Premessa
La posta in gioco
Tre rivoluzioni industriali
Quando si parla di società industriale, e poi di società postindustriale, in realtà si fa riferimento a un lungo processo che – in ordine agli
ultimi due secoli della vita di quelle parti del mondo che lo hanno
vissuto in tutti i suoi momenti costitutivi – può essere articolato in tre
fasi fondamentali, tipologicamente aperte da tre passaggi individuati
dalla dottrina corrente come altrettante “rivoluzioni industriali”, ciascuna con alcuni tratti prevalenti e peculiari: fermo restando, va da
sé, che in punto di rivoluzione occorre saper distinguere. Tale nozione, infatti, nel lessico delle scienze umane è bivalente. Con essa si
può intendere l’abbattimento per vie interne e violente di un regime
e l’instaurazione di un nuovo regime, ma si può anche intendere una
transizione profonda, più o meno graduale e sostanzialmente pacifica,
da un modo di produzione a un altro, da un sistema di valori a un
altro, ad esempio nel passaggio dal politeismo al monoteismo, o dal
paganesimo al cristianesimo. Parlando di rivoluzioni industriali, il riferimento è a questa seconda accezione. Certo, una rivoluzione industriale può essere anche accompagnata o secondata o promossa da
una rivoluzione nel senso di fenomeno violento e discontinuo (abbattimento/instaurazione): purché si tenga presente che le due accezioni,
pure strettamente connesse in un caso del genere, sono tuttavia distinte.
Ciò premesso, e in estrema sintesi, la prima rivoluzione industriale
si caratterizza anzitutto per una tendenziale spontaneità: non è indotta dalla “mano pubblica”, ma è piuttosto un prodotto dell’iniziativa
autonoma del sistema economico e dei suoi soggetti. Essa si realizza,
inoltre, mediante la crescente utilizzazione della macchina nel processo produttivo, mentre sul piano culturale si determina una forte
aspettativa di crescita economica. In questo quadro, mentre la realtà
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CRISI DELLA POLITICA E GOVERNO DEI PRODUTTORI
preindustriale è connotata comparativamente da stagnazione o lenta
evoluzione dei livelli di vita e di produttività, da una forte prevalenza
della produzione agricola come attività economica, da sostanziale carenza di specializzazione professionale e lavorativa nel processo produttivo (modesta divisione del lavoro), da marcato condizionamento
della vita lavorativa da parte degli eventi naturali (siccità, grandine e
così via), l’azione dell’uomo sulla natura in chiave industriale diviene
viepiù modificativa, tende all’affrancamento dai fenomeni naturali, in
una parola si “artificializza”. Ancora, alla prima rivoluzione industriale si accompagnano di solito la crescita nel lungo periodo sia della
popolazione sia della produzione sia del reddito pro capite, con tassi
variabili ma sempre significativi, nonché il fenomeno dell’inurbamento, profondi mutamenti nella forza lavoro sotto il profilo quantitativo
e qualitativo (emerge nella sua distintività sociale la classe del proletariato urbano industriale), una redistribuzione del reddito tra classi e
ceti sociali, una maggiore e diffusa disponibilità di capitale per lo
svolgimento delle attività produttive. Correlativamente, si sviluppa
nella sua distintività sociale la classe dell’imprenditore industriale capitalista proprietario e gestore degli strumenti della produzione.
Si parla di seconda rivoluzione industriale per mettere in evidenza
una situazione nuova caratterizzata dalla presenza combinata di quattro condizioni fondamentali: rilevante e crescente utilizzazione delle
acquisizioni scientifiche e tecnologiche nei processi produttivi; inserimento dell’azione trasformativa sulla natura in un sistema di previsioni e in un complesso di piani generali e/o di programmi aziendali
volti a conferire razionalità allo sviluppo economico e a evitare le crisi e le cadute; spinta alla concentrazione delle aziende e alla correlativa espansione dell’impresa; pratica dell’azionariato di massa, con la
conseguente dispersione del capitale societario (o di una sua parte cospicua) tra un’ingente e anonima molteplicità di titolari. In breve, se
la prima rivoluzione industriale è la rivoluzione del macchinismo, la
seconda può essere definita la rivoluzione dell’organizzazione 1. Sul
piano sociale, le predette condizioni si accompagnano alla nascita e
all’ascesa di gruppi e categorie il cui titolo di promozione socioeconomica è di per sé estraneo a una concezione patrimoniale della natura. Poiché l’intervento su quest’ultima al fine di trasformarla parte logicamente non dal rapporto proprietario con la res ma dalla conoscenza di questa, è la competenza la nuova fons honorum nella società
industriale avanzata. Talché, nella misura in cui si ha concentrazione
delle aziende e in pari tempo la titolarità del diritto di proprietà si
sparpaglia tra una miriade di azionisti, in larghissima parte senza alcun rapporto funzionale con l’impresa e privi di un qualunque potere
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PREMESSA . LA POSTA IN GIOCO
di decisione in sede aziendale, si determina un moto di separazione
tra bene economico e titolarità del medesimo. Qui l’attore che acquista rilievo potestativo è colui che prende di fatto le decisioni che interessano lo sviluppo produttivo ed economico. Se prima era sostanzialmente l’imprenditore capitalista, titolare della proprietà, ora è presente la nuova figura di chi esercita la funzione di “gestione” (control)
dell’azienda in base a criteri di competenza e comunque indipendentemente da un rapporto di proprietà. L’imprenditore somma titolarità
e gestione. Con la rivoluzione dell’organizzazione, nasce la figura di
chi governa l’azienda anche senza averne la titolarità. E si badi: ciò
che vale per le grandi corporations neocapitaliste (il cui carattere privatistico non è formalmente negato) può essere anche ipotizzato per
le cosiddette aziende a partecipazione statale, nonché per i regimi di
capitalismo di Stato, in base all’assunto che lo Stato è un titolare assai più “lontano” e anonimo del pulviscolo di azionisti delle imprese
occidentali.
È evidente che, nel contesto delle economie dette di mercato, il
passaggio dalla prima alla seconda rivoluzione industriale non determina la scomparsa dell’imprenditore capitalista. Piuttosto, si manifestano differenti prospettive funzionali, e se permangono (tendenzialmente sempre meno, però, specie tra le macroaziende) imprese a conduzione strettamente “padronale” e familiare, se ne affiancano altre
ove si assiste a una “dialettica” tra imprenditore e “gestore”, e altre
ancora ove quest’ultimo è preminente. Quanto a sapere chi sono questi “gestori”, due sono le definizioni fondamentali. Quella di tecnocrate, o manager, che focalizza piuttosto l’elemento individuale (ma la
nozione di tecnocrazia va oltre questa mera configurazione individuale), e quella di tecnostruttura, di cui parla John Kenneth Galbraith, e
che focalizza piuttosto l’elemento collegiale, cioè «lo staff dei tecnici,
dei programmatori e degli altri esperti» che costituisce «l’intelligenza
direttiva – il cervello – dell’impresa» e nel quale è saldamente localizzato «l’effettivo potere di decisione» 2: ma va da sé che al vertice
della tecnostruttura si colloca un nucleo manageriale.
Possiamo definire la terza rivoluzione industriale come la information revolution, la rivoluzione dell’informatica, del calcolatore, della
Rete. Con essa si avvia e prende corpo quella che Daniel Bell ha definito società postindustriale 3. Caratteri distintivi di quest’ultima sono,
oltre ad una accelerazione singolare della dinamica tecnologica, i seguenti: reddito pro capite all’incirca cinquanta volte superiore a quello
della società preindustriale; parte cospicua e crescente delle attività
“economiche” è costituita dai settori terziari e quaternari (servizi)
piuttosto che primari o secondari (produzione in senso stretto); alle
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CRISI DELLA POLITICA E GOVERNO DEI PRODUTTORI
imprese si affiancano, come fonte di innovazione, centri di ricerca,
fondazioni scientifiche, università, che anzi tendono in tale campo a
espandere il loro ruolo; la cibernazione si diffonde costantemente;
mass media e informatica sono viepiù l’elemento connettivo di un sistema sociale ormai ampiamente disarticolato e frammentario; cresce
la spinta a una visione del lavoro in chiave di “flessibilità”, cambio di
mansioni e di orari; la società è in costante aggiornamento culturale,
e si trasformano le tecniche e le istituzioni di istruzione; il tempo
libero tende ad aumentare; il lavoro fisico viene progressivamente
delegato al robot, quello mentale di tipo ripetitivo e programmabile
viene delegato al calcolatore; la classe operaia, nel senso tradizionale, si contrae progressivamente; si afferma la «classe teoretica» di
cui parla Bell, composta di economisti, sociologi, psicologi, scienziati, programmatori, cibernetici, ricercatori dei diversi settori. Poiché
è controverso che la società postindustriale sia in grado di assicurare un’opulenza crescente, vuoi per limiti naturali delle risorse vuoi
per i costi sociali e ambientali dello sviluppo economico, le ragioni
di conflitto sociale non mancheranno, tra l’altro anche perché non
mancheranno problemi di disoccupazione, per il ricorso sempre più
largo agli strumenti tecnologici nei luoghi di lavoro, per i dissesti
del welfare state e per il sovraccarico del sistema previdenziale e assistenziale 4.
Il momento economico dell’esistenza
Dal rapido profilo tipologico delle tre rivoluzioni industriali emergono fenomeni di trasformazione che davvero non possono essere sottovalutati, e basterà citarne uno per tutti: la contrazione, nella società
postindustriale, del ruolo numerico, economico e civile del proletariato urbano, protagonista della fabbrica e della società nel secolo XIX e
in una parte assai significativa del secolo XX. Fermo restando che la
fase postindustriale riguarda per adesso soltanto alcune aree limitate
del globo, e che al decremento del proletariato classico nelle nazioni
avanzate possono accompagnarsi forme più o meno estese e intense
di proletarizzazione socioeconomica e socioculturale di segmenti del
ceto medio e della borghesia, rimane peraltro che le differenze tra
società industriale e società postindustriale configurano dati di realtà.
Tuttavia non sarebbe corretto enfatizzarle, trascurando gli elementi di
continuità che permangono, pur con talune differenze applicative, fra
le tre fasi della società industriale, e in particolare tra la seconda e la
terza. E almeno tre sono gli aspetti che in merito possono essere ri16
PREMESSA . LA POSTA IN GIOCO
chiamati. Per cominciare, persiste la centralità della produzione, dello
sviluppo produttivo, della produttività, pur se si allontana la stagione
dell’industria pesante e la produzione investe una molteplicità in
espansione di beni e servizi, anche immateriali. Inoltre, da quando si
è avviata la società industriale, e segnatamente da quando hanno cominciato ad incidere seconda e terza rivoluzione industriale, la competenza (manageriale, scientifica, tecnologica) ha rivendicato e conseguito un ruolo crescente nell’azienda e nella società in generale, in
uno con le aspettative e le acquisizioni della nuova «classe teoretica»
segnalata da Bell. Infine, c’è il grande nodo della questione politica in
generale. E qui bisogna intendersi.
Il tema della crisi della politica non nasce oggi. Lo dimostra la
successione delle grandi teorie politiche occidentali, le quali con regolarità si accompagnano al variare, al confliggere, al tramontare o al
ritornare, alla vittoria o alla sconfitta, in una parola alla successione
delle diverse forme di reggimento politico nel corso della vicenda
umana: e si capisce che ogni pesante disagio, o a maggior ragione
ogni transizione di regime, segnala comunque una crisi della politica
(dei suoi modi di agire e di essere percepita), quale che ne sia poi la
via d’uscita, in negativo o in positivo.
Altro è il discorso per quanto riguarda non soltanto la crisi della
politica, ma la fine della politica (e si può aggiungere, da quando la
civiltà occidentale ha sostanzialmente generalizzato una visione dinamica – lineare e non circolare – della storia, anche la fine della storia). Qui la sfida si fa globale, categoriale: non riguarda questo o quel
regime politico, questo o quell’assetto potestativo comunque politicamente fondato, ma la politica come categoria dell’agire e del pensare.
Ed è qui che entrano in gioco la tecnocrazia e il pensiero tecnocratico. A quali fonti si può fare risalire tale pensiero? E quale ambiente
socioeconomico esso postula?
Sappiamo che nella sua opera sul «dispotismo orientale» Karl A.
Wittfogel riferisce all’antico Egitto, alla Mesopotamia, ma anche alla
Cina e all’India premoderne, nonché a numerose civiltà precolombiane, il concetto di «società idraulica agromanageriale», con ciò intendendo una economia agricola che implica lavori su vasta scala e a
«direzione governativa» di irrigazione e controllo delle acque 5. Sappiamo che Andrea Carandini richiama quello «strumento fondamentale» dell’intero «ciclo economico interno ed esterno all’agricoltura,
nell’ambito di un’impresa giuridicamente unitaria», che è «lo schiavomanager: un’invenzione tipicamente romana» 6. In breve, in entrambi
i casi (dispotismo orientale e romanità) la nozione di managerialità è
riferita a economie preindustriali, ferme restando, va da sé, le reci17
CRISI DELLA POLITICA E GOVERNO DEI PRODUTTORI
proche differenze. Di più. Non mancano gli studiosi che – sulla base
del requisito della competenza che costituisce uno dei connotati essenziali della tecnocrazia – tendono a interpretare come prefigurazioni di una civiltà tecnocratica i grandi disegni teorici di alcuni pensatori politici di epoche passate. Così è, ad esempio, per Platone, nella
cui sofocrazia vengono rilevate vedute specificamente tecnocratiche. E
così è, ancora, per la Nuova Atlantide di Francesco Bacone, descritta
come un enorme stabilimento di ricerche scientifiche, ove squadre di
specialisti nei vari rami del sapere lavorano ad estendere il dominio
dell’uomo sulla natura.
Per quanto densi di suggestioni, tuttavia questi “precedenti” ben
difficilmente sono ascrivibili e iscrivibili nella categoria tecnocratica
analiticamente intesa. Lo schiavo-manager della romanità è, appunto,
uno schiavo: ben diversa, anzi opposta, è l’idea (non astratta, ma riferibile a un ambiente puntualmente individuato) che il pensiero tecnocratico ha dei suoi managers. L’economia idraulica agromanageriale,
come sottolinea Wittfogel, «costituisce il caso più rilevante di società
in ristagno» 7, mentre il pensiero tecnocratico postula per definizione
una società in sviluppo. Quanto a Platone, e tanto per cominciare,
quella che viene definita la sua «sofocrazia» implica il ruolo del sapiente, non del «competente» di cui parlare a proposito della tecnocrazia. Più in generale, si consideri. Perché possa emergere e trovare
coerente applicazione il concetto di tecnocrazia (con i suoi annessi e
connessi), deve essere prima nato e poi deve essersi affermato l’homo
oeconomicus (quale che ne sia la veste, imprenditoriale, operaia, manageriale) nella sua autonomia, visibilità e riconoscimento sia di fronte all’homo politicus sia di fronte all’homo religiosus. Inoltre, deve essersi prima presentata e fatta strada in sede strutturale e culturale la
crucialità dell’attività economica e del processo economico, insomma
deve essersi compiuta una trasformazione materiale e simbolica che
conduca il dato economico – pur con tutte le sue antinomie, contraddizioni, varietà organizzative, persino fasi fallimentari – nel cuore
della società, sottraendolo e affrancandolo dalla condizione periferica,
immettendolo nel quadro della razionalità scientifica e tecnologica al
fine dell’utilità collettiva.
Viceversa, in Platone, coerentemente con le sue premesse teoretiche, lo status del momento economico dell’esistenza individuale e collettiva è radicalmente subordinato rispetto agli altri versanti della vita
umana, politica e religiosa (e altrettanto può dirsi per la romanità dello schiavo-manager e per le civiltà agromanageriali). In questa chiave,
il soggetto categoriale che nel tempo moderno verrà detto “uomo
economico” non deve avere spazio nella guida “pubblica” della co18
PREMESSA . LA POSTA IN GIOCO
munità. Con riferimento alla platonica «città ideale», la conclusione è
perciò esplicita: la comunità politica è condannata a morte se l’egemonia vi è assunta dalla classe economica 8.
Rimane Bacone. Scritta probabilmente nel 1624, pubblicata nel
1627, la Nuova Atlantide delinea, peraltro con accenti utopici, un
modello di società ove l’azione sulla natura da parte dell’uomo in
funzione del bene dell’umanità, la riproduzione dei fenomeni naturali
in sede di laboratorio, la presenza di stabilimenti ove si preparano
anche artificial metals mediante la combinazione di materiali naturali
costituiscono momento cruciale della vita collettiva, in un contesto di
divisione del lavoro intellettuale, di ricerca e sperimentazione descritto con linguaggio insieme minuzioso e immaginifico: tra le figure
“professionali”, si va dai Merchants of Light ai Depredators, dai Mystery-men ai Pioners, dai Compilers ai Dowry-men, dagli Inoculators
agli Interpreters of Nature.
Sta però di fatto che, pur nell’interesse di tali anticipazioni circa
la posizione degli uomini di scienza «naturale», e quindi circa la competenza come studio e «conoscenza delle Cause», presenti nel disegno ideale baconiano, è poi praticamente assente nell’operetta del
gentiluomo inglese ogni accenno significativo di analisi economica, viceversa centrale in ordine alla questione tecnocratica propriamente
intesa. Ciò suggerisce che storicamente e culturalmente occorre procedere oltre.
Il filo rosso di una sfida
In breve, e per riassumere. Nonostante le differenze tra società industriale avanzata e società postindustriale, nonostante il passaggio, connesso alla cosiddetta globalizzazione, dalla «prima» alla «seconda modernità» 9, con le connesse ricadute e problemi anche di ordine politico, c’è un filo rosso che lega tali scenari, ed è, come si è già accennato, la sfida alla politica lanciata dal pensiero tecnocratico. Sfida che
si profila in riferimento a quella che definiamo seconda rivoluzione
industriale e che però non si esaurisce con e nella società dell’organizzazione industriale, ma anzi si fa più esplicita nell’esperienza postindustriale. E allora occorre approfondire, per chiarire, cominciando con il delineare il profilo dei protagonisti.
Senza dubbio, la sfida alla politica si incardina in una crisi della
politica. Crisi di organizzazione delle sue forme potestative, crisi di
legittimità e di legittimazione. I mutamenti socioeconomici danno
luogo a spostamenti dei centri e delle modalità decisionali verso sog19
CRISI DELLA POLITICA E GOVERNO DEI PRODUTTORI
getti nuovi, inducendo trasformazioni viepiù profonde nella dimensione politica. Così, in tema di composizione delle classi dirigenti, il
problema è allora di sapere se le élites tradizionali dell’Occidente moderno resistano ancora sulle proprie posizioni o non si accingano invece a cedere il bastone del comando alle nuove minoranze espresse
dal mondo della scienza, della tecnica, della produzione. In tema di
relazioni giuspubblicistiche e di strutture istituzionali, cioè passando
da un’indagine sul potere in chiave sociologica a un’indagine condotta in chiave giuridico-costituzionale, la questione è di sapere se la
rappresentanza parlamentare e la divisione dei poteri siano tecniche
ancora adeguate alle esigenze di organizzazione verticale della comunità politica sottolineate dallo sviluppo produttivo e tecnologico o se
tali tecniche non siano ormai di fatto che meri strumenti formali destinati a legittimare il predominio e il prepotere di una classe sulle
altre.
E tra il «dirigente» divenuto tale per elezione e il «dirigente» divenuto tale per competenza, quali sono i rapporti, quali le influenze,
quali i condizionamenti? Il potere di decisione politica sta nelle assemblee parlamentari abitate dal primo o non è invece passato negli
uffici occupati dal secondo, all’eletto non rimanendo che il potere di
ratificare e di rivestire con gli abiti solenni della regola legislativa decisioni prese altrove? E una società che – per le esigenze stesse della
produzione – si razionalizza e mostra di volere razionalizzarsi sempre
più, può sopportare impunemente, oltre che logicamente, l’incompetenza delle minoranze guidatrici che consegue di necessità al riconoscimento dell’elezione come fonte di potere?
Queste domande segnalano l’esigenza di due avvertenze. La prima
è la seguente. La questione del ruolo manageriale riguarda precipuamente il contesto aziendale, in relazione alle trasformazioni dei processi produttivi e dei rapporti tra proprietà e gestione. Fin qui nulla
quaestio. Tuttavia, con un’audace operazione intellettuale di cui vedremo tutti i passaggi, il pensiero tecnocratico trasferisce il problema
del ruolo dei “tecnici”, dei “competenti”, dall’azienda alla società nel
suo complesso, ponendo perciò su basi radicalmente nuove la questione della politica, delle sue aree di incidenza, della sua persistenza,
dunque della guida della comunità nella sua globalità. Tale spostamento di prospettiva (e le sue giustificazioni) è sempre dirimente per
la comprensione del pensiero tecnocratico. Seconda avvertenza. Gli
ultimi due secoli hanno preparato e poi conosciuto le formule politiche autoritarie e totalitarie. Tuttavia questi due secoli sono per definizione nella modernità i «secoli democratici», per dirla con Alexis de
Tocqueville. Ciò significa che il problema politico posto dalla visione
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PREMESSA . LA POSTA IN GIOCO
tecnocratica si risolve in un grande confronto tra modello democratico e modello tecnocratico. Come avremo modo di vedere in corso
d’opera.
Un esercizio di identificazione
In una situazione in cui tutto è in movimento, nulla è definito. Da
quando, per opera di Howard Scott e della sua scuola 10, la parola
“tecnocrazia” è entrata nel linguaggio delle scienze sociali, è ad essa
che sempre più spesso si è fatto e si fa ricorso per denotare la condizione potestativa della società industriale. Tuttavia, quale realtà è richiamata dal termine suddetto? Intanto, chi sono i tecnici? Tecnici
sono l’ingegnere e il manager, l’economista e il militare, il cibernetico
e l’architetto, lo scienziato atomico e il burocrate, tanto per rispondere ricordando un gruppo di categorie alle quali la letteratura sulla
tecnocrazia solitamente si riferisce. Ma non basta. Ché si può logicamente fare coincidere la nozione di tecnico con quella di specialista
in un qualunque ramo del sapere o dell’operare, ampliando così a dismisura il numero dei possibili significati della parola “tecnocrazia”.
E però, può dirsi che tutti i tecnici ora richiamati siano suscettibili di
trasformarsi in tecnocrati? Quale requisito, quale carattere distingue –
dato che tale requisito e tale carattere esistano – il tecnico dal tecnocrate? Inoltre, in termini di appartenenza di classe, dove collochiamo
i tecnici, dove i tecnocrati? Sono dei borghesi o cosa? Rimangono
radicati nella classe d’origine o tendono a costituirsi in classe autonoma? Problemi, anche questi connessi al tema dell’appartenenza di
classe, che un’impostazione dottrinale storicamente molto diffusa ha
considerato non privi di rilievo, proprio ad effetto dei modi di esercizio del potere.
E ancora. Malgrado l’ampiezza, che è anche indeterminatezza, del
numero dei possibili attori della vicenda tecnocratica (il manager o
l’ingegnere, il fisico o l’economista?), e quindi malgrado che i modi
in cui si atteggia il potere debbano variare a secondo che il potere
stesso si presuma esercitato dall’uno o dall’altro gruppo, è tuttavia
possibile avvertire l’emergenza di un carattere comune a ciascuno di
tali modi. Chiunque sia il tecnocrate, si vuole infatti che la sua affermazione debba coincidere con un ribaltamento dell’essenza stessa del
kratos: la decisione sulla res publica, vale a dire l’espressione prima
della funzione potestativa, si converte da atto «politico» in atto «tecnico». Essa, cioè, non è più un risultato, è un prodotto, o una dimostrazione. Se il momento della responsabilità si dépolitise, è la politica
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CRISI DELLA POLITICA E GOVERNO DEI PRODUTTORI
propriamente detta che scompare, e con essa il suo principale protagonista, il politico.
Sotto questo profilo, la società industriale pone il potere a un bivio. Due strade possono essere imboccate. Da una parte, la strada di
una trasformazione del potere che non intacca, o almeno non smentisce, la natura politica del potere stesso, nonostante la varietà delle
forme istituzionali che esso è in grado di assumere, nonostante tutti i
mutamenti intervenuti nell’ambito socioeconomico, nonostante l’utilizzazione su vasta scala dei nuovi strumenti di persuasione e la conseguente impostazione del rapporto governati/governanti in termini
almeno parzialmente originali. La seconda strada è, al contrario, quella della totale emancipazione del potere dai caratteri precedentemente rivestiti, e dell’assunzione di una diversa natura, tecnica e spoliticizzata. Quale sarà, o forse si deve dire qual è, la direzione verso cui
il potere è volto?
Né basta. L’osservazione suggerisce che allo sviluppo tecnologico
e produttivo materiale corrisponde troppo spesso un inaridimento
della dimensione “spirituale” della società, una strumentalizzazione
mercificante delle persone, un declino della prospettiva etica, un’espansione delle pulsioni egoistiche, un’insensibilità verso le manifestazioni alte dell’espressione artistica, una disattenzione diffusa verso le
grandi questioni dell’intelligenza storica, con un appiattimento al presente che neglige il passato e non progetta l’avvenire. Tutto ciò schiude, o riapre, un nuovo campo di indagine alla riflessione sul potere
nella società industriale e postindustriale. Un discorso sui tecnici e
sugli uomini della produzione si allarga infatti necessariamente a un
discorso sugli intellettuali. Intanto, nel senso che è legittimo chiedersi
se e quanto i tecnici partecipino della intellettualità. Ma principalmente, poi, nel senso che le frustrazioni della “spiritualità” inerenti
alla società della produzione richiamano l’attenzione proprio sul ruolo delle minoranze intellettuali, artisti, pensatori, uomini della morale
e della religione, e sulla loro influenza come esito di un impegno costante di proposta culturale, di denuncia morale, di educazione generale, di pubblica responsabilità.
Alle radici del pensiero tecnocratico
Nel quadro di questa ampia, complessa e grave problematica – qui
peraltro richiamata, come è comprensibile, solo per verba generalia –
lo studio del pensiero di Claude Henri de Saint-Simon (1760-1825) e
di Auguste Comte (1798-1857) trova la sua sede puntuale. E ciò per
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PREMESSA . LA POSTA IN GIOCO
un duplice ordine di motivi. Intanto, dalle pagine dei due pensatori
francesi emergono a chiare note i problemi testé ricordati, con i cento altri ad essi connessi. Di più, spesso emergono anticipati nel tempo
al punto che talora non si saprebbe dire quali e quanti di questi problemi i due autori abbiano visto nella realtà storica, quali e quanti di
questi problemi abbiano posto alla realtà storica. Ma non basta. Filosofi della crisi della società occidentale, filosofi della crisi del potere
in questa società, Claude Henri de Saint-Simon e Auguste Comte appaiono infatti anche come filosofi della soluzione – definitiva, a loro
avviso – di questa crisi, che per ciò stesso si configura come la crisi
ultima e definitiva del mondo occidentale.
A differenza di quelle teoriche sociali ottocentesche che pretendono di risolvere il problema della crisi della società contemporanea
con il rifiuto della socialità industriale e con il vagheggiamento di ritorni a forme economiche e morali di tipo artigianale o agricolo; a
differenza, ancora, di quelle teoriche sociali ottocentesche le quali ritengono di risolvere il problema della crisi del potere con l’eliminazione della dimensione potestativa dalla città, il positivismo saint-simoniano e comtiano non solo accetta la socialità industriale, ma la
avvalora, non solo non nega il potere, ma gli conferisce, o gli restituisce, un suo ruolo eminente. In questo modo, la sociologia positivista
dà la sua risposta sui caratteri che la società produttiva e soprattutto
il relativo potere si accingono ad assumere; indica la direzione che a
suo vedere la società e il suo potere, posti di fronte alle alternative e
alle scelte che la situazione impone, si apprestano a imboccare.
Orbene, è appunto la problematica quale l’hanno sentita Saint-Simon e Comte, è inoltre la soluzione quale Saint-Simon e Comte hanno previsto, che qui mi pongo a ricostruire. E pour cause. Non si coglie il senso, culturale e politico, della questione tecnocratica, se non
si risale alle radici. E le radici stanno lì, nell’edificio teorico del positivismo saint-simoniano e comtiano, ben prima che la nascente società industriale assumesse i caratteri di società dell’organizzazione, ben
prima che assumesse contorni e contenuti postindustriali. Si può discutere molto del pensiero dei due maestri, e lo faremo mano a mano
e poi a conclusione del presente volume, ma non si può misconoscerne la potenza anticipatrice di tendenze (e tentazioni) che hanno
trovato riscontri effettuali nella storia successiva, pur se l’assolutizzazione di certe soluzioni prospettate merita distinguo e anche esplicite
confutazioni. Intanto, studiamo i due pensatori, rendendo loro ciò
che è loro 11.
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