35 GIOVEDÌ 8 SETTEMBRE 2016 CULTURA & SPETTACOLI il Cittadino VENEZIA 2016 MATTATORE IERI AL LIDO, IL FILM SULLA MOGLIE DI JOHN FITZGERALD KENNEDY SI CANDIDA AL LEONE D’ORO PRENOTANDO ANCHE LE PIÙ CELEBRI “STATUETTE” “Jackie”, una first lady da Oscar Pablo Larrain emoziona scavando oltre il mito e affidando a una grande Natalie Portman le verità di una donna speciale IN CONCORSO MALICK VIAGGIA TRA TEMPO E DOMANDE LUCIO D’AURIA n Dolore, verità, emozione. E una storia che appartiene all’immaginario comune che riemerge con contorni nuovi, sfumature sconosciute. Jackie, semplicemente così, si intitola il primo film “americano” del regista cileno Pablo Larrain (presentato in concorso a Venezia 73 e destinato a lasciare un segno nel palmares di questa edizione e, è facile immaginarlo, anche ai prossimi Oscar) che ha scelto di raccontare la storia di Jacqueline Kennedy da un’angolatura personale, rifiutando le regole del “biopic” per arrivare a un ritratto inedito di quella che è stata molto più di una First Lady, arrivando a essere la cosa più vicina a un’autentica “regina d’America”. Una vicenda, quella della moglie di John F. Kennedy, vissuta tutta sotto gli occhi delle telecamere, che però Larrain decide di “spegnere” cinquant’anni dopo per una sorta di rispetto, per una necessità di pudore. Il regista non monta nessuna immagine d’archivio e ricostruisce tutto, filmando con una grana grossa (merito del direttore della fotografia Stéphane Fontane) che restituisce i colori dell’epoca. Partendo dai giorni immediatamente successivi all’omicidio, Larrain lavora, andando in avanti e all’indietro, ricostruendo le scene originali, passate su tutti i canali tv e che hanno ormai fatto la storia, tagliandone molte, anche tra le più celebri. Questo perché gli interessa scavare nel personaggio “mai visto”: e lo fa con un pedinamento serrato, nelle stanze della Casa Bianca, scavando nei ricordi, immaginando dialoghi e riscrivendone altri basandosi sulla cronaca. Quello che arriva sullo schermo è il ritratto di una donna tormentata, al di là dell’ovvio dolore per l’assassinio del marito, combattuta, in lotta per ricostruire e conservare la memoria del presidente e la sua; una donna spaventata dal pensiero d’essere dimenticata e di poter perdere ogni cosa di quanto vissuto. Quel «regno di Camelot» sospeso tra sogno e realtà finito nei libri di storia sugli Stati Uniti. Larrain racconta i rimpianti del fratello del presidente Bobby per «la storia spietata che non concede tempo per realizzare i programmi politici e le ambizioni» e quelli di Jackie, costretta a fare i bagagli in fretta e furia, a riempire gli scatoloni con le foto, con i vestiti, quando il funerale e le celebrazioni per il marito non sono nemmeno terminate... Scava nel personale per restituire il quadro d’insieme, stringe l’obiettivo sulla sua protagonista (una meravigliosa Natalie Portman, quasi mimetica) filmandola da così vicino che lo spettatore è costretto a condividerne ogni respiro, ogni dubbio. E il suo ritratto non si limita mai all’agiografia, non è retorico, resiste alla tentazione di ricostruire santini, privilegiando la ricerca di una verità sulla figura di Jackie (e di JFK) che vada oltre il mito, oltre la storia ufficiale. Un lavoro di ricostruzione che scava sempre in profondità, che supera appunto l’iconografia classica della first lady e raggiunge l’immagine di una UN GRANDE FILM Sopra e sotto a sinistra Natalie Portman in “Jackie”, in basso a destra il regista Pablo Larrain donna dalla personalità forte, che ha combattuto per il marito dopo gli spari di Dallas e ha contribuito a costruirne l’immagine di grande presidente. Una storia che lascia intatto l’alone di mistero attorno alla sua personalità, ma fa leggere in maniera differente l’intera sua vicenda, anche quella dei giorni successivi, degli anni e delle cronache che sono venute molto tempo dopo. JACKIE Regia di Pablo Larrain Con Natalie Portman e Peter Sarsgaard. In concorso alla 73esima Mostra del cinema di Venezia LE ALTRE PROIEZIONI Tokyo e Perth, così lontani e così vicini di LUCIO D’AURIA n Sono in qualche modo legati, pur se geograficamente lontani, Gukòroku del giapponese Kei Ishikawa e Hounds of love dell’australiano Ben Young. Il primo presentato nella sezione Orizzonti (di alta qualità quest’anno per quanto si è potuto vedere nel tempo concesso dalle inevitabili sovrapposizioni), il secondo nelle Giornate degli autori, entrambi diretti da registi giovani, tutti e due sviluppati in un’atmosfera carica di tensione e legati a un genere declinato poi in maniera personale. Anche le periferie accomunano i due film: il giapponese che racconta dell’indagine compiuta da un giornalista per scoprire gli autori di una strage, in cui era stata uccisa un’intera famiglia, nel caos di Tokyo; e l’australiano che SEZIONE ORIZZONTI Una scena dal film “Gukòroku” di Kei Ishikawa partendo da fatti di cronaca racconta di due “normali” serial killer che rapiscono e ammazzano ragazze in un quartiere popolare di Perth. La famiglia: questo pure avvicina due storie così lontane che però fanno pensare alle stesse cose, una volta superata la tensione con cui si sviluppano le trame. L’australiano Ben Young soprattutto spinge forte il pedale su questo, creando un’atmosfera a tratti difficile da sostenere e riuscendo a gi- rare tutta la sua storia in un numero ridottissimo di ambienti, praticamente con tre personaggi in scena. Il giapponese Ishikawa (prodotto da Takeshi Kitano) invece nasconde di più la tensione e preferisce mostrare il contesto sociale in cui nascono le azioni violente dei protagonisti. La distanza tra classi, una società che spinge al miglioramento e separa irrimediabilmente in categorie. Al centro di entrambi però c’è una figura di madre che riunisce i racconti e gli eventi. GUKÒROKU Regia Kei Ishikawa Sezione Orizzonti HOUNDS OF LOVE Regia Ben Young Giornate degli autori n «Chi sono? Dove vado? Chi mi ha portato qui?». Il “Voyage of Times” di Terrence Malick è scandito da queste domande universali. Il grande autore americano, tornato prolifico dopo decenni di silenzio, sembra voler ripartire dove era arrivato “Tree of life” per continuare il suo viaggio cinematografico. Presentato in concorso alla Mostra 2016, dove al di là di ogni esito sarebbe stato considerato un “regalo” fatto dai selezionatori alla platea di pubblico e critica, il nuovo film del regista de “La sottile linea rossa” è un canto profondo, spirituale, teso alla ricerca di un senso, prossimo a un cammino che si potrebbe azzardare quasi religioso. Un’opera che si interroga sulla creazione, sul passato e sul futuro della terra. Malick come detto fa un passo “laterale” dopo “Tree of life”, continuando nella direzione tracciata da quel film: qui sceglie di togliere anche la storia, concentrandosi sulle immagini e su un testo letto nella versione originale da Cate Blanchett, per realizzare un documentario anomalo, che va dall’infinitamente piccolo allo spazio sconfinato. Filmando oceani, eruzioni vulcaniche, ma anche ricostruendo con la computer grafica il passaggio dei dinosauri o facendo recitare un gruppo di aborigeni «primi uomini» in un tempo non identificato. Tutto per poter dare una forma a quegli interrogativi, alla domanda iniziale - la più difficile di tutte - “chi sono?” - e a quelle che nascono di conseguenza. «Siamo ciechi, ingannati, viviamo nel buio. Chi ci ha portati qui? E cosa resta di noi?». Malick incalza il pubblico con le domande e con le immagini che non devono - ovviamente non possono - dare le risposte. Il tempo prende però forma negli abissi degli oceani o nella lava in movimento dei vulcani, che si trasforma in roccia battuta dalle onde. Quello che lo spettatore fa è un autentico “viaggio”, stimolato dalla stupefacente bellezza della natura e dai suoi misteri. Fino all’invocazione finale: «Oh vita. Oh madre» che contiene quello visto sino a quel momento. (L. D’A.) VOYAGE OF TIME Regia Terrence Malick In concorso alla 73esima Mostra del cinema di Venezia