
piccolo e modesto borgo. Lo stretto
sentiero porta al piccolo cimitero
chiuso da un alto muro e da svettanti
cipressi: rinchiudono e proteggono
tutta la grande famiglia della Foce, in
un corale ed ultimo viaggio.
La Foce non c’è dubbio, è un posto
romantico e pieno di bellezza: da
tempo però non è più soltanto un luo-
go, anche se affascinante ed attraente, gli Origo, con il loro amore intenso
e sincero, lo fecero diventare qualcosa di più. Guerra in Val d’Orcia fu il
primo libro scritto da Iris. Uscì nel
1947, fu una testimonianza vivace ed
acuta dell’orrore di un passato recente, portando direttamente ed indirettamente alla conoscenza del mondo
intero la sua amatissima Foce, la sua
vita, i suoi felici e meno felici trascorsi. Fu seguito, dopo dieci anni, dal conosciuto e speciale best-seller Il Mercante di Prato che portò Iris Origo nel-
I tronchi dei glicini
e gli antichi rosai
suggeriscono
un passato
lontano e glorioso,
ne sono la memoria
le biblioteche di tutto il mondo, come
eccellente, profonda e seria scrittrice
di storia.
***
I vasi di limoni hanno una loro lunga
storia in Toscana: dal grande Cosimo in
poi, tra le frequenti siepi di bosso c’era,
d’abitudine scandito da ritmi agricoli
ed architettonici, il posto per variati e
speciali agrumi in vaso. Alla Foce fu
prevista proprio per questo una capiente e bellissima limonaia, disegnata
sempre negli anni Trenta con armoni-
ca cadenza dal Pinsent. Come dallo
stesso Pinsent furono delineate nel
paesaggio delle crete, delle utili (e bellissime) strade. Il Lorenzetti ne fece da
maestro ispiratore: i cipressi con i loro
scuri e rigorosi punti esclamativi servirono da punteggiatura. Limiti e percorsi vennero da loro marcati e sottolineati. Ancora ora se ne può sentire la poetica e la storica valenza.
A suo tempo Iris lavorò in modo
continuo e sapiente nei suoi giardini:
i tronchi dei glicini diventati vigorosissimi ed enormi ne suggeriscono un
passato lontano e glorioso, così come
i vecchi rosai banziani, o come il grande roseto, che è stato da poco, come di
dovere, felicemente rinnovato. Molte
piante ora sono ancora testimoni felici di memorie lontane, e quasi tutte,
a suo tempo, arrivarono dall’Inghilterra: era l’unica strada da battere in
una Italia dai vivai autarchici, poveri
e retrò.
***
Le figlie Benedetta e Donata mantengono con amore, dedizione e successo i giardini della Foce e quelli di
Chiarentana, sia quelli storici che
quelli “nuovi”. Nuovo è quello di Donata, che circonda appunto Chiarentana: una grande fattoria quasi fortificata, dominata da un verde e fitto bosco, nella quale, al centro della corte
quadrata, è incastonato un tiglio ombroso e fresco. Chiarentana a sua volta domina la svettante Radicofani e la
luminosa (ed amatissima) Val d’Orcia. La Foce e Chiarentana sono diventate, nel loro evolversi, posti di turismo intelligente: il bello, la quiete,
l’olio buono e, per un certo periodo
dell’anno, della buonissima musica,
hanno, per fortuna, i loro amici, i loro
estimatori ed i loro ammiratori. Da
tanti anni “Incontri in terra di Siena”
porta della gran qualità musicale tra le
crete bruciate dal sole. Fare musica alle ultime luci del giorno in mezza estate, nei silenzi assoluti degli antichi boschi della Foce è un vero grande e raro
privilegio. Qui, come in altre parti d’Italia, la natura a fine luglio, esausta e
stanca, va in riposo: regna su tutto una
atmosfera speciale, leggera, aperta ed
ospitale. Quella stessa, forse, che rapì
Antonio e Iris quasi un secolo fa, ammaliandoli, trascinandoli, facendoseli suoi per sempre.
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36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 22 LUGLIO 2007
Il 25 luglio 1943 Mussolini perde la sua libertà: per un mese è confinato a Ponza
e alla Maddalena, prima del Gran Sasso e del blitz nazista. In totale isolamento
scrive i “Pensieri pontini e sardi”, in forma di appunti numerati, finora noti
soltanto in una traduzione in tedesco. Ora “Repubblica” ha ritrovato nei National Archives
di Londra la versione originale e completa di quell’intenso diario di un uomo sconfitto
L’ultimo
Mussolini
BENITO MUSSOLINI
1.
Tutto ciò che accade, deve accadere, perché se non dovesse accadere
non sarebbe accaduto.
2. Gli animali sono superiori agli uomini in fatto di gratitudine forse perché
hanno l’istinto e non la ragione.
3. Pare che i dittatori non abbiano scelta —
non possono perché devono cadere — Però la loro è una caduta che non suscita l’ilarità anche
quando non sono più temuti, continuano ad essere odiati o amati.
4. Quella che chiamiamo «vita» non è che un
quasi impercettibile «punto» fra due eternità,
quella di prima e quella di dopo. — Confortante
pensiero.
5. Due libri mi hanno particolarmente interessato in questi ultimi tempi. La Vita di Gesù di
S. Ricciotti e Giacomo Leopardi di Saponaro. Anche Leopardi è stato un po’ crocefisso.
6. Secondo Delcroix la vita avrebbe dei cicli
settennali, con avvenimenti determinanti…
1922 Marcia su Roma — 1929 Conciliazione fra
Stato e Chiesa — 1936 Fondazione dell’Impero
— 1943 Caduta — 1950 Già morto finalmente!
7. I pensieri pontini sono finiti perché stanotte all’una sono stato svegliato con queste parole
«Pericolo imminente». Bisogna partire. Mi sono
vestito in fretta e furia, ho raccolto panni e carte
e ho raggiunto l’incrociatore che attendeva, sono salito e ho ritrovato l’ammiraglio Maugeri, il
quale mi ha detto che la nuova meta era l’isola di
Santa Maddalena in Sardegna.
Oggi il mio pensiero vola a Bruno. È il secondo
anniversario della sua morte. Nel-
le circostanze in cui mi trovo, sento ancora più
profonda la ferita. Caro Bruno! Ecco che la tua
immagine mi è davanti, mentre scrivo queste
parole nella nuova casa di esilio...
Il viaggio è durato dodici ore con un mare tempestoso. La villa dove mi hanno condotto apparteneva a un suddito inglese... è circondata da un
parco di pini...
Un anno fa circa, visitai la Maddalena, fra l’entusiasmo del popolo. Oggi, arrivo clandestino.
Chi sa, se oggi — qualcuno — si è ricordato di mio
figlio e di quanto fece nella sua breve meravigliosa vita! Venti anni di lavoro sono stati cancellati in poche ore... Il Fascismo era un’iniziativa che aveva interessato il mondo e indicato
nuove vie. Non è possibile che tutto sia crollato… Tutto fu un’illusione?
8. Al termine di questa prima giornata d’esilio
alla Maddalena una profonda melanconia mi afferra. Sento che il mio Bruno è — ora — veramente morto!
9. Di me e di queste mie vicende fra pochi anni sarà illanguidito il ricordo e dopo poco, cancellato.
10. Dal 25 luglio a mezzogiorno, non ho più visto giornali. È curioso che non senta questa
mancanza, io lettore infaticabile di decine di
giornali al giorno.
11. Scherzi del destino: dal massimo del potere alla totale impotenza; dalle moltitudini acclamanti, alla solitudine assoluta.
12. Sin dall’ottobre del ‘42 io ho avuto crescente il presentimento della crisi che mi avrebbe travolto. La mia malattia vi ha avuto gran parte.
13. In questi ultimi
tempi, la richiesta di
mie fotografie era
molto diminuita e di
altrettanto — se non
più — era aumentata
la mia riluttanza a firmarle.
14. Il film Sant’Elena, piccola isola fu
seguito da tutti noi...
con un’attenzione
accorata. Così finì
un grandissimo uomo; perché un uomo di gran lunga
minore non potrebbe avere una sorte
“Il mio astro
è tramontato
per sempre”
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DOMENICA 22 LUGLIO 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
Gli 88 fogli dei Pensieri
Nel settembre 1943 i Tedeschi
liberano Mussolini al Gran Sasso
e requisiscono tutte le sue carte
che finiscono nel dossier “Duce
Dokumente” alla cancelleria
del Reich. Nel maggio 1945
gli inglesi trovano questi fascicoli
in mezzo ad altre migliaia di carte
Per un anno li fotografano, pagina
dopo pagina. Negli scaffali nazisti
c'è anche un “blocco per appunti”
sul quale Benito Mussolini aveva
scritto con una matita nera
fra il 7 e il 27 agosto 1943 i “Pensieri
pontini e sardi”. Il ricercatore Mario
J. Cereghino ha recuperato questo
materiale finora inedito (in piccola
parte riprodotto in queste pagine)
ai National Archives di Kew
Gardens, nei pressi di Londra
Le riflessioni del Duce sono
contenute in 88 fogli a quadretti
che sono diventati altrettante
stampe fotografiche ingiallite dal
tempo. I brani pubblicati in queste
pagine sono tratti da quei fogli
LA CADUTA
Il Gran Consiglio che il 25 luglio 1943
votò contro Mussolini. A destra, uno
strillone annuncia la caduta del Duce
simile o quasi?
15. Dopo quindici giorni non so ancora che
cosa «sono» o piuttosto che cosa sono diventato.
16. Secondo l’ammiraglio Maugeri di Gela
non ci sono a La Maddalena che venti giorni all’anno senza vento. Oggi 10 agosto 1943 è uno di
questi. Mare che sembra una tavola. Alberi immobili.
17. Talete (?) ringraziava gli dei di averlo fatto
nascere: uomo e non bestia, maschio e non femmina, greco e non barbaro.
18. Quando una piramide politica speciale
crolla, le conseguenze si fanno sentire sino alla
base. Sorge un piccolo problema anche per i
bambini che portavano le racchette del tennis.
19. Il mio piantone si chiama Felice Nunzio ed
è della provincia di Roma. I piantoni di Ponza si
chiamavano Tirella (Frosinone). Tizzoni (Rieti).
Minuzie della storia...
20. Quelle che si chiamano dittature nel mondo
moderno sono dittature a tipo indiretto collettivo
e pare che la loro durata non possa superare il ventennio. Assistiamo però ad un’eccezione: la dittatura del bolscevismo sul proletariato.
21. Stanotte le sentinelle hanno fatto fuoco
contro «rumori sospetti».
22. Un uomo che deve essere stato più di ogni
altro sorpreso dagli avvenimenti deve essere
l’Ambasciatore del Giappone, che ricevetti alle
ore 13 del 25 luglio.
23. Le zanzare: l’altoparlante della notte. Ce
ne sono troppe qui!
25. Villa Torlonia. Scoppiata la guerra nel giugno del 1940 il primo rifugio di V.T. fu ricavato da
alcune grotte... Ma dopo i bombardamenti di
Torino e Milano, Genova nell’ottobre del 1942,
si disse che occorreva fare un rifugio alla «prova», cioè capace di resistere anche alle bombe di
massimo peso... Preventivo 240.000 lire. Durata
dei lavori tre mesi…
I lavori divennero più complessi e più lunga la
loro durata. È curioso che mano a mano che i lavori si avviavano al compimento... la mia antipatia per il rifugio aumentava e non soltanto per
la spesa ormai raddoppiata ma per qualcosa di
oscuro che sentivo in me. Sentivo, cioè, che una
volta finito, quel rifugio sarebbe stato completamente inutile.
26. È la prima volta dal ‘40, che il Bollettino Italiano parla dell’attività del nemico — sul fronte
terrestre — senza accennare minimamente alla
nostra. Si può interpretare ciò come una prepa-
razione a comunicare che ormai in Sicilia siamo
all’ultima ora.
27. Un partito sciolto, cioè proibito, diventa per
molti italiani interessante. Ci provano gusto ad essere fascisti quando con ciò si è «sovversivi».
28. Ricevuta una seconda lettera da Rachele
che non sa più nulla di Vittorio. Il tenente Faiola
che lo conosce sin da ragazzo, dice che non gli può essere accaduto nulla di ingrato.
29. Nel Partito, accanto alle
scorie, c’era il fin fine dei combattenti di tutte le guerre.
30. Stamani le novità sono
rappresentate dalla partenza del Colonnello Merli, del
Tenente Di Lorenzo e di altri
30 Allievi Carabinieri.
31. È curioso che in questi
ultimi tempi mi ero stancato
di lavorare nella grande sala
di P.V. (Palazzo Venezia).
Avevo già deciso di trasferirmi al Ministero della Marina... Progetti procrastinati
dalla mia infermità.
32. I primi giorni della
nuova esistenza — nel mio caso di prigionia —
sono veramente interminabili. Poi si riempiono
di piccole cose e incominciano a trascorrere.
33. Oggi 13 agosto, una strana inquietudine mi
ha afferrato e mi tiene... alle 17 mi viene consegnato il bollettino che annuncia... il secondo
bombardamento di Roma. Il mito della città «pa-
pale» e perciò risparmiata, è crollato. Così pure
l’altra leggenda che Roma veniva bombardata
perché sede del Fascismo.
34. Com’è possibile che un capitano aviatore
come Vittorio non riesca a dare notizie di sé, dopo ventun giorni dal «cambio della guardia».
35. Gli argomenti di conversazione tra me i
miei vari interlocutori si
esauriscono e tra poco vigerà
la regola della «trappa». Silentium.
36. Non mi sono mai interessato ai giochi delle parole
incrociate, alle sciarade, ai
giochi enigmistici: oggi in
mancanza di libri, avrei modo di ammazzare il tempo,
come si dice, prima che il
tempo ammazzi me.
37. L’Ispettore di P. S. Polito... è venuto stamani, 14
agosto, qui per un’ispezione
e gli ho chiesto di venire a vedermi. Ecco quanto ha detto
l’Ispettore: «Ho accompagnato Donna Rachele alla
Rocca... Alla Rocca erano già
Romano e Anna. Di Vittorio non so nulla...
Quanto alla promessa di Badoglio, per voi, non è
stato possibile realizzarla, poiché telegrammi
concordi del Prefetto, del Questore, del Comandante di Zona facevano prevedere gravi disordini se foste andato alla Rocca...». «Voi dovete sapere che il capovolgimento della situazione è to-
“Scherzi del destino:
dal massimo
del potere alla totale
impotenza,
dalle moltitudini
acclamanti
alla solitudine
assoluta”
“La giornata del 25 luglio”: lettera di Mussolini scritta a Ponza
“Ormai sono uno qualunque”
T
erminata la seduta del Gran Consiglio alle
2,30 circa, rientrai nel mio ufficio, dove fui
raggiunto da Scorza, Buffarini, Tringali, Biggini, Galbiati. Fu discusso se tutto ciò che si era votato era legale, ma io non mi interessai gran che alla questione. Scorza, che aveva pronunciato durante la seduta, quale ultimo oratore, un discorso
senza colore e forse senza convinzione, chiese di
accompagnarmi a casa. Il che avvenne…
Congedato lo Scorza a Villa T., trovai mia moglie — inquieta — che mi attendeva. Colla sensibilità delle donne — coll’intuito delle donne, essa aveva l’impressione che qualcosa di grosso si
preparava. Povera Rachele! Quante poche gioie
le ho dato e quanti dolori! Non mai durante trenta anni una settimana di pace. Essa meritava, forse, un altro migliore destino, che non fosse quello di essere legata alla mia turbinosa esistenza! Ci
scambiammo poche parole e mi addormentai
con uno di quei sonni brevi nel tempo e malgrado ciò, eterni, che hanno sempre preannunziato
gli eventi decisivi della mia vita.
Alle sette ero in piedi. Alle otto a Palazzo Venezia. Regolarmente, come sempre, da 21 anni,
aveva inizio la mia giornata di lavoro. — l’ultima.
Nel corriere non vi era nulla di molto importante, salvo una domanda di grazia per due partigiani dalmati condannati a morte. Telegrafai al Governatore Giunta, favorevolmente. Sono lieto —
ora — che il mio ultimo atto di governo abbia salvato due vite, anzi due giovani vite...
Rientrai a Villa T… Consumai la solita colazione e trascorsi un’ora a conversare con Rachele,
nel saloncino cosiddetto della musica. Mia moglie più che impressionata, era ormai allarmata
davanti a qualche cosa che stava per succedere.
Alle 16 mi vestii in borghese e accompagnato
da De Cesare mi recai a Villa Savoia dove S.M. mi
attendeva sulla soglia della Palazzina. Il colloquio durò mezz’ora. Al momento del congedo
sulla soglia, il Re mi strinse la mano con molta
cordialità. La mia macchina mi attendeva dal lato destro della palazzina, ma mentre mi dirigevo
da quella parte, un capitano dei Carabinieri si...
(parola incomprensibile, ndr) dicendomi: «S.M.
mi ha ordinato di proteggere la vostra persona» e
poiché io accennavo ancora di salire nella mia
macchina, egli mi fece salire su un’auto-ambulanza già pronta da tempo. Evidentemente! Salì
con me anche De Cesare. Guardati a vista da due
agenti in borghese muniti di moschetti mitragliatori, fecero un lungo accidentato percorso —
con sbalzi notevoli — che misero qualche volta
in pericolo la stabilità del veicolo.
Dopo una breve sosta in una caserma dei
RR.CC., che non ricordo, giungemmo alla Caserma Allievi Carabinieri. Io fui condotto nell’ufficio
del Colonnello. Guardie con baionetta furono
messe nel corridoio. Da parte degli ufficiali trattamento cordialissimo. Alle ore 1 del 26, il generale Ferone, che avevo conosciuto in Albania, mi
portò un biglietto del maresciallo Badoglio che
qui trascrivo: «All’Eccellenza il Cav. etc... Il sottoscritto Capo del Governo tiene a far sapere a V.E.
che quanto è stato eseguito nei vostri riguardi è
unicamente dovuto al vostro personale interesse, essendo giunte da più parti precise segnalazioni di un serio complotto verso la vostra persona. Spiacente di questo, tiene a farvi sapere che è
pronto a dare ordini per il vostro sicuro accompagnamento, con i dovuti riguardi, nella località
che vorrete indicare». Seguiva la firma autografa.
Dettai una risposta alla missiva del Maresciallo e dissi che sarei andato volentieri alla Rocca
delle C… Così trascorse il lunedì. Spesso conversarono come il colonnello Chirico, il maggiore
Bonitatibus, il colonnello Tabellini (non dimenticherò la amabilità della di lui moglie che mi
mandò tè e gelati di frutta) il Generale Delfini, il
medico Ten. Col. Santillo casertano e quindi inguaribilmente afflitto per la soppressione della
provincia di Caserta. Fu un errore!
Ero ormai convinto che sarei andato alla Rocca. Viceversa il martedì sera, verso le ore 10, venni fatto discendere e consegnato al Generale Polito, della Polizia Militare, nel quale riconobbi il
Commissario di P.S. Polito, che aveva per 17 anni lavorato con me e al quale avevo affidato clamorose e fortunate operazioni di polizia.
Durante il tragitto si parlò del più e del meno,
dopo che avevo constatato la direzione della
marcia: non la Flaminia, ma l’Appia — meta Gaeta, molo Ciano Corvetta Persefone — con un Ammiraglio, il Maugeri di Gela, decoratissimo e
compitissimo...
Sosta a Ventotene e impossibilità di soggiorno.
Continuazione verso Ponza, dove arrivavo verso
le 11. Non è la residenza che avevo o avrei scelto.
Trattamento cordiale. Nel primo giorno il Colonnello Pelaghi e successivamente il Colonnello Meoli e il Tenente Di Lorenzo continuano ad
occuparsi con molto tatto della mia “incolumità” personale non so da chi più minacciata,
ora, che l’obiettivo dei complottatori è stato raggiunto e la mia persona fisica non ha più alcun valore, cioè, è uguale a quella di uno qualunque.
Ponza 2 agosto 1943
P. S. 1) Questo è un rapporto di natura confidenziale che affido alla discrezione del Colonnello Meoli, il quale non è autorizzato a comunicarlo a chicchessia, salvo decisioni in contrario.
2) Può darsi che alcuni dei giudizi sopra-esposti non corrispondano del tutto alla realtà, data la
mia ignoranza su quanto è accaduto dal 25 luglio
in poi, dovuta al totale isolamento morale, al
quale sono stato da quel giorno sottoposto.
tale. Non solo non si vedono più distintivi in Italia, ma tutti i fascisti si sono più che dispersi “vaporizzati”. Le manifestazioni di odio contro di
voi non si contano. Io stesso ho visto un vostro
busto in un cesso pubblico di Ancona...».
«Si sono fatti molti arresti, ma i capi del Fascismo sono quasi tutti liberi, non escluso il molto
odiato Starace. Il Conte Ciano fu visto il 26 in
uniforme di ufficiale… Grandi, Bottai e gli altri
sono scomparsi dalla circolazione». «Tutta la vostra costruzione è crollata: vi basti dire che capo
degli operai è oggi Bruno Buozzi». «Conquistata
tutta la Sicilia gli inglesi effettueranno uno sbarco nel mezzogiorno d’Italia… la superiorità aerea degli anglo-sassoni è schiacciante...».
Il Generale Polito mi ha consigliato di stare
tranquillo… e ha aggiunto che calmate le passioni sarebbe stato possibile un più equo giudizio, poiché «nessuno può negare che voi vi proponevate di rendere grande e prospero il paese».
E ancora «Nessuno vi informava? Che hanno fatto quelli che vi circondavano?».
Il colloquio è durato circa un’ora e mezza. Pur
sfumato del «colore» che i funzionari di P.S.
amano dare ai loro rapporti, a due conclusioni
posso arrivare:
1) che il mio sistema è crollato
2) che la mia caduta è definitiva
Il sangue, la voce infallibile del sangue mi dice
che il mio astro è tramontato per sempre
38. Calma di ferragosto: il mare non ha un brivido, l’aria un soffio. Tutto sembra fermo sotto il
sole. Anche il mio destino.
39. Nel pomeriggio è venuto a visitarmi il tenente colonnello medico dott. Mendini... mi ha
ordinato diverse medicine... Gli ho domandato:
Vale ancora la pena? Egli mi ha risposto: Come
medico e come uomo, dico di sì.
40. Quando un uomo crolla con il suo sistema,
la caduta è definitiva, specie se l’uomo ha oltre
sessant’anni.
41. Dio mi è testimone degli sforzi disperati e
angosciosi — dico disperati e angosciosi — da
me fatti per salvare la pace nel fatale agosto del
1939. Gli sforzi fallirono. Ciò si deve in parti quasi eguali agli inglesi e ai tedeschi. Agli inglesi per
la garanzia data alla Polonia, ai tedeschi che
avendo pronta una macchina militare potente,
non resistettero alla tentazione di metterla in
movimento.
(continua nelle pagine seguenti)
Repubblica Nazionale
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 22 LUGLIO 2007
In questi taccuini scritti a mano
e per punti Mussolini ripercorre
il ventennio in un misto di analisi politiche,
rimpianti e rancori, frecciate per amici e gerarchi,
timori per i familiari. E di giudizi su se stesso:
“Se gli uomini stessero sempre sugli altari
finirebbero per ritenersi superuomini, la caduta
nella polvere li riconduce all’umanità”
L’ultimo
Mussolini
BENITO MUSSOLINI
(segue dalle pagine precedenti)
42. Oggi, 16 agosto, ho ricevuto per la prima
volta la «Radio Navi» del 14 agosto con notizie
da Berlino, Tangeri, Lisbona, Madrid, Istanbul,
Stoccolma.
43. È chiaro che se il 10 luglio gli anglo-sassoni
avessero subito sulla rada di Gela una «Dieppe» in
grande stile, oggi non sarei in quest’isola.
44. Come sempre, si vorrà anche nella mia
vicenda «cercare la donna». Ora le donne non
hanno avuto la minima influenza sulla mia
politica. È forse stato male. Le donne talvolta
vedono — attraverso la loro sensibilità — più
lontano degli uomini.
45. Crispi e quel fenomeno complesso che
fu allora chiamato «crispismo» caddero sotto
la disfatta di Adua e Felice Cavallotti diventò
popolarissimo. Anche allora il popolo repentinamente cambiò.
46. Si passa dal massimo dell’esaltazione al
massimo dell’esecrazione.
47. Un giorno un papa mi chiamò «l’uomo della Provvidenza». Era l’epoca felice.
48. Se gli uomini rimanessero sempre (parola
incomprensibile, ndr) sugli altari finirebbero per
ritenersi superuomini, o essere divini: la caduta
nella polvere li riconduce all’umanità...
49. ...La perdita di Augusta e di Siracusa... Da
quel giorno ebbe inizio l’atto quinto del dramma.
Accuse e contraccuse avvelenarono l’atmosfera.
Si parlò di tradimento di ammiragli prima per
Pantelleria, poi per Augusta...
50. Di tutti i regimi cosiddetti «totalitari» sorti
dopo il 1918, quello turco sembra il più solido: vi è
un solo partito, quello del popolo, di cui è capo il
Presidente della Repubblica.
51. Può darsi che qualche commentatore straniero, abbia sottolineato la volubilità in fatto di
convinzioni politiche del popolo italiano.
52. Nuovo pomeriggio — 16 agosto — di grave
inquietudine. Ho il sangue in fermento.
53. Penso oggi a tre uomini che pur venuti dal
nazionalismo, tanto lume di dottrina, tanto fervore di fede, tanta realtà di leggi diedero al Fascismo:
Alfredo… Enrico Corradini, Forges Davanzati.
54. Saranno stati rispettati i «sacrari» del Fascio?
52.Ci fu «congiura» contro di me? Sì, altrimenti
non si spiegherebbe il biglietto che il Maresciallo
Badoglio mi mandò nella notte del 25-26… e nel
quale si parlava di un «serio complotto contro la
mia persona».
53.È dal 23 ottobre del 1942 che la fortuna mi ha
voltato decisamente le spalle. La celebrazione del
ventennale fu turbata dai bombardamenti e dall’offensiva nemica in Libia...
54.I miei incontri nel Veneto con Hitler sono stati seguiti nelle due volte da avvenimenti ingrati.
55.17 agosto. Il mare sembra un lago alpino. Una enorme monotonia pesa su tutto...
Stento a credere che in casa
Farinacci si siano trovati 80 kg
d’oro...
Il Comandante del distaccamento che mi «protegge» è
il tenente Faiolo, laziale di Segni... Egli conobbe nel 1935 in
Eritrea Bruno e Vittorio, allora adolescenti, andati volontari. Il 24 agosto p.v. si compiono gli otto anni dal giorno
in cui partivano dall’Africa...
Erano gli anni 1935-1936 gli
anni «solari» nella storia dell’Italia e del Regime.
Vale la pena di averli vissuti... anche se oggi, tutte
le autorità di Roma sono incapaci di darmi notizie
di mio figlio e di mio nipote.
56. ...La morte improvvisa di Bruno fu una pre-
dilezione del destino: quanto avrebbe sofferto in
questi giorni.
57. Una voce mi dice: se tu fossi morto, non
avresti lasciato P.V. e V.T. e la Rocca delle Camminate e i parenti e gli amici e tutto ciò che ti fu caro?
La voce non tiene conto che ho lasciato tutto ciò,
da vivo. Però è come se fossi morto…
58. Verso le 17 di oggi 17
agosto è venuto — da me cercato — il parroco de La Maddalena... «Lasciate», egli ha
detto, «che vi parli sincero:
non sempre siete stato grande nella fortuna, ora dovete
essere grande nella sventura. Il mondo vi giudicherà
più da quello che sarete d’ora in poi, che da quel che eravate fino a ieri...».
59. Il tenente Faiolo... ci
dice che il Contrammiraglio
Bona gli ha detto che... Eden
ha dichiarato che «la Libia
non sarà più restituita all’Italia»…
60. Un mese fa vidi l’ultima volta a Riccione Romano, Anna, Guido, Adria.
61. Fisso nelle linee che seguono l’atteggiamento di Dino Grandi... dall’inizio del ‘43 sino al
luglio… Sino al febbraio, tale atteggiamento pareva chiaro. Dopo la crisi ministeriale... cominciò ad
“Anche nella mia
vicenda si vorrà
cercare la donna
Ora le donne
non hanno avuto
la minima influenza
sulla mia politica
E forse è stato male”
Il ritrovamento dell’originale dei “Pensieri” chiarisce un dubbio storico
Le parole di un “dead man walking”
NICOLA CARACCIOLO
l ritrovamento del testo originale, nei “National Archives” di Londra, dei Pensieri pontini e
sardi di Mussolini, scritti di pugno dall’ex dittatore, scioglie un vero e proprio piccolo enigma
storico. Finora questi Pensieri erano considerati
di incerta attendibilità. Del testo si conosceva infattisoltantounaversionesullacuiautenticitàc’era qualche sospetto. Ma andiamo per ordine: è
una storia complicata.
Dopo la caduta del regime, il 25 luglio del
1943, Mussolini, com’è noto, fu arrestato per ordine del re e trasferito prima a Ponza, poi alla Maddalena. Di lì
fu poi portato a Campo Imperatore sul
Gran Sasso dove venne liberato dalle
Ss del capitano Skorzeny. Il suo stato
d’animo era di autentica disperazione.
Scrive infatti: «Una profonda malinconia mi afferra. Sento che mio figlio Bruno è ora veramente morto». Bruno, aviatore caduto in guerra, era il figlio forse più
amato. Aggiunge: «Non so ancora cosa
sono, cosa sono diventato»; e constata:
«Gli argomenti di conversazione tra me e
i miei interlocutori si esauriscono e tra poco vigerà la regola della trappa: Silentium». Vede nel paesaggio qualcosa di
mortuario: «Calma di ferragosto, il mare
non ha un brivido, l’aria un soffio. Tutto
sembra fermo sotto il sole. Anche il mio destino». Si paragona a Napoleone nella sventura. Ponza come Sant’Elena. Annota ancora: «Ho lasciato Piazza Venezia, Villa Torlonia, la Rocca delle Caminate, i parenti, gli
amici e tutto ciò che mi fu caro. E ho lasciato
tutto questo da vivo. Però è come se fossi morto». E conclude: «Neppure Dio può revocare
ciò che è stato».
Il primo documentario che ho fatto per la
Rai su Mussolini e il fascismo, Tutti gli uomini del Duce, uscì con la consulenza storica di
Renzo De Felice — per me una guida e un maestro — nel lontano 1983. Da allora sull’argomento di documentari ne ho fatti tanti. Credo
di essere in assoluto il giornalista che ha più frequentato il materiale fotografico e cinematografico relativo. Ho a suo tempo riscoperto e tirato fuori il filmato sul salvataggio di Mussolini a
Campo Imperatore e poi sul suo incontro con Hitler pochi giorni dopo la stesura dei Pensieri. Il
Duce ha un cappellaccio a larghe tese, un cappotto scuro sdrucito, è mal rasato, ha una faccia
magra e tesa con gli occhi spiritati. È l’immagine
di un vecchio barbone con alle spalle una vita
sventurata, non quella di un capo di Stato.
Occuparsi come ho fatto io per tanti anni di un
I
essere ambiguo. In taluni circoli lo si chiamava
l’«attendista». In altri, lo si definiva senz’altro «anglofilo». Accusa, quest’ultima, ingiusta...
...Rividi il Grandi, il quale mi ringraziò in termini enfatici e mi disse testualmente: «Prima di incontrarti io ero un cronista del Carlino, un modesto giornalista. Tu mi hai creato. Io devo tutto a te.
Tutto ciò che sono diventato nella vita, è opera
tua. La mia devozione per te non ha limiti, perché
— lasciamelo dire — ti voglio anche bene».
Era sincero? In quel momento lo credetti.
...Le accuse di «attendismo» ripresero...
Giacché manifesto il passato degli uomini che
mi furono vicini, parlo anche di Bottai. Come soldato, valoroso; come scrittore velleitario... Più che
un volto la sua è una maschera. Non puro sino in
fondo al bicchiere...
63. Non ho avuto «amici» nella mia vita e più
volte mi sono domandato se ciò fosse un bene o un
male. Oggi rispondo che era un «bene». Oggi molta gente è così dispensata dal «compatirmi», cioè
dal «patire con me».
64. Chissà se al Museo della Guerra di Milano
sono ancora esposti e rispettati i cimeli di Bruno!
65. ...In data 30 (luglio, ndr) Göring mi spediva
questo telegramma: «Duce... vi saluto in questa
guisa in occasione del vostro compleanno... mia
moglie ed io vi trasmettiamo i nostri cordiali auguri per il vostro personale benessere...». Questo
telegramma mi ha convinto ancora di più che G. è
un amico dell’Italia.
66. Albini: mio errore delusione. Brutto nel volto e nell’anima. Sapeva tutto e non mi ha detto
nulla!
67. La mia figura giuridica sarebbe questa? Excapo del Governo protetto per sottrarlo al furore
del popolo.
68. 18 agosto (1937 o 38?) volo da Roma a Pantelleria e ritorno.
69. È difficile esagerare la gravità del trauma
psichico da cui deve essere stata colpita nella
notte del 25 luglio la Gioventù organizzata nella
«GIL»... Questa gioventù che era stata ammirata
in quasi tutte le nazioni d’Europa... dove andrà
domani? Verso sinistra, verso le idee più estreme; oppure, delusa e sfiduciata non crederà più
personaggio così ingombrante determina una
forse mal riposta simpatia umana. Il Mussolini dei
Pensieri, quest’uomo prematuramente invecchiato, sconfitto, malato, che ricorda il figlio morto, si preoccupa per la moglie Rachele, o per l’altro
figlio Vittorio di cui non ha notizie, è indubbiamente patetico. Tuttavia c’è qualcosa che stride,
come una sordità morale: il Paese è a pezzi, la politica del Duce ha causato immense sciagure, immensi dolori. Alla tragedia di un popolo martoriato l’ex Duce non dedica nemmeno una riga.
Ma perché finora l’attendibilità di questo testo
pareva dubbia? Nell’opera omnia di Mussolini
(curata dai fratelli Edoardo e Duilio Susmel) è stata pubblicata — sembra un gioco di parole — la
traduzione italiana della traduzione tedesca. L’originale era scomparso. Copre il periodo tra il 27
luglio e il 20 agosto, prima che il Duce venisse trasferito nell’Italia centrale. Lo scritto cadde in mano dei nazisti che lo fecero tradurre. Poteva servire a capire qualcosa della psicologia e delle intenzioni di Mussolini, l’uomo che Hitler in passato
aveva tanto ammirato. Di questa traduzione il
Führer pare abbia ricevuto una copia accompagnata da un breve resoconto del 25 luglio. Hitler
non rinnegò mai Mussolini però qualche dubbio
cominciava ad averlo. Si confiderà con una delle
anime più nere del nazismo, Göbbels, che scrisse
nel diario: «Il Duce non ha tratto dalla catastrofe le
conclusioni che il Führer si aspettava. Non pensa
a vendicarsi». Conclude: «Il Duce a differenza di
Hitler e di Stalin non è un vero rivoluzionario. Il
Führer è deluso».
Comunque gli originali del testo dei Pensieri
vennero bruciati al momento del crollo della Germania nazista. Un ufficiale delle Ss ne salvò tuttavia una copia appunto nella traduzione tedesca.
Se la tenne nascosta per qualche anno poi si decise a farla pubblicare su un giornale austriaco il
Salzburger Nachrichten: troppi passaggi. C’era
quindi il timore di manipolazioni. Grazie alla copia rinvenuta da Repubblicaoggi sappiamo che il
testo pubblicato a suo tempo è nella sostanza
esatto anche se c’è per la doppia traduzione qualche variazione nella scelta dei vocaboli e nel giro
delle frasi. I Pensieri pontini e sardirivelano quindi davvero lo stato d’animo di Mussolini. Sta per
cominciare la Repubblica di Salò, il momento più
feroce e forsennato del fascismo. Mussolini, prima di rientrare nella fornace, sembra avere una
sola speranza, quella di morire. Firma in quei giorni qualche lettera «Mussolini defunto», il che storicamente non è senza significato. Nelle prigioni
americane il passaggio di un condannato a morte
viene annunziato col grido «dead man walking»,
uomo morto che cammina.
Repubblica Nazionale
DOMENICA 22 LUGLIO 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
ROMA BOMBARDATA
Nelle foto, da sinistra,
case distrutte a Roma
dopo il bombardamento
sul quartiere di San Lorenzo
Benito Mussolini con la moglie
Rachele e i figli a Villa Torlonia
Saluto al Duce al momento
della fuga dal Gran Sasso
a bordo di un aereo tedesco
La foto grande di Mussolini
che illustra questa pagina
e la pagina precedente
è stata scattata al Gran Sasso
in occasione della fuga
Nella foto di copertina,
Benito Mussolini alla scrivania
a Palazzo Venezia
a nulla e a nessuno.
70. È tornato dal Continente un maresciallo, tale Daini di Ciociaria, e ho scambiato con lui quattro parole. È un uomo schietto, di modeste facoltà
mentali, per cui le sue parole hanno un certo sapore.
71. Fra gli umili che mi hanno servito ne voglio
ricordare due: Ridolfi e Navarra. Il primo per
vent’anni ha cavalcato accanto a me tutte le mattine o quasi. È stato il mio maestro di scherma e di
equitazione. Scrupoloso, disinteressato, fedele
nel vero senso della parola. Gli avranno fatto delle miserie? Navarra è stato il capo dei miei uscieri… Educato, discreto, rispettoso, anche lui disinteressato. Una parola di elogio va detta anche per
il mio autista Borath (il nome esatto è Boratto, ndr)
che ha rischiato la pelle con me negli attentati e
salvo un cane ucciso a Montefrosinone non ha
mai avuto il minimo incidente di macchina, pur
essendo portato a correre velocemente.
72. E dopo gli uomini, perché non dovrei ricordare gli animali? Anch’essi sono stati nella mia vita. Sono i nomi dei cavalli Ruzowich, Ziburoff,
Ned, Thiene, Fron... E i cani Carlot (brutto ma intelligentissimo), Bar, il cane di Bruno. Esso stette
alcuni giorni accovacciato davanti alla stanza di
Riccione, dov’erano le cose di Bruno. Fedeltà di
una bestia!
73. 19 agosto. Se così può chiamarsi la mia settimana di passione comincia esattamente un mese fa col mio incontro col Führer a Feltre. Tale incontro era stato progettato di una durata di quattro giorni... senonché gli avvenimenti di Sicilia lo
fecero anticipare al 19 luglio e ne fissarono la durata a un giorno solo...
Il convegno ebbe inizio alle ore 12... il Führer cominciò a parlare per due ore... il mio segretario entrò nella sala e mi consegnò una telefonata da Roma che diceva: «Dalle ore 11 Roma è sottoposta a
intenso bombardamento aereo». Comunicai la
notizia al Führer e agli astanti... creò un’atmosfera pesante di tragedia...
Terminata l’esposizione del Führer, ebbi un
primo scambio di vedute a quattr’occhi. Egli mi
disse due cose importanti: la prima che la campagna sottomarina sarebbe stata ripresa con altri mezzi e che a fine agosto la flotta aerea della
rappresaglia avrebbe cominciato ad agire su
Londra...
Fu solo nell’ora trascorsa in treno che feci chiaramente intendere quanto segue: e cioè che l’Italia reggeva — ora — l’intero peso di due imperi come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti... Egli mi disse che avrebbe mandato altri rinforzi aerei e nuove divisioni per la difesa della penisola…
Quando l’aeroplano del Führer partì... decollai anch’io facendo rotta direttamente su Roma... Vidi una grande densa nube che offuscava
l’orizzonte. Era il fumo degli incendi della stazione del Littorio… centinaia di vagoni bruciavano, le officine distrutte... lo stesso spettacolo
al deposito locomotive e al quartiere San Lorenzo. I danni apparivano immensi. Scesi all’aeroporto di Centocelle. Dirigendomi a Villa Torlonia rimontai un’immensa fiumana di gente che
a piedi e con ogni veicolo si dirigeva verso la
campagna. La città aveva un aspetto buio… Nei
giorni successivi mi recai a visitare alcuni dei
luoghi più colpiti... ma ordinai che non se ne parlasse sui giornali.
74. Il molto atteso ammiraglio Brivonesi, tornato stamane 19 da Roma, ha rotto il mio isolamento portandomi una lettera di mia moglie in
data 13 agosto, nella quale mi dice che anch’essa praticamente è isolata, che non ha telefono e
che vive in continuo allarme, non so se aereo o di
altra natura...
Poi in una lettera l’ammiraglio Brivonesi mi comunica... che Vittorio è riparato all’estero ed è stato dichiarato disertore, la qual cosa mi dispiace
immensamente, che Vito è alla Rocca... Circa la
mia posizione personale niente di nuovo.
75. Qui finisce il primo quaderno dei Pensieri
pontini e sardi, ore 15 del giorno 20 agosto 1943.
Repubblica Nazionale
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 22 LUGLIO 2007
Sandro Luporini ha lavorato per quarant’anni
al fianco di colui che egli stesso chiamava
il “Brel italiano”. Insieme hanno condiviso
tutto: arte e miseria, passioni e delusioni politiche, sofferenze
e successi. Ora, per la prima volta e mentre si preparano
le celebrazioni per l’anniversario della morte dello chansonnier,
“Lupo” apre i suoi cassetti e sfoglia per noi
le pagine fittissime scritte a quattro mani
in giornate di rabbia, ispirazione e nicotina
Gaber
segreto
DARIO CRESTO-DINA
C’
VIAREGGIO
è un luogo dove il signor G. continua a vivere, all’insaputa di tutti
noi. Si trova da qualche parte dentro un uomo che è stato il prolungamento, non si sa in quale punto innestato, se nei
piedi, nella testa o nell’anima, di quel corpo che pareva potersi tirare e torcersi all’infinito contro il fondale di un palcoscenico. Guardi le foto che li ritraggono uno accanto all’altro, i gomiti che si toccano, e
intuisci che devono essere ancora lì, in qualche loro
rifugio segreto. A discutere, a fumare, a ridere di noi.
Gaber scrive le sue canzoni su fogli bianchi, senza righe. Lettere tonde, parole distanziate, qualche volta
in stampatello. Numeri ai margini della pagina, forse un riferimento alla metrica. Annota i temi che vuole affrontare. Stampa, Giustizia, Borsa, Partiti, Potere, Vaticano, Burocrazia. Alcuni li sottolinea, altri li
cancella con un rigo. Gli piacciono i pennarelli blu,
ma predilige un blu che tende all’azzurro, per le correzioni e i cambi di rotta adopera quelli neri. Luporini ha una vecchia agenda con la copertina di pelle
marrone consumata dalle mani sue e da quelle di
Giorgio. Le pagine ingiallite sono fitte di appunti. Usa
una stilografica con un pennino fine e morbido.
Lampi, bellissimi: «La Settimana enigmistica ha la
capacità di assumere in sé due concezioni del mondo opposte. Infatti, di alcuni quiz, la soluzione non
c’è e bisogna aspettare la prossima Settimana, uguale “Storia”. Di altri esiste a
pagina 44, uguale “Dio”».
Se ci sono uomini che riescono a vivere con due cuori tanto da consentire a
quello di una persona che si
è molto amata di continuare a battere anche dopo la
sua morte o il suo addio, uno
di questi è Sandro Luporini.
Mentre a ottobre, a quasi
cinque anni dalla scomparsa avvenuta il primo gennaio 2003, la fondazione diretta dalla figlia Dalia, in collaborazione con il Piccolo
Teatro, dedicherà a Gaber
due settimane di incontri,
spettacoli e inediti a Milano,
un’iniziativa che ripercorrerà tutta la sua straordinaria carriera, Luporini accetta di raccontare i sentimenti e le anse più nascoste di un’amicizia e una simbiosi artistica durate più di quarant’anni. Lo fa nella
sua piccola casa di Viareggio, dalla quale non si vede
il mare che lui immagina soltanto e dipinge dentro un
minuscolo studio con una finestra ancora più piccina
affacciata sulle nuvole lunghe e sottili che aderiscono
perfettamente alla sommità del cielo. Nei suoi quadri
il mare è sempre grigio. È un mare di lavoro, di fatica,
non di villeggiatura e castelli di sabbia. Quasi sempre
d’inverno. Giovani donne camminano senza che i loro piedi tocchino terra, uomini imbacuccati in lunghi
cappotti trascinano sulla battigia la loro solitudine
“Non ci siamo mai scritti,
non ci siamo mai detti
grazie. Sappiamo una cosa
entrambi: che nella vita
si soffre solo per amore
Il resto sono preoccupazioni”
I RICORDI
Nella foto grande
Giorgio Gaber
e Sandro Luporini
sulla scena
dello spettacolo
Il grigio; qui in alto,
Notte di Carnevale
sulla spiaggia (2002)
di Luporini; Gaber
e Ombretta Colli
in viaggio di nozze
in Marocco nel ’65
come in un tempo sospeso, clown e fate dolenti all’ultima notte di carnevale sotto la luna pallida cercano di farsi vicendevolmente coraggio con sguardi
muti per togliere la maschera della giostra e rimettersi addosso quella di tutti i giorni.
Lupo ha settantasette anni, una figlia di quattordici, una fidanzata di ventidue che lo ha appena chiamato per dirgli che ha preso trenta all’università e una
faccia che è un misto tra John Wayne e Jack Lemmon.
È lungo, magro, porta camicia e pantaloni azzurri. Da
ragazzo studia ingegneria e legge libri su Van Gogh. Si
innamora di Morandi e De Chirico. Nel ’52 va a Roma.
«Ma Roma è solo cinema, anzi er cinema. Pensano solo a quello. A teatro non vanno oltre Zio Vania e Goldoni, mentre a Milano già si mette in scena Ionesco,
Beckett, Brecht. E c’è Strehler. Allora mi dico: è a Milano che devi andare. Scopro una città magnifica, all’avanguardia, accogliente. I tassisti apostrofano i
meridionali con un hei terùn, ma c’è un non so che di
affabile e scherzoso nella battuta, quasi un abbraccio
che scalda». Apre scrivanie, sfoglia libri, cerca come
chi si prende gioco di te, come chi non vuole dividere
i ricordi con uno straniero. «Non ho più niente di
Giorgio». Mi mostra una chitarra che tiene sopra un
armadio. «Un suo regalo, tento qualche accordo, ogni
tanto. Io gli ho dato in cambio Minima Moralia di
Adorno. Io e Giorgio non ci siamo mai scritti una lettera, non ci siamo mai detti grazie. Abbiamo conservato una verecondia antica, abbiamo persino il pudore di abbracciarci. Negli anni più recenti al termine dello spettacolo lui mi chiama sul palco, io mi nascondo, ho sempre il timore di inciampare nei gradi-
ni e nella mia timidezza. Siamo anche poco atti a raccontarci le cose intime, i nostri stati d’animo, l’amore. Sappiamo una cosa entrambi, cioè che nella vita si
soffre soltanto per amore. Il resto sono preoccupazioni». Nel ’59 Luporini a Milano abita in via Procaccini con i colleghi pittori Banchieri, Martinelli e Ferroni, assieme confluiranno nel gruppo del realismo
esistenziale. Ha ventinove anni. Il ventenne Gaber sta
lì vicino, in via Landonio. Si sfiorano per il cappuccino al bar Sempione, fino a quando Luciano, un amico comune, li fa incontrare. «Io canto», dice Gaber. «Io
dipingo, ma verrò a sentirti», risponde Lupo. «La prima volta vado in una balera nei pressi di Varese. Canta in inglese, una roba rock. Non capisco un cazzo, ma
resto affascinato dalla sorprendente energia che sprigiona quel corpo magro e secco. La nostra amicizia
comincia così, una simpatia anche fisica, senza scomodare l’omosessualità. Giorgio ha sete di conoscere, esce da ragioneria, io ho già letto Platone e RobbeGrillet e ho un cassetto pieno di poesie. Lui è allegro,
divertente. Giochiamo a calcio balilla, a biliardo, a
scacchi. Più che di politica ci piace parlare dell’atteggiamento verso la vita. Siamo molto politici senza fare politica, senza alcuna simpatia nei confronti dei
politici. Un giorno mi dice: scrivimi una canzone. Lo
faccio. Nasce Il signor G. incontra un albero». Gaber la
interpreta per gioco in casa, le sere in cui invita un po’
di gente. Verrà recuperata nei Borghesi, quando Giorgio abbandona la tv e con Sandro inventa il teatro canzone. Cominciano gli anni Settanta, il debutto al Piccolo con il primo spettacolo firmato assieme, dal titolo Dialogo tra un impegnato e un non so. Non si fermano più. Lavorano a Viareggio, poi alla Padula, l’ex
convento che Gaber compra a Montemagno di Camaiore, sopra il mare della Versilia. «Ogni volta parliamo per venti giorni, un mese, senza prendere un
appunto. Trovato il titolo e gli argomenti, ci barrichiamo in una stanza dalle tre del pomeriggio alle otto di sera. Fumiamo una sessantina di sigarette ciascuno, la stanza diventa una camera a gas. Io scrivo
come un forsennato, anche cinquanta pagine in
un’ora, lui taglia questo fiume di parole, perché è
Giorgio l’architetto. Ha il senso del passo, della ritmica, una rara speculazione del pensiero, un’intelligenza a cuneo. È quello che fa i salti mortali tra le mie
sestine e ottavine e mette a posto le cose. Se me la
prendo e gli dico: “Cristo santo, quel pezzo potevi lasciarlo”, lui mi zittisce: “Sandro basta, il pubblico si
stanca presto”. Io copio a man bassa da Céline, il più
grande, pesco un po’ di Borges, rubo a Shakespeare e
Pessoa. Ci divertiamo come matti. Io gli dico: Giorgio, tu sei come Brel mentre De André è il nostro Brassens. E io sono un pittore al quale hai donato la parola per dire cose che con il suo mestiere non sarebbe
riuscito a esprimere».
Li affascina la prima fase del Sessantotto, quella antiautoritaristica. Contro la famiglia, contro la scuola,
contro lo Stato. Li delude la svolta politica della ribellione, ne prendono le distanze nel ’77 con la messa in
scena di Polli di allevamento. Attaccano la sinistra, litigano con l’Unità, per una battuta sui “grigi compagni” di Io se fossi Dio si vedono negare i teatri dell’Emilia, si stancano presto di Craxi, quasi risparmiano
Berlusconi. Gaber soffre il passaggio della moglie
Ombretta Colli nelle file di Forza Italia, eppure non c’è
solo questo. «Ci è più congeniale picchiare i vicini
Repubblica Nazionale
FOTO DI ENRICA SCALFARI
I taccuini del Signor L
l’altra metà del Signor G
DOMENICA 22 LUGLIO 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
L’INEDITO
Voi, figli rassegnati
a un mondo di noia
GIORGIO GABER E SANDRO LUPORINI
o, quella volta lì, avevo sessant’anni. Eravamo nel 2000 o giù
di lì. Praticamente ora. E vedendo le nuove generazioni, i venticinquenni di ora così diversi mi domando: che eredità abbiamo lasciato ai nostri figli? Forse, in alcuni casi, un normale benessere. Ma non è questo il punto. Voglio dire... un’idea, un sentimento, una morale, una visione del mondo... No, tutto questo non lo vedo.
Allora ci saranno senz’altro delle colpe. Sì, il coro della tragedia greca: i figli devono espiare le colpe dei padri.
Siamo stati forse noi padri insensibili, autoritari, legislatori di stupide
istituzioni? No. Allora dove sono le nostre colpe. Un momento, era troppo facile per noi essere pacifisti, antiautoritari e democratici. I nostri padri
avevano fatto la Resistenza. Forse avremmo dovuto farla anche noi, la Resistenza. È sempre tempo di Resistenza. Perché invece di esibire il nostro atteggiamento libertario non abbiamo dato uno sguardo all’avanzata dello sviluppo insensato? Perché invece di parlare di buoni e di cattivi non abbiamo
alzato un muro contro la mano invisibile e spudorata del mercato? Perché
avvertivamo l’appiattimento del consumo e compravamo motorini ai nostri figli? Perché non ci siamo mai ribellati alla violenza dell’oggetto?
Il mercato ci ringrazia. Gli abbiamo dato il nostro prezioso contributo.
Ma voi, sì, voi come figli, non avete neanche una colpa?
Dov’è il segno di una vita diversa? Forse sono io che non vedo. Rispondetemi: dov’è la spinta verso qualcosa che sta per rinascere? Dov’è la vostra individuazione del nemico? Quale resistenza avete fatto contro il potere, contro le
ideologie dominanti, contro l’annientamento dell’individuo?
D’accordo, non posso essere io a lanciare ingiurie contro la vostra impotenza.
C’ho da pensare alla mia. Però spiegatemi perché vi abbandonate ad un’inerzia così silenziosa e passiva? Perché vi rassegnate a questa vita mediocre senza l’ombra di un desiderio, di uno slancio, di una proposta qualsiasi? Forse il
mio stomaco richiede qualcosa di più spettacolare, di più rabbioso, di più violento? No! Di più vitale, di più rigoroso, qualcosa che possa esprimere almeno
un rifiuto, un’indignazione, un dolore…
Quale dolore? Ormai non sappiamo neanche più cos’è, il dolore! Siamo caduti in una specie di noia, di depressione... Certo, è il marchio dell’epoca. E quando la noia e la depressione si insinuano dentro di noi tutto sembra privo di significato.
Si potrebbe dire la stessa cosa del dolore? No!
Il dolore è visibile, chiaro, localizzato, mentre la depressione evoca un male
senza sede, senza sostanza, senza nulla... salvo questo nulla non identificabile
che ci corrode.
I
I DOCUMENTI
Dall’alto:
il testo del ’72 di L’ingenuo;
quello di Il potere dei più buoni
del ’97 e un appunto
dall’agenda di Luporini
sulla Settimana enigmistica
della seconda metà
degli anni Settanta
piuttosto che gli estremamente lontani, meglio
bastonare i compagni che Andreotti. Ma decidiamo anche che sulla politica non c’è più nulla da
dire. Giorgio e io siamo dei veri comunisti, i soli
rimasti. Crediamo nel comunismo antropologico, stessi diritti e stessi bisogni alla nascita per ogni essere umano, e non assolviamo questa sinistra che non
è più sinistra, una sinistra che quando va al potere diventa quasi di centrodestra. Ci è cara una frase del
subcomandante Marcos: bisogna sempre combattere
il potere per non prenderlo. Il potere, prima o poi, si
estingue da solo. Sepolta la politica, ci restano i sentimenti». Li raccontano, li mettono in musica. Sono tre
le canzoni che non dimenticheranno mai e di cui vanno orgogliosi: Il dilemma, Quando sarò capace di
amare e Illogica allegria.
Gaber si ammala di cancro, Luporini continua a
stare con lui, su alla Padula, tra le colline. Scrivono
uno spettacolo in prosa di sei racconti, più un’introduzione e un epilogo (inedito pubblicato in queste
pagine) che devono essere intervallati da una canzone. Lo chiamano Io quella volta lì avevo 25 anni.
Rimarrà in un cassetto. «Siamo alla fine. Giorgio non
riesce più nemmeno a sollevare la chitarra. Ma facciamo finta di lavorare, facciamo finta di essere sani. Lui rivela un coraggio incredibile. Come ha saputo amare, sa soffrire. Una delle ultime sere mi dice:
“Purtroppo non si muore mai”. Quando succede,
smetto di scrivere. Per tre anni non riesco più a prendere la penna in mano». Un giorno ricorda le parole
di Gaber: «Vivi sempre come un bambino». Allora lo
fa: «Come se avessi davanti altri cent’anni di stupori». Oggi Luporini, l’uomo nel quale battono due
cuori, scrive di nuovo.
L’ultima risata di un anti-italiano
sui professionisti del culto postumo
MARCO TRAVAGLIO
Mordacchia Mastella
FRANCESCO MERLO
CINZIA SCIUTO
Chiesa pigliatutto: le carte
truccate dell’otto per mille
ono tra quelli che amano Marx, ma non sopportano i marxisti. Allo stesso
modo, non sono un gaberista. Peggio: da morto, Gaber non mi piace più.
Penso infatti che in Italia la gran parte degli omaggi funebri sono sigilli cimiteriali, pietre tombali che chiudono ermeticamente e definitivamente i sarcofagi. E dunque anche Gaber, che da vivo sfuggiva all’appartenenza e non voleva
consegnarsi «a quei bordelli di pensiero / che chiamano giornali», da morto ha
avuto i suoi becchini, e ovviamente in molti lo hanno tumulato per pareggiare i
conti della serva.
A sinistra, quelli che egli aveva ridicolizzato e che sempre più lo trattavano come
un ospite impresentabile, come un qualunquista (o, peggio, come un traditore per
vie coniugali) si sono presi la rivincita sul morto: oggi sono diventati tutti “gaberiani”. Potesse vederli, sono sicuro che il poeta degli sconfortati che non trovano mai
la posizione comoda, che lo sgraziato e affascinante mimo che introduceva la distanza cantando la vicinanza, li tratterebbe con il solito devastante sarcasmo, beccando a nasate la malafede celebrativa dei «colitici psicosomatici».
Più facile da immaginare è l’ironia che riserverebbe alla destra che, lui vivo, si
era frustrata in manovre di accostamento, e adesso che è morto e sepolto incredibilmente si riconosce nel “Gaber giovane”, si è appropriata dello stralunato
compagno che cantava il «Primo maggio di lotta e di coraggio», del malinconico
poeta di ringhiera, di quello che fischiava «in un cortile largo fatto a sassi». Ricordate? Berlusconi ai funerali arrivò a dire: «È stato il cantautore della mia Milano, quello della mia giovinezza». Evidentemente scambiava Il Giambellino
con Milano 2. Ma ve lo immaginate il giovane Silvio che canta alla luna «nelle
strade di notte»?
La verità è che Gaber, che ha sempre cantato il disagio della inadeguatezza,
l’ossimoro dell’anarchia solidaristica, l’impossibile solidarietà dell’individualista, ha lasciato un disco postumo che si intitola Io non mi sento italiano. Anch’egli faceva parte dei grandi italiani anti-italiani, grandi di varie grandezze, dai
Manzoni sino ai Gassman. Perché ci sono solo due modi di essere italiano. O assumendo su di sé i vizi e i difetti d’Italia, o sentendosi sempre altrove, sempre contro, sempre fuori. Potesse vedere come l’hanno ridotto, cosa farebbe, secondo
voi, Giorgio Gaber? Secondo me si farebbe uno shampoo.
S
GIOVANNA
CORRIAS LUCENTE
Il business
della diffamazione
CATERINA MALAVENDA
Una proposta democratica,
dunque indecente
GIAN CARLO CASELLI
ORESTE FLAMMINII MINUTO
GAETANO PECORELLA
LUCIANO VIOLANTE
Il bavaglio bipartisan,
ovvero la legge Mastella
contro la libertà di stampa
GIUSEPPE GIUSTOLISI
e MARCO TRAVAGLIO
Anna Finocchiaro, vita e opere
di una Ségolène con l’inciucio
FURIO COLOMBO
Sotto il “riformismo”, niente
MASSIMO CACCIARI
Partito democratico?
Purché federalista
PANCHO PARDI
OLIVIERO DILIBERTO
GIANFRANCO BETTIN
MARCO REVELLI
La partitocrazia
può essere di sinistra?
Repubblica Nazionale
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 22 LUGLIO 2007
i sapori
Sgargiante e colmo di vitamina C, straordinariamente piccante
in alcune varietà, ha dimostrato in cucina una versatilità
che ha ben pochi paragoni. È buono crudo o cotto, intero
o a filetti , accoppiato con carne o con pesce, pasta e riso
Verdure a colori
E adesso è partito alla conquista delle ricette dolci,
cominciando dai dessert per finire in gelateria...
Peperoni
I belli dell’orto innamorati del caldo
LICIA GRANELLO
n gelato al limone», cantava Paolo Conte. Nessuno canterebbe mai
un gelato al peperone. Eppure, è un vero godimento per il palato,
tanto che a Senise, terra benemerita per il prodotto più carnale dell’orto, la seconda settimana di agosto bar e pasticcerie faranno a gara per realizzare coni e coppette golosissime. Siamo tradizionalisti:
i peperoni sono verdura, e quindi da collocare nella casella del “salato”. Eppure, le tante ricette in agrodolce dovrebbero insinuare una piccola crepa nel nostro castello di certezze gastronomiche. I fortunati che hanno assaggiato gli strabilianti fagottini di fagioli e peperoni con crema al peperoncino di Fulvio Pierangelini — dessert impossibile da gustare oltre il secondo boccone senza chiedere un bis preventivo — sanno
quanto poco valgano nella cucina d’autore le divisioni tra dolce e salato.
Il peperone è così: sfrontato, intenso, tanto pieno di colori da poter simboleggiare il potere della cromoterapia: rosso, giallo, verde, ovvero vitamine a gogo (C in primis, con percentuali maggiori che in pomodori e agrumi!). In più, l’esile manciata di calorie lo rende perfetto — arrostito, con un filo d’olio e un trito di odori — per un antipasto dietetico ma tutt’altro che punitivo nel sapore.
Se il fuori è sgargiante, l’interno è infuocato: merito della capsicina, alcaloide che conferisce il tipico gusto piccante, annidata nella parte membranosa biancastra. La presenza di
capsicina si misura con la scala Scoville: se nel peperone dolce la quota massima è di 500
unità, nell’Habanero si arriva fino a 300.000, roba da vigili del fuoco...
Eliminata la buccia, che può appesantire il lavoro dello stomaco, l’unica altra controindicazione è di tipo familiare. Come pomodoro, melanzana, tabacco e patata, infatti, il peperone appartiene alle solanacee. Come dire, ortaggi a rischio di intolleranze (tutta colpa
della solanina, altro alcaloide lievemente tossico).
A completarne la personalità intrigante, i fiori ermafroditi e quindi capaci di autofecondarsi senza attendere l’operoso spendersi degli insetti da una pianta all’altra. Una fioritura
tanto prolungata da far scoprire sullo stesso fusto infiorescenze e frutti (bacche) a diversi
punti di maturazione, così da poterli raccogliere freschi per molte settimane consecutive.
Tanto sfacciato quanto modesto: Eduardo De Filippo lo celebra come protagonista nelle sue ricette di cucina povera e popolare all’ombra del Vesuvio. Perché col peperone si può
far di tutto: cuocerlo intero o in filetti, addentarlo crudo come natura l’ha fatto, battezzato
con una lacrima d’extravergine grintoso e un grano di fleur de sel o immerso nella perversa,
irresistibile bagna caoda (salsa calda di aglio, olio e acciughe), accoppiarlo con carne o pesce, pasta e riso, frutta e verdura, zucchero e sale, olio e aceto, farne salse, gelatine, biscotti.
Sulle rive del Mediterraneo, dalla Puglia alla Turchia, per sopperire all’astinenza invernale dei frutti coltivati en plein air (le serre non rendono mai merito ai profumi scatenati dalla maturazione al sole, assaggiare per credere) è diffusa la pratica dell’essiccazione. Due, tre
giorni dopo averli appoggiati su teli o reti lontano dalla luce, s’infilano dal lato dei peduncoli con uno spago sottile. Le collane, esposte all’aria perché perdano l’acqua residua, diventano monili da appendere in cucina, facili da ritrasformare in cibo tagliandoli fini o dando loro qualche attimo di bollore.
Ma il loro vero trionfo è nelle ricette d’estate. Innamorati del caldo, si esaltano nel gazpacho andaluso, farciti al forno, con l’insalata di pasta. Se poi frullate la peperonata raffreddata insieme a qualche foglia di basilico e mentuccia, diventeranno impagabile salsa da crostini. Un bicchiere di Sauvignon — profumo di foglia di peperone! — vi accompagnerà nella cena fredda più appetitosa dell’estate.
«U
Quadrato
Croccante, spesso, uniforme
nella pezzatura, ha sapore
dolce e aromatico, colore
variabile tra giallo e rosso
Famoso quello di La Motta,
frazione agricola
di Costigliole d’Asti
Corno di bue
Ha forma conica e molto
allungata. Polpa
compatta
e colore netto lo rendono
adatto per le conserve
È la varietà d’elezione
per il piatto-culto
piemontese bagna caoda
Trottola
Dimensioni contenute,
forma a cuore, consistenza
molto carnosa, colore
soprattutto giallo (tre quarti
della produzione) e rosso
Ottimo per le conserve
Tra le varietà, quarantino
e pimento
Topepo
Il peperone-pomodoro
deve il nome alla superficie
costoluta e al contorno
sferico. Ha colore verde
intenso che vira al giallo
e al rosso quando matura
La polpa è spessa e dolce
Ottimo anche sotto aceto
‘‘
Isabella Quarantotti
De Filippo
Eduardo aveva invitato
a pranzo Nilde Iotti,
una gran bella persona,
e voleva farle assaggiare
i mucilli
Così vengono
chiamati a Napoli
i peperoni imbottiti
di spaghetti, e cioè micini,
perché, messi stretti stretti
in una teglia da forno,
sembrano una nidiata
di gattini appena nati
Da Si cucine cumme vogli’i’...
La cucina povera di Eduardo
de Filippo raccontata
dalla moglie Isabella,
Guido Tommasi Editore
31
le calorie per cento grammi
di peperone
51%
della produzione proviene
da coltivazioni del sud
14.000
gli ettari dedicati
alla coltura del peperone
Papacella
Battezzato riccia
per la superficie diseguale,
ha polpa carnosa
e molto saporita
Viene impiegato
in sottaceti e sottoli,
o farcito con ripieno di tonno,
alici, mollica e pomodorini
Repubblica Nazionale
DOMENICA 22 LUGLIO 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43
Carmagnola (To)
itinerari
Il toscano
Maurizio
Galligani
è il garbato,
colto proprietario
del ristorante
“La Refezione”
di Garbagnate Milanese,
dove si alternano
ricette tradizionali
e rivisitazioni intelligenti
Tra i piatti più golosi
del suo menù, una soave
terrina di peperoni
con melanzane e ricotta
Senise (Pz)
Martina Franca (Ta)
Nome
ultramillenario
per lo storico
polmone agricolo
della provincia
torinese
Le quattro varietà
coltivate in zona —
quadrato, trottola,
corno di bue e tumaticot — protette dal Presidio Slow
Food, vengono festeggiate tra agosto e settembre
Il bel borgo lucano,
impreziosito
dalle sue ricchezze
architettoniche,
è l’epicentro
di una zona
benedetta
per la produzione
del peperone
crusco Igp. Tredici i comuni interessati, affacciati
sulle valli del Sinni e dell’Agri, parco del Pollino
Impreziosita
dal bel centro storico
barocco,
è appoggiata davanti
alla Valle d’Itria,
punteggiata di trulli
La cucina manda
in passerella
gli ortaggi
della campagna, a cominciare dai peperoni, fritti,
arrostiti o farciti a mo’ di involtini
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
AGRITURISMO LA BENVENUTA (con cucina)
Via San Pietro 10
Tel. 011-9795062
Camera doppia da 55 euro, colazione inclusa
AGRITURISMO COSTA CASALE
contrada Vito Chiaromonte
Tel. 0973-642346
Camera doppia da 55 euro, colazione inclusa
CASABELLA B&B
Via Tiro a segno 6
Tel. 080-4303647
Camera doppia da 90 euro, colazione esclusa
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
LA TORRE
Via Carlo Costa 17/a
Racconigi
Tel. 0172-811539
Chiuso lunedì sera e martedì, menù da 25 euro
LUNA ROSSA
Via Marconi 18
Terranova di Pollino
Tel. 0973-93254
Chiuso mercoledì, menù da 30 euro
CIACCO
Via Conte Ugolino 14
Tel. 080-4800472
Chiuso lunedì
Menù da 35 euro
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
BANCARELLE CONTADINE
lungo la statale
Carmagnola-Poirino
ORTOFRUTTA GAZZANEO
Via Carlo Marx 17
Tel. 0973-585000
ORTOFRUTTA DOMENICO TOPO
Via della Libertà 34
Tel. 080-4808094
È lo Zelig
degli ortaggi
MARINO NIOLA
embrerebbe un cibo se non fosse per il suo
sapore strano e intenso. Con queste parole
Cristoforo Colombo, esploratore dei mari,
ma anche esploratore del gusto, annuncia all’Occidente la scoperta del peperone.
Proprio come gli uomini del Nuovo mondo, anche i loro cibi suscitano diffidenza. Se i nativi americani appaiono ai bianchi come degli pseudoumani, i loro cibi sembrano degli pseudo-alimenti. D’altra parte il povero ammiraglio del Gran Mare Oceano bisogna anche capirlo. Abituato a rape,
fave e fagioli il suo palato non poteva che naufragare nei vertiginosi abissi di sapore del peperone.
Con questo edificante esempio di eurocentrismo militante comincia l’avventura europea del
“pepe d’India”. Così viene chiamato all’inizio per
il suo gusto forte come quello del pepe. Tanto sapido e profumato che gli spagnoli lo scambiano
per una spezia e lo importano sicuri di fare un
grande business, come con la noce moscata, la
cannella, lo zafferano e il cacao. Ma fanno i conti
senza la prodigiosa capacità del peperone, dolce e
piccante, di adattarsi a tutti i climi. In pochi decenni orti e giardini d’Europa e d’Africa si popolano di peperoni di ogni colore e dimensione. Così il
sogno monopolistico dei conquistadores fallisce miseramente. Ogni contadino, anche il più povero, può fabbricarsi la
sua dose di pepe d’India. Prezioso
esaltatore di sapori, la spezia dei
poveri conquista le nostre tavole con una irresistibile spinta
dal basso. Mentre l’aristocrazia si sazia di carni grasse farcite di tartufi, insaporite da
chiodi di garofano, zafferano e
cannella, i poveri, maestri nel
fare di necessità virtù, inventano capolavori di gastronomia
democratica. Che costituiscono
ancora oggi un patrimonio di sapori con pochi eguali al mondo.
Dal Piemonte alla Sicilia sua maestà il peperone regna sovrano sulle
mense del Bel Paese. Crudo e cotto, arrostito e fritto, secco e in polvere, buono
con carni e pesci. Sublime con la pasta.
Contenitore e contenuto, imbottito e imbottitore, dolce e piccante. Contorno speciale per colpi di teatro gastronomici grazie anche
ad una fantasmagoria di colori che sembra fatta
apposta per appagare insieme l’occhio e il palato.
Sottaceto al nord, spellato vivo al sud, questo
jolly della cucina pop si trova dovunque. E ovunque rispecchia l’identità alimentare del luogo, ne
prende i sapori e i profumi. Il mimetismo di questo Zelig degli ortaggi ha dato vita ad un ampio
spettro di variazioni locali. Dal peperone con le
acciughe, gloria degli antipasti piemontesi, alle
peperonate lombardo-venete fino alle peverade
che esaltano il gusto dei bolliti padani. E scendendo giù per lo Stivale lo si ritrova sposato con il baccalà come lungo il Tirreno o fritto in padella con
olive, capperi e pinoli come a Napoli, dove si celebra anche il culto dei peperoncini verdi, dal gusto
sexy ed austero, prima fritti, poi ripassati nel pomodorino, infine buttati sugli spaghetti. Un vero
inno al piacere. Come i peperoni croccanti che colorano di rosso acceso balconi e finestre dei paesi
arrampicati sull’Appennino meridionale, dall’Irpinia alla Lucania. Fino alla Puglia dove i cosiddetti friggitelli, verdi e lunghi, vengono consumati semplicemente fritti, con quella raffinatissima
sobrietà che è tipica di quella terra. Mentre la Sicilia ha fatto della caponata un sontuoso saggio di
gastronomia barocca. Per non dire delle imparabili salsicce calabresi infuocate dal peperoncino.
Un connubio coronato da un successo planetario.
Al punto che la pizza col salamino piccante, da Los
Angeles a Pechino, da Sidney a Nairobi si chiama
“peperoni”. E basta.
Insomma è il sapore esplosivo la costante che
segna, sempre e dovunque, il destino del peperone. Dalla diffidenza degli inizi al trionfo attuale.
Da quasi-cibo a gusto globale.
S
Involtino
La farcitura varia
da una fettina di roast-beef
o una crema di tonno e ricotta
(senza cottura), ai composti
da spalmare su fettine
di peperone spellato.
Chiusura con stecchino
bagnato e passaggio in forno
Ripieno
Cento ricette con il peperone
in versione contenitore
Spellato per renderlo
più digeribile, si farcisce
con carne, riso, verdure,
pesce, formaggi
Per i vegetariani pasta, tofu,
spezie e carne di soia
Agrodolce
Salsa agrodolce unita
ai peperoni in tocchetti
direttamente nei vasi
prima di bollirli
Oppure cottura dei peperoni
in olio e cipolla,
poi pomodori
Aceto e zucchero alla fine
Peperonata
Fatti sudare in olio gli anelli
di cipolla, si aggiungono
sbucciati i peperoni privati
dei semi e tagliati a listarelle
o i pomodori a tocchetti
Una volta insaporito
il primo ortaggio, si aggiunge
il secondo. Basilico alla fine
Infornato
Nella tradizione siciliana
la teglia, abbondantemente
unta d’extravergine,
ospita peperoni
a tocchetti, olive nere,
capperi, basilico,
prezzemolo, sale,
pangrattato, aglio
Repubblica Nazionale
44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 22 LUGLIO 2007
le tendenze
È il simbolo di ogni conflitto: così vestono i soldati e i manifestanti
per la pace, le rockstar e i no global, i teenager e gli ecologisti
Lo hanno celebrato Andy Warhol e Veruska, se ne sono impadroniti
i grandi stilisti da Gaultier a Yamamoto fino alle nuove collezioni
Prada e Fendi. Per questo una grande mostra a Londra all’Imperial
Donne in divisa
War Museum rende onore al secolo breve della mimetica
ORME SUL TERRENO
Camouflage in rosa
per le stiletto disegnate
da Philip Tracy
per Gina Couture
e, in basso, prototipo
di anfibio di Pittards
CAMALEONTI VOLANTI
L’adozione del camouflage da parte degli aerei
da guerra trasformò il secondo conflitto mondiale
anche in una guerra di colori tra la Raf britannica
e la Luftwaffe. A fianco un modello di British
Hawker Hurricane Mark I
Arte da camaleonti
per la guerra contro l’invisibilità
NATALIA ASPESI
l titolo dell’opera d’arte del giovane giapponese Hiroharu Mori alla Biennale di Venezia si intitola A
Camouflaged Question in The Air
e viene definita nel catalogo «un
pallone-pensiero, alla portata di
chiunque voglia intrattenere dei pensieri sulle proprie incertezze». Cioè? Si
tratta di un video in cui l’artista, poi una
signora, poi una famigliola con cane, su
un prato idillico, trattengono con un filo un grande pallone gonfiato bianco,
decorato da un punto di domanda gigante di disegno chiazzato, cioè mimetico, o se si vuol essere alla moda, camo
(da camouflage). Quindi par di capire
che le incertezze dell’artista siano rappresentate non tanto dal punto di domanda, quanto dal camouflage che lo
compone.
Insomma se vuoi dire qualcosa dai
mille significati, rivolgiti al camo che va
sempre bene: anche se, in fatto di uso
universale, ha sempre avuto i suoi alti e
bassi, sin da quando se ne scoprirono le
virtù di occultamento, cancellazione,
protezione e disorientamento durante
la prima guerra mondiale, virtù già praticate da sempre in natura dagli animali
per rendersi invisibili agli occhi dei predatori e dei cacciatori, a loro volta mimetizzati, i primi dai colori delle pelli, i
secondi con un abbigliamento molto
maschile color foresta, con berretti coperti di foglie e piume, per turlupinare i
poveri cacciati.
Oggi il camo si trova dappertutto, è il
suo momento, a cominciare da una
grandiosa mostra in uno dei più affascinanti e frequentati (quasi esclusiva-
I
mente da uomini) musei del mondo, il
londinese Imperial War Museum, dove
viene sottoposta a muta devozione ogni
sorta di bombardiere o carro armato o
divisa delle varie guerre ovviamente vinte dalla Gran Bretagna. A Milano si è più
artisticamente pratici e sono i contenitori dell’Amsa ad essere dipinti a margherite o a foglie di quercia o a felci, per
alleviare almeno visivamente le puzze
che emanano; abbondano ovunque in
strada i pantaloni chiazzati da paracadutista carichi di cinghie e tasche per
eventuali shopping pesanti, e anche la
moda firmata quest’anno si è mimetizzata soprattutto nelle borse: per uomo di
Fendi di tessuto militare, per signore di
Prada di raso macchiato a colori accesi,
oltre ai parka di Angela Missoni.
Certo negli anni scorsi si era osato di
più e sono esposti alla mostra londinese
meraviglie di lusso eccentrico come il
miniabito di Versace in camoverde smeraldo, indossato nella sfilata del 1996
dalla turbolenta Naomi Campbell, e poi
sontuose crinoline da Imperatrice Eugenia di massima ironia bellico-frivola,
con montagne di chiffon maculato
(Gaultier, 2000), in raso a doppia gonna
a fogliami autunnali (Valentino, 1994), e
tutta una asimmetria di teli a disegno
che più camo non si può (Yamamoto,
2006) anche nel trucco della stravolta
modella. Il camouflage rappresenta il
disorientamento, la maschera, il cambio di identità, la contraddizione, l’invisibilità, è il Dorian Gray dell’apparenza;
immagine tradizionale della guerra ancora oggi in Iraq e nei mille sanguinosi
disordini del mondo, fu indossato contro la guerra nelle manifestazioni per la
pace dai veterani del Vietnam, piace
adesso ai no global in funzione anticonsumo, lo indossano i gruppi pop per far
casino, lo sbandierano i protettori della
natura come simbolo ecologico.
L’arte vi ricorre vantandosi di esserne
stata la fonte di ispirazione, sin dai tempi del cubismo. O viceversa? Sempre alla Biennale, la franco marocchina Yto
Barrada espone Public Park, una serie di
foto che rappresentano ognuna una
persona distesa su un prato con la faccia
nascosta sotto un telo o un cappuccio;
ma il surrealista inglese Roland Penrose,
biografo di Picasso, era stato più ardito.
Nel 1940, a seconda guerra mondiale
iniziata, tenne delle conferenze all’esercito, illustrandole con foto della sua
amante del momento, la modella e
fotografa Lee Miller, bellissima, distesa su un prato, completamente nuda sotto una rete, per dimostrare l’efficacia voyeur di
questo tipo di camouflage.
Come si vede nei quadri antichi, o nei film che rievocano
battaglie del passato, sino alla
fine dell’Ottocento i soldati indossavano divise riconoscibili,
rosse, bianche, azzurre, diventando facili bersagli: carne da
cannone, o da sciabola, come si
diceva una volta. In realtà il camouflage come arma di difesa e comunque
di inganno (nell’estate del ‘44 gli Alleati
schierarono un gigantesco contingente
di mezzi corazzati finti per far credere ai
tedeschi che lo sbarco sarebbe avvenuto a Calais e non in Normandia) divenne
indispensabile con la Prima guerra
mondiale quando per la prima volta l’aviazione venne usata per le ricognizioni
dall’alto. Furono chiamati artisti di fa-
Repubblica Nazionale
DOMENICA 22 LUGLIO 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45
FRONTE OCCIDENTALE
Campioni di colore utilizzati
dall’esercito francese
per riprodurre su divise
e mezzi le diverse tonalità
del terreno sul fronte
occidentale
MILITAR-CHIC
Apertura di millennio con dedica
a una moda che non tramonta
mai: è un abito della collezione
primavera/estate del 2000
firmato Jean Paul Gaultier
RUNNER NEL PARCO
Un astuccio per contenere
iPod o cellulari aggiunge
un tocco di stile,
con il motivo
“Bonsai Forest”,
al jogging quotidiano
ADATTAMENTO
POP WAR
Un particolare
dello studio del 1940
di Hugh Cott,
zoologo
e consulente
dell’esercito
britannico, in base
al quale venne adottato
il colore delle divise
nella Seconda guerra
Andy Warhol
si confrontò
anche con la
moda militare
producendo
stampe
poi utilizzate
da stilisti come
Stephen Sprouse
STREET W(E)AR
Una linea di skateboard Powell-Peralta
camouflage sottolinea il fascino
che questo esercita ancora sui giovani
ma, tradizionali o anche d’avanguardia
come Jacques Villon e André Mare, arruolati nell’esercito, per escogitare i giusti colori, le forme, le stoffe, per occultare carri armati, mezzi di trasporto,
armi, munizioni, postazioni, poi navi, fabbriche, magazzini. Quando Picasso, indifferente alla guerra, vide
per le strade di Parigi un cannone
mimetizzato, esclamò orgoglioso:
«Siamo noi cubisti ad averlo inventato». E a Jean Cocteau: «Se vogliono
rendere l’esercito invisibile a distanza, vestano i soldati da arlecchini».
Alla fine della guerra, agli inizi del ‘19, al Chelsea Arts Club
festeggiarono la pace con un festosissimo Dazzle Ball, una
gran festa dedicata al più cubista
dei disegni camouflage, applicato soprattutto alle navi, appunto il dazzle (abbagliante), che
ispirò alla fine degli anni
Cinquanta l’Op Art. La Prima guerra mondiale aveva
trascurato di mimetizzare i
soldati, che portavano divise grigie, i tedeschi, caki e
verdi gli americani e gli inglesi caki o verde, gli italiani
il grigioverde. Solo con la
seconda il camouflage passò anche agli individui, con
una infinità di macchie e
colori studiati da specialisti
questa volta non artisti ma
scienziati: alla mostra c’è
una immensa vetrina dove
sono allineate decine e decine
di divise camo, ognuno diversa dall’altra. Quando negli anni Sessanta i co-
ORIGINAL MARINE
In alto, una giacca
della Us Air Force
e sotto una del corpo
dei Marines adottata
nel 1968. L’anno
prima la mimetica
era riservata soltanto
ai corpi speciali;
dopo il Vietnam
fu adottata
da tutti i militari
Quando Picasso,
indifferente
alla guerra,
vide per le strade
di Parigi
un cannone
mimetizzato,
esclamò orgoglioso:
“Siamo stai noi
cubisti a inventarlo”
mandi militari inglesi e americani cercarono di tornare ai colori uniti, ci fu un
rifiuto generale: e gli psicologi spiegarono che era, è la divisa mimetica ad assicurare aggressività e violenza e persino
patriottismo.
Anche l’arte continuò a lasciarsi sedurre dal mimetismo: Veruska, la celebre modella anni Sessanta, divenne artista rendendo invisibile il suo corpo da
lei stessa dipinto come sasso o come
muro. Nel 1986, un anno prima di morire, Andy Warhol produsse una serie di
opere ispirate ai quattro colori del camouflagescelto dall’esercito americano
per le divise da combattimento, nero,
grigio e due verdi, ma anche in vari rosa,
giallo e blu. Di quelle ultime opere del
pop artista si servì vent’anni fa lo stilista
americano Stephen Sprouse, per farne
dei vistosi completi maschili, primo ingresso del camouflage nel mondo onnivoro e predatorio dell’alta moda.
Repubblica Nazionale
46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 22 LUGLIO 2007
l’incontro
Artista senza briglie, talento
carismatico, personalità
debordante e irregolare (Nikita
Magaloff la definì “un cavallo
da corsa che non andrà mai al trotto”),
è oggi la massima
pianista al mondo
Allergica
ai condizionamenti
del mercato,
non si esibisce più
come solista ed è famosa
per le sue fughe e i forfait
dell’ultima ora. Nella vita come
nella musica, dichiara, “mi piace
quando qualcosa sfugge al controllo”
Stelle nascoste
Martha Argerich
ntra in scena ed è un’apparizione buffa e stregata. Chioma fluente e selvaggia con
striature bianche, tacchi alti
su cui incede con qualche incertezza,
giacchetta nera col bordo sghembo. E
sotto, uno dei suoi gonnoni vasti e fuori dalle mode. Una profuga di nobili
ascendenze o un’avventuriera in fuga.
Il volto è chiuso, emana quasi imbarazzo. Come a dire: non guardatemi
troppo, non mi giudicate, attenti che
sono pronta a scappare. «Subito prima
del concerto mi assale il panico», confesserà più tardi Martha Argerich. «Da
giovane avevo veri e propri attacchi,
mani gelate, gambe che tremavano così forte che dovevo colpirle per bloccarle. Ma quando suono passa tutto». E
infatti appena siede alla tastiera c’è il
miracolo. Lievità nella padronanza
ferrea dello strumento, profondità del
gioco emotivo, naturalezza che dà l’illusione di un suono che sembra sgorgarle dalle dita. Il viso prende luce,
conquista magnetismo e bellezza.
È la bellezza leggendaria della Argerich, oggi la massima pianista al mondo.
Detto così pare semplificatorio e di cattivo gusto. Certe classifiche funzionano
per le vendite dei dischi, o quando si confrontano i cachet dei concerti. Ma che
nel pianoforte Martha sia la migliore tra
le donne è un fatto. Persino su quel versante “commerciale” che detesta, non
per snobismo o per artifici moralistici,
ma perché è un’artista libera e senza briglie, allergica ai condizionamenti di
mercato. «Di denaro ne ho avuto pochissimo, poco e molto», spiega, «e non è mai
cambiato nulla». La verità è che potrebbe registrare con chi vuole la musica che
vuole, le basta alzare un dito e ha i discografici ai suoi piedi. O una mattina potrebbe svegliarsi e decidere di suonare in
una sala l’indomani, e avere il tutto esau-
ne. Mi piace quando qualcosa sfugge al
controllo. Uno squarcio imprevisto, visioni inaspettate e preziose».
A Lugano, appuntamento fisso d’inizio estate, Martha è serena. Non flagella
mai gli organizzatori con i suoi celebri
forfait dell’ultima ora. È famosa per le
sue fughe: un incubo per i programmatori di concerti. Ma non si sente in colpa:
«Non ho mai obbligato nessuno a invitarmi. Non ho mai disdetto un impegno
per la semplice ragione che non firmo
contratti. Non mi sento costretta a suonare se non me la sento». Cancellò per la
prima volta a diciassette anni: «Leggevo
Delitto e castigo e volevo sentirmi trasgressiva. Avrei dovuto suonare a Empoli, ma scrissi che rinunciavo per una
ferita alla mano. Poi mi spaventai della
bugia e per non essere scoperta mi feci
un taglio a un dito con un coltello, mettendomi fuori gioco per un po’».
C’è chi ragiona, pianifica, analizza, e
chi si lascia travolgere dal flusso della vita: la vita con le sue passioni, i suoi dolo-
Ho dato il primo
concerto a quattro
anni e ho continuato,
ma detestavo
esibirmi
Amo il pianoforte
ma non sopporto
l’idea di essere
la sacerdotessa
di un’arte
FOTO AFP
E
LUGANO
rito. Però quel tipo di valore non c’entra.
La misura della sua grandezza è altrove,
nel talento prorompente e irrinunciabile, nel suo stile troppo personale per
adattarsi alle categorie stilistiche segnate dalle poetiche del pianismo. In più ha
una personalità debordante, irregolare e
incline a farsi enfatizzare: un po’ come la
Callas, Edith Piaf, Glenn Gould o Nureyev. Creature “diverse”, spesso sofferte nel rapporto tra arte e vita, portatrici di
un’ispirazione che ci sfugge e di una possibilità di contatto con zone sconvolgenti, che sanno farci intravedere l’espressione pura, ciò che non può dirsi se non
in un linguaggio che si nutre di se stesso.
Nata nel 1941, e frutto della prodigiosa scuola di Buenos Aires, la stessa di Daniel Barenboim, l’argentina Martha Argerich, che dai cinque ai dieci anni studiò col magico didatta Vincenzo Scaramuzza, conta rari pianisti al suo livello,
come Alfred Brendel e Maurizio Pollini,
unica donna nel ristretto olimpo dei
campioni. Il suo pianismo esorbita dalla
“sola” bravura. Possiede qualcosa che
non si studia e che ha a che fare col carisma di miti scomparsi: Rubinstein, Horowitz (lo definisce «la cosa migliore che
sia mai arrivata al pianoforte»), Richter e
Arturo Benedetti Michelangeli, con cui
studiò nel ‘61: «In pratica non parlava
mai. Ma trascorrendo con lui qualche
ora ho imparato la musica del silenzio».
Siamo a Lugano, in uno studio della
Radio della Svizzera italiana, ed è notte.
Lei è lì, circondata da lucidi pianoforti
neri, pronta a lanciarsi nella consueta
maratona notturna. «Fa sempre così», riferisce il musicologo Carlo Piccardi, ex
direttore della rete culturale della Rsi.
«Termina il concerto, gli altri musicisti
vanno a cena e lei resta a suonare fino all’alba». È in questo studio che avviene il
nostro incontro. Di interviste Martha
non ne dà mai. Per principio. Fa parte del
suo pudore senza affettazione, del suo rifiuto di aspetti promozionali. Va acchiappata come per caso, come se non lo
sapesse. Per fortuna a Lugano è in vena,
rilassata dal contesto. Qui, da sei anni, ha
dato vita a un festival, il Progetto Martha
Argerich, sponsorizzato dalla banca Bsi
e coordinato da Piccardi. Nell’ultima
edizione ha ospitato 17 eventi, con nomi
come Mischa Maisky, Lylia Zilbertsein,
Renaud Capuçon, Nicholas Angelich e
accanto a loro artisti freschi e sconosciuti. «Si lavora insieme. Giovani solisti con
musicisti d’esperienza. Un laboratorio
di scambio in un clima di entusiasmo.
Niente star-system, è molto rigenerante.
Una specie di famiglia che da un anno all’altro si ritrova e si rinnova».
Martha ha bisogno del consolidamento “familiare”: è una costante necessaria del suo mondo. Le piace lo stare
insieme «dove non si danno né si prendono lezioni e si può contare sugli altri.
Ci si sente perduti, si ha un dubbio e c’è
qualcuno a sostenerti. A chi esibisce sicurezze preferisco le persone che dubitano. Stesso discorso per l’interpretazio-
ri e i suoi paradossi. Martha è così, cova
uno spirito sfrenato. Forse per questo ha
avuto tre figlie da tre uomini diversi, tutti musicisti. Padre della maggiore, Lyda,
oggi violista e unica musicista fra le tre, è
il compositore Robert Chen, sposato nel
‘63, mentre Annie, nata nel ‘70, è figlia
del direttore d’orchestra Charles Dutoit,
e il padre di Stéphanie, la più giovane, è
il pianista Stephen Kovacevich. «Sono
un casino, credo di non essere nata per
l’amore», dice. «E poi ogni volta che ti
danno il caviale ti tolgono il pane».
Bisogna risalire alla sua infanzia a
Buenos Aires, tormentata dagli obblighi di enfant prodige, per comprendere le radici della sua inquietudine: «A
due anni e otto mesi un amichetto mi
sfidò: non sai suonare il pianoforte. Mi
piazzai davanti allo strumento e riprodussi all’istante l’aria che canticchiava
la mia tata. Ho dato il primo concerto a
quattro anni e ho continuato, ma detestavo esibirmi. Amo il pianoforte, non
essere pianista. Sognavo di diventare
un medico. Non sopporto l’idea di essere la sacerdotessa di un’arte, né i
troppi viaggi. Da bambina ero capace
di cose orrende per far saltare le serate,
tipo mettermi carta bagnata nelle scarpe per provocare la febbre».
Nel ‘55 la portano a studiare a Vienna
con Friedrich Gulda, una delle icone del
pianismo del Novecento: «Era un genio
della curiosità e della ricerca, uno sperimentatore straordinario. Mi ha influenzato più di chiunque». Studia anche a Ginevra con Nikita Magaloff, che dice di lei:
«È un cavallo da corsa, non si potrà mai
metterla al trotto». Nel ‘57, a 16 anni, vince i concorsi di Bolzano e Ginevra: «Presi a vivere come una quarantenne: viaggiavo da una città ignota all’altra, non
avevo amici, ero timidissima. Nello studio ero caotica. Una bella pittura senza
cornice. Giocavo d’azzardo. Studiando
non suonavo mai un concerto dall’inizio alla fine. Lo imparavo a pezzi e lo eseguivo per la prima volta tutto insieme solo davanti al pubblico. Dormivo di giorno e studiavo di notte. Il Terzo Concerto
di Prokofiev l’ho imparato così, in modo
quasi subliminale».
Nel ‘60 un arresto, un equilibrio che si
spezza. Martha va a vivere a New York e
smette di suonare per tre anni: «Tutto ciò
che facevo durante il giorno era guardare la televisione». Riprende con l’aiuto
del pianista polacco Stefan Askenase e di
sua moglie: «Li andavo a trovare molto
spesso, e più che suonare parlavamo.
Grazie a loro ho ritrovato la fiducia». A 24
anni vince lo Chopin di Varsavia, un
trionfo: «Fu in quel periodo che a mia figlia Lyda spuntò il primo dente». Nel ‘67
la sua incisione del Terzo Concerto di
Prokofiev con la direzione di Claudio
Abbado è un successo da hit-parade.
Eppure, con la carriera alle stelle, affiorano altri periodi di silenzio. Altre sospensioni, paure, sofferenze. Viene aggredita da un grosso male, un’affezione
cancerosa, e sparisce per un po’, andan-
do a operarsi negli Stati Uniti. Poi però risorge con più energia di prima. E ogni
volta meno jet-set, maggiore discrezione e ancora più determinazione nel negarsi ai ricatti del divismo.
Ormai da tempo la Argerich non suona più come solista. Basta coi recital dedicati a Chopin, a Schumann e soprattutto a Ravel, l’autore forse più compreso e amato. Vuole esibirsi con gli altri, fare musica da camera e concerti con orchestra, sempre con partner con i quali è
in sintonia anche personale: Maisky, Gidon Kremer, Abbado o l’ex marito Dutoit, con cui il 19 novembre sarà al Carlo
Felice di Genova, insieme alla Ubs Verbier Festival Orchestra. E prima, il 5 agosto, suonerà a Cortina d’Ampezzo, con
l’Orchestra di Padova e del Veneto, in un
concerto promosso dall’Associazione
Dino Ciani, «pianista che morì a soli 33
anni, dotato di una sensibilità talmente
cristallina da mettere paura». Racconta
che suonare da sola la faceva sentire una
reclusa, «forse perché da piccola mi esercitavo per ore, in solitudine, senza giocare con gli altri bambini. I miei dicevano
che il mio unico compagno di giochi doveva essere il pianoforte. Oggi stare insieme a musicisti che ammiro, e sono anche persone che mi piacciono, mi dà un
conforto speciale».
Teme l’età che avanza? «Macché. Mi
cullo nell’idea di diventare una vecchia
piuttosto ridicola». Il presente e il futuro
sono i “suoi” ragazzi, i giovani pianisti
che promuove nelle rassegne che fonda
e dirige (oltre a quella di Lugano ne guida una in Giappone, a Beppu, e prima
ancora ne organizzò una a Buenos Aires). Li accoglie spesso nella sua casa di
Bruxelles, in Rue Bosquet, detta “Rue des
Pianistes” per la presenza di Martha e dei
suoi amici: «Vengono per farsi conoscere e aiutare. Arrivano, mi pregano di
ascoltarli, io lo faccio. A volte mi sentono
suonare e sono loro a darmi consigli.
Non insegno perché non potrei imporre
niente a nessuno. Ho ancora troppe cose da imparare».
‘‘
LEONETTA BENTIVOGLIO
Repubblica Nazionale