Dialettica negativa e modelli sociologici

Marco Maurizi
Dialettica negativa e modelli sociologici
Sul contributo teorico di Adorno alle scienze sociali
Recenti contributi, pubblicazioni di inediti e di opere ormai introvabili in traduzione italiana
hanno mostrato come l’interesse per la figura di Theodor W. Adorno - dopo una fase di relativo
oblio nel corso degli anni ‘80 - si sia ridestato, almeno in ambito filosofico. Lo stesso non può
dirsi per quanto concerne altre discipline, come la sociologia o la psicologia, cui Adorno dedicò
sforzi non meno intensi di elaborazione teorica. Basti ricordare la partecipazione a ricerche come
la Personalità autoritaria, i numerosi contributi al dibattito sociologico degli anni ‘50 e ‘60, il
persistente interesse critico per talune categorie centrali della psicanalisi. L’assenza di una
specifica e approfondita discussione di questi contributi rischia perciò di appiattire il pensiero del
francofortese, mutilandolo di un aspetto che gli era invece essenziale (basti pensare a come
l’interesse per la ricerca sociale si saldi in Adorno con una continua riflessione sulle cause e gli
effetti della divisione del lavoro intellettuale). Un simile modo di recepire la figura di Adorno
rischia di produrre una sua arbitraria e totalizzante “filsofizzazione”: le tesi più discusse e
controverse del suo pensiero strappate dal vivente rapporto con l’esperienza che le aveva
originate scadono facilmente al rango di astratti filosofemi che rischiano di suonare tanto
altisonanti quanto incomprensibili al lettore odierno. L’inattualità di Adorno si trasforma perciò
in marchio di fabbrica, viene trasformata in “stile”: con la sua riduzione a “classico”, sottratto ad
ogni esigenza di confronto con la realtà che era sua inflessibile intenzione criticare, il pensiero
adorniano viene così definitivamente neutralizzato a bene di cultura.
Sociologia o filosofia della società?
È difficile sfuggire alla sensazione che, passando da un’egemonia positivista ad una
postmoderna, il dibattito interno alla sociologia abbia evitato di confrontarsi nel merito del
pensiero di Adorno. Vista all’interno di tali paradigmi alternativi, infatti, la sociologia adorniana
appare condannata ad una posizione di debolezza: debolezza di rigore scientifico, nel primo caso,
debolezza di apertura all’alterità e alla singolarità nel secondo. A ciò contribuisce certo il fatto
che la condizionatezza storica della prospettiva francofortese - calata com’è nell’arroventato
dibattito degli anni ‘40-’60 – appare facilmente una zavorra che limita le possibilità esplicative
del suo modello, così ancorato all’idea di un serrato confronto dialettico e negativo con le tesi
avversarie. È indubbio, ad es., che la sociologia contro cui Adorno si battè, fortemente
condizionata da uno schema epistemologico e storico-filosofico di impronta positivista, abbia
impresso alla teoria sociale adorniana tratti apparentemente spiritualisti ed elitari. Nessuna delle
ricerche empiriche condotte dalla Scuola di Francoforte potè ammorbidire l’idea che quello di
Adorno fosse un pensiero sregolato che inseguiva una “certezza assoluta [...] acquistata lontano
da ogni esperienza”, una sterile e arrogante filosofia che “non può dimostrare la sua validità per
mezzo dell’esperienza, ma solo con la volontà che assoggetta a sé il mondo”.1 Non ci interessa
ora confutare interpretazioni sfocate o decidere post festum controversie ormai datate. Dunque,
2
F. Rich Jonas, Storia della sociologia, Laterza, Roma-Bari 1975 (2a ed.), I, p. 147. Cfr. anche II, p. 623.
1
non serve ribadire che da nessuna parte Adorno e i francofortesi hanno preteso mettere fuori
corso la logica formale oppure ricordare come essi abbiano esplicitamente riconosciuto la
necessità di ricorrere a strumenti di misurazione empirica, esercitando una critica immanente del
loro uso.3 Le pagine che seguono rappresentano piuttosto un tentativo di riattivare la riflessione
adorniana sulla sociologia, sui suoi compiti, sulle sue condizioni di possibilità e sui suoi limiti.
Affinché tale tentativo non resti incagliato nella sterile riaffermazione filologica delle tesi
franconfortesi, si tratterà di decifrare il contributo teorico che esse hanno dato (o avrebbero
potuto dare) ad alcune delle questioni cruciali che hanno animato il dibattito sociologico del
secolo scorso.
Chiarito ciò, apparirà subito evidente come il nodo del contendere vada individuato in
una questione di metodo e come sia propriamente a questo livello che vada posta l’irriducibilità
della proposta francofortese ai paradigmi sociologici ad essa alternativi. In estrema sintesi, il
problema da porre non è relativo alla posizione del pensiero rispetto al proprio oggetto, quanto
rispetto a se stesso. Qual è il luogo a partire da cui il pensiero è abilitato a parlare di sé? Con che
diritto e a che condizioni il gesto di autorappresentazione del pensiero non si riduce ad un trucco,
ad una forma di occultamento ideologico4? È possibile una scienza della società che non si
interroghi preliminarmente su tale questione? L’interesse e la forza della posizione adorniana
oggi sta qui, nel modo in cui risponde a queste domande.
Non è estraneo a ciò il fatto che il pensiero di Adorno si sia costantemente interrogato sul
rapporto tra la ricerca sociale e la filosofia. Il suo punto di vista potrebbe essere sintetizzato con
la drastica formula: la filosofia senza sociologia è vuota; la sociologia senza filosofia è cieca. Ciò
non sta ad indicare solo che filosofia e sociologia non posso fare a meno l’una dell’altra ma
anche che tra di esse non può aver luogo alcuna sintesi. Anzi, la proposta francofortese si
sostanzia di una sorta di spazio vuoto, di un irrapresentabile “tra”, essa mira cioè ad una “terra di
nessuno del pensiero”5 e non certo ad un punto di vista superiore o più originario in grado di
inglobare o risolvere l’opposizione tra le due discipline.
Il pensiero adorniano costituisce in sostanza un’autocritica delle categorie sociologiche e
filosofiche, una critica che in tanto è feconda in quanto tenta di far saltare dall’interno i rispettivi
apparati di autorappresentazione ideologica. In questo senso rigoroso, e non in nome di un
astratto amore per l’indeterminato e l’alogico, va intesa la critica adorniana all’assolutizzazione
dell’ordine logico-categoriale della ricerca scientifica. A tali temi la sociologia come disciplina si
è avvicinata ogni volta che ha tentato di situare le proprie procedure all’interno di un contesto
storico-antropologico più ampio, seppure correndo il rischio di incorrere nella fallacia logica
dello storicismo6 (del cui rischi Adorno era invece ben consapevole). Fa perciò parte della storia
della non ricezione della proposta francofortese il fatto che tali temi siano diventati di dominio
comune in sociologia solo con l’avanzare del paradigma postmoderno, trasfigurati però in un
3
“Nessuno scienziato sociale particolare può rinunciare alla ricerca empirica”. Th. W. Adorno, Gesellschaftstheorie
und empirische Forschung, (cito dall’edizione delle opere di Adorno: Gesammelte Schriften, Suhrkamp, Frankfurt
a.M.), p. 539. Cfr. anche Th. W. Adorno et al., Lezioni di sociologia, Einaudi, Torino 1966, p. 135.
4
Per una calibrazione del concetto di ideologia cfr. G. Dalmasso, “Senso religioso e ideologia”, in Oltre l’occidente.
Europa, missione, colonialismo, “Lineatempo”, 1/03.
5
Th. W. Adorno, “Introduzione a Dialettica e positivismo in sociologia”, in Scritti sociologici, Einaudi, Torino
1976, p. 242.
6
Cfr. ad es. E. Mendelsohn – P. Weingart – R. Whitley (ed.), The Social Production of Scientific Knowledge, D.
Reidel, Dordrecht-Boston 1977, in particolare la prima parte (pp. 3-99). Cfr. anche M. Delle Donne, La società
civile e l’origine della ragione sociologica, Edizioni Lavoro, Roma 1996 (2a ed.), in particolar modo pp. 9-54.
2
relativismo che sacrifica insieme al dogmatismo scientista l’idea stessa di scienza nel senso
classico del termine. Non è ovviamente questo il cambiamento che Adorno intese produrre nel
sapere sociologico e alcune delle pagine che seguiranno serviranno proprio a negare la parentela
tra sociologia postmoderna e pensiero adorniano.
I paradigmi “classici” e la sociologia post-moderna
Al fine di cogliere l’originalità della posizione sociologica adorniana può essere utile tracciare
una mappatura di alcuni modelli sociologici e tentare di leggere attraverso di essa l’articolazione
concettuale attorno a cui si struttura la “Teoria critica della società”. Un buon punto di partenza
per iniziare una tale ricognizione teorica sembra essere la contrapposizione tra “paradigma della
struttura” e “paradigma dell’azione”.7 Il primo - a cui è possibile far risalire il pensiero di Marx,
di Durkheim e dello struttural-funzionalismo - prediligerebbe nella spiegazione dei fenomeni
sociali le cause super-individuali: processi e meccanismi (come l’economia, la cosicenza
collettiva, i rapporti e ruoli istituzionali etc.) che trascendono la volontà degli individui,
riducendo questa a mero epifenomeno; l’interazione sociale, in sostanza, non sarebbe spiegabile
in base a ciò che l’agente desidera e fa ma in base a ciò che egli non può non fare. Il paradigma
dell’azione, al contrario, sarebbe centrato proprio sul rapporto che lega l’interazione sociale ai
moventi degli agenti; centrale è qui il richiamo a Weber e alla necessità di attivare processi di
comprensione di tali moventi per rendere con chiarezza e attendibilità i meccanismi reali alla
base dei fenomeni sociali. La prima prospettiva viene anche definita genericamente olistica e
contrapposta al cosiddetto individualismo metodologico. Mentre il primo si concentra sui
processi globali che costituiscono la condizione di possibilità e la cornice in cui l’azione
individuale si inserisce (determinandola, per così dire, dall’esterno), l’individualismo
metodologico riconosce i vincoli e i condizionamenti dell’azione ma non cede al necessitarismo
olistico (non vede cioè i soggetti come “marionette”) e intende gli stessi vincoli come a loro
volta prodotto dell’azione coagulata nel tempo (si parla in questo caso di “effetto non
intenzionale”).
La critica della tendenza olistica e del paradigma della struttura in sociologia è andata ben
al di là dell’originaria precauzione metodologica weberiana. Essa ha dato origine a scuole di
pensiero sociologico che si trovano in perspicua continuità con ciò che in filosofia è stato
chiamato pensiero postmoderno e che riformulano in senso radicale la vecchia idea di sociologia
qualitativa. Tale critica obietta alla spiegazione “olistica” di mettere in secondo piano il ruolo
che nella spiegazione del fatto sociale hanno le motivazioni, i sistemi di valori e le reti di
relazioni che sostengono le diverse strategie d’azione. Una simile ricognizione critica ha un
evidente sapore psicologistico e antropologico ed è infatti in tali campi disciplinari che sono stati
affilati gli strumenti concettuali della svolta microsociologica nella sociologia degli anni ‘60-’70.
Secondo George Lapassade8, la sociologia qualitativa si fonda su due innovazioni
metodologiche: il concetto di interazione simbolica elaborata negli anni ‘30 sulla scorta di Mead
da Herbert Blumer (Scuola di Chicago) e l’etnometodologia teorizzata da Garfinkel nel 1967.
Queste troverebbero il proprio fondamento teorico comune nella sociologia fenomenologica di
Schütz che, sulla scia dell’epoche husserliana, concepisce il “fatto sociale” non come un dato
7
A. Bagnasco – M. Barbagli – A. Cavalli, Elementi di sociologia, Mulino, Bologna 2004, pp. 24-29. Per una
ricostruzione più articolata del rapporto micro-macro cfr. B. Giesen, “Dal conflitto al legame: un abbozzo
sistematico del dibattito micro-macro”, cit., pp. 13-33.
8
G. Lapassade, L'Ethnosociologie (1991), tr. it. In campo. Contributo alla sociologia qualitativa, Pensa-Multimedia,
Lecce 1995.
3
(alla maniera di Durkheim) bensì come un costrutto, qualcosa di derivato o, in termini
fenomenologici, un “pregiudizio” dell’atteggiamento naturale.9 Interazionismo simbolico e
entometodologia sarebbero accomunati quindi:
1) dal costruttivismo. Essi si concentrano sull’autoproduzione della società, indagando i processi
pratici di costruzione di ciò che Durkheim chiamava fait social. Ci sarebbe una “sociologia
profana” sottintesa e presupposta da quella “scientifica” e di cui questa non costituirebbe che una
variante falsamente ipostatizzata dalla sociologia positivista come l’unica oggettiva e che invece
è tale solo perché interrompe arbitrariamente il processo di interazione simbolica, trasformando
l’agente sociale in asettico oggetto di studio.10
2) Dall’atteggiamento microsociologico. “L’individuo [...] emerge nel mezzo delle interazioni
sociali. Ma allo stesso tempo, ed inversamente, questa società che produce identità di soggetti è
essa stessa il prodotto di interazione tra questi soggetti”.11
3) Dalla centralità assegnata alla situazione, come luogo non neutrale in cui emerge e si
costituisce l’azione sociale.
4) Da un paradigma sociologico di tipo interpretativo (di derivazione weberiana e simmeliana)
alternativo a quello normativo proprio del positivismo, del marxismo e del funzionalismo.
5) Dall’accento metodologico posto sull’osservazione partecipante e il rifiuto di una dicotomia
rigida tra soggetto e oggetto dell’indagine.13
L’insieme di queste indicazioni metodologiche riaccende e approfondisce il contrasto tra
sociologia quantitativa e qualitativa. Secondo Lapassade, la prima punterebbe su un concetto
reificato di “scientificità”, il suo obiettivo immediato sarebbe la produzione di un “protocollo
linguistico di tipo disciplinare” e il suo effetto ideologico quello di cancellare ogni nozione di
libertà dell’agire sociale: il soggetto sarebbe determinato dall’alto né più né meno che nei
termini del ragionamento astrologico. La seconda sarebbe invece dedita alla descrizione di
contesti e attività concrete, concentrandosi sul linguaggio e sulle attività quotidiane, prendendo
partito per la libertà di un soggetto in grado di determinare con le proprie azioni il proprio
destino.14
Positivismo, olismo e sociologia postmoderna: un ménage à trois
Intesa come reazione alle tendenze astrattamente quantificanti e disumanizzanti della sociologia
positivista, la sociologia qualitativa radicale sembra a tutta prima raccogliere parte dell’eredità
adorniana (almeno per quanto riguarda la critica del metodologismo esasperato15). Tuttavia, uno
9
Ibid., p. 62.
Ibid., p. 72.
11
Ibid., p. 11.
12
Ibid., p. 107.
13
Ibid., pp. 17 e sgg.
14
G. Lapassade, In campo. Contributo alla sociologia qualitativa, cit., pp. 117-118.
15
Cfr. ad es. J. A. Huges, Filosofia della ricerca sociale, Mulino, Bologna 1982 con il suo attacco alla rilevazione
statistica come in sé positivistica e ideologica e la questione della singolarità evidenziata da C. Javeau, “Analisi del
singolare e sociologia”, in R. Cipriani (ed.), La metodologia delle storie di vita. Dall'autobiografia alla life-history,
La Goliardica, Roma 1987, pp. 176 e sgg.
10
4
sguardo più attento al suo contenuto effettivo mostra che essa è non meno contraria alla Teoria
Critica del suo storico oppositore, il positivismo, tanto da rivelarsi, in fondo, una sorta di suo
esecutore testamentario. A tutta prima ciò può apparire paradossale. La reazione alla sociologia
postmoderna da parte della sociologia più tradizionalista è stata aspra e polemica non meno di
quanto accadde all’epoca della disputa sulla sociologia dialettica negli anni ‘60. Boudon, ad
esempio, classifica senza mezzi termini la sociologia qualitativa radicale come letteratura: “qui
l’obiettivo del sociologo è quello di creare emozioni, perseguendo un fine che lo avvicina al
letterato. Movimenti come l’ ‘etnometodologia’, la ‘fenomenologia’ o l’ ‘interazionismo
simbolico’ suggeriscono oggi al sociologo di tentare di porsi in concorrenza con il letterato”.16
Come però è stato giustamente notato17, l’orientamento metodologico verso l’individuale
è stato un cavallo di battaglia della sociologia positivista del primo dopoguerra. L’individualismo
veniva allora sostenuto anche per ragioni politico-ideologiche da Popper e von Hayek nel
tentativo di porre in evidenza l’importanza dell’elemento soggettivo: delle opinioni, degli
atteggiamenti, dei modi individuali di comprendere la società. Ed è in questo senso che la
sociologia positivista e quantitativa - al pari di quella qualitativa - ha mostrato una radicale
avversione verso i temi della totalità all’epoca comuni tanto al marxismo, quanto al
funzionalismo. La sociologia positivista è orientata al particolare e guarda con enorme sospetto
ogni tentativo di accedere all’universale.18
All’orientamento metodologico verso l’individuo faceva ovviamente da corollario nel
positivismo un modello esplicativo di tipo causale, contrariamente a quanto accade nelle teorie
sociologiche orientate sul senso. Qui olismo (la dialettica e la teleologia funzionalista) e
interazionismo simbolico si trovano dalla stessa parte della barricata, seppure per essi il senso si
realizzi a partire da livelli di analisi opposti: la struttura, nel primo caso, e l’azione nel secondo.
In entrambi i casi, tuttavia, il Verstehen appariva alla sociologia positivista ancora sospetto di
perseguire un’immediatezza, una pretesa “trasparenza” tra il soggetto e l’oggetto che essa
condannava in quanto caratteristica dell’idealismo. “Dal fatto che l’uomo sia capace di desideri,
aspettative o calcoli” scrive ad es. Boudon, “non ne deriva [...] che la sociologia debba usare un
linguaggio tipicamente diverso da quello delle scienze della natura”.19 Il nerbo della concezione
positivistica dell’indagine sociale è l’assunto secondo cui “si può effetturare una traduzione dei
comportamenti in un linguaggio in cui la soggettività sparisce”.20 Ciò era diretto tanto contro
l’allora nascente movimento dell’etnometodologia e del suo individualismo “qualitativo”, quanto
contro le tendenze allora definite olistiche della sociologia.
Secondo l’approccio positivista, “l’idea di totalità si mostra [...] come una nozione limite
priva di significato operativo”.21 In conseguenza dell’assunto che solo l’empiricamente definibile
è oggetto sensato del ragionamento scientifico, l’universale viene visto come telos di un processo
infinito e, dunque, impossedibile. Si lamenta il fatto che “la ricerca di universali in sociologia ha
condotto a percorrere strade sbagliate, poiché i fenomeni veramente universali possono solo
essere oggetto di speculazione e non di spiegazioni empiricamente verificabili” e, in totale
accordo con l’orientamento individualistico della sociologia postmoderna, si nega il loro
specifico valore esplicativo: “se si guarda a quel che continuamente succede intorno a noi non è
16
R. Boudon, Metodologia della sociologia e delle scienze sociali, Jaca Book, Milano 1997, p. 19.
G. Statera, “Individualismo metodologico, ermeneutica, ricerca sociale. Della (poca) rilevanza del postulato
individualistico per l'indagine”, in Sociologia e ricerca sociale, anno XV, n. 43, 1994, p. 53 e sgg.
18
U. Cerroni, Introduzione alla scienza sociale, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 256.
19
R. Boudon, Metodologia della ricerca sociologica, Il mulino, Bologna 1970, pp. 24-27.
20
Ibid., p. 26 (c.vo mio).
21
Ibid., p. 31.
17
5
difficile ricordare che le ‘organizzazioni’, le ‘classi’ o le ‘società’ non fanno mai nulla. Ogni
spiegazione causale deve in ultima analisi scendere alle azioni di individui reali “.22
In modo del tutto analogo all’etnometodologia, che studia il “sociale” inteso come
discorso che costruisce la realtà, il “processo di costruzione della realtà” la sociologia positivista
guarda con scepsi ogni universalizzazione che non sia basata sui fatti e laddove tale
universalizzazione non sarà possibile è anch’essa ben contenta di rinunciare ad utilizzare concetti
impegnativi come “classe” e “società” se non in termini puramente operazionali e strumentali.
Ciò determina anche il differente orientamento linguistico, per così dire, delle tre
tendenze. L’accento posto dalla sociologia qualitativa radicale sulla singolarità, sull’irripetibilità
dell’individuale si trova in netto contrasto con la formulazione di leggi universali, esigenza
irrinunciabile del positivismo e delle tendenze olistiche. Senonché queste ultime due tornano a
divergere sul modo di intendere l’universale, ovvero se come probabilistico e provvisorio
processo di astrazione da regolarità statistiche oppure come totalità, struttura e funzione di tipo
ideale, irriducibile al dato empirico. Si potrebbe anche dire che l’universale ha nel primo caso un
carattere quantitativo e nel secondo va inteso in senso propriamente qualitativo (orientato al
senso).
Si tratta, come si vede, di un panorama articolato che non manca però di una sua
sotterranea simmetria. Se volessimo riassumere i rapporti tra sociologia positivista, olismo e
sociologia qualitativa radicale potremmo infatti abbozzare lo schema seguente:
P = positivismo
O = olismo
Q = sociologia qualitativa radicale
modello esplicativo
causalità (P)
senso
struttura (O)
azione (Q)
orientamento metodologico
individuo
quantitativo (P) qualitativo (Q)
società (O)
orientamento linguistico
universale
quantitativo (P) qualitativo (O)
singolarità (Q)
Ci troviamo di fronte ad una struttura logica ed epistemologica ad incastro in cui i tre termini di
paragone allacciano tra loro rapporti di familiarità, salvo poi tornare a divergere su altre
questioni fondamentali. Nessuno dei tre paradigmi è riducibile ad un altro e si offre così, da un
punto di vista idealtipico, come autonomo. Tutti e tre sono però, come diremo fra breve,
irriducibili alla Teoria Critica che costiuisce un paradigma trasgressivo rispetto alla
schematizzazione appena proposta. Essa si posiziona, per così dire, negli interstizi che tali
modelli sociologici tentano di occultare, poiché aspira a parlare mobilitando il “non detto” che
rende possibili i rispettivi meccanismi di auto-rappresentazione. Si tratta ora di mostrare
all’opera la sua capacità di interrogare attivamente tali limiti e censure, delineando per sommi
capi la logica negativa sottesa alla sociologia francofortese.
22
Ibid., p. 12.
6
La totalità e la questione della dialettica
Contrariamente a quanto spesso si ritiene, la particolarità della Teoria Critica non sta in un uso
“olistico” del concetto di totalità, né in una fiducia eccessiva nell’irripetibilità del singolare. In
tal senso essa non può essere accostata né al funzionalismo, né all’interazionismo simbolico e
all’etnometodologia. D’altro canto, la sua critica ai metodi di rilevazione empirica e alla logica
formale la pongono in attivo contrasto con il positivismo. E’ solo dall’insieme di questi contrasti
metodologici ed epistemologici che è possibile cogliere il senso del constante riferimento della
Teoria Critica a termini come totalità e dialettica. Al tempo stesso, è fondamentale sottolineare
come questi non esprimano un’astratta esigenza “ideale”, una sorta di “riserva” delimitata da
meri distinguo polemici, ma posseggano invece un contenuto preciso e una struttura determinata.
1. L’apporto della ricerca empirica, di Durkheim e di Weber
La Scuola di Francoforte ha certo in Hegel, Marx e Freud i propri referenti teorici principali ma
non va dimenticato il modo con cui essa ha ricevuto apporti essenziali dal pensiero di Durkheim
e di Weber. Tale approccio non ha nulla di eclettico: ognuno di questi referenti teorici è infatti
riflesso criticamente in sé, i concetti vengono ripensati teoreticamente e liberati, per così dirre,
dal loro contesto immediato d’uso, in modo da stabilire, ove possibile, dei nessi sostanziali e non
accidentali con concetti che provengono da altre discipline e prospettive teoretiche.
E’ in quest’ottica che si comprende, ad esempio, l’importanza data dall’Istituto per la
Ricerca Sociale fin dal suo inizio per la ricerca empirica:
Nella misura in cui la vita contemporanea viene largamente standardizzata per effetto della concentrazione
del potere economico spinta all’estremo; in cui l’individuo è assai più impotente di quel che sappia
confessarsi - in questa stessa misura i metodi standardizzati e in certo senso disindividualizzati sono tanto
espressione della situazione effettiva quanto strumento adeguato per descriverla e intenderla.23
Nella misura in cui l’indurimento della società abbassa sempre di più gli uomini alla condizione di oggetti,
e trasforma il loro stato in una “seconda natura”, i metodi che li costringono ad ammettere questa realtà non
sono affatto sacrileghi. L’illibertà dei metodi serve alla libertà, poiché testimonia silenziosamente
dell’illibertà dominante.24
Come si è già detto, la questione posta dai francofortesi non è se si debba ricorrere agli strumenti
di rilevazione statistica, quanto piuttosto il senso che a tale rilevazione deve essere dato. E il
senso è appunto quello di fotografare quanto più precisamente possibile la reificazione sociale
senza pretendere di universalizzare in modo indebito tali risultati (in termini hegeliani: senza
confondere l’apparenza con l’essenza). Ciò non soltanto per semplice scrupolo metodologico – la
difficoltà, squisitamente tecnica, di generalizzare dati tratti comunque da contesti parziali –
quanto piuttosto per non attribuire ai soggetti come “natura” ciò che è fatto loro dalla società (se,
come è evidente, questa non si riproduce al di sopra ma attraverso i suoi membri).
Proprio per il senso critico che la Scuola di Francoforte attribuisce alla standardizzazione
del rilevamento statistico, la sua posizione è inconciliabile con l’etnometodologia e le tendenze
postmoderne della sociologia.25 Ciò spiega anche la paradossale affinità elettiva tra Teoria
23
Th. W. Adorno et al., Lezioni di sociologia, cit., pp. 138-139
Th. W. Adorno, “Sociologia e ricerca empirica”, cit., p. 195.
25
A differenza di quanto sostenuto, ad es., in E. Campelli, Il metodo e il suo contrario. Sul recupero della
problematica del metodo in sociologia, Franco Angeli, Milano 1994 (3a ed.), cit., p. 52.
24
7
Critica e Durkheim.26 Nonostante sia ben conscio del rischio ideologico insito in ogni
procedimento classificatorio27, Adorno giustificata la tipizzazione cui ricorre in parte la ricerca
sulla Personalità autoritaria proprio come adempienza a quell’istinto anti-ideologico:
Le persone formano “classi” psicologiche nella misura in cui queste sono caratterizzate da processi sociali
uniformi [...] In questo modo il problema della tipologia viene posto su una base differente. Ci sono ragioni
per cercare tipi psicologici, perché il mondo in cui viviamo è diviso in tipi e “produce” diversi “tipi” di
persone. Soltanto identificando i tratti stereotipi degli esseri umani moderni, e non già negandone
l’esistenza, è possibile opporsi alla perniciosa tendenza a una classificazione e sussunzione generale.28
Il dominio della società sull’individuo - fulcro della sociologia durkheimiana e del funzionalismo
- è tesi riconosciuta da Adorno non come qualcosa di positivo, nel senso di una organicità
sostanziale della società, o neutrale, come approccio metodologico più corretto a rinvenire i nessi
effettivi di causazione dei fenomeni sociali. Si tratta anche qui di una tesi di cui va riconosciuto il
valore di verità nella misura in cui descrive uno stato di fatto prodotto da una precisa dinamica
storica (che diviene tanto più evidente tanto più accelera il processo di Zivilisation), senza che
ciò autorizzi a rimuovere tale dinamica e sanzionare questo stato di fatto come una caratteristica
dell’essenza della società in quanto tale.29
Se si considera poi la tipologia proposta da Adorno nella Personalità autoritaria si avrà
anche sentore della sostanziale distanza della Teoria Critica da Weber. Come noto, Weber ebbe
un’influenza fondamentale30 su Adorno e Horkheimer sia per il suo concetto di “disincanto del
mondo” tramite la ragione strumentale, sia per la sua conseguente analisi dei processi di
burocratizzazione31 che i francofortesi leggono alla luce degli esiti totalitari delle società
monopolistiche (a prescindere che il capitale streghi col suo potere di mercificazione la società
oppure sia gestito trasfigurativamente dallo stato). La distanza critica nei confronti di Weber sta
nel cedimento di questi alle tendenze che egli stesso descrive lucidamente e, dunque,
nell’impossibilità che egli ci presenta di sottrarsi alla ratio strumentale. Già la semplice pretesa
alla avalutatività32 identifica il pensiero con uno strumento rivolto ad uno scopo che gli è
estrinseco e partecipa, dunque, della stessa dinamica che pretende oggettivamente descrivere. La
descrizione disincantata del disincanto del mondo è un circolo vizioso. Ma la difficoltà teorica
fondamentale sta nel significato meramente soggettivo ed euristico che Weber attribuisce al
concetto di Idealtypus. Quando Adorno nella Personalità autoritaria scrive che la tipizzazione
psicologica non va intesa come “un tentativo […] di recare un certo ‘ordine’ nella diversità
confusa della personalità umana” bensì un modo di restituire strutture o nuclei nevrotici
oggettivi, rifiuta l’ipotesi di creare – in base al procedimento abituale – “mescolanze” tra i tipi
proposti.33 A prescindere dalla correttezza della tipizzazione poi proposta da Adorno34, ciò che
26
M. Digilio, Al di là della Scuola di Francoforte sul Meno?, Roma 1985, pp. 5-9.
“La rigidità della costruzione dei tipi è di per sé indicativa di quella mentalità 'stereopatica' che è tra le costituenti
fondamentali del carattere potenzialmente fascista”. Th. W. Adorno et al., La personalità autoritaria, Edizioni
Comunità, Milano 1997, vol. III, p. 351.
28
Ibid., pp. 354-355.
29
Th. W. Adorno, “Einleitung zu Emile Durkheim, Soziologie und Philosophie”, in Soziologische Schriften, cit., p.
278. Cfr. anche Th. W. Adorno, Einleitung in die Soziologie, Suhrkamp, Frankfurt a.M 2003, p. 67.
30
G. Berbiellini Amidei – U. Bernardi, I labirinti della sociologia, Laterza, Roma-Bari 1979, pp. 246-250.
31
Cfr., ad es., Th. W. Adorno, “Cultura e amministrazione”, in Scritti sociologici, cit., pp. 115 e sgg.
32
Cfr. Th. W. Adorno, “Introduzione a Dialettica e positivismo”, cit., pp. 304-308 e Th. W. Adorno, “Einleitung zu
Emile Durkheim, Soziologie und Philosophie”, cit., p. 259.
33
Th. W. Adorno, La personalità autoritaria, cit., III, pp. 354-356.
34
Cfr. R. Christie – M .Jahoda, Continuities in Social Research: Studies in the Scope and Method of the
Authoritarian Personality, The Free Press of Glancoe, New York 1954; Cfr. J. Madge, Lo sviluppo dei metodi di
27
8
qui ci interessa è la posizione teorica di fondo. Essa poggia su un assunto esplicito (Adorno cita
la frase di Freud: “tutte le nostre esperienze sono significanti”) ed uno implicito (la distinzione
hegeliana tra rappresentazione soggettiva e Concetto), ma non implica un’indebita fagocitazione
idealistica del mondo da parte del soggetto conoscente. Essa non sta infatti a significare che il
senso dei fenomeni sociali debba essere razionale o trasparente al soggetto conoscente (quasi
che esso venga prima presupposto e poi falsamente ritrovato da questo); nel caso della Teoria
Critica è anzi esattamente il contrario. Qui sta il vero motivo di dissidio con la sociologia
“comprendente”.
Quando gli uomini, sotto la pressione delle circostanze, sono stati effettivamente ridotti a “reagire come
anfibi” [...] l’inchiesta demoscopica di cui si indigna un umanesimo passato al bucato è più appropriata che,
ad esempio, una sociologia della “comprensione”: poiché il sostrato del comprendere, il comportamento
umano in sé coerente e dotato di senso, è già stato sostituito dal semplice riflesso condizionato dei soggetti
stessi.35
In un mondo ampiamente dominato da leggi economiche su cui gli individui umani hanno ben poco potere
la pretesa di considerare fenomeni sociali in linea di principio come oggetti della comprensione del “senso”
ideale loro è illusoria e illusionistica.36
Lo scambio di equivalenti che domina e permea di sé la società, impone come forma a priori del
comportamento sociale razionale quella che altro non è se non una deformazione. Solo
indossando la maschera dell’homo oeconomicus l’individuo può agire “razionalmente”. Proprio
qui si tocca con mano l’intreccio della dimensione individuale e di quella sociale e la loro
permanente contraddizione. Solo se la ragione individuale si riconosce nella razionalità sociale
quest’ultima può apparirgli dotata di senso. Ma ciò non significa automaticamente che la
razionalità del tutto in cui egli è inserito sia effettivamente tale. Ciò non è solo evidente negli
effetti disastrosi cui la razionalità ci ha reso testimoni nel XX secolo, ma già ab origine nel
concetto stesso di ratio strumentale, in quanto “il telos assoluto della razionalità, l’appagamento,
trascende la razionalità”.37 Come Adorno scrive nella Teoria estetica: “lo scopo di ogni
razionalità (la quale è quintessenza dei mezzi utili per il dominio della natura) sarebbe costituito
da ciò che non sia a sua volta mezzo, dunque, da un non razionale”.38 Se, in altri termini, la
razionalità sociale si origina come calcolo, come rinuncia all’istinto in vista di un bene superiore,
tale calcolo non va da sé ed è anzi soggetto al giudizio della ragione per quanto riguarda il fine.
Che il calcolo diventi allora metro della ragione stessa, annullando la giudicabilità del fine, è la
caratteristica di quella regressione sociale cui conduce una razionalità strumentale abbandonata a
se stessa. L’irrazionale da cui la società si è elevata tramite il sacrificio diventa il destino di
questa stessa società che si impedisce – per amor di ragione – di giudicare l’utilità del sacrificio
organizzato.
La Teoria Critica tenta così di dimostrare che la regolarità dei processi storici e sociali,
l’universalità e la razionalità che giungono a piena espressione nelle società capitalista sono, al
fondo, tutt’altro che espressione di una cristallina sensatezza. Essi sono anzi opachi39 e
ricerca empirica in sociologia, Mulino, Bologna 1966, p. 550 e P. Isernia, Introduzione alla ricerca politica e
sociale, Mulino, Bologna 2001, pp. 50-51.
35
Th. W. Adorno, “Sociologia e ricerca empirica”, cit., pp. 195-196.
36
Th. W. Adorno et al., Lezioni di sociologia, cit., p. 139.
37
Th. W. Adorno, “Sul rapporto di sociologia e psicologia”, in Scritti sociologici, cit., p. 41.
38
Th. W. Adorno, Teoria estetica, Einaudi, Torino 1977, p. 91.
39
“Il concetto durkheimiano dei fait sociaux è del tutto aporetico: egli traduce la negatività, l'opacità e la dolorosa
estraneità del sociale per il singolo, nella massima metodologica ‘tu non devi capire’. […] Eppure nella dottrina dei
fatti sociali si incarna un'esperienza reale. Ciò che nella società accade all'individuo gli è effettivamente
9
irriducibili ad un’idea di ragione che non si identifichi piattamente con i processi di
razionalizzazione. La razionalità sociale, così come si esprime dagli albori dell’umanità ad oggi,
è irrazionale.
La società è insieme comprensibile e incomprensibile. Comprensibile in quanto quel fatto dello scambio
che le detta oggettivamente le sue regole è esso stesso un’astrazione, implica, nella sua oggettività, un atto
soggettivo: in esso il soggetto riconosce e ritrova veramente se tesso. […] Ma la razionalità oggettiva della
società, la razionalità dello scambio, si allontana sempre più, per la propria dinamica, dal modello della
ragione logica. Perciò la società - ciò che ha assunto esistenza propria, autonoma - non è più comprensibile;
è solo la legge di questa autonomizzazione.40
E’ appunto all’interno di questo processo di autonomizzazione della ratio dalla società e dalla
natura che va inteso il concetto di totalità e il significato metodologico della dialettica.
L’autonomizzarsi della ratio rispetto alla società e la sua capacità di preformare i rapporti sociali,
interindividuali e finanche quelli dell’individuo con se stesso conduce le questioni
epistemologiche finora viste alla loro base reale nell’organizzazione della società e nella storia
della civiltà.
2. Il dominio come a priori epistemologico
Il “non detto” attorno a cui si organizza il sapere sociologico è la genesi della divisione del
lavoro intellettuale e dunque del compito che la sociologia si trova assegnato all’interno di un
processo di riproduzione sociale di cui essa stessa è prodotto. Di tale processo la sociologia non
può venire a capo attraverso una mera ricognizione teorica, tirandosi fuori con un colpo di testa
da una realtà che l’afferra per i piedi.
Costituzione in società si ha propriamente solo nella misura in cui la convivenza degli uomini si media, si
obiettiva, si “istituzionalizza”; conversamente le istituzioni non sono di per sé che epifenomeni del vivente
lavoro degli uomini. La sociologia diventa critica della società nel momento stesso in cui non si restringe a
descrivere e ponderare le istituzioni e i processi sociali, per confrontarli invece con questo sostrato, la vita
di coloro cui le istituzioni si sovrappongono e di cui esse stesse, nei più vari modi, vengono a consistere.41
L’organizzazione della cultura non procede motu proprio ma subisce delle spinte che non
possono essere accolte passivamente da una disciplina che si pone come obiettivo di pensare la
società. La non traducibilità analitica delle tesi francofortesi è l’effetto di tale consapevolezza
metodologica: essa intende portare ad espressione i “punti ciechi” della ragione sociologica
mostrando le cicatrici di un discorso che tenta di occultare e rimuovere la propria genesi. Un
concetto di società che passi sopra a tali processi manomette la struttura del proprio oggetto con
la semplice riduzione a forma di ciò che è processo storico vivente e tuttora agente al di sotto di
ogni apparente rigidità. Il fatto che qui i francofortesi parlino dell’opposizione tra “istituzione” e
“lavoro vivente” fa apparire nella sua giusta luce l’opposizione astratta tra individuo e società.
L’istituzionalizzazione della società non può essere – né storicamente né logicamente – scissa
dal processo di produzione della ricchezza sociale.
incomprensible, nella misura in cui il particolare non si ritrova nell'universale [...] La sociologia di Durkheim
esprime il momento dell'opacità, della naturalità dell'universale nella storia, che la filosofia di Hegel aveva
eliminato”. Th. W. Adorno, “Sull'oggettività delle scienze sociali”, in Scritti sociologici, cit., pp. 233-236.
40
Th. W. Adorno, “Introduzione a Dialettica e positivismo”, cit., p. 255.
41
Th. W. Adorno et al., Lezioni di sociologia, cit., p. 36.
10
Proprio l’incremento della ricchezza sociale è, fra l’altro, una delle origini dell’autonomia che le istituzioni
e forme della socializzazione degli uomini assumono agli occhi di questi, in quanto cosa organizzata, e che
non è più ormai identica con gli uomini stessi, ma si è venuta affermando e consolidando a lor fronte.42
La società non è né un fatto “naturale”, né un fatto meramente “spirituale”. Ma tale natura
ambigua non è il frutto di una mera difficoltà epistemologica, bensì è radicata nella cosa stessa,
dal fatto di consistere nelle dinamiche che vedono contrapporsi l’uomo alla natura e gli uomini
tra di loro nel processo organizzato di sfruttamento della natura stessa. La questione della totalità
e della dialettica si pone ed è comprensibile solo a partire dalla necessità di tenere desto il
ricordo di tali contrasti che attivamente strutturano la società umana fin dai primordi. L’unità
sociale non si realizza nonostante ma attraverso il conflitto.43
Già dai suoi inizi nella Repubblica platonica il pensiero sulla società ha eternato in questa
dei caratteri che erano prodotto di un determinato sviluppo storico: “Platone fonda la totalità
onnicomprensiva dello stato sulla relazione funzionale degli uomini, che devono sostenersi a
vicenda per la soddisfazione dei loro bisogni vitali [...] La costituzione della società è concepita
sul fondamento della divisione del lavoro come mezzo per soddisfare i bisogni materiali: ma quel
fondamento diventa fondazione ideale in ordine alla dottrina delle idee”.44 La necessità di
riflettere sul modo in cui si origina questo apparente apriori dell’ordine sociale pone il pensiero
adorniano in aperto dissidio con la tradizione “olistica” e del suo concetto organicistico di
funzione.45 È questo accento sulla genesi storica delle contraddizioni sociali come prerequisito
del processo di civilizzazione che giustifica presso la Scuola di Francoforte la rilevanza della
categoria di totalità ed è solo in questo contesto che va inteso il ricorso alla logica dialettica.46
Pensare la totalità non significa né un’assurda descrizione empirica dell’intero sociale, né
un’astratta intuizione olistica, bensì pensare l’autonomizzarsi dell’organizzazione sociale rispetto
agli individui che la producono. I moderni processi di razionalizzazione sono solo l’estrema
deriva di tale fenomeno e proprio il loro autonomizzarsi dall’agire sociale individuale pone la
ratio strumentale, come principio organizzativo della società, al di là della sfera
dell’empiricamente evidente, senza che si possa con ciò dire che tale principio di organizzazione
non esiste o che la società si organizza semplicemente a partire “dal basso”.
Ma totalità è anche, e proprio per ciò, l’esigenza di pensare la società come storia del suo
divenire ovvero di pensare l’insieme del suo sviluppo storico. Tale totalità non si costruisce
tuttavia a partire da uno schema precostituito, al modo della “filosofia della storia”. Essa
andrebbe forse intesa più propriamente – e rigorosamente – come un’anti-filosofia della storia:
non perché neghi che nella storia come totalità sia rintracciabile un corso e un senso, ma poiché
essa rifiuta di attribuire questo senso e questa direzione agli uomini sic et simpliciter come
espressione della loro ragione. Esso è semmai espressione di un non senso. La storia è visibile
come totalità non a partire da un senso che l’abbraccia e la chiude, per così dire, dall’esterno, ma
come storia del dominio [Herrschaft], come infinita ripetizione del gesto di appropriazione di sé
e dell’altro. L’insistenza sulla categoria del dominio va anch’essa compresa come questione
42
Ibid., p. 37.
Th. W. Adorno, Zur Lehre von der Geschichte und von der Freiheit, Surkhamp, Frankfurt a.M. 2001, pp. 73 e
sgg.
44
Th. W. Adorno et al., Lezioni di sociologia, cit., p. 31.
45
Anche laddove questo, come in Dahrendorf, si impegna nel sottolineare il ruolo del “conflitto” sociale. Cfr. Th.
W. Adorno, “Osservazioni sul conflitto sociale oggi”, in Scritti sociologici, cit., pp. 170 e sgg.
46
Da quanto siamo andati dicendo apparirà chiara la profonda differenza tra la Teoria Critica e la “sociologia
dialettica” di Gurvitch. In Gurvitch dialettica è solo un nome per un generico pensiero che si contrappone alle
cristallizzazioni e al dogmatismo concettuali. Cfr. G. Gurvitch, Dialettica e sociologia, Città nuova, Roma 1968, pp.
40-43.
43
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metodologica, come istanza che illumina negativamente la pretesa del pensiero di disporre di sé,
di giungere ad un’acceccante trasparenza. Proprio in quanto si iscrive nella genealogia del
dominio la sociologia assume tratti totalitari laddove tende a risolvere la tensione tra individuo e
società, struttura ed azione, spiegazione e comprensione. Il tratto irriducibilmente identitario del
dominio appare indipendentemente dal fatto che si decida per un’opzione o per l’altra. In tal
senso, la critica del dominio perde ogni connotazione volgarmente storicistica e acquista un peso
teorico centrale: essa è, per così dire, l’a priori epistemologico che rende possibile una
rappresentazione di sé in forma non ideologica.
Il dominio è una categoria dinamica e stratificata, non riducibile ad una forma unica,
benché si articoli al suo interno nel dominio sulla natura (interna ed esterna) e dominio
sull’uomo, forme dell’appropriazione tra di loro strettamente intrecciate e corroborantesi. Ed è
proprio in riferimento alla natura come suo altro e non ad un fine presupposto al suo corso
immanente che la storia è visibile come totalità. In che senso? La società, si è detto, non è un
fatto “naturale” e la sociologia non può ridursi a fisica sociale se non in senso critico, come
denuncia di uno stato di irrigidimento della società stessa. Tuttavia, Adorno e Horkheimer
ribadisco con non meno forza che
la sociologia non è una scienza dello spirito. I suoi problemi non sono in primo luogo o essenzialmente
problemi della coscienza o anche dell’inconscio degli uomini che compongono la società, ma si riferiscono
primariamente alla relazione attiva tra l’uomo e la natura e a forme obbiettive dell’associazione fra uomini
non riconducibili allo spirito come struttura interiore dell’uomo.47
La struttura conflittuale della società umana è qui concepita come fortemente dipendente dal
conflitto tra società e natura, tanto da fare di questa stessa antitesi uno degli elementi costruttivi
dell’identità umana e da porre la stessa storia come gestazione infinita e in divenire di qualcosa
che si vuole altro dalla natura. Si badi però: non c’è in Adorno un anelito primitivista nei
confronti di una natura non “deturpata” dal dominio. Si tratta, piuttosto, di pensare il rapporto
dialettico, cioè reciprocamente generativo, tra natura e cultura. “L’immagine della natura
indeformata sorge solo nella deformazione, come antitesi di questa”.48 L’insopprimibile
ambiguità della sociologia – combattuta tra un modello fisicalistico ed uno culturologico – è
originariamente iscritta in questa dinamica paradossale in cui uno dei due elementi (la cultura)
istituisce con un medesimo gesto performativo sé e il proprio altro (la natura). L’opposizione tra
natura e spirito, appare perciò al tempo stesso vera e falsa: vera, perché lo spirito dischiude un
mondo di rapporti che eccedono la violenza immediata del naturale; falsa, perché la mediazione
introdotta dallo spirito (il dominio) è ancora e sempre espressione di una meccanica naturale di
autoconservazione. “La ragione” scrive Horkheimer “può essere più che natura solo rendendosi
conto della sua ‘naturalità’ – che consiste nella tendenza al dominio – quella stessa tendenza che
paradossalmente l’aliena dalla natura”.49 La storia è in estrema sintesi il dispiegamento di questa
auto-illusione di cui lo spirito è vittima. Solo concependola come totalità essa ci appare nel suo
significato dinamico di negazione di un’alterità che essa stessa pone: la natura. La categoria di
totalità, dunque, non pretende solo indicare verticalmente la società come ens realissimum al di
là dei singoli fatti sociali ma anche il divenire storico che conduce l’organizzazione societaria
umana dall’orda nomade alla globalizzazione.
47
Th. W. Adorno et al., Lezioni di sociologia, cit., p. 140. “L’uomo non è più la chiave per accedere all’umanità”.
Th. W. Adorno, “Sul rapporto di sociologia e psicologia”, in Scritti sociologici, cit., p. 60.
48
Th. W. Adorno, Minima moralia, Einaudi, Torino 1994, p. 105.
49
M. Horkheimer, Eclisse della ragione, Einaudi, Torino1969, pp. 145-152.
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Le accuse di antimodernismo rivolte alla Scuola di Francoforte hanno sempre sorvolato
sul fatto che la teoria del dominio costringe a pensare la rottura tra moderno e premoderno come
mera ristrutturazione interna di un meccanismo di asservimento dell’uomo e della natura che
rimane, in fondo, uguale a se stesso. Il salto qualitativo che si realizza con la società moderna sta
semmai nel fatto che essa è il punto in cui tale processo sembra poter giungere a coscienza,
realizzare la società come progetto di autodeterminazione dell’uomo, salvo poi cominciare a
regredire inarrestabilmente verso il suo contrario. In questo ruolo di “occasione perduta” sta la
centralità dell’Aufklärung. La storia della civiltà si mostra come un processo che
progressivamente toglie al soggetto gli strumenti concettuali di comprensione di se stesso nel
momento in cui produce l’illusione di una trasparenza assoluta, non da ultimo nella proiezione
utopistica di una condizione al di qua o al di là del dominio. L’auto-posizione del soggetto
moderno appare così come l’estremo mascheramento di un processo essenzialmente acefalo che
in tanto può essere compreso e chiamato per nome in quanto dissolve l’umano celebrandone il
feticcio. Alla sociologia e alla filosofia sta il compito di non lasciarsi ammutolire da esso, bensì
di portarlo ad espressione.
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