La professoressa Betri, docente di storia moderna e contemporanea nell’Università degli Studi di Milano, ci fa dono di un suo saggio dedicato all’ottocentesco “stimatissimo signor dottore”, integralmente pubblicato nella rivista “Prometeo” (a.23, n.91, settembre 2005). Ne riportiamo, per i nostri lettori, un ampio estratto, limitato - per esigenze editoriali - alle prime pagine. Lo“stimatissimo signor dottore” Aspetti della professione medica nel primo Ottocento MARIA LUISA BETRI Nel processo di consolidamento delle professioni liberali durante il lungo Ottocento, dallo scorcio del XVIII secolo agli esordi del XX, quella medica rivestì indubbiamente un ruolo di protagonista, con l’ascesa dei “figli di Esculapio” da incompresi o avversati esercenti un’ “arte salutare” povera di efficacia terapeutica a “tecnici della salute e dell’igiene” detentori, grazie ai progressi della scienza e alle scoperte della batteriologia, di una credibilità crescente e di un corrispettivo prestigio sociale. L’approdo a questa condizione concludeva un lungo iter costellato di “triboli e spine”, cui avevano dato all’epoca una particolare risonanza la stampa medica periodica e i galatei , sorta di trattati deontologici editi in gran numero per proporre codici di comportamento utili alla faticosa ridefinizione della figura professionale. La vicenda del medico chirurgo moderno prese le mosse da due profondi cambiamenti intervenuti tra fine Settecento ed età napoleonica, l’uno sotto il profilo legale, l’altro in ambito scientifico. Abolita la nobiltà e smantellato il sistema dei collegi ecclesiastici e professionali, prerogativa della società d’ordini di antico regime, con il connesso monopolio degli studi e del conferimento dei titoli di abilitazione, il radicale mutamento dei criteri di selezione, basati non più sulla nascita, bensì sul merito e su un curriculum formativo universitario, aveva ampiamente liberalizzato gli accessi agli sbocchi professionali. Nel contempo gli studi anatomici contribuirono ad eliminare la plurisecolare dicotomia che aveva mantenuto disgiunto il medico-fisico, o medico-filosofo, depositario della dottrina, dal chirurgo, relegato dalla manualità delle sue funzioni nella sfera delle arti meccaniche. Ne sarebbe emerso, sia pure nel corso di un lento processo, un nuovo soggetto professionale, provvisto di cognizioni teoriche coniugate alla capacità non solo di operare sul tavolo delle dissezioni anatomiche, ma anche in vivo, sul corpo dell’infermo. Il medico così formato veniva inoltre ad assumere un ruolo di rilievo nell’esercizio di una “polizia medica” funzionale alle esigenze dei governi di salvaguardare la salute e il benessere delle popolazioni, così da assicurare agli Stati prosperità e benessere. L’esito più evidente di queste complesse trasformazioni fu il notevole aumento degli iscritti alle Facoltà mediche - nel caso dell’ateneo di Pavia, ad esempio, nel 1790 gli studenti in medicina superarono per la prima volta quelli della tradizionalmente più frequentata Facoltà legale - di estrazione sociale piccolomedio borghese, tanto urbana quanto rurale. Si gridò allora alla “volgarizzazione” della medicina, al “tentativo di abbassare la scienza all’uso dell’ignoranza” deprecando che l’afflusso di una “calca di popolo” verso una carriera sino ad allora riservata esclusivamente a un ceto svilisse la nobiltà dell’arte. Nei decenni centrali dell’Ottocento, tuttavia, il trend delle iscrizioni imboccò, per lo meno in alcuni degli stati preunitari, una curva discendente a causa del saturarsi delle possibilità di impiego nelle condotte, vale a dire in quello che era stato uno dei principali sbocchi del rinnovato mercato del lavoro. La prospettiva di esercitare nelle condotte per l’assistenza ai malati poveri,ossatura di un sistema assistenziale esteso a maglie più o meno fitte nell’intera Penisola, fu la meta, ambita e detestata al tempo stesso per la instabilità dell’incarico, di una schiera di giovani laureati, 39 alle prese con le difficoltà di inserimento in una “repubblica medica”in cui già si profilava la divaricazione, destinata ad accentuarsi sul far del Novecento, tra oscuri professionisti operanti nelle periferie rurali e più illustri colleghi capaci di mettere a frutto la loro esperienza ospedaliera nella cura di una abbiente clientela urbana. Figure precarie per l’intero XIX secolo, poiché soltanto la legge sanitaria Crispi promulgata nel dicembre 1888 li sottrasse all’alea della loro riconferma da parte delle amministrazioni comunali dopo un triennio di attività, remunerati con uno stipendio molto modesto,talora insufficiente a coprire il costo di una “cavalcatura” necessaria per raggiungere gli infermi in abituri dispersi nelle campagne, i condotti furono comunque il nerbo di una professione fortemente intessuta di elementi antropologici e umani e un’avanguardia nel promuovere, affiancati dai maestri elementari e dai farmacisti, un’opera di alfabetizzazione igienico-sanitaria. Nel 1885, dei circa 17.600 sanitari che esercitavano la professione, oltre 8.500 erano in condotta in quasi 7.600 comuni. All’epoca, comunque, il portato della medicina sperimentale e le scoperte della batteriologia parvero cancellare con un definitivo colpo di spugna i sospetti, lo scetticismo, l’ostilità che in precedenza avevano non di rado connotato il rapporto medico-paziente. La scienza medica italiana aveva in verità vissuto nei decenni preunitari una stagione tormentata, di “fatale e obbrobriosa anarchia”- come si disse-, dilacerata da dispute teoriche combattute senza risparmio di colpi tra seguaci di scuole e tendenze diverse. L’“incerto e vago operare” dei medici, avaro di successi terapeutici, ne era stato il più tangibile e immediato riflesso, gettando ancora maggior discredito sull’arte cosiddetta salutare presso tutti i ceti sociali. Il medico dunque era lungi dall’essere il primo e unico interlocutore di chi cadeva malato, nobile o borghese che fosse, ricco o miserabile, abitante della città o del contado. Ne è una testimonianza il frequentissimo ricorso alla pratica del consulto, attestata dagli scambi epistolari tra oscuri pratici di campagna, esercenti nelle città di provincia, cattedratici di chiara fama, per dirimere casi clinici complessi e controversi, che raramente la terapeutica dell’epoca riusciva a risolvere. Accadeva spesso che in quei frangenti i pazienti agiati confrontassero il parere di esponenti della medicina ufficiale con quello di “segretisti” , “spargirici”, acconciossa, insomma di praticoni, interpellati di nascosto, ma il 40 cui responso era altrettanto ascoltato. A costoro di preferenza, piuttosto che all’esponente della medicina scientifica, continuarono a rivolgersi, nel primo Ottocento, il popolo minuto delle città e gli abitanti delle campagne, da sempre adusi a valersi dei rimedi di una medicina empirica tramandata di padre in figlio e ad affidarsi a un universo di mediconi, depositari di qualche nozione e tecnica terapeutica abborracciata, ma di qualche efficacia. Un imbonitore di medicamenti che smerciava sulle piazze in occasione di mercati e di fiere era comunque alla portata di un contadino più di un medico condotto residente a qualche miglio di distanza. Fra il malato e gli esercenti illegali dell’ “arte medica”- fieramente combattuti dalla medicina ufficiale nel corso di una prolungata, veemente crociata - si instaurava un rapporto diretto e immediato per il tramite di un linguaggio comprensibile, privo di astrusi grecismi e latinismi che frapponevano altrimenti un’impenetrabile barriera tra curante ed infermo: la penetrazione psicologica del ciarlatano era quindi in grado di far leva sulle capacità individuali di reazione alla malattia che, assecondando la vis medicatrix naturae, erano talora in grado di condurre a guarigione. Tanto in città quanto in campagna, infine, il medico era chiamato spesso in extremis, quando il decorso della malattia era ormai troppo inoltrato e non rimaneva che trasportare l’infermo nell’aborrito ospedale, ancora ben lontano dal configurarsi, prima dell’avvento dell’asepsi, come moderna machine à guérir e vissuto nella mentalità popolare come l’ultimo approdo prima della morte. I nosocomi ottocenteschi mantenevano in realtà la fisionomia di ricoveri indifferenziati in cui una umanità miserabile era soccorsa con l’ausilio di una alimentazione corroborante piuttosto che curata con presidi terapeutici efficaci, poiché soltanto negli ultimi decenni del secolo gli ospedali italiani cominciarono timidamente a modernizzarsi, diventando sede dei metodi di applicazione della moderna clinica e chirurgia. Nel pieno dell’età risorgimentale, invece, la professione, in una fase di profonda crisi, divisa al suo interno da rivalità dottrinarie e frustrata da carriere poco gratificanti, sembrava aver perduto molte attrattive e dover dissolvere i sospetti di essere “arte di sorte e di raggiro, appoggiata a nessun cardine più sicuro della ispirazione istintiva” e in perenne conflitto con il rivale, multiforme esercizio del ciarlatanismo. Disarmati di fronte alla maggioranza dei mali, ma rivendicando di essere i soli abilitati a combatterli, i medici comunque si impegnarono da un lato a riconquistare dignità scientifica e coesione professionale, dall’altro a riscuotere consenso e fiducia ancor prima di essere in grado di prestare terapie efficaci. Fu, paradossalmente, una delle congiunture in cui più drammaticamente si palesò l’impotenza della medicina a rafforzare presso la popolazione la figura e il ruolo del medico. Il colera, che imperversò in ondate epidemiche a partire dal 1836-37 lungo la Penisola, mise ancora una volta impietosamente a nudo l’incapacità di arginare un male dalla eziologia ignota che suscitava nelle popolazioni un terrore simile a quello della peste. La comunità scientifica era divisa tra “contagionisti” e “anticontagionisti”, cioè tra i sostenitori della trasmissione interumana della malattia, e coloro che invece erano convinti delle sue origini cosmotelluriche, vale a dire del suo insorgere per effetto dei “miasmi” diffusi nell’atmosfera da un ambiente naturale inquinato da acque stagnanti, liquami, rifiuti, ammassi di letame, e così via. Questa discordanza di pareri ebbe tutto sommato riflessi di poco conto sulle terapie, tra le quali tuttavia seguitava ad essere ampiamente praticato il salasso, con nefasti effetti debilitanti su organismi gravemente disidratati. Molti colerosi quindi respinsero i medici “sì disperatamente e sì infelicemente curatori della malattia”, oppure li accusarono di essere avvelenatori, conniventi con i governi e complici dei ricchi desiderosi di sbarazzarsi della povera gente, ma gran parte della popolazione ebbe modo di apprezzare il loro adoperarsi per alleviare la sofferenza e per consolare. Sin dai primi assalti dell’epidemia inoltre, i provvedimenti delle autorità, articolati in misure di prevenzione e di diffusione di una generale normativa igienica, furono adottati in stretta collaborazione con i medici, che tennero saldamente nelle loro mani l’intera organizzazione sanitaria d’emergenza predisposta dalle municipalità, dai lazzaretti alle “case di contumacia”, ove si tenevano in isolamento i sospetti . Essi poterono così avvalersene per tentare di debellare l’ostilità popolare e per imporre all’attenzione dell’opinione pubblica la gravità e l’urgenza della questione sanitaria - dalla mancanza di infrastrutture igieniche al degrado abitativo, all’alimentazione carente - per la quale si candidavano a predisporre misure risolutive. E molti di loro si diedero alla stesura di trattati di topografia medico-statistica, ispirati dall’impostazione romagnosiana di una La visita del medico, nel quadro di Domenico Induno (Collezione Privata) statistica civile concepita come “uno studio descrittivo di uomini e condizioni sociali”, in cui presentarono un quadro analitico dei processi morbosi più diffusi fra le popolazioni di alcune città e del loro contado, inquadrati secondo la lezione ippocratica nel contesto ambientale e climatico, costituendo uno strumento assai utile per avviare interventi risanatori. Bibliografia M. L. Betri, Il medico e il paziente: i mutamenti di un rapporto e le premesse di un’ascesa professionale (1815-1859), in Storia d’Italia, Annali 7, Malattia e medicina, a cura di F. Della Peruta, Torino, 1984, pp. 209-232. Id., “La politica del medico nell’esercizio dell’arte sua”: splendori e miserie di una professione liberale (1815-1861), in Sanità e società. Veneto, Lombardia, Piemonte, Liguria secoli XVII-XX, a cura di F. Della Peruta, Udine, 1989, pp. 347-364. E. Brambilla, La medicina del Settecento: dal monopolio dogmatico alla professione scientifica, in Storia d’Italia, Annali 7, cit., pp. 5-147. G. Cosmacini, Medici nella storia d’Italia. Per una tipologia della professione medica, Roma-Bari, 1996. Id., Il mestiere di medico. Storia di una professione, Milano, 2000. E. Shorter, La tormentata storia del rapporto medico paziente, Milano, 1986. 41