“Jackie”, una first lady da Oscar

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GIOVEDÌ 8 SETTEMBRE 2016
CULTURA & SPETTACOLI
il Cittadino
VENEZIA 2016
MATTATORE IERI AL LIDO, IL FILM SULLA MOGLIE DI JOHN FITZGERALD KENNEDY
SI CANDIDA AL LEONE D’ORO PRENOTANDO ANCHE LE PIÙ CELEBRI “STATUETTE”
“Jackie”, una first lady da Oscar
Pablo Larrain emoziona
scavando oltre il mito
e affidando a una grande
Natalie Portman le verità
di una donna speciale
IN CONCORSO
MALICK VIAGGIA
TRA TEMPO
E DOMANDE
LUCIO D’AURIA
n Dolore, verità, emozione. E
una storia che appartiene all’immaginario comune che riemerge
con contorni nuovi, sfumature
sconosciute. Jackie, semplicemente così, si intitola il primo film
“americano” del regista cileno Pablo Larrain (presentato in concorso a Venezia 73 e destinato a lasciare un segno nel palmares di
questa edizione e, è facile immaginarlo, anche ai prossimi Oscar)
che ha scelto di raccontare la storia di Jacqueline Kennedy da
un’angolatura personale, rifiutando le regole del “biopic” per arrivare a un ritratto inedito di quella
che è stata molto più di una First
Lady, arrivando a essere la cosa
più vicina a un’autentica “regina
d’America”.
Una vicenda, quella della moglie
di John F. Kennedy, vissuta tutta
sotto gli occhi delle telecamere,
che però Larrain decide di “spegnere” cinquant’anni dopo per
una sorta di rispetto, per una necessità di pudore. Il regista non
monta nessuna immagine d’archivio e ricostruisce tutto, filmando con una grana grossa (merito
del direttore della fotografia
Stéphane Fontane) che restituisce
i colori dell’epoca. Partendo dai
giorni immediatamente successivi
all’omicidio, Larrain lavora, andando in avanti e all’indietro, ricostruendo le scene originali, passate su tutti i canali tv e che hanno
ormai fatto la storia, tagliandone
molte, anche tra le più celebri.
Questo perché gli interessa scavare nel personaggio “mai visto”: e lo
fa con un pedinamento serrato,
nelle stanze della Casa Bianca,
scavando nei ricordi, immaginando dialoghi e riscrivendone altri
basandosi sulla cronaca. Quello
che arriva sullo schermo è il ritratto di una donna tormentata, al di là
dell’ovvio dolore per l’assassinio
del marito, combattuta, in lotta
per ricostruire e conservare la memoria del presidente e la sua; una
donna spaventata dal pensiero
d’essere dimenticata e di poter
perdere ogni cosa di quanto vissuto. Quel «regno di Camelot» sospeso tra sogno e realtà finito nei
libri di storia sugli Stati Uniti.
Larrain racconta i rimpianti del
fratello del presidente Bobby per
«la storia spietata che non concede tempo per realizzare i programmi politici e le ambizioni» e
quelli di Jackie, costretta a fare i
bagagli in fretta e furia, a riempire
gli scatoloni con le foto, con i vestiti, quando il funerale e le celebrazioni per il marito non sono
nemmeno terminate... Scava nel
personale per restituire il quadro
d’insieme, stringe l’obiettivo sulla
sua protagonista (una meravigliosa Natalie Portman, quasi mimetica) filmandola da così vicino che
lo spettatore è costretto a condividerne ogni respiro, ogni dubbio.
E il suo ritratto non si limita mai
all’agiografia, non è retorico, resiste alla tentazione di ricostruire
santini, privilegiando la ricerca di
una verità sulla figura di Jackie (e
di JFK) che vada oltre il mito, oltre
la storia ufficiale. Un lavoro di ricostruzione che scava sempre in
profondità, che supera appunto
l’iconografia classica della first lady e raggiunge l’immagine di una
UN GRANDE FILM Sopra e sotto a sinistra Natalie Portman in “Jackie”, in basso a destra il regista Pablo Larrain
donna dalla personalità forte, che
ha combattuto per il marito dopo
gli spari di Dallas e ha contribuito
a costruirne l’immagine di grande
presidente. Una storia che lascia
intatto l’alone di mistero attorno
alla sua personalità, ma fa leggere
in maniera differente l’intera sua
vicenda, anche quella dei giorni
successivi, degli anni e delle cronache che sono venute molto
tempo dopo.
JACKIE
Regia di Pablo Larrain
Con Natalie Portman
e Peter Sarsgaard.
In concorso alla 73esima
Mostra del cinema di Venezia
LE ALTRE PROIEZIONI
Tokyo e Perth, così lontani e così vicini
di LUCIO D’AURIA
n Sono in qualche modo legati, pur
se geograficamente lontani, Gukòroku del giapponese Kei Ishikawa e
Hounds of love dell’australiano Ben
Young. Il primo presentato nella sezione Orizzonti (di alta qualità quest’anno per quanto si è potuto vedere
nel tempo concesso dalle inevitabili
sovrapposizioni), il secondo nelle
Giornate degli autori, entrambi diretti
da registi giovani, tutti e due sviluppati in un’atmosfera carica di tensione
e legati a un genere declinato poi in
maniera personale.
Anche le periferie accomunano i due
film: il giapponese che racconta dell’indagine compiuta da un giornalista
per scoprire gli autori di una strage, in
cui era stata uccisa un’intera famiglia,
nel caos di Tokyo; e l’australiano che
SEZIONE
ORIZZONTI
Una scena
dal film
“Gukòroku”
di Kei
Ishikawa
partendo da fatti di cronaca racconta
di due “normali” serial killer che rapiscono e ammazzano ragazze in un
quartiere popolare di Perth.
La famiglia: questo pure avvicina due
storie così lontane che però fanno
pensare alle stesse cose, una volta superata la tensione con cui si sviluppano le trame. L’australiano Ben Young
soprattutto spinge forte il pedale su
questo, creando un’atmosfera a tratti
difficile da sostenere e riuscendo a gi-
rare tutta la sua storia in un numero
ridottissimo di ambienti, praticamente con tre personaggi in scena.
Il giapponese Ishikawa (prodotto da
Takeshi Kitano) invece nasconde di
più la tensione e preferisce mostrare il
contesto sociale in cui nascono le
azioni violente dei protagonisti. La distanza tra classi, una società che spinge al miglioramento e separa irrimediabilmente in categorie. Al centro di
entrambi però c’è una figura di madre
che riunisce i racconti e gli eventi.
GUKÒROKU
Regia Kei Ishikawa
Sezione Orizzonti
HOUNDS OF LOVE
Regia Ben Young
Giornate degli autori
n «Chi sono? Dove vado? Chi
mi ha portato qui?». Il “Voyage of
Times” di Terrence Malick è
scandito da queste domande
universali. Il grande autore americano, tornato prolifico dopo decenni di silenzio, sembra voler ripartire dove era arrivato “Tree of
life” per continuare il suo viaggio
cinematografico. Presentato in
concorso alla Mostra 2016, dove
al di là di ogni esito sarebbe stato considerato un “regalo” fatto
dai selezionatori alla platea di
pubblico e critica, il nuovo film
del regista de “La sottile linea
rossa” è un canto profondo, spirituale, teso alla ricerca di un senso, prossimo a un cammino che si
potrebbe azzardare quasi religioso. Un’opera che si interroga
sulla creazione, sul passato e sul
futuro della terra.
Malick come detto fa un passo
“laterale” dopo “Tree of life”,
continuando nella direzione tracciata da quel film: qui sceglie di
togliere anche la storia, concentrandosi sulle immagini e su un
testo letto nella versione originale da Cate Blanchett, per realizzare un documentario anomalo, che va dall’infinitamente piccolo allo spazio sconfinato.
Filmando oceani, eruzioni vulcaniche, ma anche ricostruendo
con la computer grafica il passaggio dei dinosauri o facendo
recitare un gruppo di aborigeni
«primi uomini» in un tempo non
identificato.
Tutto per poter dare una forma
a quegli interrogativi, alla domanda iniziale - la più difficile di
tutte - “chi sono?” - e a quelle che
nascono di conseguenza. «Siamo
ciechi, ingannati, viviamo nel buio. Chi ci ha portati qui? E cosa
resta di noi?». Malick incalza il
pubblico con le domande e con le
immagini che non devono - ovviamente non possono - dare le
risposte. Il tempo prende però
forma negli abissi degli oceani o
nella lava in movimento dei vulcani, che si trasforma in roccia
battuta dalle onde. Quello che lo
spettatore fa è un autentico
“viaggio”, stimolato dalla stupefacente bellezza della natura e
dai suoi misteri. Fino all’invocazione finale: «Oh vita. Oh madre»
che contiene quello visto sino a
quel momento. (L. D’A.)
VOYAGE OF TIME
Regia Terrence Malick
In concorso alla 73esima
Mostra del cinema di Venezia
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