Relazione della dottoressa Annamaria Casadonte

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Dott.ssa Annamaria Casadonte
Giudice c/o il Tribunale di Reggio Emilia
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La l. 218/1995 (la legge di diritto internazionale privato), che si applica in assenza di convenzioni o
atti comunitari, stabilisce che la decisione straniera, emessa dall’autorità competente che
conclude una controversia, è equiparata ad una sentenza del giudice italiano e gode del
riconoscimento automatico ex art. 64, ovvero produce effetti in Italia senza necessità di alcun
procedimento.  Con tale legge è stato quindi introdotto il cd. «PRINCIPIO DELL’AUTOMATICO
RICONOSCIMENTO DELLE SENTENZE CIVILI STRANIERE», a patto però che ricorrano le seguenti
condizioni (stabilite dallo stesso art. 64):
- il giudice che ha pronunciato il provvedimento poteva conoscere della causa secondo i
principi sulla competenza giurisdizionale propri dell’ordinamento italiano;
- l’atto introduttivo del giudizio è stato portato a conoscenza del convenuto secondo la legge
del luogo dove si è svolto il processo e non sono stati violati i diritti essenziali della difesa;
- le parti si sono costituite in giudizio secondo la legge del luogo dove si è svolto il processo o la
contumacia è stata dichiarata in conformità a tale legge;
- il provvedimento ha acquisito efficacia di giudicato secondo la legge del luogo in cui è stato
pronunciato;
- il provvedimento non è contrario ad altro provvedimento passato in giudicato emanato da un
giudice italiano;
- non pende un processo davanti ad un giudice italiano, per il medesimo oggetto e fra le stesse
parti, che abbia avuto inizio prima del processo straniero;
- le disposizioni contenute nel provvedimento non producono effetti contrari all’ordine
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pubblico.
Cosa deve intendersi per «ordine pubblico»?
Premesso che il concetto di «ordine pubblico» è un concetto di per sé RELATIVO,
ossia suscettibile di profonde trasformazioni nello spazio e nel tempo, esso può
essere inteso come «il complesso dei principi, ivi compresi quelli desumibili dalla
Carta costituzionale, che formano il cardine della struttura economico-sociale della
comunità nazionale in un determinato momento storico, nonché quelle regole
inderogabili e fondamentali immanenti ai più importanti istituti giuridici nazionali».
N.B.: La corrispondenza all’ordine pubblico italiano della sentenza straniera deve
essere valutata non con riguardo alle norme sostanziali e processuali applicate,
bensì con riguardo ai suoi EFFETTI, vale a dire gli effetti che il riconoscimento di una
tale decisione potrebbe portare sui valori fondanti dell’ordinamento italiano.
Inoltre, occorre sottolineare che la suddetta valutazione attinente alla contrarietà
all’ordine pubblico va fatta sulla base dei principi esistenti al momento del
riconoscimento e non dell’emissione della sentenza.
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La l. 218/95 ha previsto anche altre specifiche disposizioni sul
riconoscimento dei provvedimenti stranieri.  L’art. 65
(«Riconoscimento di provvedimenti stranieri») stabilisce che i
provvedimenti stranieri relativi alla capacità delle persone nonché
all'esistenza di rapporti di famiglia o di diritti della personalità hanno
effetto in Italia quando:
1. essi sono stati pronunciati dalle autorità dello Stato la cui legge è
richiamata
dalle
norme
della
presente
legge
(cd.
BILATERALIZZAZIONE);
2. producono effetti nell'ordinamento di quello Stato, anche se
pronunciati da autorità di altro Stato, purché non siano contrari
all'ordine pubblico e siano stati rispettati i diritti essenziali della
difesa.
In sostanza, l’art. 65 consente di attribuire efficacia ai provvedimenti
stranieri A CONDIZIONI SEMPLIFICATE di riconoscimento.
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Quale è il rapporto tra l’art. 65 e l’art. 64?
 secondo taluni l’art. 65 ha un carattere di SPECIALITÀ che
comporta una deroga all’art. 64;
 secondo altri, invece, le due norme sono da considerarsi
COESISTENTI, nel senso che si può ottenere il
riconoscimento di una sentenza straniera come giudicato
sia nel rispetto delle condizioni facilitate dell’art. 65 sia nel
rispetto di quelle più severe dell’art. 64.
Oggi la dottrina e la giurisprudenza prevalente sembrano
optare per la seconda posizione.
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La l. 218/95 ha altresì previsto una norma ad hoc in materia di
«Riconoscimento di provvedimenti stranieri di giurisdizione
volontaria», la quale, in pratica, non fa che rafforzare l’art. 65. 
Nel dettaglio, l’art. 66 dispone che:
«I provvedimenti stranieri di volontaria giurisdizione sono
riconosciuti senza che sia necessario il ricorso ad alcun
procedimento, sempre che siano rispettate le condizioni di cui
all'articolo 65, in quanto applicabili, quando sono pronunciati
dalle autorità dello Stato la cui legge é richiamata dalle
disposizioni della presente legge, o producono effetti
nell'ordinamento di quello Stato ancorché emanati da autorità
di altro Stato, ovvero sono pronunciati da un'autorità che sia
competente in base a criteri corrispondenti a quelli propri
dell'ordinamento italiano.» .
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Il riconoscimento delle decisioni in materia matrimoniale ed in quella relativa alla protezione dei minori che siano state
pronunciate in uno Stato membro dell’UE è disciplinato dal Regolamento (CE) n. 2201/2003.
 ART. 21  assicura che le decisioni pronunciate in uno Stato membro siano riconosciute negli altri Stati membri
senza che sia necessario il ricorso ad alcun procedimento. L’automaticità del riconoscimento vale anche ai fini
dell’aggiornamento delle iscrizioni dello stato civile di uno Stato membro purché si tratti di decisioni definitive.
 ART. 22  il rifiuto del riconoscimento è ammesso soltanto nel caso in cui le decisioni matrimoniali:
a) siano in contrasto con l’ordine pubblico dello Stato membro richiesto;
b) quando la decisione è stata resa in contumacia o se l’atto introduttivo è stato notificato o comunicato al
convenuto contumace in tempo utile e in modo che questi possa presentare le proprie difese, salvo il caso di
accertata accettazione da parte del convenuto della decisione;
c) nel caso di contrasto con altra decisione presa tra le stesse parti nello Stato membro richiesto;
d) nel caso di contrasto con una decisione anteriore avente le stesse parti e resa in un altro Stato membro in un
paese terzo che tuttavia soddisfi le condizioni prescritte per essere riconosciuta nello Stato richiesto.
 ART. 23  per le decisioni relative alla potestà dei genitori, i motivi del rifiuto del riconoscimento sono analoghi
con alcune precisazioni/differenze:
a) con riguardo all’ordine pubblico, si precisa che deve essere valutato l’interesse superiore del minore;
b) la non previsione tra i principi fondamentali di procedura dello Stato membro richiesto del diritto del figlio
minore di essere ascoltato in determinati casi.
Il contrasto con una decisione resa o riconosciuta nello Stato membro richiesto può impedire il riconoscimento
soltanto se si tratta di una decisione successiva a quella da riconoscere, dandosi così per scontato che il giudice a
quo abbia tenuto conto nel suo provvedimento delle decisioni rese anteriormente ed abbia ritenuto di doverle
modificare.
 ART. 28  disciplina l’esecuzione delle decisioni relative alla potestà dei genitori.
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I matrimoni celebrati all’estero debbono essere trasmessi, per la trascrizione nei registri dello stato civile,
all’ufficiale dello stato civile competente, individuato ai sensi dell’art. 17 del D.P.R. 396/2000, a cura della
nostra autorità diplomatica o consolare o, anche, su istanza di chiunque vi abbia interesse (art. 12, co. 11,
D.P.R. 396/2000).
 ART. 18 («casi di intrascrivibilità»)  «Gli atti formati all’estero non possono essere trascritti se sono
contrari all’ordine pubblico»;
 ART. 19 («trascrizioni»)  «1. Su richiesta dei cittadini stranieri residenti in Italia possono essere
trascritti, nel comune dove essi risiedono, gli atti dello stato civile che li riguardano formati all’estero.
Tali atti devono essere presentati unitamente alla traduzione in lingua italiana e alla legalizzazione,
ove prescritta, da parte della competente autorità straniera. 2. Possono altresì essere trascritti gli atti
del matrimonio celebrati fra cittadini stranieri dinanzi all’autorità diplomatica o consolare straniera
in Italia, se ciò è consentito dalle convenzioni vigenti in materia con il Paese cui detta autorità
appartiene. 3. L’ufficiale dello stato civile può rilasciare copia integrale dell’atto trascritto a richiesta
degli interessati».
La trascrizione nei registri di stato civile ha natura dichiarativa e certificativa a scopo di pubblicità di un
atto già valido di per sé, ma che, solamente dopo la trascrizione, diviene opponibile ai terzi.
L’ufficiale di stato civile svolge quindi un ruolo fondamentale in quanto procede alla registrazione degli
atti di stato civile previo controllo di legalità degli stessi e quindi solo dopo avere compiuto una serie di
verifiche in ordine alla situazione giuridica che si vuole rappresentata dai registri dello stato civile.
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In particolare, l’ufficiale di stato civile, ai fini della trascriviblità del matrimonio celebrato all’estero, deve
verificare l’esistenza dei requisiti:
1. formali (legalizzazione + traduzione ex art. 19, co. 1, d.p.r. 396/2000);
2. sostanziali (stante l’impossibilità di trascrivere i suddetti atti se in contrasto con l’ordine pubblico –
art. 18 d.p.r. 396/2000)  Infatti, il venir meno dell’obbligo della pubblicazione, nel caso di
matrimonio all’estero, come disposto dalla Circolare n. 5 del 22/05/2008, ha eliminato la possibilità
di verificare preventivamente la sussistenza delle condizioni richieste dal nostro ordinamento per la
validità del matrimonio: pertanto, l’ufficiale dello stato civile dovrà svolgere le verifiche richieste,
dopo che il matrimonio è stato celebrato e prima di procedere alla trascrizione, ricordando che,
comunque, non possono essere trascritti gli atti contrari all’ordine pubblico.
Le verifiche riguardano, a titolo esemplificativo:
 l’età degli sposi (art. 84 c.c.);
 la libertà di stato (art. 86 c.c.)  non rara è l’ipotesi in cui uno degli sposi, cittadino italiano, risulti
ancora legato da un precedente matrimonio. Al contrario delle altre ipotesi, il secondo matrimonio
contratto all’estero da persona già coniugata deve essere trascritto e produce tutti gli effetti del
matrimonio valido, almeno fino a quando non venga impugnato e ciò in virtù del principio del favor
matrimoni di cui all’art. 117 c.c. . In altre parole, il matrimonio diviene inefficace solo in seguito alla
pronuncia del giudice, continuando a produrre i propri effetti qualora l’azione non venga esercitata;
 lo scambio del consenso  qualora dovesse mancare o risultare non espresso chiaramente nell’atto
lo scambio del consenso tra i coniugi, può verificarsi un ostacolo al riconoscimento della validità del
matrimonio contratto all’estero;
 la diversità di sesso degli sposi  fino ad ora gli ufficiali di stato civile non hanno trascritto i
matrimoni celebrati tra persone dello stesso sesso, ritenendolo in contrasto con l’ordine pubblico ed
in particolare con un requisito fondamentale richiesto dal nostro ordinamento, quale la diversità di
sesso degli sposi. Al riguardo, fondamentale, è anche la Circolare Miacel n. 2 del 26 marzo 2001 del
Ministero dell’Interno, la quale ha chiarito che «non è trascrivibile il matrimonio celebrato all’estero
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tra omosessuali, di cui uno italiano, in quanto contrario alle norme di ordine pubblico».
ART. 67 L. 218/1995
Ai sensi dell’art. 67 l. 218/95, stabilisce che in caso di:
- mancata ottemperanza;
- contestazione del riconoscimento;
- necessità di procedere ad esecuzione forzata
«…chiunque vi abbia interesse può chiedere alla Corte d’appello del luogo di attuazione l’accertamento
dei requisiti del riconoscimento».
In tal caso si procede presentando un ricorso alla Corte d’appello del luogo in cui dovrebbe essere
data attuazione alla sentenza, il quale procederà all’accertamento della sussistenza o meno dei
requisiti per l’accertamento.
A seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. 150/2011, art. 30, oggi il rito applicabile è quello sommario.
Si ricordi che la legittimazione a tale procedimento spetta solo ai soggetti che hanno partecipato al
giudizio all’estero ovvero, come osservato da altra giurisprudenza, l’interesse ad agire sussiste ogni
volta che ricorre uno dei presupposti del procedimento di riconoscimento.
La partecipazione del P.M. nella cause di riconoscimento di sentenze straniere di divorzio è
obbligatoria ai sensi dell’art. 70,co. I., n. 2, c.p.c. (cfr. Cass. civ., sez. I, 16 dicembre 2003, n. 19277).
All’esito del giudizio:
- se l’attore è soccombente e la decisione presenta i requisiti richiesti, gli effetti della pronuncia
retroagiscono al momento in cui la decisione è passata in giudicato nel Paese d’origine;
- se l’attore è vittorioso, è necessario ripristinare la situazione precedente e rimuovere tutti gli
effetti eventualmente prodotti da una decisione che per il nostro ordinamento non esiste.
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Con riguardo all’interesse ad agire nella procedura di cui all’art. 67:
CASS. CIV., 5 OTTOBRE 2012, N. 17065
Nel caso di specie, il ricorrente ha proposto ricorso per Cassazione contestando
l’effettuato riconoscimento di una sentenza straniera, sentenza nella quale, ad
avviso del ricorrente, mancava l’esatta quantificazione di quanto dovuto dal
convenuto a titolo di mantenimento del figlio minore, avendolo il giudice
condannato (genericamente) a pagare il 25% dello stipendio o di altro reddito. La
Cassazione, tuttavia, ha rigettato il ricorso del ricorrente, precisando che
l’interesse ad agire ex art. 67 sussiste quando ricorra, in concreto, almeno uno dei
presupposti di cui al primo comma dell’art. 67 l. n. 218: mancata ottemperanza,
contestazione del riconoscimento, necessità di procedere ad esecuzione forzata.
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Il riconoscimento di sentenze straniere di divorzio è stata frequentemente
oggetto della procedura di cui all’art. 67 l. 218/1995.
CASISTICA:
 Cass. civ., sez. I, 25 luglio 2006, 16978  ha affermato il principio della
riconoscibilità della sentenza straniera di divorzio pronunciata senza passare
dalla sentenza di separazione personale dei coniugi ed il decorso di un periodo
di tempo adeguato tale da consentire ai coniugi di ritornare alla loro decisione,
non potendosi ravvisare in ciò alcun violazione del principio di ordine pubblico,
a condizione che il divorzio segua all’accertamento dell’irreparabile venire
meno della comunione di vita tra i coniugi.
Tale principio è in linea con quanto previsto dall’applicazione del Reg. CE n.
1259/2010, posto che anche un cittadino italiano può optare per l’applicazione
diretta della legge sostanziale dello Stato di cittadinanza del coniuge che consente
il divorzio immediato senza passare dalla separazione in virtù della scelta
consentita dall’art. 5 del medesimo Reg. .
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 Nella stessa occasione (Cass. civ., sez. I, 25 luglio 2006, 16978), inoltre, in
riferimento all’affidamento congiunto del figlio minore, la S.C. ha espresso il
principio secondo il quale «in tema di riconoscimento di sentenze straniere,
non è contraria ai principi fondamentali dell’ordine pubblico, ai sensi dell’art.
64, comma I, lettera g), della legge 31 maggio1995, n. 218, la sentenza
straniera di divorzio che abbia disposto l’affidamento congiunto del figlio
minore ad entrambi i coniugi senza la predeterminazione di regole di
comportamento dei coniugi stessi idonee ad evitarne il conflitto».
 Sempre in tema di mancata previsione delle condizioni di affidamento e
mantenimento dei figli minori, si è riconosciuta la sentenza straniera che tale
compiuta indicazione non contenga non ravvisandosi contrarietà ai principi
fondamentali dell’ordine pubblico dal momento che nessun principio
costituzionale impone che la definitiva regolamentazione dei diritti e doveri
scaturenti da un determinato status sia dettato in unico contesto, tant’è che
nel nostro ordinamento è prevista la sentenza non definitiva di divorzio, che
statuisce sullo «status» e rinvia per l’adozione dei provvedimenti conseguenti
(cfr. Cass. civ., sez. I, 30 luglio 2012, n. 13556).
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Oggi l’INTERSEZIONE tra il diritto di famiglia ITALIANO e
quello ISLAMICO è inevitabile, stante Il progressivo
aumento del numero degli immigrati provenienti dai
Paesi in cui vige il diritto di famiglia musulmano e
l'intensificarsi dei matrimoni misti.
Si ricordi, infatti, che oggi il DIRITTO ISLAMICO
rappresenta il TERZO grande sistema giuridico mondiale
ed è la fonte del vigente diritto positivo dei Paesi
musulmani (ad ex.: Algeria, Bangladesh, Egitto, Libia,
Marocco, Pakistan, Somalia, Tunisia, Turchia etc…).
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La progressiva stabilizzazione di persone
provenienti da Paesi di diritto islamico impone,
infatti, una necessaria INTERAZIONE tra questi ed il
diritto italiano.
Tale interazione, tuttavia, non è affatto facile.
In particolare, gli istituti che sembrano porre
maggiori problemi dal punto di vista del loro
riconoscimento ed accoglimento nell’ordinamento
giuridico italiano sono:
1. la POLIGAMIA;
2. la KAFALAH.
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LA POLIGAMIA
Il diritto musulmano ammette il carattere poligamico del
matrimonio. Mentre la donna non può avere che un solo marito,
l’uomo
può
invece
avere
fino
a
quattro
mogli
contemporaneamente: «…se temete di essere ingiusti nei confronti
degli orfani, sposate allora due o tre o quattro tra le donne che vi
piacciono» (sura IV, 3).
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Le GIUSTIFICAZIONI che possono indurre a contrarre un’unione
poligamica sono diverse, ad ex.:
1. la moglie è affetta da una malattia che la rende inattiva o
contagiosa  in questa situazione, una seconda moglie è
considerata un aiuto indispensabile per l’assolvimento dei compiti
che la prima non può adempiere sia nei confronti del marito che
nei confronti dei bambini;
2. la moglie non può avere bambini;
3. la moglie diventa mentalmente instabile;
4. la moglie è anziana;
5. il carattere difficile;
6. la guerra;
7. il fatto che un uomo senta che per soddisfare i suoi desideri fisici
ha bisogno di un’altra moglie, evitando in tal modo la
fornicazione.
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Ciononostante, spesso, anche nelle legislazioni statali dei Paesi arabi, la poligamia è
sottoposta a LIMITAZIONI che la rendono impraticabile. Nella maggior parte dei casi, la
moglie ha la possibilità di inserire, nel contratto di matrimonio, la clausola di essere l'unica
moglie (cd. «clausola di monogamia»), che, se violata, dà luogo allo scioglimento del vincolo
matrimoniale. Ad ex.:
 in EGITTO, l'art. 11bis l. n. 25 del 1929, introdotto dall'art. 1 l. n. 100 del 1985, prevede
che anche in assenza della clausola di monogamia la prima moglie ha il diritto di
chiedere il divorzio se ritiene che dal nuovo matrimonio del marito le derivi un danno
reale o morale che renda impossibile la vita coniugale;
 in TUNISIA, il matrimonio poligamico è espressamente e assolutamente vietato (Codice
dello statuto personale tunisino, Maǧalla, decreto del 13 agosto 1956, art. 18 e art. 2933);
 in MAROCCO, il nuovo Codice di famiglia (Moudawana) ha fortemente limitato le unioni
poligamiche, condizionando le stesse ad un’autorizzazione giudiziale che può essere
concessa solo in determinate ipotesi (ad ex.: sterilità). Nel dettaglio, prima lo sposo
doveva soltanto avvertire la prima moglie dell’intenzione di contrarre un nuovo
matrimonio e la novella sposa del suo status di già coniugato. Ora è invece necessaria
l’autorizzazione preventiva al secondo matrimonio da parte del giudice, il quale dovrà
accertare l’effettiva capacità del richiedente di assicurare il medesimo tenore di vita e la
parità di trattamento alle mogli e ai figli. Inoltre, la donna ha il diritto di vincolare il
marito a non contrarre altro matrimonio e, nel caso in cui ciò accada, di chiedere il
divorzio per il danno subito.
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Il problema è quello di stabilire se il matrimonio
poligamico possa essere «accolto» o no nel nostro
ordinamento e quindi se sia possibile attribuire ad
esso degli effetti giuridici.
In altre parole, il dubbio è:
il matrimonio poligamico è contrario o no al cd.
ordine pubblico?
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In Italia il rapporto coniugale riconosciuto e tutelato è quello
MONOGAMICO.
 Art. 29 Cost.: «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come
società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato
sull'uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla
legge a garanzia dell'unità familiare»;
 Art. 86 Cod. civ.: «Non può contrarre matrimonio chi è vincolato da un
matrimonio precedente»;
 Art. 556 Cod. pen.: «Chiunque, essendo legato da matrimonio avente
effetti civili, ne contrae un altro, pur avente effetti civili, è punito con la
reclusione da uno a cinque anni».
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Secondo la DOTTRINA e la GIURISPRUDENZA prevalente,
infatti, il matrimonio poligamico non può trovare
riconoscimento in Italia, essendo in contrasto con l’ordine
pubblico. Esso, difatti, violerebbe sia l’obbligo reciproco di
fedeltà sia il principio di eguaglianza morale e giuridica dei
coniugi.
Di conseguenza, in genere, in Italia viene ritenuto valido
soltanto il primo matrimonio celebrato, potendo il giudice
ricorrere all’eccezione di ordine pubblico per il
disconoscimento degli effetti successivi, pur validi
all’estero.
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«[…] Il divieto di poligamia non è condizionato da
condizioni di fatto […], ma opera in sé e perdura
fino alla cessazione legale di uno dei vincoli
coniugali» (Cass. Civ., sez. VI, 28 febbraio 2013,
n. 4984)
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In alcune pronunce giurisprudenziali, tuttavia, è
possibile cogliere una cauta apertura nei confronti
del matrimonio poligamico contratto all'estero e ciò
attraverso:
1. IL RICONOSCIMENTO DI DETERMINATI EFFETTI
SUCCESSORI E ALIMENTARI;
2. LA
TUTELA
DEL
DIRITTO
AL
RICONGIUNGIMENTO FAMILIARE COLLEGATO
PERÒ AL RAPPORTO DI FILIAZIONE.
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IL RICONOSCIMENTO DI EFFETTI SUCCESSORI E ALIMENTARI DERIVANTI DA UN
MATRIMONIO POLIGAMICO
 Cass. Civ., sez. I, 2 marzo 1999, n. 1739: <<In virtù del principio del "favor matrimoni", l'atto di
matrimonio non perde validità se non sia stato impugnato per una delle ragioni indicate dagli artt.
117 e seguenti cod. civ. e non sia intervenuta una pronuncia di nullità o di annullamento; ne
consegue che, in virtù della validità interinale del matrimonio contratto da cittadino italiano
all'estero, pur secondo una legge prevedente la poligamia e il ripudio, ma nel rispetto delle forme ivi
stabilite e ricorrendo i requisiti sostanziali di stato e capacità delle persone, non si può disconoscere
l'idoneità di tale matrimonio a produrre effetti nel nostro ordinamento, finché non di deduca la
nullità di tale matrimonio e non intervenga una pronuncia sul punto>>.  Nel caso di specie, la
Suprema Corte, riconoscendo la validità di un matrimonio contratto secondo la legge somala, ha
ritenuto irrilevante la contrarietà all'ordine pubblico della natura potenzialmente poligamica e
della risolubilità unilaterale del matrimonio islamico, limitatamente alla sua efficacia ai fini
successori di uno dei coniugi. La Cassazione ha dunque confermato la sentenza di merito che,
ritenuto che il profilo dell'ordine pubblico e del buon costume, connessi alle caratteristiche della
poligamia e del ripudio, proprie del matrimonio islamico, erano estranei al rapporto dedotto in
giudizio, aveva affermato il rilievo in sede ereditaria dello status di coniuge acquisito in virtù di
matrimonio celebrato in Somalia nel rispetto delle forme stabilite dalla "lex loci" ed in presenza dei
requisiti di stato e capacità delle persone (<<il figlio e la moglie del mussulmano poligamo sono
comunque ammessi a succedere ai beni lasciati da costui in Italia>>).
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LA TUTELA DEL DIRITTO AL RICONGIUNGIMENTO FAMILIARE COLLEGATO AL
RAPPORTO DI FILIAZIONE
La poligamia è stata specificamente analizzata a livello europeo con la DIRETTIVA SUL
RICONGIUNGIMENTO FAMILIARE (DIRETTIVA DEL CONSIGLIO DEL 22.09.2003,
2003/86/CE): essa ha sancito il divieto di autorizzare il ricongiungimento familiare con
un altro coniuge se il soggiornante ha già un coniuge convivente sul territorio dello
Stato membro.
Tale divieto diviene DEROGABILE solo quando il ricongiungimento sia chiesto dai (o
deve essere concesso ai) figli minorenni. In questo caso, infatti, agli Stati membri è
lasciata la possibilità di limitarne il ricongiungimento e quindi, a contrario, di consentirlo
(art. 4, par. 4, secondo capoverso, direttiva 2003/86/CE: in caso di matrimonio
poligamico «in deroga al paragrafo 1, lettera c) [secondo il quale gli Stati membri
autorizzano l’ingresso e il soggiorno dei figli minorenni del soggiornante, quando questo
ne sia il genitore affidatario e sia responsabile del loro mantenimento], gli Stati membri
possono limitare il ricongiungimento familiare dei figli minorenni del soggiornante e di
un altro coniuge»).  La suddetta direttiva ha quindi preso una posizione netta e
definitiva in merito al ricongiungimento familiare tra due coniugi in caso di matrimonio
poligamico, ma nulla ha previsto in caso di richiesta di ricongiungimento familiare
nell’interesse di figli minori.
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L’ORDINAMENTO ITALIANO ha dato attuazione alla direttiva europea, inserendo altresì una
specifica disposizione al riguardo all’interno del T.U. SULL’IMMIGRAZIONE (art. 29, comma 1ter:
«Non e' consentito il ricongiungimento dei familiari di cui alle lettere a) e d) del comma 1,
quando il familiare di cui si chiede il ricongiungimento è coniugato con un cittadino straniero
regolarmente soggiornante con altro coniuge nel territorio nazionale»).  Nel caso di
ricongiungimento richiesto dal figlio minore ai sensi della lettera d) del comma 1 dell’art. 29, il
ricongiungimento familiare viene ritenuto ammissibile dalla giurisprudenza anche in virtù delle
seguenti norme del T.U. sull’immigrazione:
1. art. 28, co. III  «In tutti i procedimenti amministrativi e giurisdizionali finalizzati a dare
attuazione al diritto all'unità familiare e riguardanti i minori, deve essere preso in
considerazione con carattere
di
priorità il superiore interesse del fanciullo,
conformemente a quanto previsto dall'articolo 3, comma 1, della Convenzione sui diritti
del fanciullo del 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva ai sensi della legge 27
maggio 1991, n. 176»;
2. art. 31, co. III  «Il Tribunale per i minorenni, per gravi motivi connessi con lo sviluppo
psicofisico e tenuto conto dell'età e delle condizioni di salute del minore che si trova nel
territorio italiano, può autorizzare l'ingresso o la permanenza del familiare, per un periodo
di tempo determinato, anche in deroga alle altre disposizioni della presente legge.» .
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 Cass. Civ., sez. VI, 28 febbraio 2013, n. 4984: «In tema di
ricongiungimento familiare del cittadino straniero, il divieto stabilito
dall'art. 29, comma 1 ter, del d.lgs. n. 286 del 1998 con riguardo alle
richieste proposte a favore del coniuge di un cittadino straniero, già
regolarmente soggiornante con altro coniuge in Italia, opera
oggettivamente, a prescindere dalle qualità soggettive del richiedente,
mirando ad evitare l'insorgenza nel nostro ordinamento di una
condizione di poligamia, contraria all'ordine pubblico anche
costituzionale. (Nella specie, la richiesta era stata avanzata dal figlio a
favore della propria madre, il cui coniuge, già soggiornante in Italia,
aveva precedentemente proposto analoga istanza a favore di un'altra
moglie; in applicazione dell'anzidetto principio la S.C. ha accolto il ricorso,
escludendo la necessità di provare che il figlio avesse agito per conto del
padre).»;
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 Tribunale di Bologna, 12 marzo 2003: «un cittadino marocchino
regolarmente residente in Italia chiede il ricongiungimento con la propria
madre, che vive in Marocco. L’ambasciata italiana in Rabat nega il nulla
osta, motivando il diniego sulla base della circostanza che la presenza nel
territorio nazionale della predetta cittadina straniera verrebbe a
determinare un caso di poligamia, essendo già presente in Italia la prima
moglie del padre del richiedente, il quale ultimo è a sua volta titolare di
permesso di soggiorno in Italia e che in Marocco aveva contratto più
matrimoni. Il Giudice Unico presso il Tribunale di Bologna ha accolto il
ricorso del figlio richiedente e ha annullato il provvedimento impugnato, che
deve ritenersi illegittimo, “in quanto ingiustamente comprime il diritto al
ricongiungimento vantato dal ricorrente in materia di filiazione”. Il Giudice
infine ha disposto che l’Ambasciata italiana rilasciasse visto per motivi di
ricongiungimento familiare in favore della madre del richiedente».Il
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 Corte di Appello di Torino, 18 aprile 2001: «ai sensi e per gli effetti degli
art. 29 l. n. 40 del 1998 e 31 d.lg. n. 286 del 1998, va consentita al
coniuge extracomunitario di un cittadino anch'esso extracomunitario (di
sesso maschile), munito di regolare permesso di soggiorno, svolgente in
Italia un'attività lavorativa ed in condizioni familiari, abitative,
economiche e sociali positive, di permanere in Italia allo scopo di
consentire alla madre la prosecuzione delle cure parentali prodigate al
figlio minore comune e rivelatesi d'esito felice, non rilevando in contrario
che il marito, contratto legittimo matrimonio poligamico (bigamico) nella
propria terra d'origine, viva in Italia anche con l'altra moglie: la
permanenza in Italia della madre va, infatti, consentita non allo scopo
di omologare un'unione matrimoniale poligamica, ma allo scopo di
tutelare il primario e poziore diritto del minore a non essere separato,
senza adeguato motivo, da uno dei genitori».
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La kafala (o kafalah) è uno strumento di protezione dell’infanzia abbandonata assai
diffuso nei Paesi di diritto islamico.
In particolare, la Kafala è un istituto giuridico del diritto islamico attraverso il quale un
giudice affida la protezione e la cura di un minore (makfoul) ad un soggetto (kafil). Si
tratta di un atto revocabile che termina con il raggiungimento della maggiore età del
makfoul e che non dà luogo ad alcun legame giuridico di filiazione tra il kafil ed il
makfoul (infatti, il significato etimologico della parola, tradotta dall’arabo, è quello di
«aggiungere qualcosa a qualcos’altro»): il minore non assume e non acquisisce né il
nome né tanto meno i diritti ereditari del kafil (ad eccezione del caso in cui non sia egli
stesso, attraverso una dichiarazione testamentaria, ad inserire il makful nel proprio
testamento, equiparandolo ad uno dei suoi eredi).
I FONDAMENTI di quest’istituto sono essenzialmente due:
1. il divieto di adozione da parte del Corano e ciò sulla base della concezione della
famiglia come istituzione di origina divina e della credenza secondo la quale
anche i vincoli di filiazione sarebbero espressione della volontà di Dio, con
conseguente divieto per l’uomo di costituirne di artificiali;
2. il principio coranico secondo il quale ogni buon musulmano è tenuto ad aiutare i
bisognosi, in particolare gli orfani.
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I PRESUPPOSTI dell'applicazione dell'istituto
sono:
1.la dichiarazione d'abbandono del minore;
2.l'accertamento dell'identità dell'aspirante
kafil, il quale deve essere maggiorenne,
appartenere alla religione islamica ed
avere la capacità di far fronte alle
responsabilità che derivano dall’impegno
di protezione assunto.
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La kafala (che può avere natura NEGOZIALE o GIUDIZIALE), a livello internazionale,
è prevista da:
1. art. 20 della CONVENZIONE INTERNAZIONALE SUI DIRITTI DELL’INFANZIA
(adottata dall’ONU il 20 novembre 1989, ratificata in Italia con l. 27 maggio 1991, n.
176 ed entrata in vigore il 5 ottobre 1991):
«1) Ogni fanciullo il quale è temporaneamente o definitivamente privato del suo
ambiente familiare oppure che non può essere lasciato in tale ambiente nel suo
proprio interesse, ha diritto a una protezione e ad aiuti speciali dello Stato
2) Gli Stati parti prevedono per questo fanciullo una protezione sostitutiva, in
conformità con la loro legislazione nazionale;
3) Tale protezione sostitutiva può in particolare concretizzarsi per mezzo di
sistemazione in una famiglia, della kafalah di diritto islamico, dell’adozione o in
caso di necessità, del collocamento in un adeguato istituto per l’infanzia.
Nell’effettuare una selezione tra queste soluzioni, si terrà debitamente conto della
necessità di una certa continuità nell’educazione del fanciullo, nonché della sua
origine etnica, religiosa, culturale e linguistica»;
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2. art. 3 della CONVENZIONE DELL’AJA 19 dicembre 1996 («Sulla
competenza, la legge applicabile, il riconoscimento, l’esecuzione e la
cooperazione in materia di responsabilità genitoriale e di misure di
protezione dei minori»)  Quest’ultima convenzione, tuttavia, è stato solo
sottoscritta (nel 2003), ma non anche ratificata, dall’Italia. Nel dettaglio, la
ratifica della suddetta Convenzione da parte dell’Italia sembrerebbe in corso
in questo momento. In data 10.03.2015, infatti, il Senato ha approvato il
disegno di legge di ratifica della Convenzione internazionale dell’Aja,
escludendo però dal suddetto testo gli articoli inerenti al recepimento della
kafala nel sistema giuridico italiano (così come configurata dalla Camera nel
disegno di legge approvato il 25.06.2014). Il disegno di legge 1589/2013,
sottoposto al vaglio del Senato che ha approvato la ratifica, pur prevedendo
che la kafala vada sicuramente regolamentata, evidenzia la necessità di
individuare una disciplina che si attaglia alle sue peculiarità, al contempo non
eludendo le regole poste in materia di adozione internazionale. Presente la
consapevolezza del rischio che, senza autorizzazione e controlli del Governo,
si possa dare vita ad operazioni di traffici di minori in violazione dei loro
diritti fondamentali.
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La kafala è quindi assimilabile o quanto meno assomiglia a qualcuno degli
strumenti previsti dall’ordinamento giuridico italiano a tutela e a protezione
dell’infanzia abbandonata?
≠
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35
In ordine alla differenza tra la kafala e gli istituti italiani a tutela e a protezione
dell’infanzia abbandonata:
 Trib. Minorenni Trento 05.03.2002: «Il provvedimento marocchino denominato
"kafala" non può in alcun modo essere equiparato a un affidamento preadottivo
e non può quindi essere dichiarato come tale efficace in Italia, ai sensi dell'art.
36, comma 2, l. 4 maggio 1983, n. 184»;
 Trib. Min. Trento 10.09.2002: «Il minore marocchino affidato nel suo paese di
origine a due coniugi italiani mediante provvedimento di "kafala" e autorizzato
all'ingresso in Italia dalla Commissione per le adozioni internazionali, non
potendo essere adottato con adozione legittimante a causa della non
equiparabilità della "kafala" ad un provvedimento preadottivo, si trova in una
situazione di constatata impossibilità di affidamento preadottivo, e può quindi,
nel suo interesse, essere adottato dagli affidatari mediante adozione in casi
particolari»;
 Cass. Civ., sez. I, 4 novembre 2005, n. 21395: «In tema di adozione di minore
marocchino, l'istituto di diritto islamico della "kafalah", sebbene attribuisca ai
coniugi affidatari un potere dal contenuto educativo sostanzialmente assimilabile
all'affidamento preadottivo, non attribuisce né la tutela né la rappresentanza
legale del minore, con conseguente inammissibilità dell'opposizione degli
affidatari alla dichiarazione di adottabilità del minore stesso»;
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LA GIURISPRUDENZA ITALIANA
La giurisprudenza italiana si è espressa in tema di:
 RICHIESTE DI RICONGIUNGIMENTO FAMILIARE TRA PERSONE
LEGATE DAL RAPPORTO DI KAFALA;
 IN MATERIA DI RICONOSCIMENTO DELLA KAFALA GIUDIZIALE.
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CASS. CIV., SS. UU., 21108/2013
Sul ricongiungimento del minore in kafalah si sono recentemente pronunciate anche le
Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. Civ. SS. UU., 16 settembre 2013, n.
21108).
In questa pronuncia la Cassazione ha evidenziato la differenza di disciplina applicabile
in base alla nazionalità del soggetto affidatario (kafil):
1. se l’ingresso del minore è richiesto da uno straniero (extracomunitario), il
riferimento normativo è il T.U. sull’immigrazione (d.lgs. 286/1998 art. 29);
2. se il kafil è cittadino italiano, si applica il d.lgs. 30/2007, che regola il diritto dei
cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel
territorio degli Stati membri.
Con riferimento a quest’ultima fattispecie (ricongiungimento con il cittadino italiano),
le SS. UU. hanno evidenziato che l’art. 2, lettera b) del d.lgs. 30/2007, con riguardo al
concetto di « familiare » ai fini del suddetto decreto, sembra fare esclusivo
riferimentoal legame di parentla tra soggetti che discendono direttamente dallo stesso
stipite, correlati tra loro per effetto di un vincolo biologico ovvero di un legame
comunque assimilabile alla procreazione, come l’adozione o l’affidamento
preadottivo, con la conseguenza che la kafalah sarebbe da escludersi, in quanto
disomogenea e incompatibile rispetto a tali istituti.  Cio, ad avviso della Corte,
creerebbe una disparità di trattamento in danno dei cittadini italiani rispetto ai
cittadini stranieri ai quali sarebbe consentito il ricongiungimento con i minori affidati in
kafalah.
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Secondo le Sezioni Unite, però, si tratterebbe di una discriminazione solo virtuale, vista l’art. 3, comma
2 dello stesso decreto, in base al quale «senza pregiudizio del diritto personale di libera circolazione e
di soggiorno dell’interessato, lo Stato membro ospitante, conformemente alla sua legislazione
nazionale, agevola l’ingresso e il soggiorno…[di un familiare che] è a carico o convive, nel paese di
provenienza, con il cittadino dell’Unione titolare del diritto di soggiorno a titolo principale o [quando]
gravi motivi di salute impongono che il cittadino dell’Unione lo assista personalmente».  Ad avviso
delle Sezioni Unite, dunque, il riferimento a qualunque parente che « è a carico o convive » con il
richiedente rappresenterebbe la chiave di volta per l’autorizzazione al ricongiungimento con il cittadino
italiano, in quanto estenderebbe gli effetti del decreto fuori dai limiti tracciati dall’art. 2, lettera b) e
quindi consentirebbe l’inclusione dei minori affidati in kafalah tra i soggetti legittimati all’ingresso a
scopo di coesione.
In sostanzia, le Sezioni Unite hanno riaffermato il diritto (già espresso da taluna giurisprudenza) di
ricongiungimento familiare del minore affidato in kafalah al cittadino italiano, secondo il seguente
principio di diritto: «Non può essere rifiutato il nulla osta all'ingresso nel territorio nazionale, per
ricongiungimento familiare, richiesto nell'interesse di minore cittadino extracomunitario, affidato a
cittadino italiano residente in Italia con provvedimento di "kafalah" pronunciato dal giudice
straniero, nel caso in cui il minore stesso sia a carico o conviva nel paese di provenienza con il
cittadino italiano, ovvero gravi motivi di salute impongano che debba essere da questi
personalmente assistito».
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L’orientamento delle SS.UU. è stato confermato da successive pronunce, tra cui:
 Cass. civ., sez. I, 22 maggio 2014, n. 11404: «In tema di ricongiungimento familiare del minore
straniero, l'espressione «altri familiari» di cui all'art. 3, comma 2, lett. a), del d.lgs. 6 febbraio 2007,
n. 30 va interpretata estensivamente in conformità ai principi affermati dall'art. 3 della
Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 24 novembre 1989, ratificato con la legge 27
maggio 1991, n. 176, e dall'art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea del 7
dicembre 2000, secondo una accezione non strettamente parentale, in ragione del perseguimento
del superiore interesse del minore, prevalente su eventuali interessi confliggenti.» . (Nella specie, la
S.C. ha cassato il decreto della Corte d'appello con cui si era negata la qualifica di familiare di
cittadino comunitario al minore extracomunitario non discendente diretto del coniuge o del
partner, ma solo affidato in forza di un istituto quale la "kafalah" giudiziale, vigente nello Stato del
Marocco, ai fini del ricongiungimento in Italia).
Con riferimento alla possibilità di ricongiungimento familiare sulla base di una kafala
«convenzionale»:
 Cass. civ., sez. I, 2 febbraio 2015, n. 1843: «La "kalafah" convenzionale, istituto di affidamento
familiare proprio di alcuni ordinamenti giuridici che si ispirano all'insegnamento del Corano, non ha
quale presupposto una situazione di abbandono del minore bensì di semplice difficoltà o
inadeguatezza dell'ambiente familiare originario, sicché non cancella il rapporto di filiazione, ma si
propone di assicurare al minore l'opportunità di vivere in una situazione più favorevole alla sua
crescita. Pertanto, la valutazione circa la possibilità di consentire al minore l'ingresso in Italia ed il
ricongiungimento con l'affidatario, anche se cittadino italiano, che non può essere esclusa in
considerazione della natura e della finalità dell'istituto della "kafalah" negoziale, deve essere
effettuata caso per caso in considerazione del superiore interesse del minore».
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In relazione al riconoscimento di kafala «giudiziale»:
 Cass. civ., sez. I, 23 settembre 2011, n. 19450: «Deve essere dichiarata inammissibile la domanda,
proposta ai sensi degli artt. 66 e 67 della legge 31 maggio 1995, n. 218, di riconoscimento in
Italia del provvedimento di affidamento in "kafalah" di un minore in stato d'abbandono, ad una
coppia di coniugi italiana, emessa dal Tribunale di prima istanza di Casablanca (in Marocco),
atteso che l'inserimento di un minore straniero, in stato d'abbandono, in una famiglia italiana, può
avvenire esclusivamente in applicazione della disciplina dell'adozione internazionale regolata dalle
procedure richiamate dagli artt. 29 e 36 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (come modificata dalla
legge 31 dicembre 1998, n. 476, di ratifica ed attuazione della Convenzione dell'Aja del 29 maggio
1993), con la conseguenza che, in tale ipotesi, non possono essere applicate le norme generali di
diritto internazionale privato relative al riconoscimento dei provvedimenti stranieri, ma devono
essere applicate le disposizioni speciali in materia di adozione ai sensi dell'art. 41, secondo comma,
della legge n. 218 del 1995».
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