CINEMA E FILOSOFIA LA GRANDE BELLEZZA regia di Paolo Sorrentino Soggetto: Paolo Sorrentino; sceneggiatura: Paolo Sorrentino, Umberto Contarello; fotografia: Luca Bigazzi; musiche originali: Lele Marchitelli; scenografia: Stefania Cella; costumi: Daniela Ciancio; montaggio: Cristiano Travaglioli; fonico di presa diretta: Emanuele Cecere; interpreti principali: Toni Servillo (Jep Gambardella), Carlo Verdone (Romano), Sabrina Ferilli (Ramona), Carlo Buccirosso (Lello Cava), Iaia Forte (Trumeau), Giovanna Vignola (Dadina), Pamela Villoresi (Viola), Galatea Ranzi (Stefania), Massimo Popolizio (Alfio Bracco), Serena Grandi (Lorena), Massimo De Francovich (Egidio), Roberto Herlitzka (cardinale Bellucci), Isabella Ferrari (Orietta), Giusi Merli (suor Maria “la Santa”) Fanny Ardant (se stessa), Antonello Venditti (se stesso). produzione: Indigo Film, Medusa Film, Babe Films, Pathè; origine: Italia, Francia anno: 2013 distribuzione: Medusa Film; durata: 142 minuti. Che cos’è un poeta? Un uomo infelice che nasconde profonde sofferenze nel cuore, ma le cui labbra sono fatte in modo che se il sospiro, se il grido sopra vi scorre, suonano come una bella musica. […] Ora, s’intende, critico e poeta si somigliano come due gocce d’acqua, solo che il primo non ha le sofferenze nel cuore, non ha la musica sulle labbra. (S. Kierkegaard, Enten-Eller, tomo primo, Milano, Adelphi, 1978) Non ho voglia di nulla. Non ho voglia di cavalcare, è un moto troppo violento; non ho voglia di camminare, è troppo faticoso; non ho voglia di distendermi, perché o dovrei restare in tale posizione, e non ne ho voglia, o dovrei di nuovo alzarmi, e non ne ho voglia nemmeno. Summa summa rum: non ho voglia di nulla.(S. Kierkegaard, Enten-Eller, tomo primo, Milano, Adelphi, 1978) Oltre ai miei numerosi giri di conoscenze, ho ancora un animo confidente: la mia melanconia. Nel mezzo della mia gioia, nel mezzo del mio lavoro essa mi fa cenno, mi prende con sé, benché fisicamente io rimanga inerte. La mia melanconia è l’amante più fedele che abbia conosciuto. E che c’è da meravigliarsi se a mia volta l’amo? (S. Kierkegaard, Enten-Eller, tomo primo, Milano, Adelphi, 1978) Che succederà? Che riserva il futuro? Non lo so, non presento nulla. Quando un ragno si slancia giù da un punto saldo nei suoi punti conseguenti, innanzi a sé vede sempre uno spazio vuoto, dove non ostante i suoi sforzi, gli è impossibile trovare appoggio. Così per me: innanzi sempre uno spazio vuoto, e quel che mi spinge è un conseguente che sta dietro di me. Questa vita è spaventosamente al rovescio, è insopportabile. (S. Kierkegaard, Enten-Eller, tomo primo, Milano, Adelphi, 1978) Penso,” gli dico ridendo, “che siamo tutti qui a bere e a mangiare per conservare la nostra preziosa esistenza, e che non c'è niente, niente, nessuna ragione di esistere. (J. P. Sartre, La nausea, Milano, Mondadori, 2002) Il mondo … questo grosso essere assurdo. Non ci si poteva nemmeno domandare da dove uscisse fuori, tutto questo, né come mai esisteva un mondo invece che niente. Non aveva senso, il mondo era presente dappertutto, davanti, dietro. Non c’era stato niente prima di esso. Niente. Non c’era stato un momento in cui esso avrebbe potuto non esistere. Era appunto questo che m’irritava : senza dubbio non c’era alcuna ragione perché esistesse, questa larva strisciante. Ma non era possibile che non esistesse. Era impensabile : per immaginare il nulla occorreva trovarcisi già, in pieno mondo, da vivo, con gli occhi spalancati, il nulla era solo un’idea nella mia testa, un’idea esistente, fluttuante in quella immensità : quel nulla non era venuto prima dell’esistenza, era un’esistenza come un’altra e apparsa dopo molte altre. (J. P. Sartre, La nausea, Milano, Mondadori, 2002) Ho gettato attorno uno sguardo ansioso: presente, nient'altro che presente. [...] La vera natura del presente si svelava: era ciò che esiste, e tutto quello non avevo presente, non esisteva. Il passato non esisteva. Affatto. Né nelle cose e nemmeno nel mio pensiero. Certo, avevo capito da un pezzo che il mio presente mi era sfuggito. (J. P. Sartre, La nausea, Milano, Mondadori, 2002) Una volta anche Zarathustra gettò la sua illusione al di là dell’uomo, come gli abitanti di un retro mondo. Allora il mondo mi apparve come l’opera di un dio sofferente e tormentato. Il mondo mi apparve allora sogno e finzione di un dio, fumo colorato davanti agli occhi di un divino insoddisfatto. Bene e male, e piacere e dolore e io e tu – fumo colorato mi sembrò davanti agli occhi del creatore. Il creatore voleva volgere lo sguardo lontano da sé – allora creò il mondo. Ebbro piacere è per chi soffre distogliere lo sguardo dalle proprie sofferenze e perdersi. (F. W. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Milano, Mondadori, 1992) Perché la vita sia guardata benevolmente, il suo spettacolo deve essere ben recitato: ma per far ciò occorrono bravi attori. Bravi attori ho trovato i vanitosi: essi recitano e vogliono spettatori interessati – tutto il loro spirito consiste in questa volontà. Essi si mettono in scena, inventano se stessi; accanto a loro, mi piace assistere allo spettacolo della vita – ciò guarisce dalla malinconia. Perciò rispetto i vanitosi, poiché sono i medici della mia malinconia e mi tengono fermo davanti all’uomo come davanti a uno spettacolo. E inoltre: chi potrà misurare nel vanitoso tutta la profondità della sua modestia! Io sono benevolo nei suoi confronti e ho compassione della sua modestia. (F. W. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Milano, Mondadori, 1992) Nel momento in cui venga rilevato lo scarto fra la molteplicità del bello sensibile e ciò che ad esso conferisce la qualità specifica della bellezza, si aprono infatti due strade differenti, anche se non necessariamente incompatibili. Ci si può abbandonare al godimento dello spettacolo bello, lasciandosi attraversare dall' onda di emozioni piacevoli con esso connesse, senza procedere oltre. Oppure è possibile muovere dall' esperienza sensibile del bello per interrogarsi sulla sua vera essenza, per cercare di definirne lo specifico statuto. La prima strada, già severamente censurata da Platone con la critica ai philothèamones, vale a dire a coloro che sono "amanti degli spettacoli", ci imprigiona sul piano della sensibilità, mentre la seconda dischiude un percorso che può condurci dalla molteplicità delle cose belle al bello in sè. La ricerca del filosofo si muove a ridosso di entrambe queste prospettive, senza mai cancellare la questione di fondo, relativa al loro rapporto. (U. Curi, L' apparire del bello, Torino, Bollati Boringhieri, 2013)